In ricordo di P. Franco

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Dialogo nella tradizione cistercense
Per vivere in comunione
di Zelia Pani



Il valore pedagogico del dialogo nella formazione iniziale e in quella permanente come strumento di relazione tra le persone e di costruzione di una visione comune in funzione comunionale.

“Perché Possa vivere e crescere nell’unità, ciascuna comunità necessita di una visione comune della vita monastica”; in caso contrario, le persone che vivono in monastero potrebbero avere, del proprio esserci, ognuno un’idea diversa e quindi crearsi un cammino “separato”, vivere una propria vita e non contribuire efficacemente a creare un contesto comunitario generatore di vita. Lo scrive da Roma l’abbadessa madre Rosaria,ocso (ordine cistercense della stretta osservanza) in un articolo pubblicato sul Bulletin de l’A.I.M. (Alliance Inter Monastères), 84/2005, 43-50: un numero monografico su L’art de gouverner, nel quale il ministero dell’autorità al servizio della comunità è considerato secondo svariati aspetti.

Il tema sviluppato da madre Rosaria, Comunità in dialogo, la visione comune: un’autenticità vissuta insieme, propone una riflessione certamente estensibile, con le eventuali varianti carismatiche, anche a qualsiasi comunità religiosa che voglia realizzarsi come espressione della Chiesa-comunione.

A tutte, infatti, si attaglia l’osservazione del fatto che – scrive l’abbadessa – difficilmente la frammentazione dei progetti e dei comportamenti risulta attraente presso i giovani e le giovani chiamati/e alla vita consacrata in monastero, provenienti per lo più da un mondo rattristato dalla solitudine e chiuso in modo più o meno egoistico nell’individualismo; né può essere fonte di gioia e di vita nuova per le stesse comunità in atto.

In particolare, tuttavia, l’accento è posto nella riflessione di m. Rosaria sulla realtà da lei stessa vissuta nel suo autorevole ruolo: “Una riscoperta della vita cenobitica benedettina-cistercense, secondo la quale l’itinerario verso Dio si compie nella comunità e attraverso la comunità, sacramento di Cristo salvatore, avrà un impatto positivo sulla gioventù d’oggi.

COSTRUIRE CON SAPIENZA

Lo stile formativo cistercense – che conferma nell’ocso la sintonia dei suoi padri «con ciò che il concilio ha chiamato una “ecclesiologia di comunione”» - punta per ciascuna comunità sul dovere di costruire la propria visione comune su tre punti specifici: “l’insegnamento dell’Abate, fondato sulla tradizione, nel senso vero e bello del termine, costituito da tutto ciò che gratuitamente abbiamo ricevuto, ossia il Vangelo, la regola, la dottrina dei Padri, che l’insegnamento attuale dei capitoli generali, il magistero della Chiesa, la storia e l’identità particolare della comunità di appartenenza; la riflessione e il dialogo, mediante i quali tale insegnamento viene assimilato e integrato in un criterio che determina le decisioni concrete della nostra vita qui e ora, in modo tale che la tradizione sia una risorsa e non un ostacolo; un ascolto colmo di saggezza di ciò che forma la realtà storica nella quale siamo inseriti. Che cosa ci viene chiesto qui e ora? Come ne integriamo il contenuto nella nostra tradizione viva? Il nostro carisma quale risposta dà alle sfide concrete che oggi ci vengono lanciate?”

A questo punto l’abbadessa ritiene di dover segnalare un possibile equivoco e propone di distinguere tra visione comune e ideologismo: “Nell’ideologismo si prende un’idea, dunque un particolare della realtà e lo si assolutizza fino a farne la chiave interpretativa dell’intera realtà”: si tratta – e qui richiama anche il pensiero dell’Abate generale dom Bernardo Olivera – di una forma di violenza sulla realtà, di un’esagerazione che si regge soltanto a prezzo di innumerevoli censure della realtà, come dimostra la storia delle ideologie dell’ultimo secolo.

