Pietro Scoppola, figlio modello del Vaticano Il
di Paolo Giuntella
scrittore e giornalista
da Jesus – dicembre 2007
Figlio del Concilio Vaticano II, uomo libero che non aveva paura; uomo di profonda fede che ha sempre legato il suo nome con il destino della nazione, che ha coniugato la libertà del pensiero con la fedeltà, serenamente impegnato, docilmente inquieto” Nelle parole del cardinal Silvestrini pronunciate al funerale di Pietro Scoppola c'è un bel ritratto di questa grande anima che ha traversato la vita politica, civile, culturale, ma anche la vita ecclesiale, del nostro Paese. La Grazia e la Libertà sono il suo ultimo messaggio spirituale. Credere nella Grazia coniugata alla libertà. La presenza divina e la condizione umana.
Storico autorevole e conosciuto ben oltre i confini italiani, Pietro Scoppola, giovanissimo, è stato tra i precursori della ricerca storiografica critica del Movimento cattolico in Italia. Celebri i suoi primi studi sul Modernismo. Poi i libri della prima maturità, su Chiesa e Stato in Italia e Chiesa e fascismo. Infine tutti i libri della sua piena maturità che coincidono anche con il suo progressivo impegno civile e politico: La proposta politica di De Gasperi, La "nuova cristianità" perduta, La Repubblica dei partiti, La Costituzione contesa, La democrazia dei cristiani, La coscienza e il potere, che raccoglie tutti i suoi articoli su Repubblica. Ma tutti attendiamo il suo inedito, il suo testamento spirituale, illustrato agli amici in conversazioni indimenticabili, dedicato sopprattutto alla spiritualità.
Scoppola ha realizzato un'invenzione molto importante a metà degli anni '70, 'onda del Concilio e della prima, grave, crisi della Democrazia cristiana: la Lega democratica, intorno a sé il meglio della cultura cattolico-democratica (ma anche molti giovani impegnati nell'associazionismo) e nelle élite sindacali. L'associazione, molto autorevole e ascoltata, fu l'incubatrice dello spirito dell'Ulivo, di cui Pietro fu poi uno dei fondatori, e dello stesso Partito democratico: Scoppola è stato membro della commissione di saggi incaricata di stenderne il Manifesto. È per molti di noi un "maestro" di laicità e un coerente testimone cristiano, dalla fede granitica. Gli chiesi alcuni giorni prima della morte quale defrnizione preferisse: “Cattolico liberale” o “cattolico democratico”. Mi rispose “tutte e due”, ma poi soggiunse: “Preferirei quella di cattolico cluniacense, lo spirito di riforma ma nella Chiesa, e di cattolico cistercense la povertà, l'essenzialità, la profondità, la bellezza della fede che ci comunicano e trasmettono le abbazie”. Amava molto la defrnizione che ne dette Paolo VI, quando, dopo il trauma del divorzio, nel 1975 monsignor Bartoletti andò dal Papa per chiedergli se nel grande convegno ecclesiale di "Evangelizzazione e promozione umana", potesse coinvolgere Pietro Scoppola che era stato il leader dei cattolici per il "no". Paolo di sl, confermando che era una voce sempre da ascoltare: “Scoppola è un cattolico a modo suo, ma bisogna lasciarlo stare”.
di Gianni Borsa inviato agenzia Sir a Bruxelles
Italia Caritas/Luglio-Agosto 2007
Già nel 2006, il 28 febbraio, il 24 e 25 maggio, alcune
ordinanze o decreti avevano preparato la via a questo documento ufficiale. Una
manifestazione religiosa è un raduno momentaneo di persone organizzato da
associazioni in edifici accessibili al pubblico; deve essere sottomessa al wali
(governatore) almeno cinque giorni prima. Deve includere nomi e domicili degli
organizzatori, essere firmata da tre di loro, indicare lo scopo dell’incontro,
la sede dell’associazione che l’organizza, luogo, giorno, ora e durata, il numero
dei partecipanti, il modo di assicurare il sereno sviluppo del raduno fino alla
dispersione dei partecipanti, ecc. Se c’è «pericolo per la salvaguarda
dell’opinione pubblica», le autorità possono negare il permesso.
In pratica, sarà impossibile organizzare una
manifestazione e ottenerne il permesso. Inoltre, chiunque cerca di convertire
un musulmano a un’altra religione può essere condannato a cinque anni di
prigione e a una multa fino a 10 mila euro. Anzi, chiunque «fabbrica o
distribuisce libri o riviste o video ecc. allo scopo di indebolire la fede
musulmana» subisce le stesse pene. Invece convertire un cristiano all’islam è
un atto lodevole.
Si dice
che questo decreto non sia contro i cattolici (10 mila su 33 milioni in
Algeria), ma contro i nuovi gruppi protestanti che fanno proselitismo. Sarà
probabile. Non di meno è inaccettabile. Ogni persona ha diritto di fare
propaganda per le sue idee. Certo, tutti siamo invitati a rispettare l’altro, a
non aggredirlo, forse ideologicamente. Ma proclamare la propria convinzione è
un diritto fondamentale. Mi domando spesso se non ci sia anche un diritto a
proteggere la propria cultura. E la religione appartiene alla cultura di un
popolo. In questo senso, il decreto algerino mira a proteggere la cultura musulmana
del Paese. Per lo stesso motivo, la Malaysia ritiene che ogni malay è - per
natura sua, si potrebbe dire - musulmano. Perciò un malaysiano non può
convertirsi al cristianesimo. Cito il caso di Lina Joy, malaysiana diventata
cristiana senza che nessuno l’abbia evangelizzata: ha potuto cambiare nome
sulla sua carta d’identità, ma sullo stesso documento non ha potuto mutare
religione (M.M., ottobre 2006, p. 19). E i guardiani della sharia hanno detto
che se vuole essere cristiana può emigrare, ma se vuole rimanere nel Paese non
può cambiare religione.
Il fatto
evidenzia il conflitto tra legge islamica, che proibisce le conversioni, e
Costituzione civile, che garantisce la libertà di religione. Il 7 giugno
scorso, a un dibattito pubblico organizzato dal Democratic Action Party in
presenza di oltre 600 persone, il professor Azmin Sharom ha concluso così il
suo discorso: «Solo la laicità dello Stato può proteggere tutte le religioni».
