Ho modificato il titolo dando ad esso una prospettiva più operativa, tenendo conto che voi siete per la gran parte persone chiamate ad animare la vita delle comunità. A monte sta una domanda che ci poniamo con timore e tremore, quasi forse con una certa angoscia: "Ha la vita religiosa un futuro? Oppure siamo solo alla vigilia della sua scomparsa? Non è che per caso si stia anche noi vivendo l'illusione del Titanic dove la vita scorreva lieve mentre la nave già si stava inabissando?"
Ci sono due punti di vista dai quali partire per riflettere sul futuro, data l'ovvia premessa che il futuro non lo conosciamo e quello che possiamo sensatamente fare è solo la descrizione di possibili (probabili) scenari.
Il primo è quello di analizzare le dinamiche attualmente presenti negli Istituti, e nel contesto ecclesiale, per estrapolare delle linee di tendenza.
Il secondo è studiare la relazione di vicinanza/lontananza tra le giovani generazioni (incluse per estensione del termine "giovani" anche le persone che attualmente si affacciano alla vita religiosa) e la vita consacrata così come essa oggi si presenta ed è percepita.
Circa il primo ambito richiamerei l'attenzione su alcuni punti:
DINAMICA DEMOGRAFICA. La vita religiosa femminile in Italia è stata attraversata nel corso del novecento da due dinamiche contrapposte di espansione e di rapida riduzione. La prima iniziata negli ultimi decenni dell'ottocento e poi continuata fino agli anni sessanta è stata caratterizzata da una rapido sviluppo in termini numerici e di presenze territoriali (comunità, opere, attività pastorali di supporto alla parrocchia, ecc.). Sono Istituti prevalentemente di recente fondazione e molto inseriti nell'attività sociale quelli che hanno alimentato tale fase. Sono stati portatori di un modello di consacrazione femminile molto diverso da quello "monastico" tradizionalmente molto radicato su tutto il territorio italiano, ma che dopo le soppressioni ottocentesche aveva conosciuto un drastico ridimensionamento. Rispetto alla apparente "inutilità" della struttura "contemplativa", separata dall'azione pastorale, si propone una vita religiosa "utile", in termini di impegno sociale, promozione umana, attenzione verso le nuove forme di povertà ed emarginazione sociale prodotte da uno sviluppo economico dinamico, ma aspro, duro, impietoso. Essere suore significa allora fare una scelta di vita impegnativa, ma esaltante come lo è sempre resistenza alla frontiera, lì dove la carità e l'amore al Cristo presidiano la dignità negata dell'uomo. I numeri fanno intravedere un clima di fervore, di entusiasmo, di consapevolezza d'essere presenze significative, capaci di intuire le aspettative del popolo cristiano, avviando una dinamica nella quale la crescita confermava la bontà dell'intuizione iniziale. Nel 1871 le religiose (incluse quindi le comunità claustrali sopravvissute alla soppressione del 1866) erano 29707 (1), nel 1901 sono già 40250 (+35%) e poi la crescita continuerà sino a toccare nel 1971 il punto di massima di 154790 (2) religiose (delle quali circa il 10% sono monache). Con gli anni settanta con il diminuire delle vocazioni inizia un calo dapprima lento e poi in seguito più evidente (dal 1971 al 2001 le religiose calano del 28%, arrivando a 111032) (3) anche se in parte attenuato dal parallelo allungarsi della durata media della vita. Si ha così una situazione apparentemente paradossale: una vita religiosa ancora consistente nella sua struttura numerica, ma estremamente fragile nella prospettive di durata in quanto ha al suo interno una crescente quota di anziano. II mancato ricambio generazionale delinea un futuro senza persone e quindi con l'impossibilità a mantenere gli attuali livelli di presenza in termini di opere e di testimonianza pastorale.
VERSO UNA GLOBALIZZAZIONE DELLA VITA RELIGIOSA. Di fronte alla disaffezione delle giovani italiane ad avviare nuove fondazioni o a sostenere comunità vocazionalmente deboli. Nel 1983 le religiose italiane all'estero erano 9690 (4) e quelle estere in Italia 3480, nel 2001 (5) le italiane all'estero erano calate del 24% (7333), mentre le suore operanti in Italia ma provenienti da altre aree culturali e sociali erano cresciute del 177% (9651). Ciò è ancor più evidente a livello di novizie, nel 2001 delle 1212 novizie presenti in Italia il 69% (842) era costituito da estere ed il 31% (370) da italiane. Ci avviamo quindi ad una vita religiosa multietnica, analogamente a quanto avviene a livello sociale. Ciò è indubbiamente un fatto positivo, in quanto sollecita all’apertura verso nuove realtà altrettanto ricche di umanità, sensibilità religiosa, ma nello stesso tempo porrà alle comunità la necessità di imparare a dialogare con le diversità culturali evidenziando l'ovvio fatto che la consorella straniera non solo porta aiuto in una situazione di bisogno, ma con sé porta un modo di vedere l’esistenza e le dinamiche comunitarie con il quale non è sempre agevole accordarsi.
