«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza»; «senza distinzioni di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinione politica o di altro genere»: così recitano i primi due articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Concetti quanto mai lontani dalle legislazioni dei paesi ricchi che governano le migrazioni dei popoli dal sud del mondo: legislazioni nel segno dell'esclusione e dell'espulsione del più alto numero possibile di migranti per questioni di "sicurezza".
L'involuzione etica di questa legislazione è evidente nella regolamentazione europea del fenomeno storico delle migrazioni. In poco tempo, siamo passati dall'applicazione del principio del "non respingimento" - in base al quale un'assistenza umanitaria e politica si deve a ogni essere umano in pericolo, specie se in fuga dal suo paese perché perseguitato - all'implementazione pratica di una vera e propria politica di respingimento ed espulsione. Un'inversione politica e strategica di 1800, dietro la quale si cela il dramma di migliaia di persone in cerca di protezione o di vita migliore.
Da poco più di un anno, l'Ue si è dotata di una direttiva sui rimpatri degli immigrati irregolari, definita dal mondo delle ong "direttiva della vergogna": essa determina il quadro giuridico di riferimento per gli stati membri. La direttiva segna un punto di svolta - culturale prima che istituzionale - nella storia politica dell'Europa, un continente fatto di popoli che hanno migrato durante tutta la loro storia; autorizza la detenzione amministrativa di immigrati irregolari, senza il diritto di difesa, fino a diciotto mesi; dà vita a regole processuali accelerate per le procedure di rimpatrio, abolendo anche l'effetto sospensivo dell'eventuale ricorso al decreto di espulsione, negando il diritto a un processo equo; permette l'espulsione di minori non accompagnati e di famiglie intere presenti nel territorio con bambini; ordina un divieto di reingresso di cinque anni a carico del migrante espulso; garantisce legalità alle espulsioni nei paesi di transito, diversi da quelli della nazionalità di origine.
A questo si aggiungono le singole politiche nazionali di sicurezza, che spesso scavalcano in severità la direttiva europea, la quale fissa regole minime comuni, ma lascia liberi gli stati di andare oltre, qualora lo vogliano. L'ha fatto l'Italia, approvando un "pacchetto sicurezza" che introduce anche il reato di clandestinità e apre alle ronde anti-immigrati, coprendosi con il principio del controllo del territorio, come fosse compito dei singoli cittadini ... Lo sta facendo la Francia, che organizza contestatissimi charter per l'espulsione anche verso paesi apertamente in guerra, come l' Afghanistan, dove vi rimanda afghani che rischiano la pena di morte. L'ha fatto la Grecia, nei cui centri di detenzione gli immigrati sono sottoposti a pratiche di tortura, denunciate dalle ong dei diritti umani, tanto che esistono addirittura sentenze della giustizia tedesca e danese che impediscono alle loro polizie di espellere immigrati verso la Grecia.
Lavoro sporco
La "direttiva rimpatri" sta permeando e determinando la legislazione dei paesi Ue nel campo della lotta all'immigrazione clandestina. Non solo. Per integrarla sul piano politico, la commissione Ue è quotidianamente impegnata a produrre risultati su altri due grandi assi strategici. Il primo è l'imposizione della "clausola di riammissione" in tutti gli accordi, anche economici e commerciali, con i paesi detti "sensibili", cioè quelli che producono immigrazione. Questo significa che anche la cooperazione allo sviluppo è sottomessa alla politica di repressione dell'immigrazione: lo dimostra l'articolo 13 degli Accordi di Cotonou firmati con i paesi Acp (Africa, Caribi e Pacifico), in cui si dichiara che gli stati Acp devono accettare, senza discussione e formalità alcuna, il rimpatrio di un loro cittadino immigrato illegalmente in uno degli stati Ue, se quest'ultimo lo richiede. Le "clausole di riammissione" sono sul tavolo dei negoziati di molti accordi: sono già contenute nei trattati firmati con Albania, Sri Lanka, Russia, tutti i paesi della ex Yugoslavia, Hong Kong, Pakistan e Macao. Bruxelles ci sta provando con Marocco e Tunisia, mentre l'Italia l'ha già fatto bilateralmente con la Libia, paese verso il quale espelle immigrati su base regolare. Altro che rispettare le convenzioni Onu che vietano il rimpatrio verso paesi autoritari o dittature! L'importante è cacciare gli immigrati dal suolo europeo.
