Evangelii Gaudium, nn. 176-216
Il capitolo IV della EG affronta il tema della “dimensione sociale dell’evangelizzazione” e lo fa partendo da un interrogativo, che, a sua volta, dovrebbe interpellare ogni credente, che si senta coinvolto nella missione di “annunziare il Vangelo”. Papa Francesco si chiede se sia possibile annunziare il Vangelo e non provocare nessun cambiamento sociale, tenendo conto che “il kerygma possiede ineludibilmente un contenuto sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita comunitaria e l’impegno con gli altri” (EG 177). Per lui la risposta è chiaramente “No”, perché l’accoglienza del Vangelo non si limita ad una semplice relazione personale con Dio, ma coinvolge tutta la vita relazionale del credente.
Il Vangelo, che è Gesù Cristo, il Crocifisso e il Risorto-datore di vita, non ci parla soltanto della gratuità di amore, con cui siamo guardati personalmente da Dio, ma ci parla anche del Regno di Dio, della volontà del Padre di condurre l’umanità, in quanto immagine di Dio, ad essere partecipe della stessa vita di Dio, che è vita Trinitaria, vita di dono reciproco e di piena comunione tra i Tre. Abbracciare il Vangelo significa lasciarsi coinvolgere in questo progetto del Regno, che parla di convivialità delle differenze, ma soprattutto di fraternità e di giustizia: “il progetto di Gesù è instaurare il Regno del Padre suo”(EG 180).
1. Il farsi povero di Dio come stile della sua regalità
Siamo abituati a sottolineare e glorificare la “onnipotenza di Dio”, ma dimentichiamo di unirla strettamente alla sua “misericordia”. Si può ben dire che Egli è “onnipotente nella misericordia”, nella sua capacità di “fare spazio”, di “portare nel grembo”, di “dare vita”. Si tratta, in effetti, di una serie di azioni, che ci rinviano in modo particolare alla virtù della povertà, perché non si può fare spazio senza un movimento di impoverimento e di svuotamento di sé.
Innamorato della sua creatura, Dio non solo rivolge il suo sguardo sul povero, ma ama farsi povero, solidarizzando con i poveri e camminando con essi. Scrive papa Francesco nella sua esortazione: “E’ sufficiente scorrere le Scritture per scoprire come il Padre buono desidera ascoltare il grido dei poveri: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto ed ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso a liberarlo (…) Perciò va’ Io ti mando» (Es 3,7-10) e si mostra sollecito verso le sue necessità” (EG 187).
Nell’incarnazione, passione, morte e resurrezione del Figlio Dio Padre mostra chiaramente fin dove si spinge la sua attenzione per tutti coloro che sono oppressi, curvati o, semplicemente, perduti. Scrivendo alla comunità di Corinto Paolo invita tutti a riconoscere la gratuità di amore del “Signore nostro Gesù Cristo, che da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Riprendendo questa affermazione di Paolo, papa Francesco può ben dire: “Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso «si fece povero».(…) Il Salvatore è nato in un presepe, tra gli animali, come accadeva per i figli dei più poveri; è stato presentato al Tempio con due piccioni, l’offerta di coloro che non potevano permettersi di pagare un agnello; è cresciuto in una casa di semplici lavoratori ed ha lavorato con le sue mani per guadagnarsi il pane” (EG 197).
Nel messaggio di quaresima di quest’anno 2014 il papa ha preso spunto sempre dalla frase di Paolo, che parla del farsi povero di Dio in Gesù, per chiedersi cosa possano significare per noi queste parole: “Anzitutto ci dicono quale è lo stile di Dio: Dio non si rivela con i mezzi della potenza e della ricchezza del mondo, ma con quelli della debolezza e della povertà. (…) E’ un grande mistero l’incarnazione di Dio! Ma la ragione di tutto questo è l’amore divino, un amore che è grazia, generosità, desiderio di prossimità e non esita a donarsi e sacrificarsi per le creature amate. (…) L’amore rende simili, crea uguaglianza, abbatte i muri e le distanze. E Dio ha fatto tutto questo con noi”.
