Ha partecipato al Sinodo africano dello scorso ottobre. E se gli si chiede che cosa ha riportato in Sud Sudan di quell'esperienza, risponde tutto d'un fiato: «Speranza per un futuro e una vita migliore per il Sudan, segnati da pace, serenità e progresso. È stato un grande privilegio vivere fianco a fianco con 224 vescovi africani e con rappresentanti di altre conferenze episcopali e di organismi religiosi e laicali, intorno al Papa. Ci siamo chiesti cosa vi sia di così sbagliato in Africa da perpetuare tante situazioni disumanizzanti. Un'occasione di riflessione in cerca di riposte sul dove andare e su come portare la "Buona notizia". Ci siamo soffermati sulla nostra storia e sul nostro presente, cercando di dare un senso a quanto accade».
Mons. Edward, qual è stato per lei uno dei passaggi-chiave del sinodo?
Il Sinodo, centrato sulla chiesa a servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace, calzava con la nostra esperienza in Sudan. Ci ha fatto, dunque, grande piacere poter discutere e cercare convergenze, individuando comuni linee programmatiche. Pur analizzando con serietà le diverse situazioni, abbiamo voluto evitare di rinchiuderci in un atteggiamento da puri analisti politici. Ci siamo, invece, chiesti quale rapporto esista tra riconciliazione, giustizia e pace. Ci siamo interrogati sul perché di tanta violenza e in cosa consista la giustizia. E abbiamo risposto che giustizia vera è il superamento di tutto ciò che disumanizza. Solo dalla giustizia nasce la pace. Quindi, prerequisito indispensabile della pace è la creazione di relazioni giuste. Occorre una struttura di gestione delle relazioni umane e delle relazioni tra nazioni che miri ad attuare società giuste e che possieda gli strumenti necessari a conservare un clima di giustizia. Se non si va in questa direzione, ben difficilmente potremo assistere a un autentico progresso.
A partire dall'esperienza della chiesa in Sudan, quali responsabilità vanno stimolate per promuovere pace e riconciliazione in Africa?
Siamo consapevoli che ci sono livelli diversi di responsabilità nel promuovere riconciliazione e preservare la pace laddove, come nel nostro paese, intere generazioni sono cresciute in un incessante clima di conflitto. Oltre a sottolineare le radici esterne delle situazioni negative in cui versano molte nazioni africane, abbiamo insistito molto sull'importanza che tutti i componenti della società diano il proprio contributo alla pace. Abbiamo ribadito il ruolo della famiglia, dove i genitori devono essere i principali attori di pace, e della scuola, luogo basilare di educazione alla pace. Ma abbiamo insistito anche sul compito dei governanti, dei leader politici, oltre che delle chiese e delle religioni, nel promuovere processi di riconciliazione.
Abbiamo denunciato con franchezza la tendenza di molti uomini di potere a non lasciarsi neppure sfiorare dalle tragedie di tanti loro connazionali, preoccupandosi esclusivamente della propria carriera politica, invece di promuovere la dignità e i diritti fondamentali di singoli e nazioni. Sono temi che riguardano tutti i paesi africani.
Noi, vescovi sudanesi, eravamo in quattro: il card. Gabriel Zubeir, arcivescovo di Khartoum, e il suo ausiliare, mons. Daniel Aduok; il vescovo di Malakal, mons. Vincent Mwojok, e io, il più giovane. Abbiamo potuto toccare con mano che non siamo gli unici ad aver vissuto per tanto tempo in un clima di conflitto permanente.
Con che convinzione è tornato dal sinodo?
Le approfondite analisi svolte ci hanno aperto lo sguardo sulle realtà dell'intero continente. Abbiamo convenuto, tuttavia, che non basta guardare alle motivazioni politiche di ciò che succede: bisogna guardare anche alle implicazioni spirituali ed ecclesiali, per riconoscerci tutti ugualmente figli di un unico Dio, certi che in lui si trova il conforto nelle situazioni più tragiche. Il nostro messaggio deve fondarsi sull'invito a ritornare a Dio come punto di partenza per qualsiasi cammino di riconciliazione: un messaggio che sottolinei la ricchezza e la bellezza della varietà di etnie, lingue, colori con cui Dio ha benedetto il Sudan e che sono chiamati a coesistere in unità per esprimere tutta la bellezza dei popoli che lo abitano. Ci siamo appellati a una conversione del cuore, quindi, che ci faccia coltivare un atteggiamento atto ad affrontare insieme i nostri problemi nello spirito di un unico popolo.
