Raoul Follereau, poco prima di morire, ha lasciato ai giovani, a mo' di testamento, questa consegna, o meglio questo messaggio: «La più grande disgrazia che possa capitarvi è di non essere utili ad alcuno e che la vostra vita non serva a nulla».
Linguaggio estremamente semplice; però, dice una cosa altrettanto importante. La cosa essenziale a questo mondo è di essere utili, non nel senso dell'utilitarismo, ma nel senso di spendere bene la propria vita. Queste parole di Raoul Follereau, che agli altri ha consacrato tutta la sua esistenza, assumono un valore particolare anche perché sono esattamente il rovescio di una certa logica che prevale nel mondo. La logica del mondo si potrebbe sintetizzare nel principio: uno è tanto più fortunato quanto più riesce a dominare la vita. Il Vangelo dice: uno è tanto più fortunato e tanto più felice quanto più riesce a servire e ad essere utile agli altri.
1. La "chiamata"
Prendiamo le mosse da un testo di Marco: «Gesù salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da Lui. Ne costituì Dodici - che chiamò apostoli -, perché stessero con Lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni» (Mc 3,13-14).
«Chiamò a sé quelli che voleva». Qui appare subito il punto capitale del tema della vocazione: Dio chiama.
Vocazione viene dal termine latino "vocare" che vuol dire chiamare. Dio chiama ciascuno per nome, come dice molto bene la parabola del Buon Pastore (cf. Gv 10). Chiama ciascuno per nome perché ha un progetto personale su ciascuno. Non siamo venuti al mondo per caso. Siamo frutto di un suo preciso disegno. E quello che più è strabiliante è che questo disegno è radicato nell' eternità. Da sempre Dio pensa ad ognuno di noi. Posso dire: da sempre Dio pensa a me. Nel Prologo della Lettera agli Efesini si legge: Il mondo non c'era ancora, io non c'ero ancora, c'era solo Dio che, con tenerezza infinita, già mi avvolgeva, pensava a me e mi pensava secondo un preciso progetto.
Alla base della chiamata divina c'è questo progetto che Dio ha su ciascuno e che non rimane al di sopra delle nuvole, soltanto nella sua mente, ma viene inscritto profondamente nell'essere di ciascun uomo, e poi viene indicato con più chiarezza nella storia di ogni uomo, per cui il cuore di ciascuno e la sua storia personale sono il libro che occorre leggere per individuare il progetto di Dio. Chi fa il discernimento degli spiriti è lì che deve leggere.
Analizzando questo testo di Marco, appare innanzi tutto che la vocazione è un atto sovrano del Signore. Gesù non fa che concretizzare nel tempo quello che Dio aveva pensato da sempre. Chiamò a sé quelli che voleva, non quelli che lo meritavano; non quelli che erano più adatti al compito, ma quelli che Egli voleva. Si direbbe quasi un "divino capriccio". Non sarebbe il termine esatto, ma lo utilizziamo per far capire che si tratta della volontà imperscrutabile di Dio, radicata nell' amore, di un atto sovrano senza un perché.
Perché ha assegnato a me questa vocazione? Dio risponderebbe che così è piaciuto a Lui e basta; come fanno i bambini quando si pongono loro certe domande a cui non vogliono rispondere. «Perché sì», perché così mi è piaciuto.
E proprio questa chiamata ad essere costitutiva della missione dei Dodici. E questo vale anche per noi. Non c'è alla base qualche titolo particolare per essere chiamati; lo si vede chiaramente nella storia delle vocazioni.
Del resto questo è un principio formulato con chiarezza nel Libro del Pentateuco, che poi ha finito per dare il suo colore teologico al Deuteronomio: Dio ha scelto Israele per fare di esso «il suo popolo particolare fra tutti i popoli che sono sulla terra» (Dt 7,6 ), anche se era un popolo di «dura cervice» (Dt 9,6.13). San Paolo si riallaccia a questo stile di Dio quando dice che «quello che è stolto per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i sapienti; quello che è debole per il mondo, Dio lo ha scelto per confondere i forti» (1Cor 1,27). Ciò che non è, ciò che non ha, ciò che non conta, proprio perché appaia con chiarezza che, ad un certo momento, quando il chiamato realizza il progetto di Dio, non realizza un suo progetto, e non lo realizza con le sue forze, ma semplicemente è Dio che compie le meraviglie dell'uomo.
