Ci fu un tempo, non lontano, in cui era vero scandalo, per   un politico, dare a un uomo di mafia il bacio della complicità. Il solo   sospetto frenò l’ascesa al Quirinale di Andreotti, riabilitato poi dal ceto   politico ma non necessariamente dagli italiani né dalla magistratura, che   estinse per prescrizione il reato di concorso in associazione mafiosa ma ne   certificò la sussistenza fino al 1980. Quel sospetto brucia, dopo anni, e   anche se non è provato ha aperto uno spiraglio sulla verità di un lungo   sodalizio con la Cupola.    Chi legga oggi le motivazioni della condanna in secondo   grado di Dell’Utri avrà una strana impressione: lo scandalo è divenuto   normalità, il tremendo s’è fatto banale e scuote poco gli animi. 
 Nella villa di Arcore e negli uffici di Edilnord che Berlusconi – futuro   Premier – aveva a Milano, entravano e uscivano con massima disinvoltura   Stefano Bontate, Gaetano Cinà, Mimmo Teresi, Vittorio Mangano, mafiosi di   primo piano: per quasi vent’anni, almeno fino al ‘92. Dell’Utri, suo braccio   destro, era non solo il garante di tutti costoro ma il   luogotenente-ambasciatore. Fu nell’incontro a Milano della primavera ‘74 che   venne deciso di mandare ad Arcore Mangano: che dovremmo smettere di chiamare   stalliere perché fu il custode mafioso e il ricattatore del Cavaliere.   Quest’ultimo lo sapeva, se è vero che fu Bontate in persona, nel vertice   milanese, a promettergli il distaccamento a Arcore d’un «uomo di garanzia». 
 La sentenza attesta che Berlusconi era legato a quel mondo parallelo, oscuro:   ogni anno versava 50 milioni di lire, fatti pervenire a Bontate (nell’87   Riina chiederà il doppio). A questo pizzo s’aggiunga il «regalo» a Riina (5   milioni) per «aggiustare la situazione delle antenne televisive» in Sicilia.   Fu Dell’Utri, ancor oggi senatore di cui nessuno chiede l’allontanamento, a   consigliare nel 1993 la discesa in politica. Fedele Confalonieri, presidente   Mediaset, dirà che altrimenti il Cavaliere sarebbe «finito sotto i ponti o in   galera per mafia» ( la    Repubblica, 25-6-2000). Il 10 febbraio 2010 Dell’Utri,   in un’intervista a Beatrice Borromeo sul Fatto, spiega: «A me della   politica non frega niente, io mi sono candidato per non finire in galera». 
 C’è dell’osceno in questo mondo parallelo, che non è nuovo ma oggi non è più   relegato fuori scena, per prudenza o gusto. Oggi, il bacio lo si dà in   Parlamento, come Alessandra Mussolini che bacia Cosentino indagato per   camorra. Dacci oggi il nostro osceno quotidiano. Questo il paternoster che   regna - nella Mafia le preghiere contano, spiega il teologo Augusto Cavadi -   presso il Premier: vittima di ricatti, uomo non libero, incapace di liberarsi   di personaggi loschi come Dell’Utri o il coordinatore Pdl in Campania   Cosentino. Ai tempi di Andreotti non ci sarebbe stato un autorevole   commentatore che afferma, come Giuliano Ferrara nel 2002 su Micromega:   «Il punto fondamentale non è che tu devi essere capace di ricattare, è che tu   devi essere ricattabile (...) Per fare politica devi stare dentro un sistema   che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, a essere compartecipe di   un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le   classi dirigenti. (...) Il giudice che decide il livello e la soglia di   tollerabilità di questi comportamenti è il corpo elettorale». 
 Il corpo elettorale non ha autonoma dignità, ma è sprezzato nel momento   stesso in cui lo si esalta: è usato, umiliato, tramutato in palo di politici   infettati dalla mafia. Gli stranieri che si stupiscono degli italiani più che   di Berlusconi trascurano spesso l’influenza che tutto ciò ha avuto sui   cervelli: quanto pensiero prigioniero, ma anche quanta insicurezza e vergogna   di fondo possa nascere da questo sprezzo metodico, esibito. 
 Ai tempi di Andreotti non conoscemmo la perversione odierna: vali se ti   pagano. La mazzetta ti dà valore, potere, prestigio. Non sei nessuno se non   ti ricattano. L’1 agosto 1998, Montanelli scrisse sul Corriere una   lettera a Franco Modigliani, premio Nobel dell’economia: «Dopo tanti secoli   che la pratichiamo, sotto il magistero di nostra Santa Madre Chiesa,   ineguagliabile maestra d’indulgenze, perdoni e condoni, noi italiani siamo   riusciti a corrompere anche la corruzione e a stabilire con essa il rapporto   di pacifica convivenza che alcuni popoli africani hanno stabilito con la   sifilide, ormai diventata nel loro sangue un’afflizioncella di ordine   genetico senza più gravi controindicazioni». 