Ma la verità - prosegue – “non è un’idea spuntata nella nostra mente. Non v’è che una sola verità assoluta e universale, a partire dalla quale anche il minimo frammento di realtà può essere accolto e compreso: Dio. Non un dio-idea, ma il Dio vivente, la santa Trinità fattasi palpabile nell’umanità di Cristo. Attorno a lui, per la forza dello Spirito siamo uno, siamo la Chiesa. Ed è convertendoci al suo modo di pensare e di vedere le cose che giungeremo a una visione comune”.

UNO STRUMENTO NECESSARIO

Il pensiero che m. Rosaria esprime trova riscontro – ella stessa scrive – sul documento Ripartire da Cristo, della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e società di vita apostolica/2002, del quale anzi riporta l’intera parte centrale del n. 18. in tale sezione infatti la CIVCSVA pone al centro dell’itinerario di rinnovamento, cui tutte le comunità religiose sono tenute, il dialogo: il dialogo in funzione formativa, perché si possano conoscere e valorizzare le persone nelle loro doti umane, sociali e spirituali, e discernere “in esse i limiti umani che chiedono il superamento nonché le provocazioni dello Spirito che possono rinnovare la vita del singolo e dell’istituto” (RC 18); e il dialogo comunitario che porti in funzione comunionale ad “accogliere ed integrare i diversi modi i vedere e sentire “ (ivi) .

Il dialogo appare così - prosegue l’articolo - supremamente necessario a causa della grande differenza nell’educazione, nella cultura e nella corrente di pensiero ispirativa dei giovani nel mondo d’oggi, globalizzato e livellato in superficie ma privo di una cultura fondamentale omogenea; dove il Vangelo non è più un punto di riferimento e le medesime parole non hanno identico significato, mentre in monastero è indispensabile che le parole Dio, virtù, umiltà, fede, carità, silenzio, obbedienza… - e il contenuto che noi attribuiamo loro abbiano il medesimo senso.

La necessità odierna di un confronto continuo è perciò evidente: “Parlare, esprimersi per identificare il valore delle parole, discernere ciò che è buono e vero da ciò che non lo è, risalire dalle parole ai principi, dai principi al pensiero che li determina, e ancora più lontano ai sistemi di pensiero e alle esperienze dalle quali le parole sono sgorgate”.

Il dialogo che lo stesso RC qualifica formativo si riferisce - precisa m. Rosaria - al tempo della formazione iniziale quando la sua funzione pedagogica è più importante e durante la quale il dialogo avviene in primo luogo col formatore. “In monastero la Parola incarnata, Gesù, si incontra anzitutto nel rapporto privilegiato con colui che esercita per noi la paternità spirituale, e col quale viviamo l’apertura del cuore”.

È pur vero che ultimamente l’espressione tradizionale di paternità spirituale è stata a mano a mano abbandonata per far posto a quella di accompagnamento spirituale: un cambiamento di vocabolario che è spia di una profonda modificazione dell’intima sensibilità comune, passata “da qualcuno che si trovava davanti a me a qualcuno che si trova di fianco a me”.

Tuttavia nella tradizione monastica, benché il termine accompagnamento sembri più adatto alla mentalità contemporanea, il linguaggio filiale rimane quello che traduce in modo più completo e incisivo la realtà della relazione tra formatore e formando/a . Infatti “c’è qui in gioco un impegno responsabile e libero che ha caratteristiche molto diverse da quelle di una relazione semplicemente fraterna. Per il novizio, prendere liberamente la decisione di rinunciare alla propria sufficienza e autonomia è riconoscere che soltanto attraverso la mediazione di un altro potrà emergere la grazia dello Spirito Santo. San Benedetto considera l’apertura del cuore come l’apertura al Signore stesso. I testi della Scrittura che egli cita a tal proposito dicono esplicitamente che il fondamento di tale relazione è la fede. L’atteggiamento filiale consiste realmente in questo: aprire progressivamente il proprio cuore per ricevere una parola, credendo che tale atto esprime l’apertura alla stessa verità che è Cristo”.

