In ricordo di P. Franco

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Sabato, 04 Novembre 2006 20:17

La vita e la morte (Romano Guardini)

La nostra vita – che strana cosa! È il presupposto d’ogni altra realtà: la prima che, se in pericolo, desta quella incondizionata reazione che chiamiamo “legittima difesa” e che ha il suo proprio diritto.

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Che cosa è per te l'amore? Che cosa significa amare?

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Mercoledì, 18 Ottobre 2006 02:02

Il segno luminoso della croce (Filippo Di Giacomo)

La religione tende sempre a mettersi al posto di Dio, a far sì che le persone cerchino Dio attraverso di essa. Per questo molti credono che Dio o lo si trova nei culti e nelle cerimonie religiose oppure non lo si trova in nessuna altra parte.

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Mercoledì, 18 Ottobre 2006 01:40

Il monaco e l'Eucaristia (P. D. Donato Ogliari osb)

Il monaco e l'Eucaristia
di P. D. Donato Ogliari osb

Tra le gemme più belle incastonate in quell'edificio spirituale che è la Regola di san Benedetto, vi sono due aforismi pressoché identici che i seguaci del santo Pa­triarca non tardano ad imprimere nella loro mente e a porre come sigillo sul loro cuore. Il primo di questi aforismi raccomanda ai monaci di "non anteporre nulla all'amore di Cristo" (RB 4,21); e il secondo, dopo aver affermato che "primo passo dell'umiltà è l'obbedienza senza indugio", precisa che "questa è proprio di coloro che ritengono di non avere nulla di più prezioso di Cristo" (RB 5,2).

Se anche san Benedetto non avesse detto altro di Cristo, basterebbero queste due brevi ma dense pennellate a delineare la centralità che egli attribuisce alla persona del Cristo nella vita del monaco. Il Figlio di Dio fatto uomo è, infatti, il cuore della giornata monastica, il suo centro di attrazione e di propulsione. Grazie a Lui, e alla sequela di Lui, s'illumina, prende slancio e si invigorisce quella diuturna ricerca del volto di Dio nella quale si dipana l'esistenza quotidiana del monaco.

È alla luce di questo cristocentrismo, che anche l'Eucaristia (nonostante che san Benedetto la celebrasse coi suoi monaci solo una volta alla settimana, di do­menica) ha finito con l'entrare in maniera decisiva nella trama giornaliera della comunità monastica, incastonandosi all'interno della sua architettura orante, là dove la comunità si radica e si costruisce giorno dopo giorno. L'Eucaristia è dive­nuta così quella "cifra sintetica" nella quale la ricerca di Dio, condotta dal mona­co alla scuola di Cristo e del suo Vangelo, è racchiusa, e nella quale s'inverano simultaneamente lo spatium mysterii e lo spatium caritatis.

Spatium misterii

La presenza reale del Cristo nella celebrazione eucaristica, sia nella Parola proclamata sia, soprattutto, nelle specie eucaristiche - dove tale presenza rag­giunge il massimo grado - diventa il luogo della concentrazione, lo spatium misterii nel quale la ricerca monastica trova il suo quotidiano approdo e la sua ragion d'essere. Nell'Eucaristia il monaco si consegna al Mistero Santo di Dio, resosi pienamente manifesto nella morte e risurrezione di Cristo. Lì, a contatto con tale mistero, il monaco ridice ogni volta daccapo il suo umile "sì", e accondiscende ad essere conformato al disegno di amore del Padre che ha preso forma definitiva nel Mistero pasquale del Cristo suo Figlio.

Ogni volta che partecipa alla mensa eucaristica, il monaco è sospinto a ritrovare nel Cristo il senso della propria esistenza e a trasformarla quotidianamente, sull'esempio di Lui, in un gesto di amore. Nell'Eucaristia, le parole evangeliche "Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà (Lc 9,24) acquistano agli occhi del monaco il loro pieno significato. Lì egli ritrova, in maniera sempre nuova, il fulcro della sua vocazione, del suo vivere e del suo bruciare di quella stessa immolazione del Cristo che, offrendosi per la nostra salvezza, spalanca agli uomini gli orizzonti illimitati del cuore com­passionevole di Dio.

