Il presidente americano ha mostrato sensibilità, senso della storia, capacità di parlare alle giovani generazioni e anche un eccesso retorico. Non a caso ha esordito così: «Considero l'Africa come una parte fondamentale del nostro mondo interconnesso». E poi: «II futuro dell'Africa spetta agli africani». Dopo aver ricordato che non si possono addossare all'Occidente tutti i problemi dell'Africa, ha toccato due punti chiave: quello della democrazia e quello della risoluzione dei conflitti.
Gli Usa sono pronti ad appoggiare «governi democratici forti e sostenibili», perché è chiaro che «nessun paese riuscirà a creare ricchezza, se i suoi leader sfruttano l'economia per arricchirsi» (e qui saranno fischiate le orecchie a chissà quanti leader africani). Obama ha chiuso questo capitolo, sentenziando che «l'Africa non ha bisogno di uomini forti, ma di istituzioni forti».
Anche sui conflitti, definiti «una pietra al collo del continente», il presidente - citando il «genocidio» in Darfur e il «terrorismo» in Somalia - si è detto «pronto a collaborare attraverso l'azione diplomatica, l'assistenza tecnica e il supporto logistico, e a sostenere gli sforzi per portare i criminali di guerra di fronte alla giustizia». Infine, ha concluso il suo intervento, manifestando fiducia alla società civile africana e dicendosi certo che «si può creare il cambiamento partendo dal basso».
Di cambiamento si è occupata anche Hillary Clinton. Soprattutto nel senso che ha mirato a cambiare i connotati della politica Usa in Africa di fronte al moltipllcarsi di iniziative da parte di Cina, India, Brasile e anche Russia. È vero che nei suoi interventi davanti ai responsabili politici africani ha parlato molto di diritti umani e di buon governo. Ma è del tutto evidente che l'obiettivo di fondo è rafforzare i legami con paesi ricchi di risorse, come Angola, Rd Congo e Nigeria. Tanto più per il fatto che gli Stati Uniti stanno seguendo una strategia di approvvigionamento energetico che li porterà entro il 2015, secondo le previsioni, a importare dall'Africa un quarto del loro fabbisogno di petrolio. Possiamo dire che, se la presidenza repubblicana ha coltivato stanche relazioni con l'Africa (Bush ha fatto due visite in otto anni di mandato), Hillary punta a ravvivarle, anche sotto il profilo dell'economia e dei mercati. Non va dimenticato che da nove anni è in vigore l'Agoa (Atto di crescita e di opportunità per l'Africa), che dà modo ai prodotti di 37 paesi africani di avere un accesso privilegiato al mercato Usa: un volume di scambi che nel 2008 ha raggiunto il valore di 80 miliardi di dollari.
Tra gli obiettivi di Hillary Clinton c'è stato anche quello di riagganciare Pretoria, che la gestione Thabo Mbeki del "dossier Zimbabwe" (l'ex presidente sudafricano Mbeki aveva a lungo "difeso" il dittatore Robert Mugabe) aveva un po' allontanato da Washington.
Il tutto, senza dimenticare che lo zio Sam ha spesso basato sullo strumento militare la sua politica in Africa. L'amministrazione Bush ha creato un comando specifico per il continente: il Comando Africa (AfriCom). E Obama ha dichiarato di voler proseguire sul tracciato già segnato. Del resto, già nell'ottobre del 2007, l'allora senatore nero sosteneva che «ci saranno situazioni in cui gli Stati Uniti dovranno lavorare assieme ai loro partner africani per combattere il terrorismo. Avere un comando unificato in Africa faciliterà questa azione».
È presto per dire quali frutti porteranno le gesta africane di Obama e Hillary. Ci piace ricordare, però, il ritornello che le donne del Ghana hanno cantato, mentre il presidente lasciava il parlamento: «Obama, fa' qualcosa prima di andartene» (cioè prima di terminare il tuo mandato). E sottoscriviamo in pieno un'osservazione della rivista New African di Londra: «Prima di poter davvero fare qualcosa per l'Africa, Obama deve "disimparare" molto di quello che pensa di sapere dell'Africa, e poi rieducare i suoi colleghi del G8. Per esempio, perché non dice loro che il coltivatore di caffè kenyano riceve lo 0,2% del valore del prodotto che vende, mentre tutto il resto rimane nelle tasche delle multinazionali occidentali?».