In ricordo di P. Franco

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Venerdì, 01 Dicembre 2006 20:54

“Questa terra ha un padrone” (Marcelo Barros)

“Questa terra ha un padrone”
di Marcelo Barros

Fu il grido di battaglia di Sepé Tiaraja, leader della resistenza guaranì contro l’imperialismo portoghese. Oggi è ripetuto dalle comunità indios latino-americane che lottano per la propria terra e scorgono in “São Sepè” un modello cui ispirarsi.

Per le comunità cristiane e per i gruppi popolari del Brasile, il mese di febbraio 2006 segna il 250° anniversario del martirio di Sepé Tiaraja, un cacicco guaranì che, nel secolo 18°, guidò il popolo indio nella difesa delle proprie terre ancestrali e nella lotta di resistenza contro il Portogallo e la Spagna.

Nella realtà attuale del Brasile, i contadini senza terra, i gruppi indigeni e i movimenti popolari celebrano questa memoria per riappropriarsi di quella stessa ‘”mistica di liberazione” che oggi mobilizza tutta l’America Latina, a partire dal concetto di “rivoluzione bolivariana” (dal generale venezuelano Simòn Bolivar, che nel 1813 liberò il Venezuela dagli spagnoli).

Il significato di ”guaranì” (termine che designa sia la lingua che il popolo) è “guerriero”. Dal 1610 al 1750, i gesuiti riunirono queste popolazioni guerriere in comunità pacifiche e fiorenti (le famose “riduzioni”, fondate presso i guaranì, specialmente tra i fiumi Paranà e Uruguay, e dal 1628 anche tra i tapi, sull’altra riva dell’Uruguay; al loro apogeo, nel 1731, le riduzioni del Paraguay contavano 141mila indios cristiani). I guaranì misero a frutto le proprie energie per edificare case e consolidare tecniche agricole (molto avanzate per quell’epoca). Arrivarono al punto di stampare libri, fondere il bronzo, fabbricare violini e comporre musica.

La cosiddetta “Repubblica dei guaranì” era formata da sette popolazioni del Rio Grande do Sul e da 26 villaggi nel territorio che oggi appartiene all’Argentina e al Paraguay. La pace che regnava nelle riduzioni trovava il suo fondamento nel lavoro comunitario e cooperativo, i cui frutti venivano equamente suddivisi tra gli abitanti. Contrariamente a quanto accadeva nel resto del continente, non c’erano marcate disuguaglianze sociali.

Si trattava, insomma, di un sistema sociale mai praticato prima di allora, ma elogiato prima dagli illuministi francesi (Voltaire, intellettuale francese dall’ingegno caustico e spregiudicato ed estremamente critico nel confronti del clero, ebbe a scrivere: «L’esperienza cristiana delle missioni guaranì rappresenta un vero trionfo dell’umanità») e poi anche da Gandhi, che lo considerava la realizzazione utopica di una società nonviolenta ed equa. (I resti di queste riduzioni sono ancora presenti nella foresta e considerate dall’Unesco patrimonio dell’umanità).

Questa esperienza comunitaria, dai marcati caratteri socialistici, preoccupò non poco gli imperi coloniali. Con la firma del trattato di Madrid del 1750, in base al quale le missioni della riva orientale del fiume Uruguay passarono sotto la giurisdizione portoghese (che si opponeva all’esperimento), cominciò la decadenza delle riduzioni. Subito dopo, gli eserciti coloniali dei due imperi si unirono per espellere oltre 50mila indios dalle riduzioni, obbligandoli ad abbandonare le case, le piantagioni, le chiese e le loro comunità.

José Tiaraju - più conosciuto come Sepé, cioè “Raggio di Luce” -, corregedor (sindaco, potestà, prefetto) della riduzione di São Miguel, democraticamente eletto dagli indios, non accettò le decisioni del trattato di Madrid e si mise a capo della resistenza guaranì, con il noto “grido di battaglia”: «Questa terra ha un padrone».

Il grande cacicco guaranì morì in uno scontro armato con le truppe portoghesi e spagnole: era il 7 febbraio 1756. Dopo altre battaglie, sia politiche che armate, la Compagnia di Gesù fu espulsa dai territori portoghesi (1759) e dalla zona d’influenza spagnola (1767).