Spatium caritatis

monastica, quale memoriale di una vita "persa" agli occhi del mondo, ma "salvata" e trasformata in Colui che vive per sempre, è chiamata a sua volta, e secondo il suo specifico carisma, ad irradiarsi. Il perdersi del monaco in Cristo, il suo essere nascosto con Lui in Dio, non lo rende infatti avulso dalla storia e dalla compagnia degli uomini, ma, al contrario, proprio perché vulnerabile al Mistero di Dio manifestato nel Figlio Gesù, egli è sospinto a divenire un testimone sempre più luminoso e profetico della salvezza e della totalità di senso che egli trova nel Cristo. Ed è proprio alla luce di questa verità, di cui si fa umile servitore, che il monaco è costantemente rinviato a quella forza primigenia contenuta nell'Eucari­stia, e che si traduce nello spatium caritatis.

Vi è un singolare episodio nella vita di Benedetto, quando questi era ancora giovane eremita nascosto agli occhi del mondo, che illustra molto bene la ricerca di Dio, che ha il suo fulcro nel Cristo pasquale e non può non avere, come suo naturale sbocco, l'attenzione e l'amore ai fratelli. Narra dunque il biografo di Benedetto:

e sedettero. Dopo aver parlato di varie cose spirituali, il sacerdote esclamò: 'Orsù, mangiamo! Oggi è Pasqua'. L'uomo di Dio rispose: 'Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!'. Infatti, vivendo lontano dalla gente, il santo non sapeva che proprio quel giorno fosse la solennità di Pa­squa. Il sacerdote riprese: 'Oggi è davvero la Pasqua di risurrezione del Signore. Non ti è permesso perciò fare digiuno. E io sono stato mandato proprio per que­sto, perché prendiamo insieme i doni dell'Onnipotente'. Così, benedicendo Dio, presero cibo insieme" (Gregorio Magno, Dialoghi II, 1).

Benedetto, sprofondato e assorto nelle cose di Dio, si era reso conto che era Pasqua soltanto alla vista del sacerdote che lo aveva a lungo cercato e finalmente trovato. E come se la sua coscienza si fosse, per così dire, risvegliata di fronte al Cristo presente in quel fratello che gli aveva fatto visita e che ora gli stava accan­to: "Lo so che è Pasqua, poiché ho meritato di vedere te!", esclama Benedetto.

L’Eucaristia è proprio quello spatium caritatis che segna quotidianamente i passi del monaco. In questo "spazio" egli si immerge ogni giorno non solo per "gu­stare e vedere quanto è buono il Signore" (cf Sal 33,9), ma anche per ritrovare la forza e la gioia di farsi carico del fratello, capace di scorgere, al di là dell'epidermi­de, i doni a cui egli è portatore e che, ultimamente, provengono dal Signore.

non possia­mo accostare chi ci sta accanto mantenendo le nostre prevenzioni e i nostri pre­giudizi nei suoi confronti. Per cogliere la presenza del Risorto in ogni fratello occorre affidarsi alla novità dello Spirito che rende i nostri occhi capace di scor­gere l'inedito al di là di ciò che diamo per scontato.

Chiarificazione e obiezione

meglio, sulleorme del Cristo, l'oblazione di sé, quale inveramento della ricerca di Dio. Nell'Eucaristia, infatti, la sequela Christi è chiamata a trovare un riscontro nella traduzione concreta di quella consegna che Gesù ha lasciato ai suoi nell'Ul­tima Cena: "Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34), consegna che toglie il diritto di cittadinanza ad ogni egoistica inerzia e ad ogni forma di autosufficienza.

Lì, nell'Eucaristia, l'immolazione libera e obbediente del Figlio al disegno salvifico del Padre diventa la cattedra quotidiana dalla quale il monaco attinge quotidianamente la forza necessaria per spezzare la propria vita, insieme con Gesù, nell'umile e gratuito servizio dei fratelli, sorretto dalla gioia e dalla luce dello Spirito.