In secondo luogo – precisa m. Rosaria – “il dialogo si vive in gruppo, tutti i fratelli o le sorelle con il formatore (nel noviziato e nel monasticato, da noi, l’incontro è settimanale). All’inizio, lo scambio nel dialogo tra i giovani verte su ciò che si legge e si interiorizza riguardo alla vita monastica, le sue osservanze, i suoi valori e anche l’esperienza che ognuno ha fatto sia dei valori che del modo nuovo di vivere”. E si nota ben presto – prosegue esemplificando – che quando si scambiano idee il dialogo si ferma al livello teorico, si vede che rimane una distanza tra ciò che si è capito e ciò che è stato vissuto. Così con l’aiuto del maestro o della maestra delle novizie i giovani prendono coscienza delle contraddizioni esistenti in se stessi; ognuno scoprirà le proprie incoerenze e sperimenterà alla luce della parola del Signore la dinamica di conversione che il dialogo può provocare portando alla ricerca della verità: sul piano del pensiero, su quello dell’autenticità di vita e di quell’impegno comune che conduce a scoprire “una verità più grande di quella che ciascuno può trovare cercando autonomamente”.

IL DIALOGO COMUNITARIO

Non c’è dubbio che anche il dialogo comunitario sia formativo, quantunque abbia luogo in un campo di indagine più ampio come la partecipazione nel consiglio dei fratelli al governo dell’abate, o più spesso perseguendo altre finalità, ad esempio per giungere a una decisione in merito a questioni concrete mediante una semplice riflessione interpersonale.

Ma ciò non è ancora il vero e proprio dialogo monastico, finalizzato non alla messa in comune di qualcosa o alla conoscenza reciproca o a uno scambio qualsiasi di idee, ma a qualcosa di più profondo che riflette il senso del dialogo ecclesiale.

“Nella Chiesa il dialogo non è un dibattito democratico e tanto meno uno scambio in vista di una migliore conoscenza psicologica. Né per crescere nel dialogo è sufficiente essere generosi. La generosità non coincide con la capacità di comunicare, di ascoltare, di collaborare. Il dialogo ecclesiale, strumento di ricerca della verità è molto diverso, sia nella teoria che nella pratica, dal dialogo democratico dove tutte le idee vengono non solo rispettate ma ritenute ugualmente valide: tutto può essere buono, tutto possibile. Nel dialogo ecclesiale accoglienza e rispetto sono dovute a ogni persona e a ogni cammino personale sincero e autentico. Ma non tutte le idee sono uguali: occorre valutarle attentamente una per una, col rispetto dovuto alla verità che si conosce e che si cerca. Riflessione, dominio di sé, umile consapevolezza nei valori nei quali si crede, apertura all’altro che è diverso, capacità di ascoltare con pazienza, simpatia e intelligenza…”.

INCONTRARSI ATTORNO A GESÙ

L’elenco di quanto sia necessario per un dialogo comunitario fruttuoso sarebbe ancora lungo, ammette m. Rosaria; ma ciò che ella afferma essere indispensabile è “mantenere la presenza dello stesso atteggiamento di fede di cui si è detto per il dialogo nella formazione iniziale: è la stessa relazione sacramentale che si estende fino all’ultimo dei fratelli e delle sorelle, come giustamente esige s. Benedetto: “Che i fratelli si obbediscano scambievolmente”. Se manca tale indispensabile condizione, la fede, neppure le più belle idee porteranno frutti di conversione.

Un clima che avvolge totalmente la vita comune orientata con costanza all’autenticità della comunione, quasi di un reale modus vivendi sempre in atto: è ciò che si intuisce dietro le parole dell’abbadessa cistercense, la quale sottolinea il fatto che il dialogo in comunità “è un momento di incontro dove Gesù è veramente presente. Noi ci raduniamo nel suo nome, siamo la sua Chiesa e cerchiamo il suo pensiero e la sua volontà su di noi. Apprendiamo ad ascoltare e a comunicare a costruire la visione comune e l’unità, non di rado anche attraverso un cammino di riconciliazione.