CAMBIAMENTO NEL PARADIGMA DELLA SANTITÀ. Un cambiamento che ha influito sulla collocazione ecclesiale della vita religiosa è quello intervenuto a partire dagli anni cinquanta intorno ai modelli di santità. La vita cristiana è stata per secoli via eminente (non certo unica) di santità. Non a caso si parlava di Istituti e stati di perfezione (evangelica), ad indicare una via diffìcile, impegnativa, donata per grazia (vocazione), ma che se percorsa con fedeltà portava ad una piena, autentica realizzazione del messaggio evangelico. Nulla di tutto ciò è stato esplicitamente rinnegato, forse per evitare una confusione linguistica e concettuale si è lasciato cadere il termine "perfezione", ma le stesse parole ora cadono in un panorama mentale diverso. Infatti tutte le esperienze che il cristiano vive illuminato dal vangelo sono vie di santità, lo è la professione laicale, la dedizione agli impegni familiari, ecc., certo lo sono anche la professione dei consigli evangelici ma senza riservare ad essi un alone di particolare qualificazione. Al più si è disposti a riconoscere ed apprezzare la peculiare testimonianza di alcune persone consacrate, pensiamo a Madre Teresa o a Padre Pio. Nel momento in cui la vita religiosa diventa una delle tante vie dell'esperienza cristiana cambia di fatto il suo peso e ruolo ecclesiale, e coerentemente vi sono teologi che negano uno specifico statuto ecclesiale alla vita consacrata.
Possiamo riflettere sulla vita religiosa anche a partire dalla percezione che di essa hanno le nuove generazioni, in particolare tra quelle persone che hanno chiesto di entrare a far parte di un Istituto.
VITA RELIGIOSA E NUOVE GENERAZIONI. Ordinariamente le inchieste sulla religiosità non danno molto spazio alla vita religiosa, per la documentazione che se ne ha (6) emerge un atteggiamento positivo in particolare verso la dimensione "attiva" della vita consacrata, in quanto la sua presenza appare maggiormente "utile" rispetto ad una vita contemplativa percepita come un fuggire dalle responsabilità della storia e dall’ impegno operativo. Quando si vada a vedere l'orientamento per le scelte di vita la consacrazione religiosa (come la disponibilità verso il presbiterato) o non compare, o comunque è sempre in fondo alla scala delle possibili opzioni tra i giovani e delle famiglie nei confronti dei figli. Un’inchiesta attualmente in corso tra i giovani studenti del Triveneto (7) evidenzia una percezione "confusa" della vita religiosa, e questo già a livello semantico. Solo 1 su 3 degli interpellati associa "religiosi/religiosa" alla realtà di una persona consacrata, per gli altri indica un uomo/donna praticante, che crede in Dio, ecc.. Tutte le diverse Congregazioni di religiose confluiscono nella categoria della "suora", la quale è elaborata a partire da una personale esperienza (ordinariamente imprecisa e limitata) e dagli stereotipi diffusi nell'ambiente di vita dell'intervistato (famiglia, scuola, gruppo di amici, ecc.). Alla domanda di quale sarebbe la sua reazione nel caso un amico/amica intendesse entrare nella vita religiosa solo 1 su 10 degli intervistati esprime piena condivisione ed appoggio (quelli che si definiscono cattolici convinti lo fanno nella proporzione di 2 su 10), la maggior parte manifesta invece un sentimento di stupore, di disagio, di imbarazzo in quanto è del tutto improbabile che un amico/amica faccia una scelta del genere. E' la conferma di un dato che abbiamo tutti sotto gli occhi, ed è il distacco delle nuove generazioni dalla vita religiosa. Non che per questo ci siano ostili, gli siamo anche simpatici come lo sono nonni e nonne, con i quali non ci si identifica perché percepiti troppo distanti, ma che si ascoltano volentieri. Tra noi e loro (i giovani) si sta scavando un fossato per passare il quale non sappiamo costruire ponti.