(Da Il sacro speco di S. Benedetto, 5, 2005)

Mercoledì, 27 Settembre 2006 01:22

Attraversare il deserto ( Maurizio Costa)

Per incontrare Dio nel profondo del cuore e aprirci alla comunione piena con lui e con il prossimo dobbiamo stare “lontano dalle piazze”, vivere una spiritualità della solitudine.

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Venerdì, 15 Settembre 2006 02:12

I primi e gli ultimi (Giovanni Vannucci)

I primi e gli ultimi
di Giovanni Vannucci

La parabola riportata in Mt 20, 1-16, per certi particolari, e per il contenuto di fondo, si ricollega a quelle del figlio prodigo e del pastore che, lasciando le novantanove pecorelle, va in cerca di quella smarrita. Il figlio maggiore, le novantanove pecorelle, rimasti sempre nella casa paterna e nell'ovile, non hanno conosciuto le angosce, le umiliazioni, gli avvilimenti del prodigo e della pecorella smarrita; così gli operai della prima ora patteggiano liberamente il prezzo, ignorano la pena di veder passare le ore senza essere ricercati, di veder arrivare la sera e la notte senza aver lavorato; gli altri non sanno come verranno pagati, accettano il lavoro, felici di poter guadagnare qualcosa.

Gli operai dell'undicesima ora avevano atteso tutto il giorno che qualcuno li cercasse; se i primi avevano durato la fatica e il gran caldo, gli altri avevano conosciuto l'avvilimento e l'angoscia dell'inutile attesa. Giustamente agisce il padrone della vigna, giustamente rimprovera gli insoddisfatti: «Vedi tu di malocchio ch'io sia buono? Non mi è lecito di fare del mio quello che voglio?».

Tutta l'idea dell'annuncio cristiano è contenuta in questa affermazione. Cristo è venuto non per i giusti e i sani, ma per i peccatori e gli ammalati; non per le pecorelle sicure nell'ovile, ma per quelle smarrite; non per i vignaioli che possono contrattare il prezzo del loro lavoro, ma per quelli che accettano il lavoro senza domandarsi quale ricompensa verrà data loro. Come il malato e non il sano abbisogna del medico, il peccatore e non il giusto ha necessità del Redentore, così colui che a lungo è stato disoccupato necessita di occupazione e di lavoro, egli non discute di ricompense, è solo pago di lavorare.

L'operaio dell'undicesima ora non è soltanto, come comunemente s'intende, il peccatore che si converte all'ultima ora. Ordinariamente è l'uomo buono, intelligente, spesso colto, spiritualmente disoccupato; l'uomo cioè privo di idealità, non perché ne sia incapace ma perché sino ad allora nessun vero ideale gli si è presentato. E di questi uomini ne esistono in tutte le razze e in tutte le religioni. Spesso si vive un'intera vita senza interessarsi ai massimi problemi del nostro essere. Blandamente, con indifferenza, si seguono le leggi del proprio paese e i riti della propria religione, senza preoccuparsi di approfondire gli uni e gli altri. Più che vivere si è vissuti, più che pensare si è pensati e, come gli operai della parabola, si aspetta qualcuno che ci cerchi, qualcuno che ci faccia lavorare, finché qualcuno giunga; talora il padrone che ci manda alla sua vigna può chiamarsi sventura, malattia, miseria, dolore! Giungerà colui che ci domanderà: «Perché ve ne state ancora inoperosi?»; risponderemo: «Nessuno ci ha presi a giornata ed è già l'ultima ora del giorno». Ed egli ci dirà: «Andate anche voi nella vigna».

Spesso, dopo una vita inutile e vuota, con un richiamo improvviso, come un bagliore sopra gli occhi chiusi, comincia il lavoro dello spirito. Che esso duri molto o poco non importa, importa che esso ci sia, importa che tutta la giornata terrena non sia conclusa nell'ozio. Così vediamo persone anziane, vissute fino ad allora tranquille, che di colpo, come obbedendo a un richiamo, si gettano in attività, si dedicano a studi cui mai avevano pensato, si interessano appassionatamente al mondo che le circonda, e, con uno slancio in cui è contenuta una vera gratitudine, lavorano nella vigna del Signore.