Gli ha risposto Yusri Mohamad, presidente del Muslim Youth Movement of Malaysia:
«Il rispetto dell’islam viene prima di ogni possibile dialogo».
Proprio questo è il problema: quale dei due diritti è
superiore? Quello della persona umana, libera di fare le proprie scelte anche
religiose, o quello della comunità di proteggere la propria cultura, vietando
la conversione religiosa?
La risposta del mondo musulmano è argomentata sul
fatto che la comunità ha priorità sull’individuo. Questa era anche la risposta
dei cristiani fino all’epoca moderna, che si appoggiava ad argomenti teologici:
la difesa del gruppo, e dell’identità del gruppo, prevale su quella
dell’individuo.
Oggi
vari studiosi del diritto naturale pongono la domanda se la difesa della
cultura di gruppo non sia un «diritto naturale», alla pari con il diritto alla
libertà religiosa. Se la cultura del gruppo prevale sulla libertà personale, si
dovrebbe dire che l’Europa non ha più una cultura da difendere! Rimango
convinto che la libertà personale sia caratteristica dell’ingresso nella
modernità. E sono d’accordo con il professor Sharom nel dire che solo la
laicità protegge la persona e salva le religioni.
di Samir
Khalil Samir
Gesuita e islamologo
Mondo e Missione / Agosto-Settembre
2007
di Alberto Bobbio
Italia Caritas/Luglio Agosto 2007
Di José Carlos Bonino
MC Luglio-Agosto 2007
di Tiziano Vecchiato
Italia Caritas / Settembre 2007
ANTIPOLITICA, CRISI DI SISTEMA E RISCOPERTA DEL “BENE COMUNE”
di Giannino Piana
docente di teologia morale
La crisi che la politica attraversa oggi nel nostro Paese va facendosi ogni giorno più allarmante. L’assenteismo che si è manifestato, in termini assai consistenti, nel corso delle ultime elezioni amministrative è un sintomo inequivocabile dello stato di sfiducia dilagante. Il rischio è che tale sfiducia si tramuti in cinismo antipolitico e in qualunquismo, persino in un atteggiamento di netto rifiuto di tutto ciò che ha a che fare con lo Stato e con le sue articolazioni istituzionali. La crescente disaffezione (e diffidenza) che la gente comune nutre, e che è peraltro largamente confermata dalle indagini demoscopiche condotte in questi ultimi mesi, è dovuta a considerazioni di varia natura: si va dalla lievitazione costante dei costi della politica, all’assenza di trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica, fino allo scarso ricambio della classe dirigente. A queste motivazioni si aggiungono poi quelle derivanti dall’introduzione del bipolarismo che, se ha creato, da un lato, in molti serie difficoltà a riconoscersi nell’uno o nell’altro dei due schieramenti - l’area che ciascuno di essi ricopre è infatti eccessivamente estesa - non ha reso, dall’altro, agevole il compito di governare (e persino di fare compattamente opposizione), essendo quanto mai accentuata la disomogeneità delle forze che fanno capo a entrambe le coalizioni. Per questo vi è chi parla (e non a torto) di crisi strutturale (e non puramente congiunturale) e, più radicalmente, di vera e propria crisi di sistema.
La riprova di quanto tale crisi sia estesa (e del disagio che essa genera) è data dall’enorme successo conseguito dal recente volume di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo dal titolo La casta (Rizzoli, 2007), nel quale la debolezza della politica (e i mali reali che la travagliano) è ricondotta alla persistenza di “caste” intoccabili, piccole e grandi, che si perpetuano da tempo al comando della “cosa pubblica” in successione dinastica, sbarrando la strada a chiunque altro si affacci e impedendo qualsiasi sforzo di rinnovamento. L’accusa riguarda, in primo luogo, i partiti che da luoghi di partecipazione e di coagulo del consenso, nonché di elaborazione dei grandi progetti per la vita della collettività, si sono trasformati in luoghi di mera gestione del potere e talora persino in comitati d’affari.
La scarsa partecipazione dal basso - il numero degli iscritti e delle sezioni si è drasticamente ridotto anche in partiti di grande tradizione popolare -, il prevalere di una classe dirigente fatta di poche persone, una vera e propria oligarchia di potere - a questo si allude quando si parla di “casta” (peraltro rafforzata dall’ultima legge elettorale, che ha sottratto ai cittadini la possibilità di scegliere per chi votare) - e la quasi totale assenza di dibattito interno hanno finito per ridurli a realtà autoreferenziali, in cui l’interesse di gruppo (o quello di una ristretta élite di persone) ha il sopravvento sull’interesse generale.
Tutto ciò in un momento come l’attuale in cui si assiste a una profonda divaricazione sociale, dovuta al processo di finanziarizzazione dell’economia; processo che - come giustamente osservava qualche tempo fa Lucia Annunziata su La Stampa - favorendo la cumulazione di ricchezze sempre più ampie da parte di pochi e comprimendo la classe media, ha accentuato la distanza tra una cerchia ristretta di “mandarini” e il resto del Paese. La classe politica, che si trova a far parte dell’area dei privilegiati e che è inoltre responsabile di aver favorito, attraverso la dilatazione dei posti di sottogoverno, il numero di coloro che godono di stipendi e pensioni d’oro, non può che perdere, anche per questo, la propria autorevolezza. Come è possibile infatti imporre “sacrifici” in nome del “bene comune”, quando così marcate sono le distanze tra chi naviga nel danaro e chi si è visto decurtato di molto il valore del proprio stipendio o di chi stenta ad arrivare a fine mese senza indebitarsi?
L’aspetto più preoccupante della crisi è pertanto il venir meno della cittadinanza comune come effetto di una percezione diffusa di ingiustizia che genera frustrazione. A essere coinvolta non è soltanto la politica ma, in senso più allargato, l’intero sistema sociale - dai sindacati alle unioni industriali fino alle diverse espressioni della società civile - provocando una preoccupante crisi di consenso. Le riforme di struttura - dalla revisione della legge elettorale alla riduzione del numero dei parlamentari, dal ridimensionamento degli stipendi e dei privilegi all’abolizione degli enti inutili - sono assolutamente necessarie e urgenti. Ma esse non saranno in grado da sole di operare un vero cambiamento, se non si accompagneranno alla rinascita di un forte rigore morale, che restituisca alla politica il carattere originario del servizio e ridia centralità all’obiettivo che essa deve perseguire, la ricerca del “bene comune”, cioè del bene di ciascuno e di tutti.