In realtà tra amore e povertà c’è un rapporto strettissimo, per cui si può affermare che con il crescere della capacità di amare si verifica un progressivo svuotamento di sé, perciò Paolo può dire nella lettera ai Filippesi che “Cristo Gesù non ritenne un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini” (Fil 2,6-7).
2. “Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri” (EG 198)
Se lo stile di Dio è quello di un amore solidale, che accetta di impoverirsi per dare dignità alla creatura amata, non diverso dovrebbe essere quello della Chiesa, chiamata ad essere in mezzo ai popoli testimone fedele di questo curvarsi di Dio su ogni persona, che subisce l’oppressione e la riduzione in schiavitù o a semplice scarto umano.
Questo impegno di testimonianza chiede alla Chiesa una coraggiosa conversione verso Dio e verso quel Vangelo, che è Gesù stesso, il Crocifisso-Risorto e vivente in mezzo ai suoi. Si tratta, cioè, di fare propri “i sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), perché alla Chiesa non si addicono altri stili, che non siano quelli del suo Signore. La costituzione dogmatica sulla Chiesa del Vat.II così si esprime in proposito: «Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo, sussistendo nella natura di Dio … spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo e per noi da ricco che Egli era si fece povero: così anche la Chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione. Come Cristo, infatti, è stato inviato dal Padre a dare la buona novella ai poveri (…) così pure la Chiesa circonda d’affettuosa cura quanti sono afflitti dalla umana debolezza, anzi riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore, povero e sofferente” (LG 8).
La Chiesa, cioè, è chiamata a scegliere per sé la povertà non tanto per ragioni sociologiche, ma per testimoniare in verità l’agire del proprio Signore. In questo senso, si può ben dire, che la povertà ha una valenza squisitamente teologica, perché Dio ama manifestarsi nella storia degli uomini come Colui che vince le durezze del cuore umano facendo leva sul dinamismo creativo dell’amore. Teresa di Lisieux contemplando l’amore di Dio, reso manifesto nel volto crocifisso di Gesù di Nazareth, si sentiva totalmente attratta da questo strano modo dell’agire di Dio in questo mondo, per cui ella concludeva che “l’amore ama abbassarsi”.
Una Chiesa che si lascia dinamizzare dall’amore gratuito di Dio imparerà a camminare nella storia, cercando di essere una presenza che non sia gloriosa o imperiosa, bramosa di potere e di privilegi. Una Chiesa povera, che non ha niente di suo da difendere, potrà essere talmente libera da poter testimoniare il Vangelo e solo il Vangelo, in faccia ad ogni uomo, a tutte le genti ed ai loro capi. Una Chiesa povera potrà scoprire il valore della diaconia, come servizio umile e gratuito, prestato da chi sa di essere sempre il più piccolo e servo di tutti, di non potersi vantare di nulla se non della croce di Gesù Cristo e di essere inviata soprattutto per i piccoli e gli umili, ai quali si dona totalmente, senza poter sperare nulla in contraccambio, soprattutto senza poter sperare un aumento di potere.
Se papa Francesco desidera “una Chiesa povera” non è certamente per questione di opportunità o di ideologia. Egli, invece, vuole invitare tutto il corpo ecclesiale a riscoprire la semplicità del Vangelo, che per essere proclamato non necessita di grandi apparati, ma di cuori semplici, che hanno sperimentato la potenza dell’amore di Dio, che ci coinvolge in relazioni profondamente umane. Così egli scrive nella sua esortazione: “Nella misura in cui Dio riuscirà a regnare tra di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace, di dignità per tutti” (EG 180).
Il contrario di una Chiesa povera è costituito da una Chiesa “mondana”, che crede nella propria potenza, nelle proprie sicurezze tanto da poter fare a meno della stessa Provvidenza di Dio. Ma quando le cose prendono questa piega, la Chiesa diventa come quel “sale che perde il sapore e che a nient’altro serve se non ad essere buttato via e calpestato dagli uomini” (Mt 5,12).
