Ci si volge alla religione – alle sicurezze offerte dal rito e dalla religione – per evitare l’incontro con Dio nel povero. Un incontro disorientante poiché noi incontriamo soltanto persone. Persone che vorremmo tenere lontane, con i loro odori, i loro problemi, la loro mancanza di cultura… Incontriamo soltanto l’uomo – non l’astratto universale dei greci, ma l’uomo e la donna nella loro contingenza, nella loro carnalità ed individualità. Eppure, si tratta dell’incontro maggiormente religioso che possiamo sperimentare. In questa assoluta, apparente, mancanza di riferimenti rituali.
Non dobbiamo ricoprire le nostre azioni ed i nostri gesti di ulteriori significati religiosi. Dobbiamo cogliere l’areligiosità della nostra prassi fino in fondo. Perché una prassi che si vuole ricoprire di contenuti religiosi ha già ricevuto la sua ricompensa (cfr. Mt 6,1). Mentre è nel contesto non religioso del nostro agire che si svela la radicalità evangelica del quando mai, Signore? (Mt 25, 44). Una radicalità che non riusciamo ad accettare, con la sua dirompente corrosività delle nostre sicurezze rituali. Una radicalità evangelica sine glossa, che non sceglie l’ermeneutica esegetica, ma accetta l’inattualità e le incongruenze di una narrazione che ci interpella senza margini di scarto, fino al midollo delle nostre ossa.
Vogliamo mettere quanto sia più edificante la lettura di un testo di un padre della Chiesa, di un autore spirituale che va per la maggiore o di un buon teologo… Tutto ciò ci rende, forse, più saggi e virtuosi. E ci ricostruisce nella convinzione di essere a posto con Dio. Di compiere sufficienti opere buone. Ma… ci rende più evangelici?
Battista Campo