L'operaio dell'undicesima ora è stato chiamato e ha risposto, avrebbe risposto prima se prima fosse stato cercato. L'operaio dell'undicesima ora non dice mai «è tardi», ma risponde sempre «eccomi!». Il premio degli ultimi sarà giustamente uguale a quello dei primi, poiché attendere di essere chiamati e mantenersi liberi con l'animo di aderire al richiamo, è già lavorare.

La ricompensa dei primi come degli ultimi è unica. La ricompensa è l'indiamento, il possesso beato della pienezza della vita; vi è solo una vita divina, la quale non può darsi ai suoi fedeli se non nell'identica maniera. I brontolamenti, le proteste dei figli rimasti sempre nella casa paterna, degli operai della prima ora, attireranno solo lo sdegno del padre e la dura risposta del padrone, che testimoniano un'infinita comprensione in un infinito amore. «Tu sei sempre stato con me», dice al figlio maggiore il padre del figlio prodigo. «Amico, non ti fo alcun torto, non hai convenuto con me per un denaro?», risponde il padrone della vigna.

La parabola termina con un aforisma che ci deve far pensare: «Gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi». Perché questa predilezione divina verso gli ultimi? Spesso mi chiedo: verso chi andavano le preferenze di Gesù morente sulla croce, al buon ladrone o all'altro che accetta fino in fondo le conseguenze della sua vita delittuosa? Il primo, in qualche maniera, approfitta di Cristo: «Ricordati di me quando sarai nel tuo Regno»; il secondo vive fino all'estremo la sua scelta di libertà.

E non è una domanda retorica questa, facciamocela e forse riusciremo a spogliarci di tutte le nostre albagie di figli buoni e di operai della prima ora!

Spesso lo stato d'animo dei figli prodighi, degli operai dell'ultima ora corrisponde a quello che Ornar Khayam descrive in un suo poema: «Ho visto un uomo solitario in un luogo arido. Non era ne eretico, ne ortodosso. Non aveva né ricchezze, né religione, né Dio, né Verità, né Legge, né certezze. Chi in questo mondo è capace di tanto coraggio?». Quando questi uomini entrano nella vigna, vi portano il loro coraggio, la loro forza, la loro dedizione che hanno raggiunto in una solitudine libera e spoglia. Allora «gli ultimi saranno i primi, i primi gli ultimi».

Gli ultimi non porteranno nel Regno le meschinerie, le rivalità, le ambizioni dei primi!

(Da Giovanni Vannucci, «I primi e gli ultimi» in Risveglio della coscienza, 1a ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984;. 25a del tempo ordinario, Anno A; pp. 165-167).

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I domenicani e lo studio della teologia
Una lettera d'amore a Dio
di Mario Chiaro

La saggezza è un fuoco: i teologi sono i fuochisti che lo alimentano. Dai domenicani viene lo stimolo per la decisa promozione di una teologia più al femminile e più radicata nella vita delle persone e delle culture. Gustavo Gutiérrez sintetizzando il pensiero di molti scrive: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio”.

Per i discepoli di san Domenico, fin dall’inizio, il sogno di Dio sì è legato al “fare teologia”. Domenico trascorse la sua vita incoraggiandoli a creare tavoli di studio e confronto con altri e fu imitato nel tempo da Caterina, Tommaso, Montesinos, Eckhart: senza questa stretta interazione teologica, nessuno di loro avrebbe potuto,da solo produrre ciò che invece ha prodotto. In particolare poi il fondatore dei domenicani ha mostrato che lo studio è inutile se non arreca beneficio ai poveri: a Palencia infatti vendette i suoi libri per procurarsi denaro e nutrire gli affamati, dichiarando di non voler studiare “su pelli morte, mentre quelle vive muoiono di fame”. Oggi una rinnovata coscienza di collaborazione tra consacrate e consacrati nella ricerca teologica, in una prospettiva di impegno per giustizia e pace, porta a testimoniare come, gettando ponti sopra le acque del genere, del potere e dell’esclusione, si possano superare le distanze fra i singoli e Dio, fra uomini e donne, fra ricchi e poveri.