Impariamo a discernere le situazioni e le difficoltà, sapendo tutti che dobbiamo compiere ogni sforzo per amarci gli uni gli altri; il più difficile infatti è riconoscere che se io faccio personalmente tale sforzo anche l’altro sta facendo il medesimo sforzo. E la fede nello Spirito che anima me anima che lui, poiché credere nell’amore dell’altro si fonda sul fatto di essere la Chiesa, il corpo del Signore”.

Infine, il dialogo comunitario rimane sempre un mezzo di ricerca della verità a più livelli: “Verità di se stessi: correzione fraterna, revisione di vita, confessione di mancanze personali, richiesta di perdono; verità del cammino concreto della comunità mediante scambio di idee, consiglio dell’abate in verità e umiltà nello spirito della regola e quando è necessario come decisione mediante voto; ricerca dello sguardo di Dio, del pensiero di Cristo e della sua Chiesa, della sua volontà per la nostra comunità, e il nostro ordine in questo momento storico della Chiesa e del mondo”.

Ecco perché - conclude m. Rosaria - occorre un cuore semplice e disponibile, che si lasci formare dal Signore mediante il suo Spirito, e perché unica nostra premura deve essere quella di divenire discepoli, persone mature e pacificate, capaci di ascoltare, di apprendere, di meravigliarsi.

Venerdì, 26 Maggio 2006 02:09

Se il religioso è "scoraggiato" (Giuseppe Crea)

Nella vita ci sono tanti motivi per scoraggiarsi, difficili da comunicare agli altri, ma che con il passare del tempo diventano dei veri e propri fardelli che si insediano nella psiche dell’individuo. Una persona così bloccata ha bisogno del sostegno di un contesto relazionale comprensivo. Grande importanza ha in questo la comunità.

Vi sono delle partenze che appartengono alla categoria della fuga, altre che conducono a una nuova nascita: si lascia “l'uomo vecchio per trovare un uomo nuovo”. la cura analitica fa parte di queste partenze costruttive. ma il viaggio è disseminato di trabocchetti, e quel che si scopre non è necessariamente quel che si cercava…

Domenica, 21 Maggio 2006 20:59

Condividere la vita (sr. Maria Teresa Ronchi)

Siamo ancora in Galilea, lontano dalla città santa. Il Maestro non è solo con i discepoli. Una grande folla lo seguiva. Questa simpatica sequela non è indice di fede autentica.

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Mercoledì, 17 Maggio 2006 03:01

La porta e la voce (Giovanni Vannucci)

La porta e la voce
di Giovanni Vannucci

Due espressioni, nella pagina del vangelo di Giovanni (10,1-10), colpiscono la nostra attenzione. La prima è la porta: «Io sono la porta»; la seconda è la voce: «Le pecore ascoltano la sua voce». La porta è l’apertura che segna il passaggio tra due spazi distinti; varcare una porta, anche della più umile casa, costituisce qualcosa di grave e di solenne per uno spirito sensibile: attraversando una soglia, abbandona il suo consueto ambiente ed entra in un altro differente.

Questa è la più elementare esperienza che sta alla base delle parole di Cristo, e di tutto il simbolismo della «porta». La porta separa e unisce due ambienti, due spazi, due gradualità dell’essere, due matrici, due mondi distinti da strutture fisiche, psicologiche, mentali. Il varcare la soglia costituisce il passaggio da un modo d’essere a un altro; nell’esperienza religiosa le varie iniziazioni, che accompagnano le tappe della crescita fisica e psicologica dei credenti, sono vissute come il varco da un modo d’essere a un altro; la soglia presenta quel carattere di angoscia, di timore sacro che segna la linea di demarcazione tra un mondo conosciuto e quello sconosciuto che si apre al di là del limite. Giacobbe, dopo l’esperienza della sacralità del luogo ove aveva avuto il sogno iniziatico, esclama: «Questo luogo è tremendo, qui c’è la dimora di Dio e la porta del cielo» (Gen 28,17). L’aspetto angoscioso della porta, come ingresso in uno spazio differente, viene manifestato nel grande portale che introduce negli edifici sacri attorniato da «guardiani della soglia», draghi, leoni, sfingi, personaggi divini o semi-divini.