Le ultime riduzioni guaranì sopravvissero di poco. Il sogno missionario di una società comunitaria cristiana fu fatto fallire. Ma la gente del sud del Brasile non ha mai dimenticato Sepé Tiaraju: lo ha anzi “canonizzato”, giungendo a dedicargli una città, São Sepé, nel 1876.

La speranza dei movimenti popolari latino-americani odierni è che la memoria del martirio di “São Sepé” torni a riaccendere la mistica-spiritualità della lotta popolare. In Bolivia, un indio aymara è stato eletto presidente. In Venezuela, il popolo sta vivendo l’esperienza di una riforma agraria e di una campagna massiccia di alfabetizzazione degli adulti. In Ecuador, il Coordinamento dei movimenti e delle comunità indigene (Conaie) sta donando agli indios un protagonismo politico che non hanno mai avuto prima. In tutti i paesi del subcontinenre, i popoli indios, come pure le comunità rurali e urbane, si stanno unendo per gridare a tutti che «un altro mondo è possibile» e per ripetere agli imperi di oggi il grido con cui São Sepé affrontava i portoghesi: «Stop! Questa terra ha un padrone!».

(da Nigrizia, febbraio 2006)
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Venerdì, 01 Dicembre 2006 20:39

Siate svegli! (Giovanni Vannucci)

Siate svegli!
di Giovanni Vannucci

Gesù disse: «Abbiate gli occhi aperti, siate svegli! La venuta del Figlio dell’Uomo non vi trovi addormentati» (Mc 13, 35).

Il Figlio dell’Uomo è venuto e ha avuto la sua perfetta manifestazione in Gesù Cristo; il Figlio dell’Uomo viene continuamente, nella silenziosa ascesa di ogni coscienza nella verità e nella grandezza dell’uomo. Ascesa che rivela l’inconsistenza, la presunzione, la mancanza di saggezza di tante nostre limitazioni. Siamo noi cristiani? Per rispondere non guardiamo i registri di battesimo, le idee religiose, le pratiche devote; interroghiamo la nostra ascesa nella verità di figli dell’Uomo e di figli di Dio.

Il sussiego che caratterizza troppo spesso la nostra professione di fede cristiana è un impedimento alla nascita in noi dell’Uomo vero, figlio della terra e del cielo. L’Uomo vero è in cammino, ed è la silenziosa incarnazione della Parola eterna nell’umana coscienza, la non violenta, tenace come la forza della vita, regale presa di possesso degli uomini che le appartengono per quelle qualità che non sono di questo mondo, ma del mondo futuro, del tempo nuovo. «Verranno dall’Oriente e dall’Occidente uomini silenziosi e illuminati, che non appartengono alle ufficiali file dei cristiani, e prenderanno il loro posto».

Gesù è venuto a portare il tempo nuovo, tempo equinoziale per tutta l’umanità. Come l’equinozio separa la stagione, cosi il tempo nuovo portato da Gesù separa la pesantezza della carne dell’uomo dalla santità della sua natura spirituale. Come il gallo del mattino, Egli chiama i dormienti; quelli che si sveglieranno e che sapranno restare svegli, saranno la sua eredità; coloro che terranno chiusi gli occhi, che entreranno dormendo nel tempo nuovo, resteranno eredità della bestia che è in loro.

Egli fu innalzato per essere un segnale alle genti perché il suo grido venisse udito da tutti i dormienti.

Siate svegli! È il segreto della potenza e della vittoria umana. Siamo convinti di essere svegli, in realtà dormiamo un sonno profondo e siamo tormentati da sogni di incubo. Con fili di sogni ci siamo costruiti una rete ove siamo rimasti impigliati, più ci impigliamo e più ci addormentiamo, e più ci addormentiamo, più l’elemento bruto della nostra natura si risveglia. E così, ottusi, indifferenti al bene, incapaci di pensare autonomamente, molti di noi vanno per le strade della vita come mandrie verso l’ammazzatoio; altri, sognando e agitandosi nel sogno, credono di essere svegli, in realtà dormono ancora più profondamente, posseduti più profondamente dal torpore, e questi non sono affatto i poeti, i contemplativi, i dotati d’immaginazione creatrice, sono invece gli attivi, gli zelanti, i costruttori, gli iniziatori di movimenti di massa, i dominatori di popoli, i vari messia bruciati e distrutti dalla mania di agire; quelli che han sempre da fare, gli agitati. Pensano di essere svegli, di sapere quel che fanno, di volere ciò che vogliono, in realtà il sogno è il loro padrone, non essi i padroni del sogno.