Per questo, alla base delle scelte di Dio, non c'è nulla dell'uomo. Non credo di portare avanti un'idea personale quando affermo questo: c'è solo quello, nella natura dell'uomo, che ci ha messo Lui perché pensava già che quello doveva essere il progetto. Quello sì, quello c'é. Prima c'è stato il progetto, poi di conseguenza, Dio ha messo in quel determinato uomo ciò che occorre per realizzare il progetto; non che ciò ci fosse prima del progetto. Alla base della scelta c'era il nulla, semplicemente. Quindi, ogni orgoglio deve calare le vele, ogni creatura abbassarsi. Qualunque cosa tu faccia, qualunque cosa tu sia capace di realizzare, tu non c'entri niente. È opera di Dio, tu sei un servo inutile.
2. La chiamata è personale
È come se davanti a una folla Gesù, in un certo momento, puntasse l'indice verso qualcuno e dicesse: «Tu, proprio tu!». Citavo già l'immagine del Buon Pastore che chiama per nome. Questo chiamare per nome ha un' enorme importanza nella Bibbia. Dio chiama sempre per nome, cominciando da Abramo, che di certo non se lo aspettava: «Abramo, Abramo». E poi: «Samuele, Samuele»; «Simone, figlio di Giona». E così via, per tutti. Quel chiamare per nome, nella Bibbia, è chiaramente l'indicazione di un rapporto personale che Dio instaura con il chiamato. Non siamo nell'anonimato. Si è interpellati personalmente.
«Tu, proprio tu; questo lo voglio da te». Perciò, non si può rimanere spettatori. Davanti alla chiamata di Dio, si è messi con le spalle al muro, si è coinvolti profondamente, direttamente. O si dice "sì" o si dice "no". Non si può dire "ni"; non esiste la neutralità davanti alla chiamata di Dio.
«Chiamò a sé quelli che volle». E li ha chiamati ad uno ad uno. Di seguito, nel testo evangelico, ci sono i nomi di quelli che sono stati chiamati. «Ed essi andarono da Lui». E evidente che, andando da Lui, hanno cambiato vita. Non è che gli Apostoli abbiano prima deciso di cambiare vita e si siano poi messi al seguito di Gesù, ma al contrario. Prima hanno scoperto Gesù, sono stati attratti dal suo fascino irresistibile, e poi, come conseguenza, si sono staccati dalla vita precedente. La conversione - e ogni vocazione, alla base, è sempre una conversione - è sempre il frutto della scoperta del Signore. Concretamente, si rinasce ad un nuovo modo di vivere che Marco ha sintetizzato nelle parole: «Stare con Gesù».
Questa è la piattaforma comune di ogni vocazione. Il cristiano è l'uomo che deve stare con il Signore Gesù. Deve realizzare una vita a due. Deve fare del Signore Gesù la sua ragione di vita. Qui, forse, per capire bene la bellezza di questo «stare con Gesù» potremmo rievocare un racconto di vocazione che è un po' più particolareggiato.
Nella seconda parte del I capitolo di Giovanni, c'è il racconto della vocazione di Giovanni evangelista, del suo primo incontro con Gesù. Si tratta di un momento indimenticabile che Giovanni ha raccolto con tono quasi trasognato, e di cui ricorda l'ora precisa: erano le quattro del pomeriggio. Di certi momenti non si dimentica niente.
Come sono andate le cose per Giovanni? Si trovava con un altro, Andrea, sulle rive del Mar Morto ad ascoltare la predicazione dell'altro Giovanni, il Battista. Mentre lo ascoltavano, appare qualcuno. Il Battista interrompe la predicazione, punta l'indice verso Gesù e dice: «Ecco l'Agnello di Dio!» (Gv 1,36). È difficile, per noi, valutare la forza di quell' annuncio. È qualcosa di sconvolgente. "Agnello di Dio" non è una parola qualunque. È un' espressione biblica gravida di un significato messianico che aveva acquistato attraverso tutta la storia sacra. Gesù è dunque indicato come il Messia. E il primo spontaneo movimento di Giovanni e di Andrea, è quello di lasciare il Battista. Se l'Agnello di Dio non è il Battista, allora bisogna andare dietro a Gesù che il Battista ha indicato come tale. Gesù sente quei passi dietro di Lui e improvvisamente si volta e dice: «"Che cosa cercate?" Gli risposero: "Rabbì (...), dove dimori?". Disse loro: "Venite e vedrete"» (Gv 1,38-39a). Come dire: noi non cerchiamo una cosa, cerchiamo qualcuno, qualcuno che dia il senso alla nostra vita. «Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui...» (Gv 1,39b).
