La sofferenza è compagna inseparabile di ogni esistenza umana. C'è la sofferenza fisica del corpo, con l'esperienza della malattia, del deperimento organico, della morte. C'è la sofferenza morale dell'anima, più dilaniante di quella fisica, causata dall'ingratitudine, dall'abbandono, dal tradimento, dall'emarginazione, dal disprezzo e ancor più dalle proprie colpe. C'è la sofferenza psicologica, che spesso fa da corollario al dolore fisico e al dolore morale e si manifesta sotto forma di tristezza, delusione, pessimismo, scoraggiamento, depressione. Talvolta, poi, queste diverse forme di sofferenza si sovrappongono una all'altra fino a trasformarsi in veri e propri flagelli sociali, come nel caso delle calamità naturali, delle epidemie, delle catastrofi, della fame e della guerra. Che dire dello sterminio di milioni di ebrei nei lager nazisti, delle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, delle pulizie etniche, della sopraffazione di milioni di bambini innocenti? Tutte queste forme di sofferenza non sono altro che aspetti particolari del problema più generale del «male», che consiste nell'essere privati di un bene, del quale invece si dovrebbe disporre secondo l'ordine normale delle cose.
Di fronte a questi drammi, la ragione umana non può fare a meno d'interrogarsi: perché il male, perché la sofferenza? Se esiste un Dio buono e onnipotente, perché non interviene? Dov'era Dio ad Auschwitz?
Il dramma del male, in particolare della sofferenza degli innocenti, è un problema antico quanto l'uomo. Con esso si sono confrontati uomini di scienza e di cultura, filosofi, e artisti, non credenti e credenti, di tutte le fedi, di tutte le generazioni e di tutte le nazioni. Nonostante gli sforzi, però, la ragione da sola non è mai riuscita e non riesce tuttora a trovare una risposta soddisfacente, ma giunge al massimo a formulare ipotesi e spiegazioni insufficienti e fragili. Eppure percepiamo che quanto in un modo o nell'altro riguarda la vita umana, non esclusi gli elementi che a noi appaiono negativi, deve pur avere un qualche significato. Quale?
Non si può ignorare che, accanto e al di sopra delle risposte tentate dai pensatori d'ogni tempo, esiste una Parola rivolta all'umanità e contenuta nel Vangelo, con la quale non possiamo non confrontarci. Infatti, questa Parola illumina il mistero della presenza del male nel mondo e non esita ad affermare che anche il dolore, nonostante ogni apparenza contraria, ha un suo significato, un senso misterioso ma reale. Certo, per poter usufruire pienamente della luce di questa Parola, occorre accettarla con fede; tuttavia, anche chi non crede può trovare nel Vangelo un aiuto per giungere a dare un senso alla sofferenza, anche se essa rimane un mistero. Ecco perché, ogni persona di buona volontà non può non sentirsi interpellata dal messaggio cristiano di redenzione dal dolore, dall'ingiustizia e dalla povertà. Lo ha riconosciuto recentemente un noto filosofo non credente, il prof. Salvatore Natoli: «Tutta la logica [evangelica] dell'attenzione agli ultimi, il tema di farsi carico degli altri, di debellare le povertà, di liberare l'umanità dalle dimensioni più tremende di dolore [...], il tema cristiano della redenzione come tale è interessante e anche chi non crede deve prenderlo in considerazione», poiché esso aiuta a trovare risposta a domande che tutti ci poniamo: «L'atrocità del male - che è un tema che attraversa tutte le religioni - può essere tollerata o è qualcosa di cui bisogna in qualche modo farsi carico? E, ancora, il male è un male indotto dalla cattiveria degli uomini o è un male naturale? Sono tutte domande che appellano a una redenzione a una salvezza e sulle quali il dialogo [tra credenti e non credenti] è necessario» (1).
