Mondo Oggi

Domenica, 10 Ottobre 2010 17:27

Ti amo da morire

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di Francesca Molfino
da Fondazione Roberto Franceschi onlus

 

In Italia la difficoltà a lavorare concretamente contro la violenza perpetrata da partner, ex-partner o da famigliari è ancorata a una confusione tra amore, controllo-potere-distruzione, confusione sostenuta, protetta, favorita dalla così detta “sacralità della coppia e della famiglia”.

A luglio 2010 la Casa per non subire violenza di Bologna scriveva:  “Dovremmo…. portare segni di lutto ogni giorno. Noi sappiamo che mediamente nel nostro Paese ogni tre giorni una donna è uccisa da un uomo che conosceva, che amava.

A settembre 2010 Giancarla Codrignani scrive in un bell’articolo su Noi Donne: “L'estate è trascorsa conteggiando femminicidi. L'ira maschile ha infierito perfino sugli uomini stessi con suicidi successivi agli ammazzamenti di donne, a dimostrazione di quanto la violenza connoti il ruolo maschile, ormai pericoloso a se stesso e alla società dentro la quale portano la guerra.

In questi giorni Nicoletta Livi Bacci, presidente del centro Antiviolenza Artemisia di Firenze, farà esporre dalla finestra della sede uno striscione con scritto: "Basta, basta all'uccisione delle donne", per denunciare  “che non si può continuare ad ignorare che le donne vengono uccise ogni giorno e che spesso erano da anni vittime di violenza e stalking. Invitiamo quanti, uomini e donne, vogliano unirsi alla denuncia, ad esporre dai propri balconi e dalle proprie finestre le stesse parole di sdegno ed orrore".

I numeri ufficiali sul “femminicidio” finora disponibili parlano chiaro: nel 2009 in Italia gli uomini hanno ucciso 119 donne. Le donne uccise, nel 70% dei casi sono italiane, e i loro assassini sono italiani per il 76%. Nell'83% dei casi l'assassino ha le chiavi di casa, è il partner o un famigliare.  Gli omicidi avvengono dunque principalmente in famiglia e riguardano tutte le classi sociali, si concentrano (46%) nel ricco Nord Italia.  Queste morti non sono fatti di cronaca isolati, e più o meno alla ribalta a seconda della stagione, spesso l'omicidio non è che l'apice di una storia di violenza agita da un uomo contro una donna, molte volte alle spalle ci sono anni di abusi e maltrattamenti.
In Italia non c'è attenzione istituzionale all'analisi e al contrasto del femminicidio, ne sia esempio il Rapporto sulla criminalità in Italia del  2007  (l'ultimo disponibile) del ministero degli interni che non riporta un’analisi di genere sugli omicidi, per cui i dati degli ultimi anni sono derivati dalle agenzie di stampa.
Solo il 2,8% delle vittime (fonte Istat) ha accesso ai programmi di protezione e siamo fanalino di coda per il numero di  posti in case rifugio per vittime di violenza: 90% in meno rispetto alla media europea.
Le persone che dovrebbero aiutare le donne a fuggire dalla violenza - servizi sociali, medici, forze dell'ordine,  psicologi, avvocati - non hanno ricevuto un’adeguata formazione sulla violenza di genere. Eppure esistono strumenti, utilizzati con efficacia in altri paesi, non solo per sostenere le donne che vogliono liberarsi dalla violenza, ma anche per prevenire e individuare le situazioni di maggiore rischio. Il metodo  “Sara” (Spousal Assault Risk Assessment),  per esempio, consente di comprendere se e quanto un uomo che ha agito violenza nei confronti della propria partner (moglie, fidanzata, convivente) o ex-partner è a rischio nel breve o nel lungo termine di usare nuovamente violenza. Se le forze di polizia o i servizi socio sanitari utilizzassero questo strumento probabilmente verrebbero uccise meno donne.
I servizi di supporto sociale per le vittime di violenza vengono finanziati dagli enti locali e non sono previsti come intervento capillare e nazionale coordinato dal governo centrale: questo crea molte disparità a seconda delle amministrazioni e tra grandi e piccoli centri. Per esempio solo alcune grandi città (Torino, Venezia, Bologna) hanno attivato un programma di pronto soccorso per vittime di violenza.
Se a livello statale l'ordine di protezione alle donne vittime di violenza è stato sancito nel 2001, è da anni che le associazioni di donne aspettano l'applicazione del Piano nazionale antiviolenza (si veda, della stessa autriceI fondi antiviolenza in fondo al cassetto”). Lo scorso anno è stata fatta una legge anti-stalking dalla ministro Carfagna, ma le misure non sono abbastanza forti né sostenute con adeguati fondi per  fermare gli “stalker” veramente pericolosi; un caso eclatante è  avvenuto lo scorso luglio: Gaetano de Carlo ha ucciso due donne mentre era sotto processo per stalking a Crema.
L'inefficacia di una legge con grandi lacune e poco sostenuta da una volontà di cambiamento culturale, e quindi da un'adeguata campagna di comunicazione sociale e da formazione degli attori sociali, si riflette nello scarso numero di denunce (dal 4 al 7%, a seconda dei diversi tipi di persecutorietà) e nell'ancor più basso numero di processi istituiti. Potrebbe aiutare a denunciare la possibilità legale per la donna di nascondere i suoi dati personali per sfuggire il persecutore, ma non è previsto, mentre lo è per i testimoni di mafia e di terrorismo.