Da quel primo incontro, che ha riempito il cuore dei due discepoli di gioia e di stupore, Gesù li ha lanciati immediatamente alla conquista di altre chiamate. Subito ne trovano altri: Pietro, Natanaele, e poi tutti gli altri. La chiamata si allarga a cerchi. Da quel primo incontro con Gesù è nata, poi, l'esigenza di stare con Lui costantemente. Di qui il taglio netto con la vita precedente e il desiderio di andare a stare con Gesù. L'apostolo è uno che sta con Gesù, Essenzialmente. E la definizione che danno di se stessi, poi: «Noi che abbiamo mangiato e bevuto con Lui» (At 10,41).
Innanzitutto, l'espressione "mangiare e bere" vuol dire "vivere insieme"; poi, come conseguenza, significa anche che sono stati testimoni della sua resurrezione. Essenzialmente, l'apostolo è uno che è stato con Gesù. E questa è la piattaforma comune di tutte le vocazioni della Chiesa: secolari, monastiche, sacerdotali, religiose. Questa è la piattaforma battesimale. Il cristiano è uno che sta con Gesù e ci sta anche quando ciò esige il sacrificio della vita. Il martire è più attaccato a Gesù che alla sua vita, tanto è vero che, piuttosto che separarsi da Cristo, si separa dalla vita.
Stare con Gesù, perché? Per diventare come Lui, per imitare la sua vita, per condividere la sua missione. «Imparate da me», ha detto Gesù. Il chiamato deve prendere Gesù come modello e deve sforzarsi, contemplando lo con amore, di riprodurre in sé i suoi lineamenti. È una cosa faticosa. I Dodici hanno faticato molto; dopo tre anni erano ancora molto lontani dal realizzare questa imitazione e ci voleva la venuta dello Spirito Santo. Sembra che la pedagogia di Gesù si sia rivelata un mezzo fallimento; l'intervento dello Spirito, comunque, è stato poi determinante. Pare, qui, che la chiamata è essenzialmente chiamata ad imitare Cristo, unico modello. Imitarlo in un modo personale, in un modo per certi aspetti irripetibile, perché ognuno di noi lo imita secondo una vocazione personale.
Il progetto di Dio è estremamente personale. Anche se si va in un monastero, dove vige per tutti la stessa regola, lo stesso progetto comune di vita, la vocazione rimane un fatto personale. Dio fa gli uomini e, poi, getta via lo stampo. Come dire che non c'è stato mai un uomo uguale ad un altro, non c'è stato mai un progetto di Dio su un uomo esattamente uguale a quello di un altro. Guardate come sono diversi i santi! E proprio questa varietà, questa santità differenziata, che realizza la ricchezza della Chiesa. La magnificenza di Dio è riposta nella pluralità. Un unico modello riprodotto secondo sfaccettature diverse. Imitare Gesù è una premessa importantissima, la premessa di ogni cosa per realizzare il divino progetto.
3. Si è chiamati per servire
Ma non si tratta solo di realizzare se stessi imitando Gesù, si tratta di partecipare alla sua missione. Ecco la vocazione: un dono ma, nello stesso tempo, un impegno, una responsabilità. È sempre così. Nel progetto di Dio, il dono è sempre responsabilità. La vocazione assegna un compito nella comunità. Non siamo al mondo solamente per noi, ed è qui che si inserisce quella frase di Follereau che ho citato all'inizio. La prima fondamentale scelta, che un uomo possa fare per realizzare la sua esistenza, è quella di vivere per gli altri. Chi non fa questa scelta ha già sbagliato in radice la sua esistenza.