Perciò, dovendo riflettere sul tema se la sofferenza sia un bene o un male per l'uomo, riteniamo che il modo migliore di affrontarlo sia integrare le risposte insufficienti della ragione umana con la luce che il Vangelo getta sul dramma del dolore e del male. È esattamente quanto ha fatto Giovanni Paolo II, dedicando una lettera apostolica all'argomento per mettere in luce il senso insieme soprannaturale e umano della sofferenza: «È soprannaturale - scrive il Papa -, perché si radica nel mistero divino della redenzione del mondo, ed è, altresì, profondamente umano, perché in esso l'uomo ritrova se stesso, la propria umanità, la propria dignità, la propria missione» (2).
Pertanto, grazie all'incontro tra la ragione e la fede è possibile giungere a comprendere in certa misura il senso della sofferenza; essa, cioè: 1) non è una fatalità; 2) non è un castigo; 3) ma viene dall'amore e porta all'amore.
1. Non è una fatalità
Esiste un proverbio popolare, molto diffuso: «Non cade foglia che Dio non voglia». E lo si applica ai casi più diversi: a un incidente stradale, a un incontro sbagliato, all'insorgere di un tumore o di un'altra malattia. Ma le cose non stanno così. Il male non è una fatalità, né una maledizione. È vero, c'è tutta una serie di eventi naturali «negativi» che non dipendono dalla libertà umana - terremoti, inondazioni, malattie, morti improvvise -, ma bisogna ammettere che in molti casi questi eventi negativi sono favoriti o causati dall'irresponsabilità degli uomini, i quali, anziché tutelare e rispettare la natura, la distruggono colpevolmente. La vita, in particolare quella umana, e il mondo sono certamente meravigliosi. Sono però realtà create. Ora, tutto ciò che è creato è finito, è limitato, non può essere perfezione assoluta. Questa esiste solo in Dio. Fin qui arriva la ragione umana. Dal canto suo, la fede conferma che Dio ha creato il mondo con amore infinito, ma il creato, proprio perché tale, non può essere che limitato e finito, sebbene sia destinato alla divinizzazione.
In realtà, la creazione è, per natura sua, incompiuta e si rinnova di giorno in giorno. L'uomo e la natura vivono in stato di parto, secondo l'efficace immagine di san Paolo. Anche i padri della Chiesa consideravano i «gemiti» della natura come i gemiti del parto, della vita nuova che nasce: il pianto degli animali, le sofferenze dell'umanità, i disastri naturali, le malattie e la morte... non sono una maledizione, ma il gemito della creazione che anela alla redenzione (cfr Rm 8, 19-23). Sono il segno che la creazione del mondo non è ancora terminata, ma tende al suo compimento; quando la creazione sarà completata, avremo «cieli nuovi e terra nuova», dove «la morte non ci sarà più. Non ci sarà più lutto, né pianto né dolore» (Ap 21, 1.4).
Pertanto, i mali fisici, le infermità, le malformazioni genetiche, le ingiustizie non sono segno che Dio è assente o lontano, ma manifestano l'incapacità delle creature, finché sono in cammino, di poter accogliere il dono totale di Dio che potranno ricevere invece al termine della storia. Il nostro mondo è ancora in costruzione, la creazione non è ancora ultimata e l'uomo è concreatore con Dio. Il mondo non ha ancora raggiunto la sua perfezione, né il fine a cui è stato destinato nel disegno salvifico di Dio. Passo passo, tra molte contraddizioni e prove, tra slanci e scoraggiamenti, l'umanità di secolo in secolo si avvicina al suo ultimo termine, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1Cor, 15, 28).
Di conseguenza, i limiti del creato, i cataclismi, le disgrazie segneranno sempre il cammino dell'umanità verso il Regno, perché il mondo, essendo una realtà finita e creata, non può, mentre è in itinere ricevere la pienezza di vita, che sarà il dono ultimo e completo che riceverà da Dio. In altre parole: gli avvenimenti negativi (il dolore, il male, la sofferenza) sono inevitabili nella storia dell'umanità, perché fanno parte della finitezza della creazione in cammino; essi però non sono il termine ultimo, non sono fine a se stessi, ma acquistano significato nella prospettiva della perfezione finale, a cui anche il creato è destinato: «Sappiamo infatti che quando si smonterà la tenda della nostra casa terrena, riceveremo da Dio un'abitazione, una casa non costruita da mani d'uomo, eterna, nei cieli» (2Cor 5,1). La Parola ci parla di una misteriosa ma reale trasformazione dell'universo. La risurrezione dà senso non solo alla vita umana, ma anche alla creazione.