Il secondo asse europeo d'intervento riguarda il sostegno diretto alla creazione di centri di detenzione per migranti nei paesi di transito, come Libia o Tunisia. In quei paesi esistono vere e proprie zone di non diritto, dove sono stoccati, per così dire, gli immigrati. Assistiamo silenziosamente, insomma, alla decentralizzazione dei Centri di identificazione ed espulsione (Cie): chiudiamo i nostri per aprire i loro. Oscene sono le condizioni di detenzione, come il parlamento Ue ha potuto constatare, monitorando questi centri in tutta Europa e nel Mediterraneo. E in cambio di cosa i dirigenti del sud del Mediterraneo fanno tutto ciò? In cambio di soldi, contratti e sostegno politico: una scelta strategica che porta l'Europa e i suoi stati membri a chiudere gli occhi sulle nefandezze politiche di quei governi, sempre più impegnati a fare il lavoro sporco per conto nostro.
Frontex
In quest'ottica di gestione repressiva dell'immigrazione illegale, l'Europa si è dotata di nuovi strumenti d'intervento operativo con la creazione dell'agenzia Frontex, con sede a Varsavia. Di fronte al fenomeno della cosiddetta "esternalizzazione delle frontiere", creato dal Trattato di Schengen sulla libera circolazione delle persone all'interno dell'Europa, l'Ue si è dotata di un'agenzia che ha il compito di assistere gli stati membri nel pattugliamento, in particolare del Mediterraneo, finalizzato alle espulsioni veloci. La Frontex accentra i dati sulla sorveglianza e organizza operazioni congiunte finalizzate ai rimpatri. Per il momento può contare su 18 aerei, 20 elicotteri e 91 navi. il suo ultimo bilancio è di circa 90 milioni di euro, ma è destinato ad aumentare molto.
Il 24 febbraio scorso la commissione Ue ha presentato una proposta per potenziare la Frontex, soprattutto per quanto riguarda il coordinamento delle attività di polizia con gli stati membri. E da qualche parte un problema esiste, se persino la commissione adesso propone «l'obbligo esplicito, per tutte le guardie di frontiera che partecipano alle operazioni, di ricevere una formazione in materia di diritti fondamentali». L'impatto concreto di una tale misura sembra risibile nei confronti dei diritti dei 16mila immigrati che nel 2009 hanno raggiunto le coste spagnole, dei 35mila che hanno cercato di arrivare in Italia, dei 32mila che ci hanno provato con la Grecia e dei 2mila tentativi di sbarco a Malta.
Ma questo non è ancora nulla rispetto alle 29 misure per combattere l'immigrazione illegale elaborate dai ministri dell'interno e della giustizia dell'Ue, gli scorsi 25 e 26 febbraio. Sono il piano di lavoro europeo per il prossimo anno e mezzo. I ministri hanno ordinato alla Frontex di «sviluppare e organizzare voli comuni, compreso l'affitto di aerei, in vista di operazioni di rimpatrio». Nascono insomma i "charter europei" e cade così un altro tabù culturale e politico. La Frontex non si è fatta attendere.
Già da marzo sono state compiute operazioni aeree di rimpatrio, soprattutto verso la Nigeria, che, per quanto riguarda l'Italia, sono avvenute nell'ambito di un programma di polizia dal nome molto indicativo: Defender. I ministri ordinano all'Agenzia di Varsavia di «operare pattugliamenti comuni nei paesi di origine e di transito, su terra e su mare, anche per migliorare l'organizzazione delle espulsioni, la raccolta e lo scambio di dati», fino ad arrivare all'organizzazione di preoccupanti e non meglio specificate «misure concrete di prevenzione dei problemi legati alla gestione delle frontiere».
