Considerazioni fin troppo ovvie
Non si può, comunque, non convenire con il nostro testo quando, ripetutamente, parla della delicata e complessa opera di mediazione a cui sono chiamati quanti esercitano il servizio dell'autorità,dai superiori maggiori a quelli delle singole comunità. Saper mediare con efficacia queste relazioni è un'arte che non s'improvvisa. Non basta la nomina protocollata e timbrata da parte del provinciale per porre un confratello nelle condizioni, soprattutto oggi, di mediare, all'interno della sua comunità, la volontà di Dio.
Può succedere, con la nomina dei superiori, quello che non raramente si verifica, ad esempio, a proposito dei religiosi designati,dall'oggi al domani, parroci anche di grosse comunità parrocchiali o responsabili di opere apostoliche particolarmente impegnative. La consapevolezza della complessità di questi ruoli, i nostri superiori maggiori, solitamente, dimostrano di averla. Non fosse altro per il fatto che anche loro, per primi, spesso, hanno già vissuto, sulla propria pelle, le stesse esperienze. Solo che, oggi soprattutto, si vedono costretti a risolvere i tanti problemi della vita di una provincia religiosa con le "truppe" di cui dispongono, vale a dire,con persone non solo numericamente sempre più ridotte e più avanzate in età, ma anche molto spesso demotivate sul piano della propria consacrazione.
Tutte le considerazioni bibliche,teologiche, ascetiche, spirituali del nostro documento sul rapporto "autorità-obbedienza" come ricerca della volontà di Dio, come conformazione al Cristo, servo obbediente, sono sacrosante. Sono talmente "ovvie" che più nessuno le mette in discussione. Ma quando e come diventano concreta "norma di vita"? Fino a che punto contribuiscono a formare, come direbbero gli antropologi culturali, la personalità di base di un religioso oggi? Anche senza volerlo, ci si trova abitualmente a vivere il rapporto autorità-obbedienza in quella perniciosa routine quotidiana che viene esplicitamente denunciata anche dal testo.
Ed è proprio qui che s'impone la necessaria mediazione del superiore all'interno di una comunità.
Per rasserenare gli animi o il clima di certe situazioni comunitarie, per ridare speranza di vita a certe opere condannata all'estinzione, per rimotivare a fondo l'esistenza di tanti confratelli e consorelle, non basta di certo richiamarsi, spesso in modo puramente emotivo, alle proprie origini storiche. Insieme a un investimento di fiducia nelle persone -un aspetto, questo, riproposto con una certa e, come vedremo, inaspettata insistenza nel nostro testo - si imporrebbe una più viva e realistica percezione non solo del presente ma anche del futuro della vita consacrata.
Nessuno, però, oggi, è in grado di prevedere questo futuro. Quello che senza ombra di dubbio si può affermare, è che i conflitti non mancheranno neanche nelle comunità del futuro. Proprio per questo, allora, tra i compiti dei superiori di domani, non mancherà sicuramente anche quello della mediazione dei conflitti comunitari. Già oggi, non sarebbe del tutto fuori dalla realtà, almeno in certi casi, pensare al superiore come a un giudice conciliatore. Sarebbe sicuramente, anche questa,una visione troppo riduttiva del compito di un superiore. Eppure, non è per nulla scontato che certe conciliazioni all'interno delle comunità religiose siano meno problematiche di quelle faticosamente perseguite dai giudici conciliatori o dai giudici di pace nella nostra società civile.
Animatore di comunità
In tutti i modi, è sempre pi ù condivisa, oggi, la visione del superiore come animatore di comunità. Nei più recenti documenti del magistero sulla vita consacrata, infatti, come in quelli dei superiori maggiori, si parla sempre più spesso del superiore come di colui che sa animare sul piano della spiritualità, della fraternità e della missione, la propria comunità. È sicuramente questo il senso di fondo che emerge dall'insieme del nuovo documento. Ma a ben guardare è un'animazione che passa quasi sempre attraverso una mediazione. Se ne parla esplicitamente già nella prima parte, là dove viene fondato un corretto rapporto biblico e teologico tra autorità e obbedienza. Dio manifesta la sua volontà anche attraverso molteplici mediazioni esteriori. La stessa storia della salvezza è una "storia di mediazioni". Nella vita di Gesù sono facilmente riconoscibili «non poche mediazioni umane». I progetti evangelici o carismatici di tanti istituti , suscitati dallo Spirito e riconosciuti dalla Chiesa, la regola e tutte le altre indicazioni di vita, cosa sono se non delle "mediazioni" della volontà del Signore? Si tratta, certo, di una "mediazione umana", ma «pur sempre autorevole, imperfetta ma assieme vincolante, punto di avvio da cui partire ogni giorno e anche da superare in uno slancio generoso e creativo verso quella santità che Dio "vuole" per ogni consacrato». Proprio in questo cammino di mediazione, «l'autorità è investita del compito pastorale di guidare e di decidere»
La mediazione umana nei confronti della volontà divina si manifesta soprattutto in alcune situazioni particolari e difficili, come quando «viene domandato di lasciare certi progetti e idee personali, di rinunciare alla pretesa di gestire da soli la vita e la missione, o tutte le volte in cui ciò che viene richiesto (o chi lo richiede) appare umanamente poco convincente». È possibile aderire al Signore solo quando si scorge la sua presenza proprio nelle "mediazioni umane" soprattutto «nella Regola, nei superiori, nella comunità, nei segni dei tempi, nelle attese della gente, soprattutto dei poveri». La mediazione della volontà del Signore è indispensabile per sentirsi "interiormente liberi". Ora, «non è certamente libero chi è convinto che le sue idee e le sue soluzioni sono sempre le migliori, chi ritiene di poter decidere da solo senza alcuna mediazione per conoscere la volontà divina».La persona veramente libera è quella che vive costantemente protesa e attenta a cogliere in ogni situazione della vita, e soprattutto in ogni persona che gli vive accanto , una mediazione della volontà del Signore, per quanto misteriosa essa possa essere.