Una Chiesa, che accetta di essere in perenne “riforma”, può ben fare propria la riflessione del card. Lercaro, pronunciata durante la celebrazione del Concilio Vat II: “La povertà è un mistero, che si collega in modo immediato con il mistero per eccellenza, cioè con il “mistero nascosto ai secoli eterni” (Rm 16,25), il mistero della volontà del Padre (Ef 1,9), il Cristo stesso”.
Il posto privilegiato dei poveri nel popolo di Dio (EG 197)
Nei nn. 197-200 l’esortazione EG si sofferma a considerare la relazione che debba esistere tra la Chiesa, in quanto comunità di battezzati e la condizione di quelle persone che sono entrate nel buco nero della povertà. Il papa stesso riconosce che si tratta di un tema, che difficilmente trova un posto centrale nella riflessione delle varie comunità cristiane: “Nessuno dovrebbe dire che si mantiene lontano dai poveri, perché le sue scelte di vita comportano di prestare più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali” (EG 201).
I poveri, a cui intende riferirsi il papa, sono quelli in carne ed ossa, quelli, cioè, che si ritrovano fuori dal banchetto della vita. Il popolo dei poveri è fatto di disoccupati, di precari, di ammalati, di anziani lasciati soli, di giovani senza futuro, di gente che abita le baraccopoli, di contadini espropriati della terra, di donne e bambini schiavizzati e avviati alla prostituzione.
Proprio di loro vuole parlare la EG di papa Francesco e del posto che essi dovrebbero avere all’interno della Chiesa, in quanto Popolo di Dio. Per poter dare una risposta adeguata, allora, è necessario alzare lo sguardo verso Dio, per accorgersi di come Egli si comporta: “Nel cuore di Dio, afferma il papa, c’è un posto preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso si fece povero. (…) A quelli che erano gravati dal dolore, oppressi dalla povertà, assicurò che Dio li portava al centro del suo cuore: ‘Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio’; e con essi si identificò: ‘Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare’, insegnando che la misericordia verso di loro è la chiave del cielo” (EG 197).
Da queste premesse la EG è portata a concludere che la Chiesa non può sfuggire al tema dei “poveri”, ma deve avere il coraggio di fare sua la opzione per i poveri: “Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica, prima che culturale, sociologica, politica o filosofica .(…) La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa”(EG 198). Il testo si spinge ancora oltre, affermando che questi poveri hanno un magistero da esercitare all’interno delle comunità dei credenti: “Essi hanno molto da insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie sofferenze conoscono il Cristo sofferente. E’ necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare da loro” (EG 198).
Con il riferimento al magistero dei poveri, l’esortazione del papa ribalta lo schema classico di affrontare nella Chiesa il tema dei poveri. Essi non possono essere considerati come un semplice “oggetto” verso cui rivolgere ogni premura caritatevole, mettendo in moto, possibilmente, una serie di interventi, atti ad alleviare la loro indigenza. Essi, invece, vanno guardati come soggetti, che “Dio ha scelto per farli ricchi con la fede ed eredi del Regno, che ha promesso a quelli che lo amano” (Gc 2,5). All’interno di ogni comunità cristiana il vero problema non è costituito dai poveri, ma dai ricchi: Sono questi ultimi che debbono lasciarsi evangelizzare dalla speranza dei poveri ed accogliere l’evangelo della fraternità, scoprendo che i beni che sono in loro possesso debbono entrare nel circuito della condivisione.
Nel Vangelo di Luca Gesù racconta la parabola del ricco che banchetta lautamente e di Lazzaro, il povero, che giace alla sua porta. Anche se Lazzaro non dice una parola, eppure quel banchetto è disturbato da questo “esserci” di Lazzaro. In effetti i poveri con i loro volti ed i loro corpi anelano alla condivisione, alla fraternità, al rispetto di ogni uomo.