Essere svegli significa partecipare con pensiero cosciente e vigile a ogni istante della vita, per avvertire i segni che vengono dall’alto e dal profondo, dalle dottrine stabilite e dalle coscienze viventi che tali dottrine sentono ormai legate a un passato che più non è per l’uomo. C’è il tempo dell’apparizione delle gemme e il tempo della fioritura, il tempo della fruttificazione e quello del ritorno del germe in seno aIla terra, per poi risorgere alla vita. E ogni tempo ha la sua parola e il suo annuncio; quando è l’ora dell’interramento, il rimpianto e la nostalgia dei fiori e dei frutti non hanno più senso, sono sogni dell’uomo che non è sveglio.

Essere svegli è l’atteggiamento richiesto a ogni coscienza lungo le tappe che costeggiano il cammino della Rivelazione, che ascende trascinando con se le anime vigilanti. Per noi, creature umane, il mistero religioso vien celebrato nell’essere svegli; dobbiamo imparare a passare da un risveglio all’altro, se vogliamo vincere la morte. La morte s’inizia a vincere superando il torpore, il sonno, il sogno. Il primo passo è vincere il primo nemico, il corpo, con le sue esigenze di vita comoda e protetta, di ricerca di beni confortevoli e di mura calde e protettrici; il secondo è l’anima con le sue richieste di essere stimata e applaudita, amata e considerata; il terzo è la ragione concreta, quella che da l’illusione della veglia, che identifica le sue conoscenze con la sapienza divina, i suoi piani con i valori divini, le sue ideologie con i pensieri divini. La vittoria sul primo dischiude il pensiero cosciente; quella sul secondo apre il dono del discernimento del proprio personale compito; quella sul terzo ci offre la grandezza dell’umiltà. La consegna evangelica a chiunque lotti per essere sveglio è di gettare allo sbaraglio la propria vita, la propria anima, per possederla.

Lo stato di veglia è la cosciente apertura mentale al mistero divino infinitamente lontano da noi, ma che ci avvolge dentro di sé, ed è in noi più assai che il battito del nostro cuore. Sempre avanti alla sua creazione, che guida alla perfetta fioritura di tutti i germi di vita che instancabilmente vi dissemina.

Essere svegli vuoi dire aver raggiunto l’apertura dell’occhio interiore che scorge il cammino di Dio nel creato e spinge tutto l’essere umano a seguirlo. Nello stato di vigilanza il corpo viene mutato nello spirito; il cuore si spoglia dalla cupidigia di prendere e di ricevere e si dischiude nella qualità divina del dare senza misura, senza tornaconto, senza bramosia di premio; la mente comprende i limiti, le angustie delle proprie visioni e con umiltà si offre alla vastità del pensiero di Dio.

Il tempo nuovo avvolge l’uomo vigilante, e attraverso di lui si rivela Colui che è venuto e che verrà sempre, nelle coscienze che aprono gli occhi al suo eterno ritorno.

(da Giovanni Vannucci, Siate svegli, 1a domenica d’Avvento - Anno B; in Verso la luce, Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984, pp. 11-14).

Pubblicato in Maestri Contemporanei

La rivelazione della misericordia di Dio come bontà benevola e costante, come amore fedele e forte, a dispetto delle debolezze dell'uomo, manifesta a questi il vero volto del Padre, capace di pazientare e pronto a perdonare...

 

 

 

Il tempo dell'attesa e il mestiere della cura

di Vittorio Nozza

 

Pochi giorni al 25 dicembre. È il tempo dell'attesa, dei preparativi per lasciare che Qualcuno entri nella nostra vita. Come succede in una casa che aspetta la nascita di un figlio: c'è da fare spazio, un letto da preparare, del tempo da dedicare alla nuova vita: non a caso il mistero dell'Incarnazione ci viene raccontato dalla culla di Betlemme. Anche l'attesa di un figlio può sembrare un avvenimento impossibile. Soprattutto può creare scompiglio in casa, mandare all'aria i progetti e le idee di una giovane coppia. Come ogni grande sorpresa che ci investe, non ci sentiremmo mai pronti, mai adeguati: è quasi naturale parlare di turbamento e paura. Nessuno ci ha mai preparato all'imprevedibile: attendere un figlio è una scommessa sul futuro, confidare in un dono, dare credito a qualcuno, mettersi a servizio della vita.