La legge della mediazione dev'essere tenuta presente dalla persona consacrata soprattutto prima di concludere che «non l'obbedienza ricevuta, ma quanto avverte dentro di sé rappresenta la volontà di Dio».Sono questi i casi in cui ci si dovrà confrontare con la legge della mediazione, «guardandosi dall'assumere decisioni gravi senza alcun confronto e verifica». Affermare che ciò che conta è la volontà di Dio, e non le mediazioni umane, anzi, rifiutarle o accettarle solo a piacimento, «può togliere significato al proprio voto e svuotare la propria vita di una sua caratteristica essenziale»
Cogliere la positività
Il compito di quanti sono impegnati in queste mediazioni umane sarebbe sicuramente facilitato se solo si sapesse motivare, promuovere e valorizzare, più di quanto solitamente non si faccia, la dignità, l'importanza, le potenzialità dei singoli religiosi e religiose. Per mediare efficacemente i conflitti che non mancano in nessuna delle nostre concrete comunità religiose, non basta denunciare, correggere, evidenziare gli aspetti negativi della vita dei religiosi che le compongono. Potrebbe rivelarsi molto più importante saper cogliere e far emergere tutti i loro aspetti positivi. Lo sforzo di rileggere il nuovo documento da questo particolare angolo di visuale condurrebbe a sicure e confortanti sorprese.
Fra tutti, il paragrafo più significativo in tal senso è quello riguardante il ruolo dell'autorità per la crescita della fraternità. Già san Benedetto ricordava ai suoi monaci che «spesso è proprio al più giovane che il Signore rivela la soluzione migliore». Se l'ascolto è uno dei ministeri principali del superiore, allora non ci si dovrebbe mai dimenticare che «ascoltare significa accogliere incondizionatamente l'altro, dargli spazio nel proprio cuore».Solo in un attento ascolto è possibile far capire che «l'altro è apprezzato e la sua presenza e il suo parere sono tenuti in considerazione». L'autorità è chiamata a «creare un ambiente di fiducia, promuovendo il riconoscimento delle capacità e delle sensibilità dei singoli».
Se è vero che chi presiede ha la responsabilità della decisione finale, è altrettanto certo, però, che dovrebbe giungervi «valorizzando il più possibile l'apporto di tutti i confratelli o di tutte le consorelle», dal momento che «la comunità è tale quale la rendono i suoi membri».
L'elaborazione e la concreta attualizzazione di un progetto comunitario avranno senso solo quando saranno potenziate, motivate e rispettate le risorse umane di ogni singolo confratello. La messa in comune, già tanto difficile, dei beni materiali non basta. È ancora molto più significativa «la comunione dei beni e delle capacità personali, di doti e talenti, di intuizioni e di ispirazioni» dei singoli.
Nell'affidare i diversi incarichi si dovrà necessariamente tener conto della personalità di ogni confratello, cogliendo la positività di ognuno, utilizzando al meglio le forze disponibili, anche se il significato vero della missione per la persona consacrata «non può ridursi alla valorizzazione delle doti di ognuno».
La vera fraternità «si fonda sul riconoscimento della dignità del fratello».Si attua «nell'attenzione all'altro e alle sue necessità, nella capacità di gioire per i suoi doni e le sue realizzazioni, nel mettere a disposizione il proprio tempo per ascoltare e lasciarsi illuminare». Ma tutto questo, concludiamo noi, presuppone. un'assoluta libertà interiore, non solo da parte del confratello, ma anche e prima di tutto da parte di chi è chiamato a mediare, nella concretezza delle situazioni, la volontà di Dio.
di Angelo Arrighini
Testimoni n. 19 2008