Conferme, ma anche qualche (grossa) sorpresa
LE DONNE DELL’ISLAM E IL SOGNO DEL PROFETA
di Angela Lano
MC Ottobre-Novembre 2007
La situazione femminile nelle società arabe e islamiche non è facilmente analizzabile e decodificabile, ammesso che non si vogliano utilizzare i facili clichè a cui i media ci hanno abituato. Nei decenni passati, in molti paesi (Palestina, Iran, Algeria,ecc.), le donne avevano preso parte alle lotte popolari contro gli eserciti oppressori, abbandonando i ruoli tradizionali per ricoprirne di nuovi e dinamici. Tuttavia l’emergere di gruppi radicali dell’islam politico ha portato all’arretramento della loro posizione e alla perdita di diritti che sembravano ormai conquistati per sempre.
In Egitto, culla del primo femminismo arabo e islamico, da vent’anni a questa parte è in atto una islamizzazione molto forte della società, il cui primo segno visibile è l’abbigliamento femminile: la maggior parte delle donne è avvolta in veli neri che coprono anche il volto, lasciando intravedere solo gli occhi.
In generale, e a livello mondiale, la condizione femminile sta peggiorando anziché migliorare.
Per quanto riguarda il mondo musulmano,ciò non è attribuibile all’islam di per sé, quanto al sopravvivere,all’interno di queste società, di sedimenti,di strutture antiche di tipo tribale, maschiliste e patriarcali.
l profeta Muhammad, uomo illuminato e dalla spiccata sensibilità (da quanto emerge nel Corano, in molti hadith, detti e fatti, e nelle biografie), promosse infatti una sorta di «liberazione femminile» ante-litteram, la cui portata rivoluzionaria venne tuttavia soffocata dal tribalismo misogino ancora molto forte e,ad un certo momento, prevalente. Ma ne parleremo più avanti.
In numerosi paesi musulmani,dunque, sono ancora - o sarebbe meglio dire,di nuovo - molto forti le tendenze maschiliste. Nel 900, infatti, molte società avevano iniziato a «liberarsi» dal peso di tradizioni che consideravano le donne inferiori all’uomo, non dotate di autonomia, da tenere a bada sotto veli e con tutori che vigilavano sulla loro purezza.
Ora,questa tendenza maschilista è tornata alla ribalta. Numerosi eventi,dalla fine degli anni ‘60 in poi, hanno contribuito a far richiudere in se stesse le società islamiche: sconfitta nella «Guerra dei Sei giorni», con Israele; fine del bipolarismo Usa-Urss e creazione della «minaccia islamica»; guerre del Golfo; guerra in Afghanistan; questione palestinese mal risolta; neo-colonialismo e sfruttamento delle risorse energetiche da parte dell’occidente; 11 settembre 2001; «scontro di civiltà» e altro ancora, Il ritorno alla religione, vissuta in modo totalizzante, integralista, è una conseguenza, spesso, del sentirsi «minacciati» dall’esterno, deprivati di una propria identità.
E poiché, nel mondo islamico, la religione rappresenta una modalità identitaria molto forte, il risultato è quello che abbiamo sotto gli occhi.
La separazione tra uomo e donna
La separazione dl ruoli e spazi è sempre stata ben presente nella tradizione islamica, ma nella seconda metà del ’900 la vita moderna delle città ha portato a una promiscuità maggiore,come in Marocco, per esempio. Tuttavia, in molte società, spesso arretrate economicamente, socialmente e culturalmente, tira un’aria da «periodo ottomano» (non possiamo, infatti, parlare di “Medioevo”, poiché per la civiltà arabo-islamica quel periodo coincide con il massimo splendore).
Ci sono regioni come la poverissima e soffocata (dagli israeliani e dagli embarghi occidentali) Striscia di Gaza, vera e propria prigione a cielo aperto,dove uomini e donne non possono entrare insieme negli internet cafè o dal parrucchiere, o dove il semplice conversare tra persone di sesso diverso, a migliaia di chilometri di distanza, e in una chat-line,crea scandalo.
Nella Palestina oppressa da un regime israeliano eguagliabile o peggiore dell’apartheid sudafricano,dalla fine degli anni ’80 in poi sono aumentati notevolmente i cosiddetti «delitti d’onore», un crimine-tragedia che colpisce sia donne ancora bambine sia anziane e che nasconde frustrazioni e squilibri maschili, bigottismo tribale, follia e tanto altro ancora. Un dramma sociale che associazioni per la difesa del diritti umani e organizzazioni femminili non si stancano di denunciare.
A tutto ciò si vanno ad aggiungere, in tanti altri Paesi, le violenze domestiche, l’imposizione di neqab, burqa e chador (diversi tipi di veli che coprono totalmente o parzialmente il corpo femminile).
Le nove mogli del Profeta
Attraverso i suoi tanti e bei libri (Donne del Profeta, Le Sultane dimenticate, La terrazza proibita, e molti altri ancora Fatima Mernissi, sociologa e scrittrice marocchina di fama internazionale, ci racconta un «altro islam»,quello del profeta Muhammad.
Nelle sue opere,Fatima Mernissi cerca di fornire una nuova interpretazione delle leggi islamiche in un’ottica di «uguaglianza tra uomo e donna», andando alla scoperta del «messaggio profetico» dei testi sacri. Ella definisce Muhammad il primo «femminista arabo», evidenziando come, infine, furono proprio i valori tribali preislamici a prevalere, sino ai nostri giorni, cristallizzati dalla shari’a e dal fiqh che si svilupparono nei secoli successivi.
Muhammad nacque nell’Arabia tribale del 570 d.C. Fu uomo illuminato, profeta e capo politico dalle istanze rivoluzionarie. Cambiò, almeno in parte, le abitudini e i costumi sociali e culturali dei suoi contemporanei. Predicò la «sottomissione a Dio»: islam, infatti, significa proprio questo. Nel suo slancio innovatore cercò di modificare le usanze tribali radicate, che spesso infierivano sulle donne e su altre categorie sociali deboli: vedove,orfani,schiavi.
Diversamente dalle culture che lo precedettero o che lo affiancarono nell’area mediterranea, egli tenne in gran considerazione la condizione femminile e modificò radicalmente alcune regole inique su matrimonio, eredità, diritti, quotidianità.
