Affascinante nella misura in cui permette di confrontarsi su questioni tanto importanti, di riflettere sul senso più profondo della democrazia, costruendo un percorso di valorizzazione del pensiero e della sua capacità creatrice e innovatrice. Appassionante, nel tentativo non scontato di restituire all’analisi il suo compito originario: trovare il filo conduttore che lega i diversi ambiti della vita sociale, culturale e politica di questo paese. I contributi che si sono susseguiti hanno evidenziato lo stretto legame che la Dittatura dell’Ignoranza [Guido Viale] intesse con la crisi dell’elaborazione teorica della sinistra [Bevilacqua], con l’emergere di una nuova borghesia dominante, finanziaria e mafiosa [Tonino Perna], con la distruzione, l’immiserimento e la frammentazione dei saperi [Franco Berardi Bifo], con l’omologazione dei paesaggi urbani sopraffatti dalla cementificazione [Osvaldo Pieroni], con la rivoluzione passiva operata dalla destra grazie alla quale istanze, prima radicali, sono state deformate funzionalmente all’affermazione di una Società Autoritaria.
Il dibattito sostanzia l’inquietudine e induce alla preoccupazione perché svela, in tutta la sua drammaticità, il grave momento di crisi che sta attraversando il mondo occidentale e l’Italia in particolare. Al pessimismo di questa seconda lettura, si associa l’ipotesi estrema – condivisa o meno – che non vi sia più la possibilità di affermazione e costruzione di un altro mondo possibile. Da qui l’inevitabilità dello slogan di tacherianana memoria TINA – There Is No Alternative.
Parto da una considerazione piuttosto evidente. Berlusconi, è un fungo. E il riferimento non è alla statura de «Il Carozziere» de noantri, ma al suo essersi radicato su un tessuto sociale e culturale specifico, fatto di pressappochismo, mediocrità, furberia, disprezzo per l’altro, che lui stesso ha poi contribuito ad alimentare. Si è fatto interprete di quel sentire proprio della tarda modernità, in cui la dimensione individuale si è pienamente affermata sui sistemi collettivi, declinandolo però in un individualismo becero e sfrenato, in cui, per citare il sociologo francese Dubet , le logiche strategiche di affermazione di sé hanno avuto la meglio su quelle soggettivanti. Un individualismo esasperato in cui, con Bauman , trionfa il un conformismo basato a sua volta su un progresso che nulla produce poiché su nulla si poggia.
Berlusconi ha scavato in profondità nell’animo e nelle viscere del popolo italiano, facendo emergere gli aspetti più cupi e gretti, sdoganandoli, e cavalcando il successo di questa operazione. Una sorta di Liberazione al contrario: dove trionfava l’idea del riscatto sociale, di una società più giusta, del rispetto e del riconoscimento dell’altro, oggi regna quasi incontrastata la grettezza del palinsesto televisivo berlusconiano, usato come arma di distrazione di massa mentre lo stato sociale viene smantellato, l’affermazione dei diritti individuali osteggiata, l’espressione del dissenso annullata quando non duramente repressa, la dialettica politica svilita a gazzarra, la terra avvelenata e consumata, i beni comuni privatizzati.
L’Italia berlusconiana è un paese bloccato in un eterno presente, in un qui e ora che ha cristallizzato la figura di Berlusconi e il suo modello politico e culturale trasformandolo nell’unica alternativa possibile, investendolo del ruolo di vate padrone che tutto risolve, che veglia su di noi e che così facendo, curerebbe i nostri interessi così come fa con i suoi. Le ricette proposte/imposte soddisfano le aspettative sociali delle classi popolari, quelle politiche del ceto post-borghese conservatore, quelle economiche dei grandi gruppi finanziari.
Berlusconi impone un’idea di eterno presente incarnata nel culto narcisista di sé, costruito sulla negazione dell’invecchiamento, su un modello di eterna giovinezza. Lasch , nel suo celebre testo del 1979 – in cui anticipa l’analisi dei fenomeni che oggi ci troviamo a vivere – definisce il narcisista come colui che si rifugia nel culto di sé, manipolando le emozioni degli altri come strumenti della propria gratificazione, e al tempo stesso è costantemente bisognoso della loro approvazione e adorazione.
L’Italia non è – ovviamente – l’unico paese a subire la crisi finanziaria e sociale che attraversa tutto il mondo globalizzato. Come ha recentemente ricordato l’economista Nouriel Roubini in un suo intervento al Festival dell’Economia di Trento, la crisi è ben lungi dall’essere finita e – soprattutto per l’Europa – i tempi di ripresa saranno lunghi ed i costi sociali molto alti. A questa situazione, già di per sé problematica, è associata nel nostro paese una crisi democratica che non ha precedenti nella storia delle grandi democrazie occidentali. Una crisi democratica che incede con drammaticità esponenziale: ogni volta ci troviamo a condannare fatti, comportamenti e scelte politiche come il punto più basso della nostra democrazia, salvo poi essere smentiti con l’avvento di un ennesimo fatto ancora più grave, in un vortice autoritario senza più freno.