LE NUOVE VOCAZIONI. Eppure non mancano delle vocazioni. Nel 2001 le professe di voti temporanei erano in Italia 4338 cifra che, pur con le precisazioni del caso, prima fra tutte quella che una parte (non documentabile) è data da giovani estere, documenta che ancora non tutti i legami con le nuove generazioni si sono interrotti. Può essere allora interessante osservare da vicino le aspettative e gli atteggiamenti di queste giovani le quali sono probabilmente quanto di più realistico abbiamo per conoscere quale potrà essere il volto della vita religiosa in un prossimo futuro (8). Anzitutto c'è un innalzarsi dell'età alla quale si chiede di entrare in un Istituto. Il dato in sé non fa che rispecchiare il tendenziale innalzarsi dell’età nella quale le giovani generazioni assumono impegni di lunga durata (professione, matrimonio, ecc.) (9). Per quanto poi riguarda il profilo umano e spirituale di coloro che oggi si avvicinano alla vita religiosa dobbiamo prendere atto che essi sono in tutto figli del loro tempo, e che con i loro coetanei condividono modi di pensare, di agire, atteggiamenti ed aspettative. E' inevitabile che sia così proprio in considerazione del fatto che oggi, in maniera prevalente, giungono alla vita religiosa persone che hanno alla spalle una più o meno lunga esperienza di inserimento nella realtà lavorativa, scolastica, sociale, ecc.. Se oggi ai nostri Istituti si affacciano prevalentemente venti-trentenni, ma non sono poi rari i quarantenni, è chiaro che essi avranno un profilo molto più simile a coloro con i quali hanno condiviso percorsi formativi ed esperienziali. Nei loro confronti va pensata una nuova pedagogia spirituale, una mistagogia che dal profano accompagni all'esperienza di Dio, tenendo conto che manca spesso anche preparazione “remota” alla vita cristiana data dalla famiglia e dall'ambiente di vita. Dopo un primo tempo nel quale le "vocazioni adulte" apparvero come sinonimo di maturità, serietà nella decisione, opportunità offerta alla vita religiosa per superare gli steccati che artificiosamente la rendevano luogo separato e protetto oggi ci si rende conto che non tutto è così semplice. L'essere anagrafìcamente o professionalmente adulto di per sé non facilita, ma forse neppure complica, la formazione alla vita religiosa, solo obbliga ad assumere criteri pedagogici e strategie educative che tengano conto, con sano realismo, dalla nuova situazione. Uno è infatti formare adolescenti o ventenni nei confronti dei quali è ancora possibile un ri-orientamento di atteggiamenti, comportamenti, modo di pensare, ecc., altro è invece lavorare con adulti nei quali le strutture di fondo della personalità sono già consolidate e gli spazi per il cambiamento sono di fatto più limitati.
In chi oggi si avvicina alla vita religiosa vi sono aspettative "alte", proprio perché lo fa dopo un'esperienza più o meno lunga di attività lavorativa e più o meno positiva di relazioni umane, ci si aspetta un ambiente qualitativamente "diverso" da quello conosciuto nella quotidianità della vita laicale. In particolare ci si attende un'autentica vita fraterna intessuta di relazioni interpersonali sincere, amicali, improntate a vicendevole rispetto e fiducia e si domanda una coerente adesione ai valori evangelici. Con entusiasmo, generosità ci si accosta ad un'esperienza dalla quale ci si attende un robusto sostegno a quelle istanze di radicalità evangeliche delle quali si ha nostalgia proprio perché si è consapevoli della propria debolezza e fragilità spirituale. "Se la vita religiosa non ci è memoria e testimonianza di vita evangelica, da chi altri si potrà andare?". E' questa la domanda che rende ancora "interessante" la vita religiosa, ma è anche l'espressione di una povertà interiore che cerca il conforto di una guida, la consolazione di una via sapienziale, e per trovarla è disposta anche a correre il rischio di sbagliare indirizzo, di trovare anziché pastori lupi rapaci, o al posto di paternità spirituale un autoritarismo ammantato di tradizione. Forse l’incontro con le nuove generazioni è diffìcile proprio per l'incapacità di comprendere da un lato le aspettative di colui che si avvicina alla vita religiosa e dall'altra i limiti di istituzioni nelle quali la memoria carismatica è più stereotipo spirituale che espressione di vitalità evangelica. Non basta lamentarsi del fatto che i giovani si orientino verso altre forme di radicalità evangelica, delle quali noi ne vediamo lucidamente forse più i limiti che i pregi, bisogna interrogarsi sulla nostra capacità di comprendere le nuove generazioni, di realizzare con loro un autentico dialogo, di essere per loro adulti che non temono il confronto. Quando si mette in evidenza la fragilità psicologica delle nuove generazioni, la loro immaturità, la tendenza ad un facile scoraggiamento si esprimono osservazioni certamente fondate sull'osservazione della realtà, ma potrebbe proprio essere l'esperienza di questa debolezza a rendere oggi più sensibili ad un cammino vocazionale. In altre parole sarebbe il sentimento di una povertà spirituale che orienterebbe verso la ricerca di una guida, di un aiuto per acquisire la saldezza