Le sue mogli - ne ebbe nove - erano donne forti, belle, intelligenti, protagoniste nella formazione della nuova comunità islamica: Khadija, l’amata prima (e finché fu in vita, unica) moglie; Umm Salma, consapevole dell’importanza del ruolo femminile; Zaynab; Aisha, la sua prediletta e sposa-bambina, che grande peso ebbe nella storia dell’islam degli inizi - fu una delle cause che portarono alla guerra interna tra i successori del profeta e i seguaci di Ali (da cui nascerà il movimento sciita, ndr).
Anche la figlia Fatima,moglie del cugino Ali, ebbe con il padre un intenso rapporto affettivo.
La «rivoluzione culturale e sociale» di Muhammad si spinse fino a un certo punto. La Mernissi lo spiega chiaramente: egli non poté e non volle inimicarsi i seguaci, maschi, della nuova fede, enfatizzando e trasformando la condizione e il ruolo della donna araba. Aveva bisogno della fedeltà dei maschi per contrastare gli attacchi dei meccani (gli abitanti della Mecca che osteggiarono la predicazione di Maometto, ndr) e dei nemici dell’islam.
Non voleva dunque minare dalle fondamenta la società tribale basata sulla guerra, sul bottino, di cui le donne erano parte. Dare più importanza ad esse, liberarle completamente dalla schiavitù a cui erano soggette, voleva dire sconvolgere l’economia stessa delle tribù, l’impalcatura sociale e il concetto di guerra e razzia.
Dunque,non gli fu concesso, dalla dura realtà dell’ambiente in cui visse,di portare a termine, di realizzare appieno il suo grande sogno rivoluzionario di parità fra tutti gli individui, donne e uomini, liberi e schiavi.
Non riuscì, infatti,a estirpare il maschilismo e misoginia dalla testa dei maschi del suo tempo. Questo «conflitto» morale, interno, emerge dalle sure coraniche.
Tuttavia,qualche miglioramento, rispetto ai tempi della jahiliyah ,com’è chiamata l’epoca preislamica, ci fu: alla donna fu garantito il controllo e l’amministrazione dei propri beni al di fuori dell’autorità paterna o maritale. Certamente un fatto rivoluzionario.
Le basi del femminismo arabo-islamico
La lotta di liberazione della donna prese l’avvio ai primi del Novecento, in concomitanza con i nazionalismi arabi: certi intellettuali pensavano che la condizione di sudditanza rispetto all’uomo,in cui essa era da secoli e secoli costretta a vivere,fosse una sorta di effetto della «decadenza araba e della sua sottomissione alle potenze straniere».
Un uomo, un egiziano, nel 1899 pose le basi del femminismo arabo-islamico:era Qasim Amin, autore di due libri che divennero celebri: Tahrir al-Marah (La liberazione della donna), e Al-Marah al-Jadidah (La donna nuova). Nel primo invitava le donne a togliersi il velo e prendere parte alla vita attiva; nel secondo sottolineava che la liberazione femminile da lui incoraggiata era fondata sul rispetto dell’islam e non sull’imitazione delle mode occidentali.
Amin diede il via a una discussione ancora pienamente in corso: l’uso del velo non è un obbligo esplicito, ma è frutto dell’imposizione sociale.
Velo sì, velo no: una questione annosa
In concomitanza con la nascita del primo femminismo europeo, anche in Egitto le donne iniziarono a rivendicare libertà di espressione e movimento.
Un gesto clamoroso, nel 1923, diede l’avvio ai movimenti di emancipazione femminile:due intellettuali borghesi, Huda ash-Sharawi e Siza Nabaraawi, si tolsero il velo mentre scendevano dal treno al Cairo, di ritorno da un congresso femminile svoltosi a Roma.
Esse rappresentavano l’alta borghesia occidentalizzata e un po’snob. La loro azione estrema (vennero picchiate dalla polizia egiziana) convinse molte altre a rivendicare diritti negati per secoli.
In un’ottica diversa si poneva invece la connazionale Malak Hifni Nasif (1886-1918), nota come Baithat al-Badiya (Colei che cerca nel deserto), una delle prime femministe arabe: l’emancipazione doveva giungere da una scelta delle donne arabe e musulmane stesse, e non dall’imitazione di modelli occidentali o dal suggerimento dei maschi «femministi».
Ella sosteneva infatti che dovevano essere le donne a decidere se, quando e come «liberarsi».
«La maggior parte di noi donne continua ad essere oppressa dall’ingiustizia dell’uomo, che col suo dispotismo decide quel che dobbiamo fare e non fare, per cui oggi non possiamo avere neppure un’opinione su noi stesse. (...) Se ci ordina di portare il velo, noi obbediamo. Se ci chiede di toglierlo, facciamo altrettanto».
Anche per lei, l’islam non dava regole sull’uso o meno dello hijab: «portare il velo non significa essere più pudiche rispetto a quelle che non lo indossano. Il vero pudore non sta in questo».
Islamiste: «No, aI femminismo occidentale»
La ricerca «La donna nel Mediterraneo», condotta alcuni anni fa dall’università Federico Il di Napoli, spiega: «Le islamiste riconoscono l’uomo come “tutore”della donna e restano molto legate alla realtà della loro condizione che accettano come predestinazione. (...) Le donne che vogliono tornare all’islam originario sono ottimiste perché pensano di avere un ampio margine di movimento nella società e nel campo del diritto, proprio come Khadija e Aisha (due mogli di Muhammad).Quindi respingono il femminismo di stampo occidentale perché lo ritengono uno strumento del colonialismo e non condividono il tipo di libertà offerta alle donne.
Il frutto del femminismo occidentale è, secondo loro, quello di trasformare la donna in un oggetto sessuale e in uno strumento pubblicitario di capitalismo patriarcale. Esso è stato incapace di ritagliare un posto appropriato per il matrimonio e la maternità e non è riuscito a modificare il mercato del lavoro in risposta ai bisogni delle donne. In questo modo il femminismo occidentale ha trasformato le donne in cittadine permanenti di seconda classe, non riuscendo a portarle alla pari degli uomini.