Cosa significa questo per il Sudan?
Guardando al Sudan, ci rattrista lo scenario di prolungata violenza e conflitto, le esperienze amare vissute in nome di fedi diverse e le condizioni di povertà in cui si sono ridotte intere comunità. Tuttavia, non abbiamo mai smesso di annunciare la speranza evangelica e di sostenere gli sforzi compiuti in ogni angolo del paese per raggiungere la pace. Oggi più che mai, chiese e governo devono incontrarsi ed elaborare una cornice comune entro cui lavorare. È necessaria in tutti una grande dose di umiltà. Per essere protagonisti di una pace duratura, dobbiamo mostrare disponibilità ad ascoltarci e a riconoscere gli errori commessi, pronti a correggerli con la stessa attenzione che poniamo nel migliorare le nostre condizioni di vita.
La base da cui partire per promuovere il bene del paese è la famiglia, perché gran parte della gente ha perso tutto, inclusi i valori e il senso di unità della famiglia tradizionale sudanese. Va ricuperato il senso della famiglia e l'educazione dei figli al rispetto e non all'odio dell'altro. Dobbiamo evangelizzare la nostra cultura che in tanti anni di guerra ha portato molti a credere e a insegnare che si diventa eroi ammazzando gli altri, distruggendo la vita. Il Vangelo dovrà penetrare profondamente nella nostra mentalità.
La questione etnica e quella religiosa sembrano decisive per il futuro del paese...
Dicevo al Sinodo che è ridicolo motivare l'ipotesi di separazione tra nord e sud Sudan (un referendum al riguardo si terrà nel 2011, ndr) solo su basi etniche, economiche o religiose, perché sarebbe un processo dal quale nessuno trarrebbe vantaggio. Occorre grande realismo e buon senso nel giungere a decisioni che avranno implicazioni estremamente complesse. Come possiamo costruire un altro muro, invece di identificare strade che permettano una serena convivenza nel rispetto delle diversità? Come possiamo pretendere che gli altri siano costretti a osservare le mie leggi, le mie convinzioni e le mie regole con la forza? Non può essere accettato in nessun modo che, per motivi religiosi, venga imposta una legge che ognuno è costretto ad abbracciare.
Il Sudan rischia grosso se si dovesse dividere basandosi sull'incapacità di trovare un accordo che soddisfi tutti. Purtroppo, la cultura della competizione e dell'intimidazione appare spesso dominare in chi gestisce il potere. In tal modo si rafforza la cultura della corruzione e della prevaricazione. La sfida è un radicale cambio di mentalità, a cominciare da sé stessi, per poi arrivare alla famiglia, alla scuola, alle strutture pubbliche e agli uffici governativi. Tutti i settori vanno evangelizzati perché si formi una nuova coscienza.
Che cosa si sente di dire alla comunità internazionale?
La collaborazione dei paesi del nord del mondo è fondamentale per raggiungere in Sudan un clima di pace e di stabilità sociale. Sappiamo, purtroppo, che discriminazioni e atteggiamenti xenofobi - spesso innescati dal semplice colore della pelle - vengono posti in atto nei confronti di molti africani e sudanesi che cercano miglior vita nei paesi occidentali. Abbiamo visto la modalità molto restrittiva con cui è gestito in Italia il fenomeno migratorio. In Africa esiste un innato rispetto per l'ospite o lo straniero. Lo stesso diritto dovrebbe avere chi giunge nei paesi del Nord in cerca di lavoro. Invece, le discriminazioni iniziano già negli aeroporti. Questo non può che ingenerare sentimenti negativi e reazioni di rabbia.
Voglio ricordare che numerosi membri della comunità internazionale sono presenti in Sudan, per lo più operai e tecnici di imprese straniere. E’ noto che anche qui - come in molti altri paesi dell'Africa - queste multinazionali puntano a fare soprattutto i propri interessi sul piano commerciale, economico e politico, sfruttando le risorse naturali con contratti vantaggiosi. Le popolazioni locali sono regolarmente escluse da ogni processo decisionale tra governo e compagnie straniere, anche se poi le conseguenze negative di accordi iniqui ricadono sulla gente. Se, per esempio, potenti multinazionali acquistano intere regioni del paese per coltivare cereali da trasformare in bio-carburante o per produrre beni agricoli da esportare per soddisfare le necessità alimentari di altre nazioni, mentre in Sudan si muore di fame, che beneficio porta tutto ciò alle popolazioni locali? Sono tutte problematiche che abbiamo affrontato e denunciato durante il sinodo a Roma.