necessaria a vivere fedelmente il messaggio evangelico. Forse in tutto ciò vi è più il riflesso di una intuizione che un progetto esistenziale lucidamente perseguito, ed infatti alle prime difficoltà e delusioni, perché la vita religiosa è condotta da donne ancora ampiamente imperfette, emerge forte la tentazione di mettere tutto in discussione. A ciò si aggiungono poi i disagi legati all'inserimento in comunità, la fatica ad elaborare legami con persone rispetto alle quali ci si sente lontani per sensibilità ed esperienza di vita, un'appartenenza istituzionale ancora debole ed incerta. Un passaggio stretto per chi oggi viene alla vita religiosa è la definitività della scelta. Il "per sempre" lascia perplessi, pare configgere con quel valore fondante gli orientamenti mentali delle nuove generazioni che è l'autenticità dell'io e la costante disponibilità a cogliere le possibilità nuove ed impreviste che la vita dischiude. Certo i voti, come il matrimonio, si emettono per sempre, ma spesso in ciò si cela un retro-pensiero, una riserva mentale che lega la definitività al permanere delle condizioni che "ora" mi portano a decidere "per sempre". Conseguentemente il mutare del quadro porta, almeno potenzialmente, ad una rimessa in discussione della scelta. Si aggiunga poi una più incerta e discontinua formazione cristiana di base che non riesce a dare adeguato supporto alle motivazioni spirituali, le quali restano così molto caratterizzate da emotività, estetismo, sentimentalismo.
Il processo formativo deve pertanto muoversi su più piani: accompagnare nel discernimento spirituale per verifìcare se vi siano le condizioni per parlare di vocazione alla vita religiosa; verifìcare che si abbiano le condizioni per una soddisfacente maturità a livello relazionale, psicologico, intellettuale; sostenere e motivare il processo d'inserimento nelle relazioni comunitarie ed istituzionali. Quest’ultimo aspetto è talvolta complicato dalle eccessive aspettative che si hanno nei confronti delle nuove vocazioni, in particolare quando per casa se ne vedono poche, verso le quali si finisce per oscillare tra una benevola condiscendenza, quasi lassista, e la rigidità nel difendere gli equilibri consolidati, le abitudini acquisite.
Sono i passaggi difficili ed accidentati che accompagnano l'inserimento nell'Istituto di coloro che oggi chiedono di entrare, e si aspettano un accompagnamento spirituale ed umano carico di benevolenza e fraternità, ma sono ancora incerti sull'esito della loro avventura di esploratori del pianeta vita religiosa. (10)
Dobbiamo prendere atto che la vita religiosa, quale noi la conosciamo, muove da presupposti antropologici che le nuove generazioni faticano a condividere. Termini quali "sacrifìcio", "rinuncia", "appartenenza totale", "definitività", "obbedienza", ecc., non fanno parte del vocabolario e dello spazio mentale delle persone che oggi si avvicinano alla vita religiosa, nel loro linguaggio altre sono le parole significative: "radicalità", "testimonianza evangelica", "giustizia e pace", "dialogo", ma anche "realizzazione di sé", "autenticità", "ben-essere", ecc.
Nella disaffezione vocazionale possiamo allora leggere anche il disagio delle nuove generazioni ad identificare nell'attuale fisionomia della vita religiosa un progetto esistenziale affascinante, in sintonia con la propria esperienza di vita, capace di comunicarsi con le parole che meglio esprimono la propria sensibilità spirituale. Quasi che il divenire buoni religiosi comportasse il trasformarsi in uomini di un altro tempo portatori di un linguaggio, di uno stile di vita, di un galateo che dice poco al di fuori dei conventi e delle case religiose.
LEGGERE IL PRESENTE. Il diffìcile ricambio generazionale in mancanza di nuove vocazioni ha sulla vita degli Istituti non solo effetti in termini di "ridisegno delle presenze", come tra un po' vedremo, ma può incidere sulla vitalità della testimonianza apostolica e sulla vitalità spirituale delle comunità.
Abbiamo visto come per tutto il 1900 quando uno entrava in un Istituto religioso veniva ad essere immesso in una realtà caratterizzata da una dinamica di crescita, di espansione. Il futuro comunicava ricchezza di iniziative, di possibilità apostoliche, di novità. Allora guardando alle altre consorelle ci si poteva dire: oggi siamo "più" di quelli che eravamo ieri, ma siamo "meno" di quelle che saremo domani. Attualmente la situazione si è ribaltata: oggi siamo "meno" di quelle che eravamo ieri, ma siamo "più" di quelle che saremo domani. Sentiamo venir meno le risorse, avvertiamo lo scarto tra ciò che ci viene chiesto (nelle opere pastorali che già abbiamo, nei bisogni spirituali, caritativi, ecc. che scorgiamo intorno) e le nostre sempre più limitate capacità di risposta. Ordinariamente nel linguaggio comune "futuro" è quasi sinonimo di speranza, di rinnovamento, di realizzazione. Che futuro è mai quello nel quale si parla di chiusure, ridimensionamenti, invecchiamento, in una parola solo di declino? Ne viene, quasi spontaneamente, l'altra domanda: che senso ha progettare, se ciò che scorgo/scorgiamo davanti appare più povero, più grigio, più difficile del presente?