(...) L’islam ai suoi inizi ha fornito alle donne dei modelli esemplari e ha indicato un cammino che può essere dignitosamente seguito ad ogni stadio: Fatima, in quanto figlia del profeta Mohammad e moglie di Ali, rappresenta un modello idealizzato e idolatrato dagli sciiti; Khadija è onorata da tutti i musulmani per la sua intraprendenza e per l’essere stata una moglie che ha sempre sostenuto il marito; Aisha per il suo intelletto e per la sua leadership politica.
Pertanto, le fondamentaliste islamiche non hanno bisogno degli esempi occidentali, perché hanno un proprio percorso di liberazione che vogliono seguire».
Il Corano e l’«hijab»
LA «DISCESA» DEL VELO
Secondo Fatima Mernissi, lo hijab, letteralmente «cortina», «disceso» per «porre una barriera non tra un uomo e una donna, ma tra due uomini».
La sociologa marocchina, nel suo libro Donne del Profeta (1997), sostiene che è impossibile comprendere un versetto del Corano «senza conoscere la storia e le cause che hanno portato alla sua rivelazione».
Ella dunque esamina il contesto storico e i fattori che hanno portato, nell’anno 5 dell’egira (627 d.C.), alla rivelazione del versetto 53 della sura XXXIII del Corano: «O voi che credete. Non entrate negli appartamenti del Profeta a meno che non siate stati autorizzati in occasione di un invito a pranzo. E in questo caso, entrate solo quando il pasto è pronto per essere servito. Se dunque siete stati invitati (a pranzare), entrate, ma ritiratevi non appena avete finito di mangiare, senza abbandonarvi a conversazioni familiari. Una simile negligenza dispiace (yu’di) al Profeta che ha ritegno a dirvelo. Dio, però, non ha ritegno a dire la verità. Quando andate a domandare qualcosa (alle spose del Profeta) fatelo dietro un hijab. Ciò è puro per i vostri cuori e per i loro».
Questo versetto, spiega la Mernissi facendo riferimento all’interpretazione di Tabari (un commentatore di letteratura religiosa morto nel 922),è «disceso» il giorno in cui Muhammad aveva preso una nuova moglie, la cugina Zaynab. Egli, dunque, desiderava appartarsi con lei. Tuttavia, un gruppetto di invitati piuttosto fastidiosi non si decideva a lasciare la sua dimora. «Il velo - scrive la sociologa - sarebbe una risposta di Dio a una comunità dagli usi grossolani che, con la sua indelicatezza, feriva un Profeta così cortese da apparire timido».
Nell’articolo «La donna musulmana tra l’emancipazione del Corano e la limitazione degli studiosi islamici», pubblicato sul quotidiano Al-Ahram il 5 giugno 2002, Gamal al-Banna, intellettuale islamico ricorda che hijab, nel senso cranico, «non vuoi dire niqab (il velo che copre anche il viso) o il velo per i capelli, ma una porta o una tenda che copre e nasconde chi è all’interno rispetto a chi si trova all’esterno, e impone a colui che entra di chiedere il permesso prima di farlo». Va ricordato, infatti, che agli inizi del periodo islamico, la maggioranza della popolazione viveva in tende e non in case.
Dal racconto di ‘Omar lbn al-Khattab (compagno dell’inviato di Dio), spiega al-Banna, «i devoti entravano dal Profeta senza chiedere il permesso, anche quando egli si trovava con le sue spose».
Ai-Banna aggiunge anche che a Medina «si era diffusa la pratica del ta’arrud sulle donne di ogni classe sociale. Questa pratica consisteva nell’appostarsi sul cammino di una donna per incitarla a fornicare. Per questo motivo alcuni uomini, fra cui ’Omar Bin Al-Khattab, capo militare senza pari e compagno dell’inviato di Dio, fecero pressione sul Profeta al fine di ordinare alle donne di indossare lo hijab per essere distinte dalle schiave, ed essere così protette dai ta’arrud».
In sostanza, secondo i due studiosi sopracitati, il Corano ordinerebbe soltanto di coprire con un velo il décolleté e di evitare abbigliamenti volgari o provocanti.
LA RIVOLUZIONE D’OTTOBRE E IL DOVERE DI “CERCARE ANCORA”
di Maria Cristina Bartolomei
docente di filosofia e teologa
Jesus/Novembre 2007
Il 7 novembre 1917 scoppiò in Russia la Rivoluzione d’ottobre (quando l’antico calendario russo venne adeguato a quello gregoriano la data slittò da un mese all’altro); nel febbraio-marzo dello stesso anno vi era stata una prima rivoluzione liberaI-borghese, che mirava a sostituire lo Zar Nicola Il. I movimenti di sinistra si attivarono, chiesero una Costituente, cominciarono a organizzarsi in soviet, che divennero poi il nerbo della rivoluzione bolscevica.
Il regime sovietico è crollato; quasi scomparsi dalla faccia della terra o in via di radicali trasformazioni (e deformazioni; ad esempio, in Cina) sono sia il suo tipo di comunismo sia altri tipi. I cattolici, soprattutto italiani, ricordano la scomunica Iatae sententiae (cioè automatica) comminata nel 1948 da Pio XII a chi avesse sostenuto il partito comunista.
I motivi di condanna dei “modelli” di comunismo realizzato sono gravi e noti: mancanza di libertà individuali; di rispetto dei diritti umani; repressione religiosa e ateismo di stato. L’impianto economico comunista, come tale (al di là delle deviazioni totalitarie dei regimi), è criticato in quanto non “funziona”, non produce benessere e ricchezza (purtroppo, a parte le comunità religiose, solo lo scopo del lucro e interesse privati pare riesca a motivare gli esseri umani!). Il 90° anniversario della rivoluzione non sarà dunque molto celebrato, tanto meno dai cattolici, Perché allora ce ne occupiamo?
Perché il comunismo può essere una risposta sbagliata, ma il drago che ha affrontato è vivo, i problemi che ha denunciato e cercato di risolvere sono veri e, nel quadro del capitalismo, si sono aggravati. Sono i problemi della ingiustizia, orrenda, gravissima che vige nei rapporti tra gli esseri umani; dello sfruttamento di molti a vantaggio di pochi, che vuoi dire miliardi di vite triturate nelle rotelle dell’ingranaggio che produce benessere sufficiente a tacitare le nostre coscienze, e opulenza nonché potere di dominio del mondo (anche con l’uso della guerra) nelle mani di pochissimi. Prima del movimento socialista non si ricordano sollevazioni cristiane contro la trasformazione in merce dell’uomo, contro le condizioni disumane di lavoro, anche di donne e bambini.