DONNE FORMATE AD APRIRE GLI OCCHI

Nella spiritualità dominicana, lo studio è il processo di apertura verso l’altro, uno stile permanente che diventa “disciplina di veridicità che apre gli occhi” (cf. T. Radcliffe). Aprirsi per imparare dalla parola di Dio e da ogni frammento di verità e bellezza che ci sta intorno è studiare la teologia in contemplazione. Sr. Thérèse P. T. Bach Tuyet (delle domenicane vietnamite di Santa Caterina da Siena), direttrice dell’istituto domenicano intercongregazionale di san Tommaso a Ho Chi Minh City, ci tiene a sottolineare come la predicatrice domenicana in formazione debba essere innanzitutto una teologa con gli occhi aperti allo Spirito Santo nella società in cui vive. “Il contributo delle domenicane vietnamite consiste in questo momento nel difendere e promuovere la vita attraverso l’educazione nella fede e la cultura, nello sviluppo sociale e nella cura della salute dei poveri, dei giovani, delle donne e bambini, degli handicappati, dei tossicodipendenti, dei malati di Aids. Per tradurre nella pratica queste missioni, la Chiesa richiede alle donne consacrate una nuova formazione, non inferiore a quella riservata agli uomini”.

Fare teologia significa così risvegliare nelle donne la coscienza della propria dignità e dei propri diritti. “Per me come cristiana e domenicana, la teologia è sostegno per vivere la mistica e la prassi di Gesù, è un’occasione di apertura verso il significato amorevole della vita, della giustizia e della solidarietà. La riflessione teologica, la contemplazione nella prospettiva dell’incarnazione di Gesù mi ha portato a compromettermi con la realtà del mondo, in altri termini ad assumere una dimensione di fede, di speranza e a riconoscere i segni del nuovo cielo e della nuova terra presenti nell’oggi. Sono visibili le conquiste e le vittorie delle comunità ecclesiali di base nei movimenti sociali organizzati” (sr. Rosa Maria Barboza, brasiliana, provinciale della congregazione domenicana romana).

Una teologia al femminile permette di pensare al divino portando alla ribalta le represse immagini femminili di Dio, specialmente in un momento storico in cui la Chiesa diventa conscia di essere veramente universale: “E’ essenziale per il futuro della Chiesa in Asia che le donne asiatiche prendano il loro posto nella Chiesa come professioniste teologhe e studiose della Scrittura e che si esprimano con sicurezza… Oggi è imperativo che le donne domenicane (anche donne religiose e donne cristiane laiche) siano preparate a entrare intelligentemente e competentemente nelle relazioni dialogali con altre tradizioni religiose come una parte essenziale della missione della Chiesa” (Helen Graham delle suore di san Domenico di Maryknoll, per oltre 35 anni docente nelle Filippine).

“Fare teologia, per me è cercare la verità – dichiara sr. Diane Jagdeo, docente di teologia sistematica al seminario regionale di Trinidad. E la mia ricerca della verità è come quella della donna del Vangelo che, avendo perso la sua dracma, diligentemente la cerca fin quando non la trova… Oggi, se rifletto sulla mia vocazione di teologa, mi affliggono ancora le paure e le speranze e la profonda angoscia del nostro popolo caraibico… Sanare la terra e sanare la vita (il benessere dell’ecologia e degli uomini) mi sembra che siano all’ordine del giorno teologico per noi nei Caraibi”.

UOMINI CONSACRATI MA NON AUTOSUFFICIENTI

Lo studio della teologia è vitale per la formazione di una sintesi interiore che è necessaria per la maturità umana e spirituale, non solo delle donne ma anche degli uomini. Oggi infatti si entra nella vita religiosa con un bagaglio nella mente e nell’immaginazione che deve essere organizzato internamente, secondo i principi del Vangelo .Padre Wojciech Giertych, membro della provincia polacca e docente all’università Angelicum di Roma, sottolinea come lo sfondo del pensiero dei nuovi consacrati debba essere “riorganizzato perché la fede e la vocazione non siano basate sulle incertezze affettive. Bisogna che la fede entri nella vita dell’intelletto e nella sfera della libera scelta”.