Il tempo della vita, poi, è alternanza di gioie e dolori, fatiche e speranze. A volte i nostri occhi si spalancano nello stupore di fronte alle meraviglie della vita, ma possono riempirsi anche del grigio della noia o del nero della disperazione. Ogni angolo della terra ha un popolo che grida, una donna che sperimenta la minaccia, un figlio che ha paura: tutti aspettano un tempo di riposo e un po' di pace. Anche angoscia e ansia fanno parte dei nostri tempi, fatti di attesa e di domande. C'è una speranza che interroga le nostre paure: che ne sarà della vita? Chi ci dirà qualcosa del futuro? Ha senso che cerchiamo di prenderci cura della storia per "crescere e abbondare nell'amore vicendevole e verso tutti", come dice l'apostolo?

I pastori, i consumi, la sete

Il tempo dell’attesa per educarci ad accogliere non è un tempo vuoto d’azione. C’è da fare un grande lavoro di costruzione di una nuova umanità, dentro e attorno a noi. Una domanda per tutte: che cosa dobbiamo fare? Cambiare vita in modo radicale oppure occuparci umilmente del nostro quotidiano? Ci dicono: urge una svolta. Sì, ma perché o per chi dovremmo cambiare? Ci deve essere una ragione davvero forte per metterci in viaggio, per farci invertire la rotta. Non per calcolo. Non per convenienza. Ci deve essere qualcuno così forte da afferrarci la vita. Nessuno cambia se non viene incontrato da una presenza che lo emoziona, gli scalda il cuore, gli dà speranza, vince la morte.

Oggi i pastori sono un po’ diversi: sono gli uomini della città, dei consumi; sono gli uomini che hanno tutto e che continuano ad avere sete. Però, quando si tratta di vigilare, di custodire, di andare alla ricerca, ci sentiamo un po' tutti dei pastori. Il cui mestiere è la cura. Cura della natura, del mondo, dell'altro. Cura dell'uomo.

Soprattutto, cura del mistero della vita, della parola che dà corpo alle nostre domande e abbevera i desideri: Dio che si fa carne è al di là di ogni aspettativa.

La nostra è la società della fretta e dell'efficienza. Abbiamo tante cose da fare, da costruire e da comperare... Ci sembra che nulla possa esistere se non è subito nelle nostre mani e sotto i nostri occhi. Anche le nostre città, i nostri quartieri, le nostre vie, così conosciuti, così familiari, così nostri, possono assomigliare a un deserto, desolazione e solitudine, incomprensione e mancanza. Hanno bisogno di amore e di perdono. Qualcuno ha promesso di porre la sua tenda in mezzo a noi ed è ovvio prepararsi per accogliere la sua venuta. Prepararsi come per una grande festa. Un tempo di attesa, breve ma sempre più confuso da ciò che ci circonda e coinvolge: luminarie, corse all'ultimo regalo, pranzi, inviti, cene, vacanze.

Questo tempo ricco, sotto molti aspetti, deve ricordarci che ci sono anche i non-ricchi: i poveri. Qualcuno piange ancora per la fame e per la mancanza di un tetto sotto il quale trovare rifugio. L'Incarnazione è il modo in cui Dio si fa carico della povertà dell'uomo, di ogni uomo, per prestare orecchio al grido del povero e dell'oppresso, della vedova e dell'orfano, dello straniero e del carcerato. Accogliere Gesù che viene nella notte di Natale significa accogliere con Lui anche tutti coloro per i quali è venuto, significa accettare che la nostra vita cambi perché l'abbiamo incontrato, ascoltato e accolto.

Accolto. Ma in chi?