Ci furono molte generose iniziative di assistenza (quante congregazioni religiose!), ma non azioni politiche a contrasto di quell’”ordine” costituito. Diritti oggi (o almeno sino ad ieri!) considerati ovvii furono conquistati a prezzo di dure e sofferte lotte: senza l’incitamento del movimento socialista, tutto ciò non sarebbe accaduto. Il comunismo ebbe certo torto a indicare in Dio e nella religione il nemico della promozione umana Ma più grave torto lo ebbero i cristiani a non schierarsi con gli ultimi, a non opporsi ai potenti che li opprimevano. Che Dio ci perdoni per come il suo volto e il messaggio dell’Evangelo sono stati deformati dalla prassi delle Chiese!
C’è chi si è compiaciuto di redigere il “libro nero” delle vittime del comunismo: azione, come minimo, incauta. Altri potrebbe infatti redigere il libro nerissimo delle vittime del capitalismo, che non sono finite e comprendono non solo i miserabili del Sud del mondo sfruttati dalle multinazionali e in mille altri modi, ma anche i bambini cui negli Usa oggi viene negata assistenza sanitaria gratuita. Dall’alba del capitalismo, quanti milioni sono morti di stenti, fame, fatica, guerre fatte per motivi economici, quante vite sono schiacciate dall’unico criterio del profitto? E qualcuno potrebbe addirittura scrivere un libro nero del cristianesimo “reale”: un libro di persecuzioni e violenze; di repressioni; di inadempienze, ritardi, cecità nel cogliere i bisogni del mondo. Ci ribelleremmo, e con ragione; un ideale non si misura solo dai modi devianti in cui viene realizzato, dai tradimenti dei suoi portatori: un criterio che abbiamo il dovere morale di applicare anche nel caso del comunismo.
Il comunismo, accusato di ridurne l’essere umano a solo fatto economico, in realtà fa da specchio al modo in cui va il mondo: non siamo oggi (in democrazia) assuefatti a vedere valutare tutto sul piano del mercato?!
La tragica contraddizione tra mezzo e fine del comunismo fu l’uso della violenza per ottenere la liberazione sociale. Ma la spinta dell’ottobre 1917 fu l’indignazione per l’ingiustizia; la ricerca della giustizia per tutti, della eliminazione dei rapporti di dominio (purtroppo perseguita eliminando fisicamente i dominatori); fu la convinzione che, al di qua delle legittime differenze, gli esseri umani sono uguali e hanno uguali diritti: l’esatto contrario di ciò che ispirò i totalitarismi fascisti, ai quali a torto il comunismo viene assimilato. Il comunismo aprì un orizzonte di speranza e dignità a milioni di oppressi, che si riconobbero “compagni”: uomini che condividono Io stesso pane (quali assonanze per i cristiani!). Non lo rimpiangiamo, ma abbiamo l’onere di rispondere ai problemi che affrontò, di trovare vie più umane di economia e società; il suo fallimento ci interpella “cercate ancora!”.
NON C’È FUTURO SENZA DONNE
di Sabina Siniscalchi
MC Ottobre-Novembre 2007
Sono la maggioranza dei poveri e di coloro che muoiono per malattie curabili, degli analfabeti e dei sottoccupati, delle vittime di guerra e degli abitanti delle baraccopoli. Le donne sono la dimostrazione vivente degli errori e miopia del potere politico. Nonostante tutto, in ogni parte del mondo, sempre più donne lottano per un futuro pacifico, sostenibile, duraturo.
Nell’anno 2000 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha stabilito gli «Obiettivi di sviluppo del Millennio »:otto grandi finalità che dovrebbero consentire al mondo di lasciarsi alle spalle per sempre povertà,ingiustizia e diritti violati. Tali Obiettivi riassumono gli impegni sottoscritti dai capi di stato e di governo in occasione delle conferenze mondiali realizzate dall’Onu, nel corso degli anni Novanta,sui vari aspetti dello sviluppo:ambiente, popolazione, occupazione, salute, infanzia parità di genere.
Eventi importantissimi di cui non bisogna perdere traccia e coscienza, che hanno definito con chiarezza e competenza le coordinate di un futuro pacifico, sostenibile e duraturo per l’umanità.
Purtroppo, i piani di azione con cui si sono concluse queste conferenze, anche se sono stati sottoscritti dai governanti sotto i riflettori del mondo intero, sono rimasti largamente inapplicati. Per questo, sette anni fa l’allora segretario generale dell’Onu, Kofi Annan,ha individuato un pacchetto minimo di otto obiettivi,chiari e condivisi, che potessero essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 2015.
Le donne e i “Millenium Goals”
I Millennium Goals prevedono il dimezzamento del numero dei poveri e degli affamati, la scolarità universale, la parità di genere, l’abbattimento della mortalità infantile, la tutela della salute materna, la lotta all’Aids e alle altre pandemie, la salvaguardia del patrimonio ambientale, l’accesso all’acqua potabile, e, infine la creazione di un partenariato globale per raggiungere insieme il traguardo dello sviluppo.
Tre degli Obiettivi del Millennio riguardano specificatamente le donne: il secondo che punta all’istruzione per tutte le bambine del pianeta, il terzo che prefigura una piena equi equiparazione e partecipazione delle donne, il quarto che si focalizza sulla salute delle madri e delle partorienti Tuttavia,è evidente che tutti gli otto goals toccano direttamente la sorte e la vita delle donne, proprio nella misura in cui esse rappresentano la stragrande maggioranza dei poveri, la gran parte di coloro che muoiono per malattie curabili, la percentuale maggiore degli analfabeti,dei sottoccupati, delle vittime di guerra, degli abitanti delle baraccopoli...
Le donne sono la prova vivente delle drammatiche condizioni del mondo, il loro stato è la dimostrazione angibile degli errori e della miopia di chi detiene le leve del potere politico ed economico.
Spesso siamo inclini a pensare che le donne vivano male solo in Africa, in Asia o in America Latina, a smentire questa nostra convinzione di comodo arrivano,dai paesi ricchi e industrializzati, i dati sul lavoro precario delle giovani donne, quelli sulle disparità nelle retribuzioni, quelli sulla condizione delle donne immigrate e sulla violenza domestica.