Lo studio dunque è oggi prioritario in vista della identità umana e cristiana, oltre che in vista dell’apostolato. Così la teologia al maschile deve aprirsi alla teologia delle donne: “L’approccio femminile è meno razionale, più intellettuale, più descrittivo e poetico… Se manchiamo di approfittare dell’approccio femminile, la nostra teologia diventa rigida e asciutta, diventa troppo concettuale e non invita al mistero”.

”Il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dai laici, certamente cambierà il volto della teologia. Certamente essi ci presenteranno un diverso volto di Dio e un diverso volto della fede. Pensare Dio e la fede a partire dalla secolarità, dal matrimonio, dal lavoro manuale, dall’economia, dalla politica, a partire da … tutti gli angoli della vita terrena: questa sarà una buona notizia per la riflessione teologica. E il giorno in cui la teologia è fatta, o almeno condivisa, dalle donne, è certo che cambierà il volto della teologia” (p. Felicisimo Martinez, docente in Spagna e Venezuela).

Una teologia così compresa, meno clericale e androcentrica, può essere molto utile alla questione lancinante di sapere come presentare la parola di Dio oggi in modo che sia davvero una buona novella e non dottrina fondamentalista. “Si tratterà – afferma p. Roger Houngbedjii del Benin – di elaborare una teologia che miri da una parte a far aderire i nostri contemporanei in modo radicale al Cristo, e dall’altra a renderli edotti dei loro diritti e doveri, delle cause profonde delle situazioni di ingiustizia e di povertà di cui sono vittime, in modo da condurli a essere responsabili del loro futuro. È in questa prospettiva che io credo di comprendere l’impegno del teologo domenicano nel contesto attuale dell’Africa”. Esiste dunque un legame intrinseco e dinamico tra ricerca teologica, vita di preghiera e solidarietà con i poveri, primi destinatari della buona novella.

LA MISERICORDIA DELLA VERITÀ

Lo studio insomma non è fine a se stesso: è il mezzo per aiutare il prossimo nella sua ricerca di salvezza e nell’approfondimento della propria relazione con Dio. Non si tratta di creare intellettuali, ma di formare evangelizzatori. In questo modo si apre la strada a una migliore inculturazione della fede, acquisendo uno stile di integrazione e flessibilità nell’apertura a popoli diversi dal proprio.

Si confessa sr. Antonietta Potente (che attualmente vive in una comunità di campesinos in Bolivia): “Sento che il sogno di un Dio vicino alla vita soggiace come qualcosa di nascosto, sempre più nascosto; sono sempre di meno le persone che hanno l’ardire di andare a Dio partendo dalla vita e soprattutto dalla vita più inedita. Sento che c’è tanta paura, che alcuni continuano a far teologia fra sicuri dogmatismi e superficiali diplomazie, quasi a cercare di sopravvivere fra le mode post-moderne le antiche tradizioni.

C’è chi continua a confondere la sete con il relativismo e pertanto continua a lanciare anatemi proibendo la novità dei versi del lavoro teologico. L’ordine a volte si dimentica delle sue origini … ho la sensazione che si studi poco, soprattutto tra i frati, affascinati dai facili successi o compensatori proselitismi pastorali e, noi donne, troppo chiuse in modelli di vita religiosa femminile a volte compensatori, a volte frustranti”.

Studiare teologia viva significa metterla al servizio della giustizia, poiché “la lotta per un mondo più giusto è inseparabile dalla verità. In special modo, tutti i teologi, se vogliono che il loro lavoro abbia davvero qualche valore, devono mostrarsi sensibili alla nostra povertà di significato, alla profonda sete di tutti gli esseri umani per il significato dell’esistenza, senza il quale non c’è speranza” (p. Timoty Radcliffe). Il nostro mondo globale è ferito da crepe e fratture, dalla marginalizzazione dei popoli più poveri: la sete di riconciliazione può essere lenita dalla presenza di teologi ed evangelizzatori sulle linee di frattura, invece che in aule asettiche.

La teologia è funzione ecclesiale che si compromette con la storia, che cerca di costruire un linguaggio su Dio con un popolo che vive la fede, nel contesto storico della sofferenza degli innocenti. Il noto teologo della liberazione, peruviano, Gustavo Gutiérrez (docente a Roma e a South Bend negli Stati Uniti) non esita a dire, sintetizzando il pensiero di molti: “Per me fare teologia è scrivere una lettera d’amore a Dio, alla Chiesa e al popolo a cui appartengo. L’amore continua a essere vivo, però si approfondisce e cambia la maniera di esprimerlo.