* In quel quinto della popolazione mondiale che vive ancora con meno di 1 dollaro al giorno: oltre 1 miliardo 200 milioni di persone che rischiano quotidianamente la morte e vedono compromesso il proprio sviluppo fisico e mentale;

* in quei 120 milioni di bambini che al mondo non vanno a scuola: una larga fascia delle nuove generazioni non saprà né leggere né scrivere, due terzi sono bambine;

* in quei 10 milioni di bambini con meno di 5 anni che ogni anno muoiono a causa di malattie curabili con vaccini adeguati e in quei 140 milioni che muoiono per Aids e malnutrizione;

* in quelle 500 mila mamme che muoiono ogni anno a causa delle precarie condizioni igieniche nelle quali sono costrette a partorire per l'assenza di personale qualificato, malnutrizione e malattie facilmente curabili;

* in quel 1 miliardo 100 milioni di persone che non hanno accesso all'acqua potabile, residenti in maggior parte nelle aree rurali.

Il sogno e il frammento

Natale: evento per sognare. Lasciateci sognare un'esistenza nuova, una politica con più fiato, una maggiore attenzione a chi ci sta accanto, una maggior credibilità delle istituzioni, più pace tra i rappresentanti delle istituzioni, meno egoismi privati e più coraggio pubblico, l'apparire di prospettive europee e mondiali in grado di giustificare i sacrifici che facciamo e che sono, in qualche modo, inevitabili, un mondo più giusto e in pace. Lasciateci sognare anche l'emergere di vocazioni sociali e politiche a servizio dell'umanità.

Natale: il tutto è nel frammento, l'eternità è nell'attimo, la luce squarcia le tenebre, la nostra attesa è colma, la speranza di un popolo di uomini trova verità. Tutto per dire il grande avvenimento: la Parola si è fatta carne. Dio si è fatto uomo. Egli ha posto la sua tenda e ha scelto di abitare in mezzo a noi. Un bimbo è lì per dire la verità dell'amore per ogni uomo, senza distinzione né differenze. Sbirciare in quella mangiatoia, accoglierlo nelle nostre braccia, sarà come ritrovare il nostro essere uomini, sarà come scoprire che Dio ha una parola per noi. Su di noi. Da sempre. Buon Natale.

(Tratto da Italia Caritas, dic. 2004, pag. 3)

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Giovedì, 23 Novembre 2006 00:45

Il Trono di Dio (Timothy Radcliffe o. p.)

Da una conferenza tenuta dal R. P. Timothy Radcliffe o. p. al Congresso degli abati dell’Ordine di San Benedetto sul tema del

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Domenica, 12 Novembre 2006 17:35

Evagrio Pontico (Franco Gioannetti)

Evagrio Pontico
di Franco Gioannetti


Scrittore ecclesiastico nato ad Ibora nel Ponto (Asia minore) circa il 356, morto nel 399. è una figura di primo piano tra i teorici della spiritualità della Chiesa antica.

Fu nominato lettore da Basilio il Grande, diacono da Gregorio di Nazianio. Esercitò il ministero della predicazione a Costantinopoli fino al 382, poi prima brevemente a Gerusalemme, poi definitivamente in Egitto si dedicò alla vita ascetica. Fu discepolo di S. Macario l’egiziano. Scrisse: l’Antirrheticus, raccolta di sentenze bibliche; il Monasthicus, raccolta di massime per anacoreti; lo Specchio per i monaci; lo Specchio per le monache; 600 Problemi gnostici, di contenuto dogmatico e morale; 67 lettere; Piccolo Trattato sulla vita monastica; Capitula XXXIII di carattere allegorico; Sentenze; De Oratione; De malignis Cogitationibus; Commentarii ai Salmi ed ai Proverbi.

È il primo monaco che abbia lasciato una notevole eredità letteraria ed è il più fecondo ed originale fra i monaci dell’Egitto. Amò esprimersi in brevi massime, talora tolte dalla Scrittura.

Nel suo pensiero e nei suoi scritti distingue la vita attiva e la vita contemplativa. La prima non è che la preparazione alla seconda, che ha il suo compimento nella contemplazione della Trinità in cui consiste la perfezione ed il più alto grado della vita spirituale. L’ascesi mira a purificare l’anima per togliere gli impedimenti alla contemplazione. La vita attiva è caratterizzata dalla pratica delle virtù disposte in quest’ordine ascendente: fede, timor di Dio, osservanza dei comandamenti, da cui derivano la continenza, la prudenza, la pazienza, la speranza; da questa viene poi l’impassibilità (apàteia) da intendersi non certo come indifferenza ma come perfetta pace e libertà dello spirito, raggiunta con la totale rinuncia e la costante mortificazione.