D’altro canto, la sinistra italiana, erede della tradizione dei grandi partiti di massa, è rimasta orfana dei progetti sociali e delle mobilitazioni su cui si era largamente costruita. Incapace di trovare nuovi linguaggi per interpretarli e il coraggio per metterli in atto. Una sinistra italiana incastrata, per riprendere la metafora psicoanalitica proposta da Michel Wieviorka , tra la malinconia per un passato di cui liberarsi, l’oblio che la proietta verso il futuro ma rischiando di svuotarne l’identità, e il lutto: la necessità cioè di elaborare il passato, conservarne gli orientamenti più nobili, riprendendosi le istanze che le erano proprie [la valorizzazione dei particolarismi, l’autogestione dei territori] e sottraendole ai partiti neopopulisti. Per riaccendere così la speranza di un’alternativa credibile a questo modello culturale, politico e di sviluppo. L’immobilismo in cui è stata confinata, e nel quale in parte ha contribuito a confinarsi, continua invece a essere strumentale al continuo riaffermarsi di questo eterno presente berlusconiano.
Quello che manca alla sinistra partitica italiana per farsi interprete di un pensiero e di un sentire comune volto al rinnovamento politico e culturale del paese, è liberarsi senza indugi della neutralità liberale che ha orientato il suo agire politico. La filosofia della sfera pubblica della sinistra italiana degli ultimi venti anni è stata infatti ispirata da una concezione kennediana basata sull’ideale della neutralità liberale. Quest’ultima prevede che il governo si esprima – anzi, meglio, non si esprima – su questioni etiche, rimanendo neutrale, così da lasciare all’individuo la libertà di scelta su questi temi. Questa posizione, che ha caratterizzato per lungo tempo la politica del Partito Democratico americano, è stata vista come la soluzione più adeguata al superamento dei dissensi tra le divergenti posizioni che attraversano la società riguardo questioni etico-morali, di giustizia e relative ai diritti.
Come nota giustamente Michael Sandel , Barack Obama ha rotto con questa tradizione, arricchendo la sua dialettica politica di una componente etica e spirituale che gli ha permesso di creare intorno a sé il consenso e la credibilità necessarie alla sua elezione. Obama riflette su ciò che manca ai suoi potenziali elettori, cittadini americani. E riconosce quell’elemento mancante nell’assenza di un progetto comune. Nel lavoro, nell’impegno politico, nella vita quotidiana, nel suo costituirsi giorno dopo giorno, ciò che manca è il sentirsi parte di un’idea, di perseguire degli obiettivi che oltre ad essere personali sono anche collettivi, di iscrivere – in breve – la propria vita in un percorso narrativo.
Gli ultimi venti anni della politica di sinistra sono stati caratterizzati da continui tentennamenti in materia di temi etici, ma anche culturali e sociali, frutto da un lato di questa matrice filosofica ispirata alla neutralità liberale e dall’altro da una reale incapacità della sua classe dirigente nel governare un grande partito di sinistra nella delicata fase conclusiva dell’epoca post-ideologica. Senza capire quanto sia necessario – ora più che mai – proporre una razionalità pubblica più estesa, fatta di posizioni chiare e nette su temi cruciali quali quelli etici e relativi all’estensione e l’affermazione dei diritti; e quanto sia necessario tracciare una narrazione politica dei percorsi di vita di ciascun individuo, che si facciano collettivi nella condivisione e nel riconoscimento di valori relativi a una comune visione del mondo. Senza paura di costruire un percorso frutto del confronto tra posizioni diverse, avendo il coraggio di confrontarsi con il cambiamento, orientandolo e facendosi orientare, permettendo la contaminazione.
Per concludere, ritorniamo all’inizio. L’affermazione dell’individualismo non è solamente esasperazione del culto dell’io. Esiste un’altra declinazione dell’idea progressista di libertà individuale che non sia legata in modo univoco agli interessi del potere capitalistico.
I movimenti – espressione di una politica insorgente – sono stati capaci, da Seattle in poi, di contrastare gli orientamenti culturali dominanti, di resistere al dominio della dittatura dell’ignoranza grazie alla creazione e diffusione di saperi altri, di conoscenze specifiche e pratiche di sovversione che ne hanno permesso la diffusione e il radicamento. Resistenze individuali al dominio che si fanno collettive nella convinzione che non possa esistere affermazione individuale dei diritti che non sia anche riconoscimento per ciascuno del diritto di avere diritti, come egregiamente ci spiega Alain Touraine . Una declinazione responsabile del concetto di individualismo, che riconosce nell’affermazione e nell’allargamento dei diritti culturali, sociali e politici le fondamenta della democrazia. Le pratiche e le esperienze quotidiane individuali sono sovversive perché modificano, riutilizzano e sovvertono i codici comunicativi con cui il potere s’impone, per citare un altro intellettuale francese, De Certeau . Ma, ovviamente, non sono sufficienti per cambiare la società. Queste azioni diventano efficaci nel momento in cui non sono più isolate, ignare l’una dell’altra, ma connesse in un incedere collettivo e condiviso. E l’evoluzione tecnologica fornisce quei supporti che ne permettono la realizzazione: la rete Internet garantisce quella che recentemente Castells ha definito mass self-comunication: una comunicazione che può raggiungere potenzialmente una platea globale, ma che è al contempo auto-determinata, con contenuti auto-generati, definiti a partire dal sé, dalla propria visione del mondo e dalla propria soggettività. Superati i dogmi e gli steccati ideologici in cui sono stati ingabbiati per decenni, i movimenti del terzo millennio devono essere capace di spostare su un percorso concreto, collettivo e condiviso, le pratiche messe individualmente in atto, così da rendere consapevoli – tutti – di poter intervenire sul livello politico e sistemico in modo efficace.