In conclusione, dall'incontro tra la ragione e la fede possiamo comprendere che la sofferenza non è una fatalità, né una maledizione; è invece la condizione affinché la creatura, accettando i limiti della propria finitezza, li superi nella pienezza di vita in Dio a cui anela ed è destinata. Il dolore, cioè l'esperienza della propria finitezza, quindi non è che una tappa del cammino dell'umanità e del mondo verso la propria piena realizzazione, verso l'incontro trasfigurante con Dio creatore e Padre.
2. Non è un castigo
In secondo luogo, la sofferenza non è un castigo, come comunemente la gente pensa. Il Vangelo lo dice esplicitamente. Gesù, parlando un giorno delle persone schiacciate dalla torre di Siloe crollata durante i lavori, commentò così quel fatto doloroso: «quei 18, sopra i quali rovinò la torre di Siloe e li uccise, credete voi che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, vi dico» (Lc 13, 4s). E un'altra volta che i discepoli, riferendosi al cieco nato da lui guarito, gli chiesero: «Rabbi, chi ha peccato, lui o i suoi genitori perché egli nascesse cieco?» Gesù rispose: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio» (Gv 9, 2s.).
Tuttavia la prova decisiva che la sofferenza non è un castigo, viene dal fatto che Gesù, l'innocente, volendo essere in tutto come uno di noi, non ha rifiutato di sperimentare la sofferenza e la morte. Così facendo, ci ha insegnato che il male non è un castigo, ma è un passaggio necessario verso la vita in Dio che ci attende e che non finirà mai più, né sarà più soggetta al dolore e alla morte, quando «Dio sarà tutto in tutti». Anche le nostre sofferenze, come quelle della Passione e della Croce di Cristo, non sono fine a se stesse, ma acquistano il loro pieno significato nella luce della risurrezione.
Alla vigilia della Passione e morte di Cristo alcuni greci, pagani e non appartenenti al popolo eletto, salirono a Gerusalemme per le feste pasquali e chiesero all'apostolo Filippo: «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). Speravano di vederlo in piena forma, compiere quei grandi miracoli di cui avevano sentito parlare. Gesù fa rispondere che sì lo vedranno, non però glorioso ma turbato e sofferente, nel momento più drammatico della sua vita, quando egli stesso - pur essendo Dio - avrebbe mostrato tutti i limiti della natura umana che aveva voluto assumere per spiegarci il vero senso della sofferenza: «È giunta l'ora che sia glorificato il Figlio dell'Uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se in vece muore, produce molto frutto. [...] Ora l'anima mia è turbata » (Gv 12, 23 s).
Eppure, nonostante tutte le apparenze contrarie, «Dio non abbandona mai i suoi figli», come ha detto Giovanni Paolo II di fronte al dramma dello tsunami devastante dell'Oceano Indiano del 26 dicembre 2004. Dio non abbandona mai la creazione a se stessa, ma - per dire così - ne dirige il lavoro di completamento servendosi della responsabilità e dell'intelligenza dell'uomo. Essendo noi concreatori, siamo chiamati perciò a impegnarci con tutti i mezzi a nostra disposizione per prevenire e possibilmente evitare le catastrofi naturali, le malattie e le limitazioni della natura, anche se siamo coscienti che non riusciremo mai a vincerle tutte.
Ancora una volta, dall'incontro tra la ragione umana e la fede è possibile comprendere che la sofferenza non è un castigo: «Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza, una promessa di gioia - scrive Giovanni Paolo II -. Ciò vale per ogni sofferenza provocata dal male; vale anche per quell'enorme male sociale e politico che oggi divide e sconvolge il mondo: il male delle guerre, dell'oppressione degli individui e dei popoli; il male dell'ingiustizia sociale, della dignità umana calpestata, della discriminazione razziale e religiosa; il male della violenza, del terrorismo, della corsa alle armi - tutto questo male esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore che è dono di sé nel servizio generoso e disinteressato a chi è visitato dalla sofferenza» (3).