Qualunque cosa, poi, egli riesca a realizzare, in realtà non realizzerà mai se stesso perché, al di fuori di un rapporto che si metta sulla linea del servizio, la persona umana non si può realizzare. Questo è un dato della psicologia. Solo nel rapporto con l'altro, con gli altri, l'uomo si realizza. Dunque, soltanto vivendo per gli altri e, nella fatti specie, per la Chiesa, ognuno realizza concretamente la sua vocazione personale, perché ogni vocazione ci chiama a lavorare per la costituzione del Regno di Dio nella Chiesa, dove tutti indistintamente siamo coinvolti nell' opera della salvezza. Proprio perché siamo tutti Chiesa, prendiamo tutti parte alla sua missione. Questo è detto con chiarezza in un altro testo di Marco: «Lo pregava di permettergli di stare con Lui. Non glielo permise, ma gli disse: "Va' nel la tua casa, dai tuoi, e annuncia loro ciò che il Signore ti ha fatto"» (Mc 5,18-19).
«Va' e annuncia». E anche a quelli ai quali aveva permesso di stare con Lui, al momento di congedarsi da loro, ha detto: «Andate e predicate», cioè annunciate. Siccome non hanno avuto la forza di farlo, si sono rinchiusi nel Cenacolo, forse dando parecchi giri di chiave alle porte. Allora interviene lo Spirito Santo che le spalanca e li lancia per le strade del mondo. Non c'è vocazione che non comporti automaticamente una missione personale.
Mi direte: e la vocazione eremitica? Ma credete voi che l'eremita possa vivere solo per sé? L'eremita vive una vocazione contemplativa di lavoro, di penitenza, di contemplazione per la Chiesa e nella Chiesa. Se non la vive così, non è eremita. Non è un caso che un eremita, poi divenuto dottore della Chiesa, come era san Pier Damiani, in uno stupendo libretto intitolato Dominus vobiscum, racconti il seguente episodio. Quand'era già cardinale, gli fu mandato a dire: «Noi che diciamo la Messa da soli, dobbiamo dire: Dominus vobiscum? A chi lo diciamo se siamo soli?». La risposta sostanziale del libro di san Pier Damiani è che bisognava in ogni caso dire anche quelle parole perché non è vero che non c'è nessuno intorno a quell'altare solitario. Al contrario, c'è tutta la Chiesa, quella Chiesa che è una nella molteplicità dei membri, com' è anche molteplice e ricca nella sua unità. Tutti siamo chiamati a una missione; però, questa missione è molteplice. Sono tutti ministeri della Chiesa.
Il moltiplicarsi degli Istituti e dei movimenti, se per certi aspetti pone vari problemi, perché non sempre c'è piena osmosi tra di essi, è però indubbiamente un segno di vitalità, è un segno estremamente positivo per la Chiesa di oggi, un segno di ricchezza, e sarebbe certamente sbagliato pretendere l'uniformità, o infastidirsi di questa varietà che lo Spirito crea nella Chiesa. «Non spegnete lo Spirito» (1 Ts 5,19), ammoniva san Paolo. Il primo compito di chi ha discernimento nella Chiesa è quello di rispettare ciò che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa stessa, poi c'è il lavoro di discernimento per autenticare i carismi. Ma la prima attitudine è quella del rispetto, dell' apprezzamento. Sappiamo quanti sono i compiti della Chiesa: Vescovi, sacerdoti, diaconi, catechisti.
Io mi sono chiesto se non sarà ben presto il caso di pensare ad altri tipi di ministeri non ancora istituiti, ma che sono urgenti nella Chiesa. Il ministero della carità, ad esempio, che è così importante, non potrebbe essere affidato dalla Chiesa ad alcune persone, magari in un momento solenne della liturgia, come il Giovedì santo, e dal Vescovo stesso? Che cosa c'è di più importante della carità nella Chiesa? È vero, dobbiamo esercitarla tutti; ma anche la catechesi dobbiamo farla tutti, e questo non esclude che si affidi ad alcuni in particolare il ministero della catechesi.
Tutti questi compiti sono ministeri e carismi nello stesso tempo. Le due parole si avvicinano sensibilmente, non sono due cose diverse. Non è che i ministeri sono una cosa e i carismi sono un'altra. Karl Rahner, per esempio, affermava che «ogni dono gerarchico è carismatico». Non ogni carisma è gerarchico, ben inteso; è chiaro che la gerarchia è un carisma nella Chiesa ed è un ministero nello stesso tempo. Si usano due parole per esprimere due angolazioni diverse della stessa realtà. Dicendo che è carisma, diciamo che è un dono dello Spirito Santo; dicendo che è un ministero, diciamo che ci mette in atteggiamento di servizio, che siamo per gli altri: è un carisma ad alios. Questa frase scolastica esprime il fatto che si tratta di un carisma, cioè di un dono, che però ci mette al servizio degli altri.
