Febbraio 2005. Giulio Tremonti dalle colonne di questo settimanale presenta così quella che definiva «una rivoluzione fiscale», l’introduzione del 5 per mille nella dichiarazione dei redditi a favore del volontariato e delle organizzazioni non lucrative di utilità sociale: «Il terzo settore è l’unica speranza per produrre, con costi limitati, ma con effetti moltiplicatori quasi illimitati, la massa crescente di servizi sociali di cui abbiamo (e avremo) sempre più bisogno. Valorizzare concretamente il terzo settore non è quindi un costo per lo Stato ma un investimento».
Novembre 2010. Ad oltre cinque anni dall’annunciata “rivoluzione fiscale”, il 5 per mille non solo non è diventato una legge fiscale dello Stato italiano (a differenza di quanto è successo in altri 12 Paesi europei), ma nella legge di Stabilità la copertura per la misura sperimentale (da cinque anni!)) è stata decurtata da 400 milioni a 100. Ovvero, il 5 per mille dalla sera alla mattina si trasforma così nell’1,25 per mille, forse. Alla faccia degli impegni presi con la platea dei contribuenti (oltre 15 milioni di cittadini hanno usufruito ogni anno dell’opportunità) e con le organizzazioni del non profit impegnate nell’assistenza, della promozione culturale, nella ricerca scientifica (circa 30mila). In questa triste parabola che va dalla intuizione e dalla promessa di una “rivoluzione fiscale” alla vecchissima logica statalista che concede qualche offensiva briciola ai cittadini e alle realtà sociali, c’è tutto il fallimento del governo Berlusconi-Tremonti giunto ormai al suo capolinea. Più di tutte le Noemi, le D’Addario e le Ruby, più della smania di Fini di succedere a Berlusconi, o dell’accozzaglia di egoismi che ha sempre più caratterizzato il Pdl, la parabola del 5 per mille, affossato dal suo stesso ispiratore, dice di un fallimento politico, dello svuotamento di ogni ipotesi riformatrice.
Il 5 per mille, che davvero poteva e doveva essere il caposaldo sussidiario della più volte invocata riforma fiscale, si spegne quindi nelle spire della disponibilità di bilancio. Gli atti di governo dell’ultimo anno di una maggioranza che a più riprese ha riproposto lo slogan «Più società e meno Stato» e che, almeno a parole, aveva fatto della promozione del dono e del principio di gratuità nella sfera pubblica una componente fondamentale delle politiche pubbliche di inclusione sociale, vanno tutti in senso contrario, opposto. Dall’ignavia con cui si è “non” gestita e comunicata la norma sulla deducibilità delle donazioni, al drammatico pesce di aprile con cui sono state aumentate le tariffe dell’editoria non profit del 400% mettendo a repentaglio la capacità di raccolta delle donazioni e zittendone la voce, sino allo svuotamento del 5 per mille.
Un fallimento politico e culturale.