Guardandoci intorno e ripensando, chi ha una certa età, alle speranze del concilio e dell'immediato post-concilio ci si ritrova nella condizione spirituale e psicologica dei due discepoli di Emmaus. "Che sono questi discorsi che state facendo tra voi durante il cammino? Si fermarono col volto triste; uno di loro, di nome Cleopa, gli disse: "Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che è accaduto in questi giorni?" Domandò: "Che cosa?" Gli risposero: "Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole ... Come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l'hanno crocefisso. Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute." (Lc 24,13-21).
"Noi speravamo" che l'aggiornamento, la revisione delle costituzioni, l'impegno per la formazione permanente, ecc. ci portassero ad un fiorire della vita religiosa e invece eccoci qui in pieno inverno e colla prospettiva che tra qualche anno il freddo e la gelata si facciano ancor più sentire.
Sono obbiezioni reali nel senso che hanno un fondamento nella realtà, ma sono anche espressioni di un implicito, di un non detto con il quale dovremo confrontarci.
Anzitutto c'è l'idea, in vero con radici bibliche, che vede nei figli, nella discendenza e continuità, il segno della benedizione di Dio e nella sterilità, nell'assenza di prole il venir meno della benevolenza divina. Per noi che nella verginità abbiamo lucidamente accettato di non avere discendenza per rimetterla in tutto all'azione di Dio, il rischio è di riprenderci sotto altra forma ciò a cui abbiamo rinunciato. Le novizie, le juniores, diventano così le figlie (magari "spirituali") verso le quali poi talvolta ci comportiamo con permissività e compiacenza analoga a quella che rimproveriamo alle famiglie. La presenza di giovani ci conforta, quasi ci rassicura che la nostra non è una vita sprecata, senza senso (perché priva di continuità). L'assenza ci sconforta, ci deprime o quantomeno ci demotiva: perché e per chi continuare a faticare, se dopo di me/noi non c'è nessuno? Se umanamente si comprende il desiderio di durata, e lo smarrimento nel vedere che per tante attività, in se stesse buone e positive, non ci sarà possibilità di continuità, il religioso educato dalla fede in Gesù sa che in questo ragionare "umano", troppo umano, manca l'affidamento al suo Signore. Cosa c'è di più strano, dopo una nottata nella quale non si è pescato alcunché, che sentirsi dire di andare al largo e gettare le reti? Eppure Simone risponde: "Sulla tua parola getterò le reti". Non basta alla vita religiosa lucidità del ragionamento, allo studio delle tendenze, occorre fidarsi di Dio, lasciarsi guidare dalla sua parola. Il Signore ci chiede sempre una sola cosa: fare quello che è il nostro compito, essere fedeli nella risposta alla sua chiamata. "Quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: siamo servi inutili. Abbiamo fatto quello che dovevamo fare." (Lc 17,10).
Per questo non temiamo il futuro. Già intuiamo che nel futuro la vita consacrata non sarà quella che abbiamo conosciuto e nella quale operiamo. Da molteplici segni ci viene la consapevolezza che sta finendo un ciclo della vita religiosa e nello stesso tempo qualcosa di diverso, per struttura organizzativa, numerosità ed ampiezza delle comunità, presenza territoriale, sta germogliando. Lo intuiamo così come si spera il bel tempo quando alla sera il cielo rosseggia (Mt 16,2), ma non vi è certezza che così sarà.
Come muoversi in una realtà così carica di incognite? Come governare verso un futuro nel quale si intravedono esiti incerti? Sono domande alle quali cercheremo insieme di trovare se non delle risposte almeno delle piste di ricerca.
