Negli «arsenali della morte» 20 mila ordigni sono in grado di «ripiombare il mondo nella catastrofe da noi vissuta nell'agosto 1945», perciò i vescovi delle città giapponesi martiri della bomba atomica, Hiroshima e Nagasaki, hanno recentemente indirizzato un appello al presidente americano Barak Obama in cui chiedono di fermare la produzione delle armi nucleari. Nella lettera, resa nota dall'Osservatore Romano, i presuli affermano che è «triste e stupido abusare del progresso che l'umanità ha compiuto nei settori della scienza e della tecnologia allo scopo di distruggere vite nel modo più massiccio e più veloce possibile, guadagnando anche maggiori profitti con la produzione degli armamenti».
L'auspicio contenuto nel testo pubblicato dal giornale vaticano è che possa essere raggiunto «un accordo per procedere in modo sicuro verso l'abolizione degli armamenti atomici». Al governo di Tokyo i due vescovi chiedono invece di «dimostrare e d'incrementare la propria volontà di agire per l'abolizione dell'arsenale nucleare. Fate un passo coraggioso per la distruzione delle bombe atomiche e la realizzazione di un mondo senza più guerre», chiedono i presuli.
Attualmente nel mondo, ricorda l'Osservatore Romano, «vi sono oltre ventimila ordigni nucleari pronti a esplodere. In maggio, i leader delle maggiori potenze dovranno discutere sul destino delle armi nucleari». Toni accorati che riecheggiano la storica invocazione di Giovanni XXIII nella Pacem in terris dell'11 aprile 1963. Nella nostra era, che si vanta della potenza atomica, è insensato che «la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia», afferma papa Roncalli. «Però tra i popoli, purtroppo, regna ancora la legge del timore. Ciò li sospinge a profondere spese favolose in armamenti :non già, si afferma, ... per aggredire ma per dissuadere gli altri dall' aggressione» (cf 67).
Mezzo secolo dopo, si tende a giustificare allo stesso modo gli arsenali nucleari. I test sotterranei compiuti dalla Corea del Nord hanno allarmato anche perché l'arma micidiale è in mano a un regime dispotico che sostiene di essere pronto a interrompere la sua corsa militare solo in cambio di sostanziosi aiuti economici occidentali. Tuttavia le Potenze (Usa, Russia e Cina soprattutto) che accusano Pyongyang in questi anni hanno bypassato il Trattato di non-proliferazione nucleare e continuato ad armarsi. Solo un disarmo totale di tutti i Paesi salverà il pianeta.
Da poco nel "club" dei Paesi che hanno armamenti nucleari è entrato, indesiderato, un nuovo membro, la Corea del Nord. Le proteste contro la Corea del Nord sono certamente motivate; ma hanno un piede d'argilla. Infatti, in prima fila a protestare vi sono quei Paesi -Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna -che hanno il diritto di veto nel Consiglio di sicurezza dell'Onu e che, anche, e da decenni, si sono dotate di armi nucleari (nell'insieme, possiedono circa 27.000 testate atomiche). Vi sono, poi, India, Pakistan e Israele che, ufficialmente o no, hanno l'arma nucleare.
La leadership nord-coreana (e iraniana) si domanda, e spinge la propria gente, sollecitata da un'insistita propaganda, a domandarsi: «Ma perché alcune nazioni hanno il diritto all'arma nucleare e noi no?». Nel 1970 venne firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) che proibisce agli Stati firmatari "non-nucleari" di procurarsi armamenti nucleari, e agli Stati "nucleari" di fornirgli tecnologie nucleari. Inoltre, il trasferimento di tali tecnologie deve avvenire solo per scopi pacifici e sotto il controllo dell' Aiea (Agenzia internazionale per l'energia atomica). La Corea del Nord, che aveva sottoscritto il Tnp, ha ritirato la sua firma nel 2003. Il Trattato chiedeva poi, alle Potenze nucleari, di diminuire progressivamente il loro arsenale fino a svuotarlo del tutto. Oggi sono tanti i pericoli regionali alla sicurezza del mondo,perciò una non-proliferazione verificata è una misura quanto mai necessaria per ristabilire la fiducia in un sistema internazionale che l’ha dissipata nei primi anni del nuovo secolo.
di Giacomo Galeazzi
Vaticanista del quotidiano La Stampa
Vita Pastorale N. 4/2010