Questi pochi accenni al simbolo della porta ci aiutano a comprendere il significato della parola di Gesù che leggiamo nel Vangelo: «Io sono la porta, il pastore vero passa per la porta, il prezzolato e il ladro entrano nell’ovile attraverso altre aperture».

«Io sono la porta», il punto di passaggio da uno stato di coscienza vecchio e conosciuto, a un altro nuovo e sperimentabile. Cerchiamo, avanti di aggiungere altro, di comprendere il contenuto dell’affermazione di Cristo: le porte dei templi, i riti di passaggio costruiti e ordinati dall’uomo sono dei simboli, palpabili e misurabili, di un altro itinerario che la coscienza compie dentro il gesto, l’immagine esteriore; itinerario che sfocia in una mutazione qualitativa dell’anima, dell’interiorità. Le porte e i riti sono dei segni di qualcosa che si compie nell’intimo della personalità che varca la soglia dello spazio nuovo. Le strutture architettoniche, le azioni rituali perdono ogni valore quando si viene a vivere il contenuto qualitativo del nuovo spazio.

La frase: «Io sono la porta» può venire interpretata: Io sono la soglia che separa la vecchia coscienza dalla nuova, il significato di tutte le iniziazioni che altro non sono se non riti, cerimonie, costruzioni, dita puntate verso la novità, segni di un significato da scoprire. Io invece sono il significante e il significato, la forma e il contenuto, la materia e lo spirito. Le antiche porte sono tarlate, «quelli che sono venuti prima di me ormai sono ladri e briganti, la loro voce non risveglia le coscienze mature per la novità». Cristo è la porta e l’ovile; l’iniziazione e la nuova vita che essa trasmette; è il pane che dona la vita, non il cesto che lo contiene; è il pane ed è la vita; è la via che conduce alla verità ed è insieme la verità consegnata agli iniziati; è la luce del Santo dei Santi, che ha dilacerato ogni velame. Luce offerta senza interruzione, Luce che accoglie chiunque ne senta il richiamo e deliberatamente lo segua.

Questo rapporto diretto tra la singola coscienza e il Pastore è necessario venga vissuto con intensa generosità da ogni credente, se vogliamo che tutta la Chiesa ritrovi la vita, la Chiesa interiore e quella esteriore, se vogliamo che le porte iniziatiche, le parole di passo, i riti che introducono nella novità perdano la loro pesantezza e siano trasfigurati nella luce del vero e unico iniziatore.

Il passaggio dalla porta che è l’«Io sono» di Cristo fa fiorire Cristo nell’anima e fa ascendere l’anima, la personalità di ognuno, nel suo Io vero, che è Cristo, «non io vivo, ma Cristo vive», Cristo che è il vero Io di ognuno di noi, è il vero Io di tutti gli Io. Con l’«Io sono la porta» le antiche porte cadono, la verità liberatrice dilegua le corposità dei moralismi dogmatici, la ricerca personale della luce mette in seconda linea ogni preoccupazione pastorale e sociale; l’offerta di se stessi a Cristo perché ci unisca a sé ci rende fermi, senza timore di orgoglio, in questo pellegrinaggio verso la nostra deificazione, che ci renderà certi della nostra nascita nella nuova coscienza di Cristo e nella quale sperimenteremo che Cristo è Dio per noi e noi per Dio.