RIDISEGNO DELLE PRESENZE. Con gli anni novanta (quindi da circa 10/20 anni) gli Istituti religiosi (femminili e maschili) hanno iniziato a confrontarsi con gli effetti del calo vocazionale, cercando di governarne, almeno in parte, gli effetti, uscendo quindi da un atteggiamento di passiva acccttazione del dato di fatto. Nel corso di capitoli provinciali e generali, in riunioni comunitarie, ecc. si è radicata la consapevolezza, diffìcile da accettare m chi aveva vissuto in anni d'espansione, che ora bisognava ragionare su quale casa chiudere, quale opera cedere, quale servizio lasciare, ecc. Il travaglio è stato grande, ed in parte lo è tuttora, anche se sempre più l'evidenza della situazione non lascia spazi per decisioni alternative al ritirarsi. Non si tratta però di affrontare solo una questione di razionalizzazione organizzativa, perché da un lato le comunità, e l'Istituto nel suo insieme, devono vivere una elaborazione del lutto o della perdita, in quanto in una fase di decremento il rischio è quello di una specie di depressione istituzionale (che senso ha "operare" ossia "vivere", se poi tutto pare dissolversi nell'abbandono) o di demotivazione diffusa, portando, tra l'altro, ad una opacità della testimonianza e quindi ad una minore attrattiva in termini vocazionali.
Penso che a questo punto abbiamo in mano alcuni elementi che nascono dalla osservazione della realtà e possiamo riprendere la domanda già formulata: come muoversi in una situazione così carica di fragilità strutturale e, per certi aspetti, anche personale?
PROGETTO. Una strategia interessante che gli Istituti hanno adottato in questi anni è quella di "progetto". Il lessico è nuovo, il contenuto molto meno.
Se ne vogliamo individuare un precedente possiamo muovere da Lc 14,28-30.
"Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ne ha i mezzi per portarla a compimento? Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: "Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire lavoro.". (Lc 14,28-30). Noi siamo qui a riflettere, per vedere se con i mezzi che ora abbiamo possiamo continuare a lavorare, con la stessa intensità e ampiezza di orizzonti, nelle attività che l'Istituto nel tempo ha contribuito a far nascere.
Il progetto non è un documento, anche se può essere opportuno mettere per iscritto gli orientamenti condivisi, ma è un modo di agire insieme, di collocare l'io all'intemo di un noi. Esso ha pertanto tutte le fragilità di ogni esperienza comunitaria, esposto al rischio della retorica che lo svuota di senso ed efficacia nello stesso momento in cui mi afferma la magnificenza. Vive se le persone che sono chiamate a riconoscersi in esso sono interiormente disposte a coinvolgersi, a lasciare che l'io sia custodito dal noi.
Possiamo allora dire che il progetto è un percorso, un pensiero che individua modalità per darevisibilità e concretezza condivisa all'essere orsoline nell'oggi della chiesa e della società.
Quando parlo di progetto intendo riferirmi alla identità (o "volto") della comunità religiosa e al significato della sua presenza e testimonianza per la chiesa locale. Abbiamo anche visto che una certa idea di progettualità, come atteggiamento mentale e spirituale, è rintracciabile anche nella parabola evangelica di Lc 14, 28-30. Possiamo partire proprio dalla parabola evangelica per comprendere meglio cosa significa "progettare".
II testo evangelico evidenzia, dal punto di vista sociologico, due atteggiamenti:
- l'intenzione di costruire una torre;
- la valutazione su eventuali ostacoli o mancanza di mezzi che si oppongano all'azione.
La situazione che si descrive rientra pienamente in quello che era un "problema" per i greci o un "projectum" per i latini, ossia ciò che è posto in avanti come impedimento, nel caso specifico, ma che in altri contesti potrebbe essere inteso anche come l'elemento messo davanti in funzione protettiva oppure come il compito da svolgere.
Anche per noi il "progetto" è un qualcosa che sta davanti, appartiene al futuro, ma nello stesso tempo ha un forte legame con l'oggi. È un obiettivo che intendiamo/speriamo di raggiungere, attraverso l'attivazione di mezzi opportuni.
Per noi progettare significa delineare un percorso, individuare una successione di azioni attraverso le quali raggiungere un obiettivo, un fine.
Nel progetto c'è l'oggi (attività in corso - valori - risorse disponibili) e il domani (la situazione quale la si vorrebbe che fosse) e quindi i cambiamenti da introdurre per realizzare ciò che si pensa. In tal senso il progetto è futuro, pensiero di futuro, descrizione di futuro, nel progettare si costruisce un legame tra ciò che c'è già (e pertanto appare solido, robusto, evidente) e ciò che (si spera) vi sarà (e pertanto risulta ancora incerto, solamente probabile, indefinito).
Volendo approfondire la dinamica del progettare possiamo individuarne alcune fasi.
Anzitutto c'è un soggetto, nel caso vostro potrebbe essere l'Istituto e una comunità, il quale esprime la sua capacità e intenzione di progettarsi, di guardarsi in avanti, di pensarsi nel futuro. Non è scontata questa capacità e forse in alcuni non ve n'è neppure il desiderio. Il futuro può infatti essere fonte di angoscia, di paura, in quanto ci trasmette segnali che suscitano timore, incertezza. Veniamo inoltre da un tempo nel quale abbiamo coltivato una concezione "buonista", o forse ingenuamente ottimista del futuro, e così, come il pendolo,ora oscilliamo verso un umore nero, ci sentiamo aridi.