Ad aprile ci saranno le elezioni in Sudan. Le condizioni d'instabilità tuttora presenti rischiano di compromettere il voto?
Molti in Europa pronosticano un nuovo conflitto in Sudan. C'è un eccessivo allarmismo. Se è vero che in Africa tutto può accadere, è anche vero che chiunque, come noi, abbia vissuto la guerra nella carne non desidera che si ritorni alle armi. Tuttavia, esiste il problema della presenza di gruppi di sbandati ugandesi del Lord Resistance Army (Lra), che andrebbe affrontato in termini diplomatici, coinvolgendo i vari paesi interessati: Uganda, Congo, Repubblica Centrafricana e Sudan. I precedenti tentativi di accordo diretto con l'Lra, falliti a causa dei doppi giochi del leader dei ribelli, Joseph Kony, rendono tutto più difficile. La soluzione dobbiamo trovarla noi, paesi direttamente interessati. Ma, naturalmente, quando si permette a Kony di restarsene impunito nella foresta, la situazione non migliorerà. Probabilmente, molti non hanno interesse a stanarlo proprio ora. Perché può far comodo, in vista delle elezioni a breve termine e del referendum il prossimo anno, avere qualcuno che mantiene una situazione d'insicurezza tale che in molte aree sarà quasi impossibile perfino far pervenire le schede elettorali.
Per quel che riguarda il voto, invece di preoccuparci di aumentare il numero di formazioni politiche che si presenteranno alle elezioni, dovremmo cercare una soluzione unitaria, per sperare di conseguire un risultato positivo. Di fatto, ci troviamo tuttora a metà del guado nel processo di pacificazione, di riconciliazione e di ricostruzione in Sud Sudan.
In questo contesto pre-elettorale che ruolo può giocare la chiesa?
La chiesa deve porsi in prima linea nella ricerca della pace e nella promozione della giustizia e della riconciliazione in Sudan. So quante tragedie ha prodotto il conflitto. Io stesso ne sono vittima: vi ho perso mia madre, uccisa dai soldati governativi quando avevo soltanto due mesi di vita. Vorrei tanto che nessun altro bambino vivesse questo dramma che ha colpito migliaia di bimbi sud-sudanesi. Già da prete, ho sempre sentito di dovermi impegnare per promuovere la pace. Oggi, in quanto membro della Conferenza episcopale del Sudan, sento questa responsabilità ancora di più. Un'opera che, peraltro, abbiamo sempre portato avanti, credendo profondamente, come chiesa, nella forza della preghiera e della testimonianza di pace, e rivolgendoci a Dio fiduciosi di poter superare gli ostacoli. Non solo: in molte circostanze abbiamo invitato i nostri fratelli musulmani a implorare con noi la pace e a seguire la volontà di pace presente anche nel loro credo. Abbiamo così creato commissioni "Giustizia e pace" a livello diocesano e parrocchiale e abbiamo organizzato iniziative di vario genere, rivolte a tutte le categorie di fedeli - famiglie, giovani, insegnanti, professionisti, funzionari governativi - al fine di sensibilizzarci anche in vista delle elezioni e del referendum. Da tempo abbiamo iniziato una campagna di coscientizzazione, affinché nessuno rinunci a registrarsi per le elezioni, e perché tutti sappiano scegliere in piena libertà candidati affidabili, onesti e disposti davvero a lavorare per il bene del paese. E tutto ciò, per non tradire l'Accordo globale di pace, firmato nel 2005 tra Omar El-Bashir e il compianto John Garang. Insistendo, per quanto possiamo, con i governanti affinché tutti prestino fedeltà a questo accordo, che ha costituito una pietra miliare sulla via della pace e della riconciliazione. Sarà nostro compito operare per la comprensione e l'unità tra i diversi gruppi etnici, le comunità tradizionali, le chiese e gli altri organismi religiosi, come pure per un contributo disinteressato da parte della comunità internazionale, che ci aiuti a garantire la sicurezza e la democraticità delle elezioni.
Sentiamo di dover agire da ponte tra queste diverse realtà, come pure tra passato e presente, tra conflitto e pacificazione, tra riconciliazione e ricostruzione. Siamo entrati in un tempo di transizione e abbiamo invitato tutti a essere protagonisti. Io confido che sarà la nostra fiducia nell'aiuto di Dio, più che nel denaro o negli sforzi diplomatici o nelle forzature politiche, a ottenere per il Sudan un futuro di pace e prosperità.
a cura di José da Silva Vieira
Nigrizia Febbraio 2010