Potremmo definire questi ministeri o carismi "mansioni" che i cristiani sono chiamati a svolgere in virtù della loro appartenenza alla Chiesa e sotto l'autorità della gerarchia, appunto perché deve crearsi tra i vari ministeri una convergenza. A questo riguardo, mi pare molto significativa la parabola dei talenti. Gesù esige che i talenti siano moltiplicati, raddoppiati, e rimprovera, anzi condanna, colui che restituisce il talento dopo averlo seppellito. Il dono di Dio, già scritto nella natura e poi potenziato dall' azione che l'assegna ad un determinato ministero, impegna proprio a moltiplicare il dono stesso attraverso il nostro impegno.
4. Inviati nel mondo, pur non essendo del mondo
Mi accontento qui di indicare la frase evangelica che sinteticamente, ma in modo inarrivabile, indica lo stile della presenza dei cristiani nel mondo: «Sono nel mondo, ma non sono del mondo». I monaci, nell'antichità, avevano un linguaggio che oggi non ci è più tanto gradito; parlavano di fuga mundi e di despectus mundi. Quante polemiche hanno sollevato recentemente queste espressioni: la fuga dal mondo e il disprezzo del mondo. In verità, non è che i monaci disprezzassero il mondo: basta infatti conoscere meglio la letteratura monastica e si sa che tutte le cose belle che ci sono nel mondo anche i monaci le apprezzavano. Un san Bernardo, ad esempio, era un innamorato di tutti i valori autentici che ci sono nel mondo; quei valori indicati dalla Gaudiun et Spes. Ma vi erano senza dubbio anche valide ragioni per guardare al mondo con occhi disincantati. I cristiani, infatti, non devono mettersi in ginocchio davanti al mondo, altrimenti si rischia di scambiare il dialogo col mondo con la conformazione ai costumi del mondo.
La presenza nel mondo è un elemento tipico della missione della Chiesa. La Chiesa non è fuori del mondo. È nel mondo perché Cristo si è incarnato nel mondo e la Chiesa è il prolungamento di Cristo. Occorre che il Vangelo sia reso presente come fermento nella massa.
Lo stesso Gesù, che si è incarnato e ha preso su di sé tutto il destino dell'uomo rendendosi totalmente solidale con noi e facendo dell'incarnazione lo stile della sua Chiesa, lo stesso Gesù nell'ultima sua preghiera, nel suo testamento, dice che i credenti in Lui «non sono del mondo» (Gv 5,19), e che Egli non prega per il mondo (cf. Gv 17,9). Ovviamente, il mondo, nel Vangelo di Giovanni, non indica il mondo reale, così come è, ma un certo modo di impostare la vita che, in realtà, è agli antipodi del modo con cui l'imposta Gesù; e diciamo che il mondo reale così com' è, in gran parte, purtroppo, si identifica col senso che Giovanni dà alla parola mondo.
Questa tensione è essenziale alla vita della Chiesa: essere nel mondo presente portando il Vangelo in tutte le realtà della vita. La Chiesa non è un ghetto, non è una roccaforte che si difende come le cittadelle medievali. Ha dato questa impressione in certe epoche storiche, ma non è lo stile della Chiesa del Concilio e, in fondo, gli Istituti secolari già da tempo avevano adottato ad litteram questo stile della Chiesa post-conciliare. Ma la stessa Chiesa deve stare attenta a non mondanizzarsi. Bisogna essere presenti nel mondo, in tutte le diverse professioni, e utilizzare gli elementi concreti di cui il mondo dispone, ma portandovi lo spirito delle Beatitudini, andando verso gli altri in nome di Nostro Signore Gesù Cristo, sentendo sempre questa tensione: di essere con loro, di essere per loro, ma di non essere come loro. E questo non è facile perché, finché si rimane estranei si può conservare la differenza, ma quando si è presenti, completamente immersi nei diversi ambienti del mondo, conservare la propria identità non è facile e i rischi di contaminazione sono sempre in agguato.