Fino alla novità sbocciata con l’Incarnazione, morte e risurrezione della Parola eterna, i templi erano i depositari dei segreti e delle verità nascoste sotto i simboli, il velo copriva il Santo dei Santi, solo agli iniziati veniva, dopo opportuna ascesi, dischiuso. Con la venuta di Cristo la verità diventa il pane e il vino di tutta l’umanità, è data a tutti perché tutti ne traggano il necessario alimento alla loro ascesa personale. Il velo è squarciato. Dio entra nel cuore degli uomini, lo Spirito discende nella carne degli uomini. E ciascun uomo è capace di prender coscienza di essere stato pensato ed espresso da una parola irripetibile e singolare, parola pronunciata dal Verbo nell’eternità, parola che il Verbo incarnato ripete nel tempo entro il cuore di ogni pecorella: «Le pecore riconoscono la sua voce». Parola che rende la persona umana più grande delle stelle del cielo, più gloriosa di tutte le leggi unificatrici e ordinatrici del cosmo.

Prendere coscienza del nostro Io divino, dell’Io divino di ogni nostro fratello, significa varcare la porta iniziatica che è Cristo, essere assunti dalla sua grazia trasfiguratrice, rispondere personalmente al nome col quale da tutta l’eternità ci chiama, nascere la seconda volta. Il motivo della nostra tragedia, della nostra disarmonia, è il non volerci riconoscere in Lui, il seguire la voce della nostra personalità separata, invece di quella del Buon Pastore che passa per la «porta» che è Cristo.

(Giovanni Vannucci, «La porta e la voce», 4a domenica di Pasqua, Anno A; in Risveglio della coscienza,  Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 72-74).
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Forma specifica della "crisi" che investe l'uomo nella sua esistenza è quella connessa all'età di mezzo e chiamata midlife-crisis, più comunemente "crisi dei quarant'anni".

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Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentacinquesima parte

2. L'interiorità

Gustare Dio (è risonanza del Sal. 33, 9) produce un cambiamento determinante per il resto della vita. Il P. Colin ritiene anche che questa esperienza all’inizio del cammino religioso sia un punto di riferimento per tutto il resto della vita:

“Più tardi nello scorrere della vita, quando uno ha gustato Dio, se ne ricorda e vi ritorna con piacere” (Ibid., Doc. 63, n. 3, p.190; Doc. 64, n. 1: “Una volta che essi (i novizi) sono uniti a Dio essi si arricchiranno più in un giorno che attraverso quello che voi potrete fare. Sì, se essi hanno gustato Dio una volta, voi non avrete più che una sola preoccupazione, sarà quella di moderarli”.)

Lo spirito d’interiorità introduce nella vita “in Cristo”, riveste il religioso di lui; è come essere il “corpo del suo corpo e l’anima della sua anima”. Al P. Eymard consigliava:

“Dato che la nostra vita è una vita di azione, rivestendovi di Nostro Signore, voi sarete sempre in pace e la vostra stessa anima sarà sempre occupata come in una dolce preghiera”. (Ibid., Doc. 45, nn. 1-2)

l’interiorità consiste nello stabilire l’anima in un atteggiamento di preghiera. L’ideale non la quantità, bensì l’immergere l’anima in uno stato di preghiera, avvolgerla con lo “spirito di adorazione”, alimentarla con il “gusto per la preghiera”: essa infatti è la linfa che nutre l’albero e l’olio che alimenta la lampada:

“Colui che non ama la preghiera assomiglia ad un albero morto o almeno languente… E’ un albero che produce foglie, forse anche qualche fiore, ma non dei frutti… E’ una lampada che fa del fumo o che è sul punto di spegnersi”. (Ibid., Doc. 132, nn. 8-9)

Il traguardo che il P. Fondatore propone ai Maristi, da una parte, prevede che sia raggiunto con le pratiche di pietà le più normali e senza stravaganze e individualismi (Constit., art. VII, nn. 37 ss., pp. 12ss; Ibid., cap. II, art. II, n. 95, p. 35) e, dall’altra che si percorra il cammino della vita interiore fino all’unione mistica con Dio. Per questo maestro “in rebus divinis viisque spiritualibus peritissimo”, ci si applichi a fondo allo studio della teologia mistica (“Parole di un fondatore”, cap. III, art. V, n. 153, p. 53), già iniziato negli anni dello scolasticato e ritenuto da P. Colin un supplemento indispensabile alla teologia scolastica, senza il quale non si potrebbe conoscere, né dirigersi e neppure dirigere gli altri (“Parole di un fondatore”, op. cit., Doc. 79, n. 7, p. 226).

