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Venerdì, 05 Novembre 2010 19:46

A chi conviene il rischio nucleare

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Morando Soffritti è direttore scientifico dell’Istituto Ramazzini, una cooperativa sociale impegnata nella ricerca oncologica finalizzata soprattutto alla identificazione e quantificazione dei rischi cancerogeni, oltre che alla valutazione di efficacia e tollerabilità di farmaci e principi attivi, utilizzabili per contrastare l’insorgenza e la progressione dei tumori.

intervista a Morando Soffritti di Gianni Belloni
da Carta - Cantieri sociali anno XII n. 39

Fondata da Cesare Maltoni, si tratta di una delle pochissime istituzioni scientifiche italiane che indaga le connessioni tra salute e qualità dell’ambiente e del lavoro. Tra le ricerche dell’istituto ricordiamo quelle legate alla cancerogenicità dell’aspartame, un dolcificante artificiale utilizzato in ben 6 mila prodotti, e ai campi elettromagnetici.

Professor Soffritti, lei è uno dei firmatari dell’appello per un’alternativa energetica basata sulle rinnovabili e per il no al nucleare. La sua adesione, immaginiamo, investa anche le sue competenze di oncologo. Vuole parlarcene?
Io penso che una centrale nucleare rappresenti un punto di rischio che può anche risultare di scarsa entità fintanto che la centrale è sotto controllo e tutte le funzioni sono adeguate. Se tutto funziona in perfetta regola può anche rappresentare una fonte di energia adeguata. Però sappiamo benissimo che l’errore fa parte del patrimonio umano e sappiamo che gli esseri umani hanno immense fantasie – l’attentato, il disastro ricercato e quant’altro - il tutto mette a rischio questo tipo di strutture e se si dovesse, per i più svariati motivi, verificare il disastro, come è successo a Chernobyl, questo coinvolgerebbe centinaia di migliaia di persone.
Per questo penso che mettere a rischio la vita di centinaia di migliaia di persone non sia una cosa adeguata, dal punto di vista della sanità pubblica. So benissimo che esiste l’inquinamento atmosferico derivato dalla combustione delle benzine, dai diesel e quant’altro, ma questo è un rischio globale diluito e non si tratta di uno tsunami come può essere una centrale nucleare.

Tra l’altro lei in un recente articolo riportava la notizia di una ricerca tedesca del 2008 che metteva in luce il rischio di leucemia infantile nelle vicinanze delle centrali nucleari esistenti e funzionanti...
Certo, è una ricerca che è stata condotto nei territori vicino ad alcune centrali nucleari in Germania dove è stato visto che i bambini hanno un rischio maggiore di sviluppare leucemie rispetto ai bambini che risiedono in luoghi lontani da una centrale. Parliamo di bambini perché sono meno esposti ad altri fattori di rischio come quelli occupazionali o legati allo stile di vita e sono quelli che maggiormente mettono in evidenza gli effetti a basse o bassissime dosi di radiazioni ionizzanti. Questo non vuol dire che anche gli adulti, in una quantità difficilmente rilevabile, non possano anch’essi risentire degli effetti della contaminazione di questi radionuclidi.

Nel dibattito pubblico sul nucleare il fatto che due eminenti oncologi come lei e Umberto Veronesi abbiano due posizioni opposte può creare disorientamento. Come mai tra due studiosi della stessa materia, dove vigono peraltro protocolli di ricerca consolidati, c’è una divergenza di opinione così plateale?
Molto spesso succede che ci siano delle invasioni di campo. L’oncologia è una disciplina dove vi sono molte specializzazioni: c’è chi è specializzato nella chirurgia del seno, come Veronesi, c’è chi è maggiormente coinvolto nel trattamento dei tumori con i farmaci, c’è chi, come me, è interessato soprattutto a valutare e identificare i possibili rischi da parte di agenti chimici e fisici che provocano tumori, ci sono poi gli epidemiologi che si occupano di monitorare gli andamenti di queste patologie. Bisognerebbe che questi specialisti non invadessero mai il campo degli altri.
Quando sento il professor Veronesi parlare delle cause dei tumori, degli inquinanti atmosferici o della combustione del benzene, non rende certo un buon servizio perché il più delle volte non sa neanche di cosa parla, parla per commissione, ecco. D’altronde non si può essere tuttologi.

Lei dice che parla per commissione, ma quali sono gli interessi che lo orienterebbero ad esprimersi in questo modo?
Basta guardare nel sito della fondazione Veronesi e vedere chi sono i supporter del professore, non sono mica pettegolezzi. Veronesi ha espresso dei giudizi sull’impatto dei campi elettromagnetici e tra i supporter troviamo Enel e Telecom così come ci sono i costruttori delle centrali nucleari e degli inceneritori. Il professor Veronesi è uomo di esperienza, non si concede mica per compiacimento. Basta guardare le cose per quelle che sono e d’altronde ciascuno della sua vita fa quello che vuole.