3. Viene dall'amore e porta all'amore
Se dunque la sofferenza non è una fatalità, né un castigo, perché allora Dio, che è onnipotente e buono, permette il dolore delle sue creature, dei suoi figli? È un'obiezione antica, formulata già nel III secolo d.C. dallo scrittore latino Lattanzio, che si rifaceva a Epicuro: «Se Dio vuole eliminare il male, ma non può farlo, vuol dire che non è onnipotente, il che è contraddittorio. Se può farlo, ma non lo vuole, è perché non ama gli esseri umani, il che è ugualmente contraddittorio. Se non può e non lo vuole, vuol dire che non ha né potenza né amore, e dunque non è Dio» (4). Che cosa rispondere?
Dall'incontro tra ragione e fede è possibile comprendere che solo il riferimento all'amore consente di andare al di là del mistero del dolore e di coglierne la forza redentrice. In realtà Dio non vuole il male. Gesù stesso, per manifestarsi come Redentore del mondo, ha compiuto numerose guarigioni da ogni sorta di infermità: «Cristo si è avvicinato incessantemente al mondo dell'umana sofferenza. "Passò facendo del bene" (Atti, 10,38), e questo suo operare riguardava, prima di tutto, i sofferenti e coloro che attendevano aiuto. Egli guariva gli ammalati, consolava gli afflitti, nutriva gli affamati, liberava gli uomini dalla sordità, dalla cecità, dalla lebbra, dal demonio e da diverse minorazioni fisiche, tre volte restituì ai morti la vita. Era sensibile a ogni umana sofferenza, sia a quella del corpo sia a quella dell'anima. E al tempo stesso ammaestrava, ponendo al centro del suo insegnamento le otto beatitudini, che sono indirizzate agli uomini provati da svariate sofferenze nella vita temporale» (5).
Si può dire che la sofferenza, insita nella condizione stessa di creatura, consente a Dio di manifestare il suo amore. Essendo amore infinito, combatte il male in tutte le sue forme, non solo in quella del male assoluto che è il peccato, ma anche in tutte le altre sue manifestazioni personali e ricadute sociali. «Non vi è male da cui Dio non possa trarre un bene più grande - scrive Giovanni Paolo II -. Non c'è sofferenza che egli non sappia trasformare in strada che conduce a lui» (6). Al punto che Dio chiama tutti noi a «vincere il male con il bene» (Rm 12,21) e ci giudicherà sull'impegno che avremo posto per alleviare le sofferenze dei fratelli, di tutti i sofferenti: i poveri, gli affamati, gli assetati, gli ignudi, i forestieri, i carcerati, gli ammalati (cfr Mt 25, 31-46). La fede, dunque, illuminando la ragione umana, ci aiuta a fare la scoperta incredibile che la sofferenza viene dall'amore e porta all'amore.
Viene dall'amore. Infatti, ogni persona è essenzialmente un «chiamato alla vita», dalla quale la sofferenza è inseparabile. Ora, la vita nessuno se la può dare da sé, ma è sempre ricevuta attraverso un atto d'amore. La vita è sempre un «dono». Ciò significa che ogni uomo (credente o non credente, non importa) è chiamato a fare la «stupefacente esperienza» di ricevere la vita come un dono gratuito di amore, un dono d'inestimabile valore, poiché è molto meglio vivere ed esistere con i limiti intrinseci propri di ogni creatura mortale, piuttosto che non esistere e semplicemente non essere. «La gratuità è presente nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione solo produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il dono, che ne esprime e attua la dimensione di trascendenza» (7). Non solo, quindi, la vita umana viene dall'amore, ma la persona umana si sviluppa grazie all'amore, in quanto essa è essenzialmente un essere-in-relazione e tende all'amore. La categoria della «relazione» ci porta a scoprire che «la creatura umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali. Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri e con Dio. [...] Ciò vale anche per i popoli» (8).
