Non proprio ridotti alla fame, ma costretti – questo sì – a tirar la cinghia, con il terrore di diventar davvero poveri al primo stormir di fronda. Sono 18.896.000 gli italiani che, stando all’Istat, si sentono minacciati dalla miseria pur non potendo essere definiti tecnicamente indigenti perché sono proprietari della casa in cui vivono (salvo dover finire di pagare il mutuo) o perché possono esibire una dignitosa busta paga, quando non è sforbiciata dalla cassa integrazione. O, ancora, perché il loro stile di vita è stato fin qui caratterizzato da un accentuato consumismo. Che ha svuotato i portafogli e inaridito la speranza.
Marco Revelli analizza la Caporetto del ceto medio. Lo fa nel suo ultimo saggio Poveri, noi edito da Einaudi. Figlio del partigiano scrittore Nuto, 63 anni, sociologo, docente di Scienza della politica presso l’Università del Piemonte orientale, tra il luglio 2007 e il luglio 2010 ha presieduto la Commissione d’indagine sull’esclusione sociale.
«I dati più recenti sconcertano», esordisce Revelli parlando con Famiglia Cristiana. «Sono quasi 4 milioni gli individui che arrivano in affanno alla fine del mese e che non potrebbero affrontare una spesa imprevista di 700 euro senza andare sotto. A essi vanno aggiunti altri 3,5 milioni di italiani che faticano a far quadrare i conti al punto da non aver avuto denaro, nell’anno precedente l’intervista, per comprare cibo o vestiti ovvero per pagare il medico. Sono circa 6 milioni, infine, i connazionali che hanno casa, auto, Tv, lavatrice e lavastoviglie ma attraversano un momento di difficoltà. Si tratta di operai, impiegati, professori, lavoratori autonomi, talvolta addirittura di manager. Basta un evento non previsto e costoro si sentono spinti verso il baratro della povertà».
«Gli esempi, purtroppo abbondano», prosegue Revelli. «Si va dal mancato rinnovo del part-time della moglie o da un periodo medio-lungo di cassa integrazione del marito (spesso moltiplicato per due, lui e lei forzatamente a casa) alla necessità di accudire un parente diventato improvvisamente non autosufficiente, a una cura specialistica non preventivata, alla separazione e al divorzio con le conseguenti spese, legali e non. La fotografia più aggiornata del ceto medio, in Italia, oggi ci mostra gente “in bilico” tra un elevato livello di aspettative e un ridotto margine di possibilità. Parliamo di coppie con uno o più figli, il cui reddito mensile, prima della crisi o dei rovesci familiari, era complessivamente di almeno 2.000 euro al mese, dunque ben distante, in partenza, dalla soglia della povertà fissata a 990 euro per due persone».
«Non è come si ostinano a raccontarcela le reti Mediaset o certa Rai», prosegueMarco Revelli. «L’Italia ha creduto di crescere scoprendo solo a cose fatte di aver perso terreno, s’è illusa, potremmo anche dire: è stata illusa, di guadagnare in leggerezza e agilità liquidando i vecchi punti di forza (famiglia, sobrietà, risparmio, grande industria pubblica e privata, sindacato e partiti, mi riferisco a quelli veri d’un tempo, non a quelli odierni, di plastica) senza sostituirli con altri. E così si trova, smarrita, a misurarsi con la frantumazione del ceto medio, un fenomeno che, oltre alla precarietà ormai cronica spacciata per modernità, s’accompagna con l’inedita sofferenza del comparto produttivo tradizionale popolato da datori di lavoro bravi nel chiedere sempre di più senza, però, aumentare gli stipendi, lesti semmai nel tagliare le conquiste ottenute con i passati contratti».
«Siamo stati un po’ tutti intossicati da una martellante pubblicità che ha osannato il consumismo più sfrenato, da ottenere a ogni costo, magari indebitandoci fino al collo», sottolinea ancora Revelli. «C’è un’Italia ricca, diventata spesso tale grazie a privilegi accordati piuttosto che per meriti messi a frutto, un’Italia che nel 2009 ha immatricolato 629 Ferrari, 141 Lamborghini e 503 Maserati. Ma c’è, ed è sempre più grande, un’Italia impoverita che le Caritas diocesane conoscono a fondo: nella maggioranza dei casi non si veste di stracci, memore dello status avuto nonché del decoro ereditato dai genitori, dell’istruzione ricevuta e delle relazioni sociali. Dal profilo “a botte” che fino a ieri caratterizzava le società occidentali, con gli estremi relativamente ristretti e un gran corpo centrale costituito, appunto, da un ceto medio esteso e crescente, si è passati all’immagine di una clessidra asimmetrica con un piccolo serbatoio in alto (sempre più in alto), un segmento centrale a collo di bottiglia e una vasta base su cui continua a depositarsi la sabbia che cade. Una verità granitica anche al netto delle sacche di elusione e di evasione fiscale che inevitabilmente alterano i dati statistici ufficiali».
«Quel che resta del ceto medio», conclude Revelli, «oscilla tra paura e rancore, tra depressione e aggressività, tra il senso del proprio fallimento personale e la tentazione di trovare un capro espiatorio. Rispetto ad altre epoche storiche l’invidia venata di risentimento viene dirottata non verso i ceti superiori, invocando maggior equità sociale e una più oculata redistribuzione della ricchezza, ma di fianco, verso chi s’arrabatta come noi, o più facilmente verso chi sta sotto: i rom, gli immigrati extracomunitari, in generale verso i deboli, gli emarginati, gli esclusi. La Lega Nord ha quotato questo sentimento alla borsa della politica mietendo consensi. Dovremmo tornare alla comprensione gli uni degli altri, a una pietas ormai dimenticata, ma vedo solo veleni, tensioni, linciaggi verbali. Tira purtroppo una brutta aria».