Per quanto riguarda l’Italia,ci ha pensato di recente il Financial Times a sottolineare una condizione apparentemente meno drammatica, ma ugualmente discriminante;il prestigioso quotidiano definisce l’Italia «il paese delle veline»: in parlamento la percentuale di donne non supera il 16 per cento, mentre giovani donne provocanti e mute vengono utilizzate in abbondanza da pubblicità e televisione.
L’Italia si ferma agli ultimi posti tra i paesi europei per quanto attiene il ruolo delle donne in politica e in economia. Le donne italiane fanno fatica a raggiungere posti di responsabilità nelle imprese e nelle istituzioni;basti pensare che solo nel 1995, una donna, Fernanda Contri,è diventata per la prima volta giudice della Corte costituzionale e un’altra, Susanna Agnelli, è stata nominata, sempre per la prima volta, ministro degli Esteri.
Nella discussa Turchia,dove sono stata lo scorso luglio, ho monitorato lo svolgimento delle elezioni politiche per conto del Consiglio d’Europa, le donne in parlamento sono l’11%; una donna è stata fino a pochi mesi fa presidente della Corte costituzionale; un’altra è a capo della confindustria locale.
Dunque, nessun paese ha da insegnare ad altri in materia di pari opportunità, di pieno riconoscimento del ruolo delle donne e di rispetto dei loro diritti fondamentali.
La piattaforma con cui si concluse la Conferenza mondiale sulle donne, che si svolse a Pechino nel 1995,rimane largamente incompiuta. Se si escludono i progressi della scolarizzazione delle bambine, gli altri traguardi sono ancora lontani. A Pechino, ad esempio, i capi di governo avevano concordato l’adozione di politiche per riservare alle donne il 30% dei seggi parlamentari, ma dieci anni dopo,solo il 15% di tutti i parlamentari nel mondo sono donne.
Il lato oscuro della globalizzazione
Esperti di sviluppo delle Nazioni Unite e leader della società civile fanno notare che,se alcune tendenze dell’economia mondiale hanno avuto un impatto positivo sulla vita delle donne, ve ne sono altre che hanno indebolito la loro lotta per l’uguaglianza economica e politica. Ad esempio le donne che, a milioni, vivono nelle aree rurali e lavorano in agricoltura sono diventate più povere e malnutrite a causa del passaggio dalla produzione per il fabbisogno alimentare locale a quella per il commercio e l’esportazione.
Anche i tagli alla spesa sociale,che sono stati al centro delle politiche di aggiustamento economico imposte, negli ultimi 20 anni,ai paesi indebitati da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, hanno comportato una crescita del disagio femminile: in molti paesi in via di sviluppo,le donne hanno perso qualsiasi sostegno pubblico nella cura, nel nutrimento e nel dei figli,con esiti spesso drammatici, mentre nei paesi industrializzati, sempre in nome del risanamento dei bilanci statali, i servizi pubblici invece di aumentare sono spesso diminuiti;secondo un recente studio dell’unicef, la condizione dei bambini e delle loro madri è peggiorata in molti paesi dell’Est Europa, passati dall’economia controllata dallo stato all’economia di mercato,a causa dei minori finanziamenti pubblici a scuole,asili, ospedali.
Anche l’Organizzazione internazionale del lavoro (OiI) lancia l’allarme sulla situazione delle donne lavoratrici, specialmente in realtà dove il sindacato è debole o inesistente come nelle zone franche riservate ad aziende straniere che producono per il mercato estero. L’assenza di norme per la sicurezza e di qualsiasi forma di tutela sanitaria e di maternità espone queste lavoratrici a enormi rischi e al ricatto dei datori di lavoro.
Secondo l’Oil, l’assenza di decent work (lavoro dignitoso), in Cina, India ed altri paesi con un elevato tasso di crescita economica, rappresenta il lato oscuro della globalizzazione.
La discriminazione contro le donne, sicuramente non è più stabilita per legge, ma è connaturata a processi economici e sociali che generano o accentuano le ingiustizie.
Ancora in troppi paesi, le donne sono escluse dall’accesso a risorse fondamentali per lo sviluppo,come il credito, la proprietà della terra e di altri strumenti di produzione, la formazione e la tecnologia.
Occorre invertire questa tendenza e ripartire dalla consapevolezza che uno sviluppo stabile e duraturo non può prescindere dal protagonismo delle donne. Sotto questo profilo, la cooperazione allo sviluppo può svolgere un ruolo fondamentale.
Lo scorso gennaio ho partecipato al World Social Forum di Nairobi,dove la presenza delle reti femminili, soprattutto africane, è stata formidabile: donne energiche e intelligenti che,a dispetto dei pochi mezzi a loro disposizione, hanno voluto partecipare per portare la loro testimonianza e le loro richieste. Hanno ribadito la volontà di essere artefici del proprio sviluppo e padrone del proprio destino; hanno mostrato gli ottimi progetti e le straordinarie esperienze che hanno saputo mettere in campo con piccoli aiuti.
Donne coraggiose e dinamiche che non si arrendono di fronte all’impoverimento del loro continente, che non si rassegnano alla perdita dei loro uomini uccisi dalle guerre o emigrati per cercare lavoro; donne consapevoli della propria dignità e orgogliose delle risorse del proprio popolo. Donne che hanno molto da insegnare al resto del mondo.
E’ a queste donne che dovrebbe essere indirizzato l’aiuto internazionale; dovrebbero essere loro a ricevere la maggior parte delle risorse economiche che arrivano dai paesi donatori. Purtroppo non è così: il Dac (Development Aid Committee) calcola che la quota dell’Aps (aiuto pubblico allo sviluppo) destinata ai progetti promossi, realizzati e guidati dalle donne è ancora minima. Un approccio che va radicalmente rivisto,se si vuole davvero sostenere, attraverso la cooperazione, il cammino di liberazione dal bisogno dei popoli del Sud del mondo.
Spese militari: un insulto alle donne
Attraverso il recupero di dignità e di ruolo delle donne, passa anche la lotta contro la violenza che le brutalizza e le annienta in ogni parte del mondo.
Nonostante la Convenzione Onu sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne sia stata ratificata da 179 paesi, la loro incolumità e la loro libertà è sempre più minacciata da nuove guerre e conflitti, dal crescente traffico di esseri umani e dal diffondersi dei movimenti fondamentalisti.