Con le loro aspirazioni, ma anche con i loro gesti nascosti essi parlano del Regno di Dio, di quel mondo che Dio ha progettato per noi. Diceva il vescovo Romero in una sua omelia: “L’esistenza della povertà come carenza del necessario è una denuncia. Ed i poveri sono il grido costante che denuncia non solo l’ingiustizia sociale, ma anche la poca generosità della nostra Chiesa”. Dare ai poveri “il posto privilegiato”, come afferma la EG, significa accogliere fino in fondo la provocazione che viene dalla mensa eucaristica, dove il pane è spezzato e donato a tutti.
Una Chiesa, che non occulta e non trascura la presenza dei poveri, può a sua volta proclamare la beatitudine dei poveri, perché l’amore di Dio, che circola nelle sue vene, è capace di inventare opportunità nuove, per dare dignità e futuro a coloro che si ritrovano ai margini della vita. Dice la EG: “La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro” (EG 198).
3. Per un cammino di vera inclusione
Una comunità, impegnata a confessare Cristo Gesù come proprio Signore, trova nella fede quella luce necessaria per poter scorgere nella presenza del povero il volto stesso del suo Signore. Questa novità, dettata da uno sguardo contemplativo, immette nella vita comunitaria una spinta al cambiamento, perché si interrompano i meccanismi che portano all’emarginazione. Più una comunità si assoggetta alla parola del Vangelo e più crescerà in essa il desiderio di operare per una vera “inclusione”. Per la EG è impossibile proclamare il Vangelo e non sentirsi coinvolti in un cammino di vero rinnovamento delle relazioni tra gli uomini: “Qualsiasi comunità della Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti” (EG 207).
4. “Uniti a Dio ascoltiamo un grido”
Dal mondo dell’emarginazione e della povertà sale un grido, che non fa rumore, ma che trova in Dio un attento ascoltatore. E’ scritto nel libro del Siracide: «Dio non trascura la supplica dell’orfano, né la vedova quando si sfoga nel lamento. Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance ed il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare?» (Sir 35,14-15). Ma la Chiesa che vuole parlare di Dio al mondo, proclamando la bella notizia del Regno, ha un orecchio sufficientemente educato per poter percepire il suono di questo grido, che sale dal mondo dei poveri?
Nei Vangeli Gesù afferma in modo lapidario che non si può servire Dio e mammona. Così è per la Chiesa, che non può amoreggiare con i poteri mondani e pretendere di portare il lieto annunzio ai poveri. “Rimanere sordi a quel grido, leggiamo nell’esortazione, quando noi siamo strumenti di Dio per ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto” (EG 187). Si può ascoltare il povero solo se si è avuto la forza e la gioia di scegliere per sé il non-potere, la rinuncia a garantirsi un proprio spazio di sopravvivenza. Chi non ha nulla da dover difendere, chi ha compiuto un vero cammino di conversione si ritrova nella condizione idonea per potersi lasciare interpellare da questo grido silenzioso, non sfuggendo alla propria responsabilità: “La Chiesa guidata dal Vangelo della misericordia e dall’amore all’essere umano ascolta il grido per la giustizia e desidera rispondervi con tutte le sue forze. (…) Questo richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni” (EG 188).
5. “Aver cura delle fragilità”
Avere occhi e orecchie capaci di cogliere i disagi e i drammi dei poveri porta con sé l’impegno a prendersi cura delle fragilità altrui. “E’ indispensabile, afferma il papa, prestare attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente non ci porta vantaggi tangibili ed immediati: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli ed abbandonati,etc. (…) Mi ha sempre addolorato la situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone. Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: «Dov’è tuo fratello?». Dov’è tuo fratello schiavo? Dov’è quello che stai uccidendo ogni giorno nella piccola fabbrica clandestina, nella rete della prostituzione, nei bambini che utilizzi per l’accattonaggio, in quello che deve lavorare di nascosto perché non è stato regolarizzato? Non facciamo finta di niente. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti! Nelle nostre città è impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta” (EG 210-211).
Gregorio Battaglia