Come muoversi in una realtà così carica di incognite? come governare verso un futuro nel quale si intravedono esiti incerti? Il progetto è una risposta possibile, purché abbia flessibilità. Pertanto oltre che essere anticipazione di un avvenire desiderato, esso diviene indicazione di percorsi possibili, narrazione di un cammino attraverso un presente da addomesticare, o forse da esorcizzare nelle paure che suscita.
- Se progettare è individuare un agire condiviso nelle sue finalità e nei mezzi per raggiungerle, allora in ogni attività di progettazione si possono individuare due tempi: c'è una fase di ideazione ed una di realizzazione. L’ideazione esprime l'intenzione, descrivere l'obiettivo "come se" fosse già stato raggiunto, individua fasi di attuazione. Nella ideazione ci si confronta con la realtà, e nello stesso tempo si cercano di scegliere azioni che rendano possibile o un cambiamento della realtà o un superamento dei vincoli che in essa sono contenuti. Già nella sua ideazione il progetto è dinamico, in quanto mette in circolo energie, orienta l'agire, delinea dei percorsi operativi. La realizzazione è il confronto concreto della ideazione con il reale. E' farsi attività resa possibile da una qualche forma di impegno personale e/o comunitario. Si coglie qui una verità ovvia, ma spesso dimenticata. I progetti camminano con le gambe degli uomini che in essi intendono impegnarsi. Se certa nostra progettazione risulta alla prova dei fatti sterile questo può dipendere da una errata individuazione degli obiettivi o da una sottovalutazione dei mezzi, ma in molti casi è anche a motivo di una scarsa disponibilità ad impegnarsi.
- Non basta allora che un progetto sia condiviso dalle comunità e/o dall'Istituto nel suo insieme (capitolo, consiglio, ecc.), ma per attuarlo deve essere recepito come orientamento che impegna ogni religioso (o quantomeno una ampia maggioranza dei religiosi). Alla condivisione va unita la convinzione, il che rimanda alla necessità di lavorare sulle motivazioni.
- La comunità religiosa è una realtà particolare. In essa troviamo elementi di cura, attenzione all'altro, condivisione materiale che la fanno assomigliare ad una famiglia, ma di quest'ultima non ha, ordinariamente, il calore e la forza del legame affettivo. La comunità viene così ad assimilarsi per taluni aspetti ad un gruppo finalizzato al conseguimento di obiettivi, i quali divengono criteri per l'individuazione degli spazi di impegno condiviso, separati pertanto da quelli privati, affidati alla gestione e responsabilità individuale. La comunità ha una sua peculiare fisionomia, perché non nasce dall'affettività e neppure si ritrova totalmente in uno scopo da raggiungere. La comunità è un convenire, da cui il "conventus" la riunione, radunanza di persone ivi chiamate da un Altro. Ciascuno di noi si è mosso, ha cambiato casa, perché nella sua storia personale e segreta un giorno ha avvertito non in sogno, ma come voce reale - seppure sempre lieve e indicibile - la parola del Signore: "Vieni e seguimi", e la ha accolta facendo di essa un nuovo inizio dell'esistenza. Nessuno ci obbliga a rimanere e se lo facciamo è perché confermiamo il proposito di seguire il Signore secondo l'insegnamento e l'identità propria di Orsola o Chiara o Scolastica. E' a partire dal vicendevole riconoscimento di questa chiamata/risposta che si intessono le relazioni comunitarie. Nessuna di voi ha scelto la sua vicina, ma tutte siete state scelte dal Signore e vi siete ritrovate insieme. Qui sta l'oggettiva difficoltà del rimanere insieme. La grazia della vocazione ci pare un filo troppo esile per unirci e magari ne cerchiamo altri non accorgendoci della loro intrinseca debolezza e fragilità. Entrando in comunità abbiamo ceduto molti aspetti della sovranità su noi stessi ad altri: alla comunità, al superiore, all'Istituto. Non ci apparteniamo più totalmente e questa è una realtà scandalosa per il nostro tempo. Tra il "non appartenerci" c'è anche il "non-mi-progetto" l’esistenza a misura di obbiettivi da me individuati, ma accetto che la loro individuazione venga da altri o sia decisa insieme ad altri. Ciò vale anche per scelte in sé positive, non basta che una decisione sia buona perché venga abilitato a perseguirla. Da quando mi sono legato ad una comunità ho accettato che "altri" abbiano diritto di indicarmi un progetto per la mia vita.