Cf. il volume dal titolo Superare le distanze: le figlie e i figli di Domenico fanno teologia, a cura di Suore domenicane internazionali, Pontificia università san Tommaso e Commissione internazionale giustizia e pace dell’ordine dei predicatori (Angelicum University Press di Roma e Edizioni Domenicane Italiane di Napoli). Trentasette teologhe/gi domenicane/i rispondono sotto forma di lettera a una griglia di domande sul senso e sullo stile del fare teologia oggi.

Il IV Vangelo narra la morte di Gesù in maniera assolutamente originale rispetto ai racconti dei tre vangeli sinottici:

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Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti


Trentottesima parte

La precarietà

Lo spirito della Società, come scaturisce dal Carisma, è uno spirito di modestia; questo, secondo il P. Fondatore, è un carattere distintivo del Maristi dagli altri religiosi:

“Cerchiamo di adottare un genere di vita modesto che dia il meno possibile ombra a quelli tra i quali viviamo e che sia conforme e alla nostra vocazione e allo spirito della S. Vergine di cui noi portiamo il nome” (Parole di un Fondatore, Doc. 146, n. 4).

Questa caratteristica permette alla Società di fare ciò che gli altri istituti non possono (Ibid., Doc. 1, n. 2, p. 35; Doc. 19, n. 1), per la completa disponibilità a quei servizi della Chiesa che danno meno soddisfazione e minore gloria. Del resto, la Società è nata nell’umiltà e nel “deserto” dell’Hermitage e di Belley (Ibid., Doc. 85, n. 1); i suoi membri si considerano “tamquam extorres et peregrinos super terram” (Constit., p. 50, p. 19): due temi biblici – il deserto e l’esodo – tra i più ricchi di significato per il popolo di Dio dell’Antica e della Nuova Alleanza ( Cfr. R. CECOLIN, L’esodo, via di Dio verso la libertà, in AA.VV., Invito alla Bibbia, Roma 1974, pp. 45-83). La convinzione del P. Colin era l’efficienza della vita religiosa della Società e della sua attività nella Chiesa dipendesse dalla totale sfiducia nei mezzi umani, nel favore dei potenti (Constit., cap. V, art. IV, n. 214, p. 74), nelle possibilità economiche (Ibid., cap. VII, art. I, n. 276, p. 94) e, in generale, nelle proprie forze e capacità.

Al Marista vengono a mancare le sicurezze e il sostegno di tutto ciò che conta nel mondo, perché nella totale precarietà delle realtà terrene si appoggia unicamente alla Provvidenza del Padre e alla grazia.

Le pennellate più efficaci su questo tema sono tracciate dal P. Colin nel contesto della presenza missionaria del Marista nella Chiesa: “Fuggano la gloria di sé…scelgano i ministeri che meno brillano agli occhi degli uomini..” (Ibid., cap. VI, art. I, n. 262, p. 89).

La coscienza della precarietà delle realtà terrene fa volgere lo sguardo verso il Padre celeste, il quale, a sua volta, lo rivolge con benignità verso i suoi figli che confidano colo in Lui.

Sabato, 02 Settembre 2006 21:15

Perché riviva il Vaticano II (Marcelo Barros)

Perché riviva il Vaticano II
di Marcelo Barros

L’8 dicembre 1965, in piazza San Pietro, a Roma, una solenne santa messa celebrata da Papa Paolo VI chiudeva il Concilio Vaticano II. Dopo la celebrazione eucaristica, il pontefice bene­disse la prima pietra di una chiesa romana dedicata a Maria, Madre della Chiesa, che sarebbe servita da memoriale del Concilio. Sempre in quell'occasione, dopo aver in­viato "al mondo" una lunga serie di mes­saggi. il Papa consegnò a mons. Felici il breve con cui chiudeva ufficialmente la grande assise. Nel discorso di chiusura, il Papa affermò: «Il culto di Dio che si è fat­to uomo è andato incontro al culto dell'uomo che si è fatto Dio». Quale perfetta descrizione del mistero del Natale, che si sarebbe celebrato di lì a poche settimane!