Tra le pratiche che al P. Colin sembrano le più atte a mantenere e favorire lo spirito dell’Istituto, la meditazione (Constit., cap. II, n. 86, p. 31,; Ibid., art III, n. 107, p. 38) occupa un posto di particolare rilievo: essa è “fon set origo omnium bonorum spiritualium” (Ibid., cap. V, art. I, n. 182, p. 62), a cui si attinge la sapienza della vita.

Ogni battezzato deve vivere la sua vita come un’unica e preziosa celebrazione liturgica, facendo continuamente trasparire dalle sue azioni la verità della fede cristiana.

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Giovedì, 27 Aprile 2006 01:49

Riappropriamoci del futuro (Marcelo Barros)

Riappropriamoci del futuro
di Marcelo Barros

In quasi tutto il mondo, gennaio è il mese che avvia l'anno. La gente si scambia auguri, auspicandosi a vicenda che l’anno nuovo non sia uguale a quello che è appena terminato ma mi­gli ore, pieno di pace e gioia per tutti.

Un tempo, le comunità tradizionali solennizzavano questo nuovo inizio con riti in cui tutto ciò che era "invecchia­to”, nella vita delle persone (e l'anno ap­pena concluso lo era) veniva buttato via o smesso. A volte, il rito consisteva in un pellegrinaggio a una montagna, o in un bagno rituale nelle acque di un fiume o del mare. La gente si rinnovava per es­sere pronta ad accogliere il nuovo dalle mani di Dio.

Se penso agli odierni "riti” per il nuo­vo anno, essi mi appaiono segnati quasi esclusivamente dal consumismo più sfre­nato, che accentua disuguaglianze e in­giustizie. E allora, mi domando: che spe­ranza possiamo avere che il nuovo anno sia pieno di pace per la terra tutta e di fe­licità per tutti coloro che la abitano?

Oggi, in Brasile è in atto una crisi po­litica che tocca tutti. Il governo aveva promesso di "rinnovare" il paese, adot­tando un modello economico in grado di eliminare disuguaglianze sociali e ingiustizie strutturali, ma non sembra ca­pace di far decollare tale modello.

Per quanto riguarda il mondo intero, la situazione non mi sembra diversa: do­po tante promesse e piani decennali, l'Onu un'organizzazione dominata dalle nazioni ricche - "si umilia" e am­mette di non sapere come fare a fermare - o anche solo diminuire - la povertà e la miseria che ancora affliggono gran parte dell'umanità. Nel frattempo, con­tinua imperterrito lo scempio fatto del­la natura, che si traduce in disastri che colpiscono in particolare i più poveri e marginalizzati.

Questo stato di cose non fa che diffondere spirito di rassegnazione, mancanza di speranza e apatia socio-po­litica. E mentre alcuni gruppi, in preda alla disperazione, ricorrono a forme de­leterie e ingiuste di protesta politica (quali il terrorismo e la violenza di stra­da), molte persone, oneste e tranquille, cercano una realizzazione personale ri­fugiandosi in qualche intimo androne della propria vita individuale.

Se questo è il quadro generale, allo­ra si fa sempre più urgente il coraggio di fare una opzione fondamentale di vi­ta tale da poter riorientare la nostra spe­ranza.

L'aver trasformato i paesi ricchi - quelli del primo mondo, tanto per in­tenderci - in megalattici e lussuosissimi shopping centre non ha garantito la pa­ce né procurato felicità. Per contro, pur privi di tutto, i poveri del sud del mon­do non solo continuano a mostrare una esuberanza di vita, un carico di allegria e una capacità di sopportazione che ri­sultano inconcepibili a coloro che nuo­tano nel danaro, ma stanno sviluppando una vera e propria "scienza della resi­stenza", che li porta a cercare sempre nuovi cammini.