5. Alcune linee di forza
Innanzitutto, benché sia difficile, non bisogna dimenticare che quando Dio ci assegna una vocazione, e dunque una missione, non ci lascia mai soli in questo compito. La reazione spontanea dei chiamati è sempre quella di fare obiezioni. C'è una specie di cliché. Rievochiamone qualcuno dal testo biblico: Mosè replica a Dio che lo chiama: «Perdona, Signore, io non sono un buon parlatore; non lo sono stato né ieri né ieri l'altro, e neppure da quando tu hai cominciato a parlare al tuo servo, ma sono impacciato di bocca e di lingua» (Es 4,10). E il profeta Geremia: «Ahimé, Signore Dio! Ecco, io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). E il profeta Amos: «Non ero profeta né figlio di profeta; ero un mandriano e coltivavo piante di sicomòro. Il Signore mi prese, mi chiamò mentre seguivo il gregge» (Am 7,14b-15). L'obiezione è costante. Qual è la risposta che Dio dà a questa obiezione? Molto semplice: «lo sono con te». È la risposta invariabile che tappa la bocca a tutte le obiezioni: «Non ti lascerò solo, sarò con te». Dio è con noi e con il suo spirito ci dona tutte le forze necessarie per realizzare il suo progetto. Diciamolo chiaro: questo progetto non è commisurato alle nostre povere forze umane, è proporzionato alla grazia di Dio, quella grazia che è senza limiti.
Occorre tener conto del carattere dinamico della vocazione. Essa è sempre una risposta dell'uomo al Signore che, nel tempo, continua a chiamare presentando esigenze sempre nuove. Non è mai un problema chiuso. Anche se conosce momenti decisivi e irreversibili, essa si costruisce giorno dopo giorno.
Nel linguaggio corrente si usano certe espressioni un po' ridicole, del tipo: «Quel ragazzo ha la vocazione!». La vocazione non è una cosa che si ha, come un oggetto che si porta in tasca; è una cosa che si vive. Proprio perché la si vive, è dinamica. È una realtà che deve crescere ogni giorno, non è mai un problema risolto una volta per tutte. Non è come schiacciare un interruttore e si accende la luce, e una volta accesa rimane accesa. Non è così. Se fosse così, saremmo tutti santi.
Se bastasse aver detto un "sì" nella vita per aver risolto il problema della vocazione, la Chiesa sarebbe una realtà ben diversa da quella che è. Il guaio è che gridare un "sì" in un certo momento della vita è relativamente facile; ripeterlo tutti i giorni è difficile. Eppure bisogna dirlo tutti i giorni questo sì se vogliamo realizzare la nostra vocazione perché, nel momento in cui non lo si dice più, è finita. In altri termini, l'elemento chiave della risposta vocazionale è la fedeltà. Non la generosità. Fedeltà e generosità si possono associare bene, ma se si dovesse scegliere tra le due, io sceglierei la fedeltà.
La vita riserba sempre: nuove sorprese. Dio continua a parlare e fa sempre proposte nuove. Le fa non solo attraverso il Vangelo che, in certi momenti, ci illumina, ci fa capire, ci presenta esigenze mai scoperte prima di allora, anche se magari abbiamo letto mille volte quella frase, ma anche perché gli avvenimenti della vita costituiscono un continuo appello del Signore e, se non si sa rispondere "sì", ad un certo momento il "sì" detto all'inizio diventa un "no" o un "ni".
È interessante al riguardo la pagina evangelica nella quale Pietro, dopo aver confessato che Gesù è il Cristo, si sente dire da lui: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona» (Mt 16,17). Quando, però, subito dopo, rimprovera Gesù che aveva predetto la sua morte di croce, si sente dire: «Va' dietro a me, Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!» (Mt16,23). Come fa presto il "sì" a diventare "no".
Il problema della sequela di Gesù non è mai risolto del tutto. Non è un problema risolto neanche per chi ha servito il Signore per questa strada durante 20-30 o 40 anni. Si è sempre da capo. Perciò anche la Giornata delle Vocazioni non riguarda solo i giovani; è la giornata per tutti perché il problema delle vocazioni, anche per ciascuno di noi, non è mai risolto del tutto.
Mons. Mariano Magrassi *
* Già Arcivescovo emerito di Bari-Bitonto.
Riflessione tratta da un incontro di preghiera tenuto a Bari negli anni '80. Testo non rivisto dall' Autore.