- Mi rendo conto delle difficoltà e delle resistenze che sono implicate da tale prospettiva, ma se non c'è tale lucida e consapevole ritirata dell'io per far spazio al noi, ogni programma non avrà gambe per camminare e resterà, quando andrà bene, il compito dei buoni propositi. Affinché tale alleanza tra l'io e il noi possa realizzarsi, e non diventi una coabitazione forzata e rancorosa, sono necessarie alcune condizioni. Ho già parlato della motivazione spirituale che ci porta a rinunciare ad un esercizio pieno e autonomo della libertà nelle scelte di vita.
- Un secondo aspetto che facilita l’incontro io-noi è il riconoscimento e la consapevolezza di un legame, di un principio unificatore dei singoli. Esso è anzitutto la chiamata del Signore, ma è anche l'attrazione e la identificazione con una storia di santità. L'io che accetta dal noi una sua nuova forma, sempre "aperta" ad ulteriore arricchimento e perfezionamento e di conseguenza intrinsecamente "permanente", non si accontenta di ricevere un'identità semplicemente trasmessa, ereditata, ma intende essere parte attiva nell'individuarne i tratti, tra i molti possibili che la tradizione offre, e nel cadenzarne i ritmi e le modalità di attuazione. In una inchiesta tra giovani religiosi condotta qualche anno fa una risposta con lucidità esprimeva questa istanza di salvaguardia della propria soggettività: "Sento - poi non so se sarà una cosa che dovrò ridimensionare - che ci sono degli spazi in cui sono chiamato a vivere autenticamente la mia vita ... Voglio dire, ci sarà un modo personale e unico, mio. Di vivere il mio essere consacrato? Perché io sento che è importante crescere in questa personalizzazione e nell'unicità di questo sentire" (postulante, 20 anni). Ciò viene dalla consapevolezza, oggi molto più viva di ieri, che l'Io custodisce doni, evangelicamente talenti/carismi, che vanno responsabilmente valorizzati, anche all'interno di una scelta di vita consacrata. La consapevole auto-limitazione implicata dall'appartenenza religiosa riconosce al noi una possibilità di intervento ampia, ma non assoluta. Una condivisa identità è allora il raggiungimento di un equilibrio io-noi espressione di una unità capace di superare, senza annullarle, le individualità, ed allora si comprende come una comunità o una la provincia sia un di più rispetto alla somma aritmetica dei singoli religiosi. In tale direzione c'è anche l'impegno a coltivare la memoria all'interno dell'Istituto. La memoria condivisa e narrata è un tessuto importante nelle relazioni interpersonali e intercomunitarie, in tal senso nelle trascuratezze tipiche di un recente passato si riflette una certa ingenuità nella costruzione dei legami istituzionali o forse più semplicemente il fastidio per un passato avvertito unicamente come ingombro, impedimento al dispiegarsi del nuovo, dell'inedito.
- Un terzo aspetto che rafforza il legame "io-noi" è quello della partecipazione, della circolazione dell'informazione fra le religiose e all'interno delle comunità. Se sapere è potere, un sapere condiviso è un antidoto alla frammentazione ed uno stimolo alla corresponsabilità. Una informazione credibile, corretta, aperta toglie molte ragioni alla mormorazione, alle chiacchiere che dicono occultando.
Giovanni Dalpiaz osb cam
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Note
1) C. D'Agata, Statistica religiosa, Milano, Giuffrè, 1944.
2) Annuarium statistìcum ecclesiae, Roma, Vaticana, 1969-2002.
3) La dinamica suore/monache la si può documentare solo a partire dal 1988, da quella data le suore sono diminuite del 27% e le monache del 22%
4) Le religiose italiane, Roma, USMI, 1983.
5) Le religiose in Italia, Roma, USMI, 2001.
6) Si veda al riguardo V. Cesareo e altri, La religiosità in Italia, Milano, Mondadori, 1995, p.360).
7) II rilevamento è condotto dall'Osservatorio sulla vita religiosa commissione di lavoro della CISM e dell'USMI trivenete.
8) Anche qui l'esposizione si basa su dati raccolti dall'Osservatorio sulla vita religiosa, documentazione in parte pubblicata in Autori Vari, Una strada diversa, Roma, CISM, 2000.
9) L'età media di matrimonio che nel 1975 era intorno ai 27 anni nel 1997 si collocava intorno ai 30; tra il 1985-1994 nel Triveneto l'età media di entrata in un Istituto religioso è stata di 29 anni.
10) Dai pochi dati disponibili è di circa il 50% la quota di coloro che dal noviziato arrivano sino ai voti definitivi, a questo poi, in anni recenti, si è aggiunta l'esperienza di una certa instabilità nei primi anni dopo i voti solenni e l'eventuale ordinazione presbiterale.