L’impressione è che in generale il dibattito attuale sulla salute e sui tumori sembra mettere in evidenza maggiore le scoperte scientifiche legate ai farmaci e alle cure piuttosto che le questioni legate alle cause sociali e ambientali delle malattie.
Il nostro presente e soprattutto il nostro futuro sono dominati da quelle che vengono chiamate le patologie croniche che ora si manifestano soprattutto nella fascia di popolazione più anziana e che quando si manifestano possono avere una durata diversa, oltre che comportare per le persone che ne soffrono una qualità di vita abbastanza scadente. Se lei considera patologie come i tumori, oggi possiamo fare molto, ad esempio c’è una percentuale di tumori di circa il 35-40 per cento che, se diagnosticata precocemente, può guarire.
Una persona che è stata malata e che è guarita vive certamente con una qualità di vita che è provata, altri tipi di malattia come quelle neuro degenerative, di cui è sempre più chiara l’origine di carattere ambientale, possono durare anni e rappresentano un problema di sanità pubblica che non viene affrontato in modo adeguato. Noi ci affidiamo ai potenziali miracoli dei farmaci per i quali in verità non c’è nessuna base scientifica per poter dire che ci sia, sulla base delle conoscenze attuali, una prospettiva positiva. Si parla di terapie geniche, di markers precoci, ma sono tutte ipotesi ben lontane da essere dimostrate, mentre non si fa niente per attuare iniziative strategiche di prevenzione come il controllo dell’ambiente e controllo degli andamenti di patologie per programmare interventi.
Si parla genericamente di prevenzione, ma ci si limita alle vaccinazioni. Siamo ad un livello che definire dilettantistico è voler essere benevoli usando un eufemismo. È uno sfruttamento delle malattie in termini di generazione di profitto. Su questo non ho nessun dubbio.

Lei sposa così le dichiarazioni dell’oncologo francese Belpomme che scrive che la ricerca aldilà di essere un fatto medico è eminentemente una questione politica?
La ricerca medica consegue degli obiettivi positivi, l’innovazione tecnologica può essere utile, ma l’innovazione tecnologica, la produzione dei farmaci, la diffusione delle cosiddette pratiche salutistiche rappresentano uno strumento di generazione di profitto economico.
Noi produciamo farmaci che per la stragrande maggioranza sono inutili, generiamo falsi trattamenti che dovrebbero avere un’utilità preventiva e per i quali non c’è nessuna dimostrazione di utilità.
Belpomme non è l’unico, siamo in tanti a renderci conto della fatuità di quello che sta succedendo.

Che cosa si dovrebbe fare per ricondurre il dibattito scientifico, e quindi politico, su alcune questioni come il nucleare ad una necessaria trasparenza?
Innanzi tutto, bisogna garantire l’indipendenza del ricercatore, e quindi ci vogliono risorse pubbliche che possano far sì che il ricercatore possa scegliere che cosa è utile per la sanità pubblica e poter dire la verità sui risultati e non invece creare le condizioni perché la ricerca sia sottoposta ai vincoli dell’industria, che gli dà quattro soldi, o ai ricatti delle cosiddette scuole accademiche. Lo stato deve riprendere in mano la ricerca scientifica. Oggi, di fatto, non si può più parlare di ricerca scientifica indipendente.

Questo vuol dire che oggi difficilmente possono accadere ricerche come quelle di Medicina del Lavoro di Padova che ha dimostrato la strage in corso, grazie alla lavorazione del cvm, al petrolchimico di Marghera?
Se non del tutto impossibile, una ricerca come quella oggi sarebbe estremamente difficile, visto che lo stato non da soldi alla ricerca, e il ricercatore chiede soldi a chi glieli può dare.
L’industria ne sborsa pochi, ma a fronte di quei pochi chiede di poter leggere nelle ricerche che finanzia i risultati che desidera e non sempre questi risultati sono quelli più affidabili scientificamente.

L’anno scorso avete promosso un poliambulatorio a Bologna destinato alle donne ucraine provenienti dalle zone vicine a Chernobyl, soprattutto badanti, per una diagnosi precoce dei tumori. Come sta andando l’iniziativa?
Il lavoro è stato lanciato, ma le difficoltà sono infinite perché dopo i provvedimenti assunti dal governo contro gli immigrati non in regola nessuno, per paura di subire un controllo amministrativo, si presenta al nostro laboratorio. Potrebbe essere una buona iniziativa di controllo, rispetto soprattutto ai tumori alla mammella, organo femminile più sensibile agli effetti delle radiazioni ionizzanti e potrebbe essere un buon esempio di intervento preventivo di salute pubblica, tuttavia non abbiamo avuto la risposta che speravamo.

Letto 2272 volte Ultima modifica il Giovedì, 11 Novembre 2010 17:21

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