In molti paesi del sud del mondo si sta imponendo una economia di solida­rietà, definita anche "economia sociale", economia popolare", “economia del prossimo”... Si tratta di un modello eco­nomico che, noi, considerando l'altro un concorrente, ma un partner e un colla­boratore, favorisce la cosiddetta "pro­prietà sociale" (tipica delle società tradi­zionali e delle cooperative), prepara gruppi all'autogestione e privilegia sia il consumo critico che il mercato equo e solidale.

Sole le persone e i gruppi che accet­tano questo spirito di condivisione po­tranno esperimentare la verità del detto neotestamentario: «C'è più gioia nel da­re che nel ricevere» (Atti 20,35). Solo es­si potranno godere della vita e della pa­ce che sono il frutto della giustizia. E, fa­cendo gli auguri al proprio vicino, po­tranno fare proprie le parole di un'anti­ca benedizione irlandese:

Che il cammino sia lieve ai tuoi piedi
e la brezza soave alle tue spalle.
Che il sole illumini il tuo volto,
la pioggia cada leggera sui tuoi campi.
Fino ci quando ti rivedrò di nuovo,
Dio ti protegga nel palmo della sua mano.

(da Nigrizia, gennaio 2006)

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Antichità cristiana…
intorno al 1000 e… dopo
di Franco Gioannetti

Anselmo d’Aosta dice che la verità è piantata da Dio nell’uomo.

Bernardo di Chiaravalle coglie il divino in un impeto d’amore.

Ildegarda di Bingen sente molto il suo influsso.

Ugo e Riccardo di San Vittore accolgono il concetto di Fruitio divina che esprime il contatto con il divino, la pienezza di vita, la liberazione dai limiti individuali.

Domenico di Guzman e Francesco d’Assisi indicano non solo la contemplazione del Cristo ma anche la sua imitazione; la salvezza consiste nell’unione con Dio resa possibile a tutti in Gesù fatto uomo.

Meister Eckart, in un’epoca di rottura tra teologia speculativa e vita spirituale, spinge la relazione tra Dio e l’uomo fino all’identità. L’anima, dice, è un’intima scintilla già unita a Dio nel’eterno principio del mondo, è l’organo della contemplazione intuitiva, ma perché si possa comprendere completamente Dio, è necessario lo svuotamento dell’io, l’abbandono totale.

Susone parla di gioia amorosa verso la Sapienza eterna; Giovanni Taulero si muove su una linea etico-volontaristica.

Ruusbroec parla dell’uomo che, grazie alla potenza del Cristo, gode della pienezza dell’unione con Dio.

Nel secolo XV l’umanesimo invita a guardare il mondo come la casa di Dio mentre l’umanità di Cristo spingerà alla consapevolezza della presenza amorosa di Dio.

Nel 1500 Sebastian Frank parla di Dio presente nel cuore di ogni uomo per illuminarlo con il suo verbo e per guidarlo con il suo spirito.

L’età moderna verdà poi Teresa di Gesù e Giovanni della Croce ed il nascere della mistica dell’azione.

L’esperienza poi di Ignazio di Loyola parte dalla convinzione che lo spirito di Gesù è al di dentro di ogni individuo.

Tale percezione mistica spinge l’apostolo a vedere tutte le attività in rapporto alla loro fonte divina.

Francesco di Sales tenta di presentare tutti gli aspetti di un amore di Dio da vivere in tutti gli stati di vita e così la mistica laicale, trascurata durante tutto il medioevo, inizia i suoi timidi passi. Mentre le comunità di Vincenzo dè Paoli e di Lonise de Marillac vivranno la mistica dell’azione come imitazione delle azioni di Cristo.

Per Pietro de Berulle le opere di Gesù sono presenti nella vita della Trinità, quindi sono possibili a tutti i credenti.

B. Pascal tenta l’unificazione tra scienza e fede, intelletto e fede.

La condanna del quietismo molinista nel 1600 e di Fenelon nel 1700 relegheranno la mistica ad un fatto marginale.

Pubblicato in Mistica

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