Quindi, l'amore non costituisce soltanto l'essenza dell'annuncio cristiano, ma è anche la risposta alle attese naturali della ragione e della coscienza di chiunque s'interroghi sul mistero della sofferenza. Tutti, in primo luogo i cristiani, sono chiamati anzitutto a capire essi stessi e poi ad aiutare il mondo a capire che il vero male è quello morale compiuto liberamente, e che tutte le altre forme di sofferenza sono un'occasione per sperimentare l'amore e imparare ad amare.
A questo punto si può dire che da quando Cristo è stato crocifisso la sofferenza umana si è venuta a trovare in una situazione nuova. Infatti, «nella Croce di Cristo non solo si è compiuta la redenzione mediante la sofferenza, ma anche la stessa sofferenza umana è stata redenta»; Cristo «nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane. L'uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato» (9). Viene da qui l'amore che i santi hanno sempre avuto per le prove e per le sofferenze.
Porta all'amore. Sul fatto che la sofferenza porti all'amore insiste molto Giovanni Paolo II nella lettera apostolica Salvifici doloris, commentando la parabola del Buon Samaritano (Lc 10, 30-37). «Seguendo la parabola evangelica - scrive il Papa - si potrebbe dire che la sofferenza, presente sotto tante forme diverse nel nostro mondo umano, vi sia presente anche per sprigionare nell'uomo l'amore, proprio quel dono disinteressato del proprio "io" in favore degli altri uomini, degli uomini sofferenti. Il mondo dell'umana sofferenza invoca, per così dire, senza sosta un altro mondo: quello dell'amore umano; e quell'amore disinteressato, che si desta nel suo cuore e nelle sue opere, l'uomo lo deve in certo senso alla sofferenza. [...] La parabola in sé esprime una verità profondamente cristiana, ma insieme quanto mai universalmente umana. Non senza ragione anche nel linguaggio comune viene chiamata opera "da buon samaritano" ogni attività in favore degli uomini sofferenti e bisognosi di aiuto» (10).
Quindi Papa Wojtyla riassume il messaggio della parabola in questi termini: «l'uomo deve sentirsi come chiamato in prima persona a testimoniare l'amore nella sofferenza. Le istituzioni sono molto importanti e indispensabili; tuttavia nessuna istituzione può da sola sostituire il cuore umano, la compassione umana, l'amore umano, l'iniziativa umana, quando si tratti di farsi incontro alla sofferenza dell'altro. Questo si riferisce alle sofferenze fisiche, ma vale ancora di più se si tratta delle molteplici sofferenze morali, e quando, prima di tutto, a soffrire è l'anima» (11).
Perciò, terminando, non può mancare una parola di riconoscenza e di gratitudine soprattutto per quegli istituti di vita consacrata che s'impegnano «da buon samaritano» al servizio dei sofferenti, nei quali vedono il volto di Cristo, sposo divino.
Bartolomeo Sorge S.J. *
Note
1) NATOLI S., «Dio? È un dilemma di tutti», in Jesus n. 2 (febbraio 2011) 95 s.
2) GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Salvifici doloris (1984), n. 31.
3) GIOVANNI PAOLO II, Memoria e identità, Rizzoli, Milano 2005, 199 s.
4) Cit. da VITALINI S., «Dio soffre con noi?», in Parola e parole, n. 5 (marzo 2008), 14.
5) GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Salvifici doloris, n. 16.
6) Ivi, 198.
7) BENEDETTO XVI, enciclica Caritas in veritate (2009), n. 34.
8) Ivi, n. 53.
9) GIOVANNI PAOLO II, lettera apostolica Salvifici doloris, n. 20.
10) Ivi, n. 29.
11) Ibidem.
* Direttore della rivista Aggiornamenti Sociali
(in Vita consacrata in Lombardia, anno XXVI, n. 86, febbraio 2012, pp. 55-64)