Nonostante in Italia i centri antiviolenza siano radicati da oltre vent'anni, il problema della denuncia e quindi della conseguente protezione  della donna da parte delle forze dell’ordine rimane, a differenza degli altri paesi europei, ancora non efficacemente affrontato. Chi avrebbe il coraggio di denunziare la persona con cui vive o da cui si è divisa  e che l’ha mandata magari  più volte in ospedale, se  non può essere tutelata e seguita?
E’ proprio  dall’intervento delle forze dell’ordine che si può valutare quanto ancora la cultura, la mentalità, i comportamenti prodotti dagli automatismi inconsapevoli abbiano un peso nell’evitare di guardare in faccia il problema della violenza e di farsi carico dell’affrontare il momento critico della separazione tra il maltrattante e la maltrattata. 
Le forze dell’ordine, con le dovute eccezioni, non brillano per efficienza e solidarietà. Ne sanno qualcosa le operatrici telefoniche del numero verde antiviolenza 1522 (istituito nel 2006) che mi hanno raccontato come le donne che chiamano da piccoli centri  abbiano spesso paura di rivolgersi alle forze dell’ordine del loro paese. Hanno paura che poi tutti lo verranno a sapere e che questo produca una reazione ancora più violenta (di cui loro farebbero le spese) nell'uomo maltrattante, altre volte i poliziotti e i carabinieri sono amici di chi picchia e o non credono alla storia, oppure minimizzano.
Se invece chi chiama vive in una grande città, è difficile trovare la disponibilità ad accorrere alla chiamata di emergenza. Raccontava  un' operatrice del 1522 di aver sentito in diretta il marito picchiare alla porta del bagno, e poi i rumori dei colpi sul corpo della moglie.   Mentre la donna urlava, le forze dell’ordine non avevano volanti da inviare. E’ stata poi  l’operatrice a cercare di calmare il maltrattante, che si era impossessato del cellulare,  continuando ad urlare contro di lei. La pattuglia è arrivata dopo un’ora e mezza, in casa non c’era più nessuno e, ovviamente, i vicini non avevano sentito, né visto nulla.
Anche nello svolgimento degli atti giudiziari, che dovrebbero tutelare la donna, ci sono molte disfunzioni, ne elenco alcune:

- Una scarsa tempestività  fra il deposito di una domanda con ordine di allontanamento e il momento di valutazione da parte del giudice (con conseguente eventuale fissazione dell’udienza di comparizione anche a distanza di 65 giorni in situazioni di violenza domestica attuali).
-  Mancano  le modalità di esecuzione del decreto di allontanamento e quindi necessità di dover ricorrere all’ufficiale giudiziario, seguendo un percorso attuativo assolutamente inidoneo alla tutela della vittima.
- Scarsa conoscenza del fenomeno degli atti persecutori posti in essere dagli ex partner (c.d. “stalking”).
- Un insufficiente sensibilità e specializzazione delle forze di polizia nel momento di raccolta della denuncia. Spesso nel momento della denuncia  non si  verifica l’esistenza di circostanze fondamentali per la ricostruzione della vicenda, per esempio la presenza di figli minori durante gli episodi persecutori o di violenza.   Per i fatti di violenza sessuale connessi a maltrattamenti si tenta a volte di dissuadere la donna nel denunciarli qualora gli stessi siano risalenti nel tempo o non supportati da elementi di prova.
-  Una mancata applicazione da parte della polizia giudiziaria degli istituti previsti dagli artt. 55 e 381 c.p.p.. In particolare si rappresenta l’eccezionalità di arresti in flagranza per il delitto di maltrattamenti in famiglia .
- Sul piano della formazione dei magistrati e di tutti gli operatori del settore (prima fra tutte la polizia giudiziaria) appare doveroso insistere su momenti formativi centrali e decentrati rivolti ai magistrati.

Infine l’ultima sentenza della Corte Costituzionale del luglio 2010 (n° 265) è molto ambigua a proposito delle misure cautelari da adottare nel caso di violenza e di abuso; la tendenza a non affollare le carceri può essere compresa, ma è ingiustificata se non si prevedono altre disposizioni che possano garantire le vittime dalla ripetizione degli atti violenti. In questo non proporre misure alternative  si intravedono delle resistenze nell’entrare in merito, nell’affrontare la  diffusione, l’orrore, di questi delitti .
Negli Stati Uniti  dal 1976 al 2004, contrariamente all’ Italia, si è verificata una diminuzione del 28%  dei femminicidi, segno che i molti interventi a sostegno di chi subisce violenza funzionano, anche se con lentezza.

In Italia, la mancanza di formazione e prevenzione, l'assenza di un piano di azione nazionale che preveda servizi statali e capillari, la tendenza dei mezzi di comunicazione a parlare di “passione”, di stranieri, l'assenza di strumenti e pratiche giuridiche efficaci,  la mancanza insomma di un ragionamento e di una prassi culturale e istituzionale che faccia propria la battaglia contro la violenza sulle donne lascia sul campo più di cento donne uccise ogni anno.
Parlare della mentalità, della cultura  che caratterizza il nostro paese rispetto all’Europa o agli USA,  non può che essere la ripetizione di quanto è stato detto e ridetto, scritto e riscritto negli ultimi quarant’anni e mi sgomenta pensare di doverlo ridire, anche perché riassunte in poche parole le affermazioni apparterrebbero  più  al registro  di utili  slogan,  delle parole d’ordine o di un discorso politico e questo non è il mio campo.

Quello che posso  dire, a proposito di cultura (e solo per dovere di conclusione), è che in Italia la difficoltà a  lavorare concretamente contro la violenza perpetrata da partner, ex-partner o da famigliari è ancorata a una  confusione tra  amore, controllo-potere-distruzione (non parlo di aggressività),  confusione sostenuta, protetta, favorita dalla così detta “sacralità della coppia e della famiglia”.

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