Gli studi delle agenzie dell’Onu sulla violenza di genere sono pieni di dati agghiaccianti:si stima che ogni anno quasi un milione di donne sia oggetto di traffico e più della metà sia destinata all’Europa. Oltre a essere sfruttate,queste donne sono in balia della violenza di protettori, clienti e persino delle forze dell’ordine.
Anche la violenza domestica è un’altra grave emergenza,tanto che il problema è costantemente nell’agenda del Consiglio d’Europa: l’organizzazione internazionale, di cui fanno parte 47 paesi,che ha come finalità la promozione dei diritti umani e la diffusione della democrazia.
Un recente studio,commissionato dal governo svizzero, intitolato «Donne in un mondo insicuro», riferisce che una percentuale crescente di donne subisce aggressioni fisiche da parte del partner o di altri componenti maschi della propria famiglia. La violenza domestica imperversa non solo nei paesi in via di sviluppo,che sono spesso carenti in termini di protezione legale, ma anche nelle società industriali sviluppate, secondo la ricerca svizzera; negli Stati Uniti, per esempio, nonostante le rigide leggi contro la violenza di genere, una donna su quattro è vittima di abusi.
A Nairobi mi ha colpita l’affermazione di June Zeitlin,del Wedo (organizzazione per l’ambiente e lo sviluppo delle donne, una rete internazionale che raggruppa decine di associazioni di ogni regione del mondo): «Si fa molta retorica sui diritti delle donne, ma gli interventi concreti sono del tutto insufficienti. Nonostante le promesse fatte a Pechino 12 anni fa,ancora oggi ben 40 paesi si rifiutano di adottare una legislazione contro la discriminazione delle donne, inoltre anche in paesi in cui questa legislazione è vigente sopravvivono costumi e tradizioni fortemente pericolosi per le donne».
Basti pensare che in India sono oltre 700 le donne uccise nel 2006, ma meno del 2% dei responsabili è stato condannato per omicidio.
La violenza sulle donne è aggravata anche dallo stato crescente di guerra che caratterizza il mondo dall’inizio del Millennio. È come se le donne perdessero terreno di fronte all’escalation militare e alle crescenti spese per la difesa e gli armamenti di molti governi; le risorse per gli interventi sociali e la cooperazione scarseggiano, ma ogni anno si spendono - secondo i dati del Sipri (l’Istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma) - mille e duecento miliardi di dollari in armi, una cifra che rappresenta 25 volte la spesa necessaria per il raggiungimento degli Obiettivi del Millennio!
«Cittadine di seconda classe», ma...
Purtroppo se n’è parlato poco sui nostri giornali, ma all’inizio di quest’anno 200 tra scrittrici, artiste, parlamentari e attiviste sociali degli Stati Uniti hanno lanciato un appello alle donne di tutto il mondo per dare forma a un’alleanza globale contro la guerra.«Ne abbiamo abbastanza della guerra insensata in Iraq e del crudele attacco ai civili in tutto il mondo - si legge nell’appello -. .Abbiamo seppellito molti dei nostri amati e visto troppe vite mutilate per sempre. Questo non è il mondo che vogliamo per noi e i nostri figli».
Anche nei paesi che non sono colpiti dalla guerra, la condizione delle donne resta dura: cittadine di seconda classe sia nel mondo ricco che nel mondo povero. Nonostante questo, le donne continuano a lottare e alcune, sia pure ancora troppo poche, riescono a farsi strada nel mondo politico e imprenditoriale.
Vorrei citare tre esempi di successo, verificatisi di recente. Lo scorso luglio, in India, Pratibha Patil è stata eletta presidente della repubblica: è la prima donna capo di stato nella storia della potenza asiatica. Una nomina forse determinata più dagli interessi dei partiti in lizza che dal carisma della candidata; tuttavia la presenza di una donna al massimo livello istituzionale ha generato grandi speranze tra le donne indiane, anche perché in passato la Patil ha operato in organizzazioni femminili e si è battuta per i diritti delle donne del suo paese.
Il 2 e 3 agosto si è svolto a Quito in Ecuador un incontro dal titolo «Donne che trasformano l’economia». Vi hanno partecipato un centinaio di rappresentanti di organizzazioni femminili di vari paesi dell’America Latina, che hanno messo in atto iniziative di resistenza all’economia neoliberista e al Cafta (trattato di libero commercio tra Usa e Centroamerica). «Non siamo venute qui solo per dire no al Trattato e allo strapotere delle grandi multinazionali - ha detto Ana FeliciaTorres del Costa Rica - siamo venute anche per dire si: sì alla vita, sì ai diritti, sì all’educazione, alla casa,alla sicurezza alimentare. L’economia deve avere questi come obiettivi prioritaril».
Il 7 agosto le donne del Kenya hanno lanciato la Campagna Un milione di firme per 5O posti, un’iniziativa di pressione sul parlamento per far approvare una proposta di legge che riserva 50 seggi speciali alle donne. Tra gli ideatori della Campagna, c’è Martha Karua, ministro per la Giustizia e affari costituzionali, una politica convinta che i suoi colleghi maschi siano più influenzabili da una mobilitazione che da tanti studi e dibattiti. Martha Karua ha spiegato così la proposta: «Si tratta di una misura di breve termine,che può contribuire a sradicare le grandi disparità tra uomini e donne presenti nella società keniana e che si riflettono nella rappresentanza parlamentare».
Alcuni anni fa,Gertrude Mongella, già ministro della Tanzania, fondatrice dell’Ong Awa (Advocacy for Women in Africa) e attualmente prima presidente del Parlamento pan-africano, mi disse:«Ci sono stati molti cambiamenti dalla Conferenza di Pechino,e molto positivi. L’uguaglianza di uomini e donne sta diventando una realtà, non è più solo un argomento di cui conversare. Non abbiamo ancora raggiunto tutti i traguardi che ci eravamo prefissi a Pechino, per varie ragioni, ma si sono fatti molti sforzi riguardo alla disuguaglianza e alla discriminazione contro le donne. Ci sono leggi che puniscono la violenza contro le donne, leggi che richiedono una percentuale minima di rappresentanza femminile a diversi livelli nella società. Sono i primi risultati della conferenza di Pechino,occorre andare avanti».