A Bruxelles hanno anche messo nero su bianco che «si deve intensificare l'allontanamento dei migranti irregolari, utilizzando tutto il peso politico dell'Ue in tema d'immigrazione». Questo per far capire che il dialogo paritetico non esiste: c'è chi comanda e chi deve obbedire. E per dire come accarezziamo nel verso del pelo i paesi che fanno il lavoro sporco per noi, i ministri incaricano «d'urgenza» la commissione a negoziare con la Libia un programma di cooperazione marittima, di gestione delle frontiere e dei rimpatri, arricchito da un prossimo accordo generale di carattere economico. Che importa se la Libia non rispetta, in pratica, nessuna convenzione sui diritti umani!
Nessuna asilo
Le iniziative europee nel campo della lotta all'immigrazione illegale sono, dunque, all'inizio. La direttiva sui rimpatri e la Frontex sono i tasselli più visibili di una politica che ha messo mano anche alla gestione delle impronte digitali dei richiedenti asilo politico e degli immigrati illegali con Eurodac (dattiloscopia europea), che darà vita al sistema di sorveglianza delle frontiere l'Eurosur, che da anni conta sul Sistema informativo Schengen I e II di schedatura, che ha ristretto considerevolmente le procedure per l'ottenimento di un visto d'ingresso in Europa con il programma Vis, che si avvale della cooperazione dell'Europol.
Se il castello delle norme giuridico-istituzionali della parte repressiva della politica d'immigrazione non fa che crescere, quello legato ai diritti da garantire agli immigrati legali accumula un ritardo inaccettabile. La cosiddetta "carta blu" da concedere agli immigrati qualificati e funzionali al nostro mercato del lavoro non esiste ancora nei fatti. E ciò vale anche per la direttiva sul permesso di soggiorno legato al lavoro stagionale.
Nell'ambito del riesame complessivo della politica europea sull'immigrazione va registrata anche una prossima iniziativa legislativa Ue legata alla riforma dei regolamenti che governano la concessione dello status di rifugiato politico a un richiedente asilo ("processo di Dublino", dal nome dell'omonima direttiva del 1990 e del regolamento del 2003 che l'ha sostituita). L'Europa è in piena fase di ripensamento delle procedure di concessione dell'asilo politico, e nuove misure sono annunciate per la fine di quest'anno. Non mancano i motivi di preoccupazione: si tratta di mettere insieme 27 paesi diversi, con altrettanti interessi nazionali. Il rischio è quello di chiudere un accordo al ribasso, restringendo così ulteriormente l'accesso alla protezione internazionale di cui necessitano molti perseguitati nel mondo.
Uno dei dibattiti più accesi è quello attorno al concetto di "paese sicuro": già oggi molte domande di asilo vengono respinte sin dall'inizio perché - dicono i governi - provenienti da cittadini di stati ritenuti "sicuri". Oggi ogni stato Ue applica le procedure a modo proprio. In Germania, ad esempio, il 73 % degli afghani che chiedono asilo lo ottiene; la percentuale scende al 14 % in Belgio. L'80% degli iracheni che in Austria chiedono protezione la ottiene; nessuno di loro in Grecia. Molti stati membri hanno deciso che per "sicuro" si deve intendere un paese in cui si tengono libere elezioni. Anche in Afghanistan, Iraq o Tunisia si vota, ma non per questo i loro regimi sono definibili come "sicuri".
Il trend politico è, comunque, molto chiaro. Da tempo ormai le domande di asilo politico accolte sono sempre meno numerose. Un giro di vite è in atto anche in ambiti delicati com'è quelli della lotta alle persecuzioni politiche e della protezione della dignità umana. L'Agenzia Onu per i rifugiati (Acnur) chiede all'Europa d'introdurre nella prossima "direttiva di Dublino" il principio «dell'interesse prevalente del bambino», se questo accompagna una famiglia richiedente asilo; chiede anche che venga garantito il diritto all'asilo con procedure che rispettino la persona, a cominciare dal garantire la presenza di un interprete durante gli interrogatori.
Non si pensi che siamo di fronte a una "invasione" di richiedenti asilo: l'Ue - dove abitano 495 milioni di persone - è destinataria di solo il 15% delle circa 200mila domande di asilo presentate ogni anno nei 44 principali paesi industrializzati.