Oggi, a 40 anni esatti da quella data, molti cristiani propongono la celebrazio­ne di un nuovo concilio. Essi sono con­vinti che occorra rilanciare l'opera allora iniziata ma - è questa la loro opinione - sfortunatamente interrotta e messa da par­te agli inizi degli anni Settanta. E spiegano: mentre la società civile è alla ricerca di un nuovo mondo possibile, le comunità cristiane hanno il diritto di sperare in una chiesa "sempre rinnovata", capace di essere la profetica anticipazione di una uma­nità più giusta e fraterna.

il deposito della fede e la formulazione in cui esso è espresso. Pertan­to, egli varò il Concilio sulla base di tre grandi intuizioni: apertura al mondo con-temporaneo. vocazione ecumenica e op­zione per i poveri».

In verità, l'invito rivolto alla chiesa di diventate “chiesa dei poveri" fu più volte udito nel corso dei lavori conciliari, ma non li recepito e sviluppato. Sarebbe per lo più servito. alcuni anni dopo. a convin­cere i poveri del Terzo Mondo che la chie­sa non sarebbe mai stata profondamente evangelica, se non avesse accettato la pro­posta formulata nel corso della Seconda Conferenza dei vescovi latino-americani di Medellin (1968): «Che si presenti sempre più nitido il volto di una chiesa au­tenticamente povera, missionaria, pasqua­le, spoglia di potere e coraggiosamente compromessa con la libertà di tutti gli es­seri umani e di tutto intero l'essere umano» (Medellin 5,15a).

Va da sé che questo cammino fu reso possibile dal fatto che il Concilio aveva sottolineato il carattere locale della chie­sa. Si disse che la chiesa locale o partico­lare altro non è che la chiesa universale che si «ha evento In un luogo determinato. Di recente, la Federazione dei vescovi catto­lici dell'Asia, nel 'documento di sintesi preparato in occasione del Sinodo per l'Asia e intitolato Ciò che Lo spirito dice alte chiese, ha affermato: «La comprensione che la chiesa ha di sé stessa è di essere ve­ramente chiesa locale, incarnata in un po­polo, autoctona e inculturata. Essa è il cor­po di Cristo fitto reale e incarnato in un popolo particolare, nel tempo e nello spa­zio». La chiesa universale è più che una somma di chiese: essa è la comunione delle chiese locali.

Organismi ecumenici e comunità ec­clesiali di base sono oggi convinti che è ur­gente iniziare un processo conciliare che ponga la chiesa in costante stato sinodale, cioè di dialogo e di ricerca comune. Quan­do Giovanni XXIII convocò il Concilio Vaticano II, la chiesa cattolica attraversava un periodo di estrema chiusura istitu­zionale e di rigidità dottrinale. Nel frat­tempo, però, a partire dell'inizio del secolo XX, anche se sospettati e messi sotto ac­cusa dalla curia vaticana e dalla maggior parte dei vescovi, erano sorti il movimen­to biblico, il movimento delle comunità di base e altri ancora. Per decenni e superan­do molte difficoltà, questi movimenti, for­mati da laici, sacerdoti e religiosi, avevano aiutato le comunità locali a crescere. Ben­ché quasi relegate nella clandestinità, furono proprio queste nuove realtà ecclesia­li vive a offrire alla chiesa tutta una base teologica e una spiritualità nuove che avrebbero trasformato l'evento Concilio in una vera e propria primavera per tutta la comunità cattolica.

Quella primavera non deve finire. Es­sa va rinnovata. Pertanto, mentre ci ap­prestiamo a celebrare il Natale di Gesù Cristo - il mistero in cui «il culto di Dio che si è si è fitto uomo va incontro al cul­to dell'uomo che si è fitto Dio» - dobbia­mo desiderare ardentemente anche un nuovo natale della chiesa. Pronti anche ad andare «contro corrente" e contro l'oscu­rità della notte. Perché solo così si può ac­celerare il ritorno dell'aurora.

(da Nigrizia, dicembre 2005)

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