 In realtà le controindicazioni ci sono: gli italiani intuiscono i danni non   solo etici dell’illegalità. Da settimane Berlusconi agita lo spettro di una   guerra civile se lo spodestano: guerra che nella crisi attuale - fa capire -   potrebbe degenerare in collasso greco. È l’atomica che il Cavaliere brandisce   contro Napolitano, Fini, Casini, il Pd, i media. I mercati diventano arma:   «Se non vi adeguate ve li scateno contro». Sono lo spauracchio che ieri fu il   terrorismo: un dispositivo della politica della paura. Poco importa se   l’ordigno infine non funzionerà: l’atomica dissuade intimidendo, non agendo.   Il mistero è la condiscendenza degli italiani, i consensi ancora dati a   Berlusconi. Ma è anche un mistero la loro ansia di cambiare, di esser   diversi. Il loro giudizio è netto: affondano il Pdl come il Pd. Premiano i   piccoli ribelli: Italia dei Valori, Futuro e Libertà. Se interrogati,   applaudirebbero probabilmente le due donne - Veronica Lario, Mara Carfagna -   che hanno denunciato il «ciarpame senza pudore» del Cavaliere, e le «guerre   per bande» orchestrate da Cosentino. Se interrogati, immagino approverebbero   Saviano, indifferenti all’astio che suscita per il solo fatto che impersona   un’Italia che ama molto le persone oneste, l’antimafia di Don Ciotti, il   parlar vero. 
 Questa normalizzazione dell’osceno è la vita che viviamo, nella quale   politica e occulto sono separati in casa e non è chiaro, quale sia il mondo   reale e quale l’apparente. Chi ha visto Essi   Vivono, il film di John Carpenter, può immaginare tale condizione   anfibia. La doppia vita italiana non nasce con Berlusconi, e uscirne vuol   dire ammettere che destra e sinistra hanno più volte accettato patti mafiosi.   C’è molto da chiarire, a distanza di anni, su quel che avvenne dopo   l’assassinio di Falcone e Borsellino. In particolare, sulla decisione che il   ministro della giustizia Conso prese nel novembre ‘92 - condividendo le   opinioni del ministro dell’Interno Mancino e del capo della polizia Parisi -   di abolire il carcere duro (41bis) a 140 mafiosi, con la scusa che esisteva   nella Mafia una corrente anti-stragi favorevole a trattative. Congetturare è   azzardato, ma si può supporre che da allora viviamo all’ombra di un patto. 
 Il patto non è obbligatoriamente formale. L’universo parallelo ha le sue   opache prudenze, ma esiste e contamina la sinistra. In Sicilia, anch’essa sembra   costretta a muoversi nel perimetro dell’osceno. Osceno è l’accordo con la   giunta Lombardo, presidente della Regione, indagato per «concorso esterno in   associazione mafiosa». Osceno e tragico, perché avviene nella ricerca di un   voto di sfiducia a Berlusconi. 
 Non si può non avere un linguaggio inequivocabile, sulla legalità. Non ci si   può comportare impunemente come quando gli americani s’intesero con la Mafia per liberare   l’Italia. L’accordo, scrive il magistrato Ingroia, fu liberatore ma ebbe   l’effetto di rendere «antifascisti i mafiosi, assicurando loro un duraturo   potere d’influenza». Non è chiaro quel che occorra fare, ma qualcosa bisogna   dire, promettere. Non qualcosa «di sinistra», ma di ben più essenziale: l’era   in cui la Mafia   infiltrava la politica finirà, la legalità sarà la nuova cultura italiana. 
 Fino a che non dirà questo il Pd è votato a fallire. Proclamerà di essere   riformista, con «vocazione maggioritaria», ma l’essenza la mancherà. Non sarà   il parlare onesto che i cittadini in fondo amano. Si tratta di salvare non   l’anima, ma l’Italia da un lungo torbido. Sarebbe la sua seconda liberazione,   dopo il ‘45 e la    Costituzione. Sennò avrà avuto ragione Herbert Matthew, il   giornalista Usa che nel novembre ‘44, sul mensile Mercurio, scrisse   parole indimenticabili sul fascismo: «È un mostro col capo d’idra. Non   crediate d’averlo ucciso».
