Riappropriamoci del futuro
di Marcelo Barros
In quasi tutto il mondo, gennaio è il mese che avvia l'anno. La gente si scambia auguri, auspicandosi a vicenda che l’anno nuovo non sia uguale a quello che è appena terminato ma migli ore, pieno di pace e gioia per tutti.
Un tempo, le comunità tradizionali solennizzavano questo nuovo inizio con riti in cui tutto ciò che era "invecchiato”, nella vita delle persone (e l'anno appena concluso lo era) veniva buttato via o smesso. A volte, il rito consisteva in un pellegrinaggio a una montagna, o in un bagno rituale nelle acque di un fiume o del mare. La gente si rinnovava per essere pronta ad accogliere il nuovo dalle mani di Dio.
Se penso agli odierni "riti” per il nuovo anno, essi mi appaiono segnati quasi esclusivamente dal consumismo più sfrenato, che accentua disuguaglianze e ingiustizie. E allora, mi domando: che speranza possiamo avere che il nuovo anno sia pieno di pace per la terra tutta e di felicità per tutti coloro che la abitano?
Oggi, in Brasile è in atto una crisi politica che tocca tutti. Il governo aveva promesso di "rinnovare" il paese, adottando un modello economico in grado di eliminare disuguaglianze sociali e ingiustizie strutturali, ma non sembra capace di far decollare tale modello.
Per quanto riguarda il mondo intero, la situazione non mi sembra diversa: dopo tante promesse e piani decennali, l'Onu un'organizzazione dominata dalle nazioni ricche - "si umilia" e ammette di non sapere come fare a fermare - o anche solo diminuire - la povertà e la miseria che ancora affliggono gran parte dell'umanità. Nel frattempo, continua imperterrito lo scempio fatto della natura, che si traduce in disastri che colpiscono in particolare i più poveri e marginalizzati.
Questo stato di cose non fa che diffondere spirito di rassegnazione, mancanza di speranza e apatia socio-politica. E mentre alcuni gruppi, in preda alla disperazione, ricorrono a forme deleterie e ingiuste di protesta politica (quali il terrorismo e la violenza di strada), molte persone, oneste e tranquille, cercano una realizzazione personale rifugiandosi in qualche intimo androne della propria vita individuale.
Se questo è il quadro generale, allora si fa sempre più urgente il coraggio di fare una opzione fondamentale di vita tale da poter riorientare la nostra speranza.
L'aver trasformato i paesi ricchi - quelli del primo mondo, tanto per intenderci - in megalattici e lussuosissimi shopping centre non ha garantito la pace né procurato felicità. Per contro, pur privi di tutto, i poveri del sud del mondo non solo continuano a mostrare una esuberanza di vita, un carico di allegria e una capacità di sopportazione che risultano inconcepibili a coloro che nuotano nel danaro, ma stanno sviluppando una vera e propria "scienza della resistenza", che li porta a cercare sempre nuovi cammini.
In molti paesi del sud del mondo si sta imponendo una economia di solidarietà, definita anche "economia sociale", economia popolare", “economia del prossimo”... Si tratta di un modello economico che, noi, considerando l'altro un concorrente, ma un partner e un collaboratore, favorisce la cosiddetta "proprietà sociale" (tipica delle società tradizionali e delle cooperative), prepara gruppi all'autogestione e privilegia sia il consumo critico che il mercato equo e solidale.
Sole le persone e i gruppi che accettano questo spirito di condivisione potranno esperimentare la verità del detto neotestamentario: «C'è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35). Solo essi potranno godere della vita e della pace che sono il frutto della giustizia. E, facendo gli auguri al proprio vicino, potranno fare proprie le parole di un'antica benedizione irlandese:
Che il cammino sia lieve ai tuoi piedi
e la brezza soave alle tue spalle.
Che il sole illumini il tuo volto,
la pioggia cada leggera sui tuoi campi.
Fino ci quando ti rivedrò di nuovo,
Dio ti protegga nel palmo della sua mano.
(da Nigrizia, gennaio 2006)