Frutto dell’apàteia è l’amore, che introduce alla vita contemplativa. Nel campo ascetico Evagrio dà molta importanza alla lotta contro le passioni.

Distingue nella contemplazione vari gradi il cui vertice è la pura orazione. Si tratta di una conoscenza di Dio non discorsiva, che richiede una purità maggiore che la contemplazione iniziale, così che lo spirito sia tutto “nudo”. Per essa l’uomo vede la luce della Trinità ma in una visione che è “infinita ignoranza”, perchè l’infinito non può essere compreso dall’intelletto finito.

Con l’intuizione della Trinità lo spirito intuisce se stesso, ormai purificato e splendente di bellezza. Pace e riposo accompagnano questa contemplazione che afferra l’uomo con un potere irresistibile.

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Il monaco, uomo dell'Avvento
di P. D. Donato Ogliari osb

Nel descrivere il monaco come "colui che si affretta verso la patria celeste" (RB 73,8), Benedetto lo inserisce in una prospettiva escatologica. Tale prospetti-va è anche una delle caratteristiche dell'Avvento. Esso, infatti, è un tempo che, da un lato, si fonda su un “ricordo" - la venuta di Gesù nella carne e dall'altro su una "promessa futura" - la definitiva venuta del Cristo nella gloria.

Questa doppia valenza rappresenta un forte richiamo a vivere i nostri giorni tenendo lo sguardo rivolto in avanti, e ad evitare di ripiegarlo sulle nostre preoc­cupazioni quotidiane.

Nella Liturgia monastica delle Ore vi sono alcune antifone dell'Avvento che ci spronano a vivere protesi verso un futuro che si annuncia carico di salvezza. Si pensi, ad esempio, alle seguenti: "Levate capita vestra: ecce appropinquabit redemptio vestra" (Lc 21,28); "Leva Jerusalem oculos et vide potentiam regis: ecce Salvator venit solvere te a vinculo" (Levate il capo, perché la vostra libera­zione è vicina; Alza gli occhi econtempla la potenza del tuo re, o Gerusalemme: ecco, il Salvatore viene a liberarti dalle catene).

1. Il monaco: proteso verso il futuro

Su tale sfondo, il monaco è dunque invitato a vivere il periodo avventuale con lo sguardo vigile, premuroso di scrutare il presente per cercarvi le tracce di Colui che viene a visitarci e che si offre alle nostre esistenze come "sole che sorge" (Lc 1,78), giorno dopo giorno. Come il sole, infatti, non cessa di risplendere anche quando il cielo è coperto di nubi, così il Signore si rende presente in noi e in mezzo a noi ogni giorno in maniera inedita, indipendentemente dalla nostra capa­cità di scorgerlo e di accoglierlo.

Questo è il motivo per cui la dimensione escatologica che l'Avvento ripropone ogni anno con insistenza - dimensione che caratterizza dal di dentro la stessa vita monastica - si raccorda intimamente con la celebrazione del Natale. È quest'ulti­mo, infatti, che riempie e avvalora, alla luce dell'evento dell'Incarnazione, la diuturna ricerca di Dio da parte del monaco. Il suo essere "proteso in avanti" verso il futuro nel quale lo stesso Dio gli viene incontro e lo cerca, non può che nutrirsi di una fede "incarnata" nella storia, una fede che gli fa "affrettare" il passo per riconoscere, nel dipanarsi dei giorni, la visita del Signore che ci rag­giunge e ci invita ad accoglierlo nella fede e nell'amore, nella disponibilità inte­riore e nell'attiva generosità.

Come sappiamo, rispetto all'unicità dell'incarnazione e della Parusia, san Bernardo di Chiaravalle amava definire questa quotidiana visita del Signore come un medius adventus, un "avvento di mezzo", reiterato eppur sempre nuovo. Simil­mente Pietro di Blois descriveva questo avvento intermedio come un incontro che si compie nell'anima ogni qualvolta essa si apre a Dio. E se vissuto nella fede e nell'amore, tale incontro non solo va a incidere sulla "micro-storia" di chi si lascia da esso coinvolgere, ma finisce anche col ripercuotersi sulle nostre comuni­tà, sulla Chiesa e sul mondo intero.

2. Il monaco: vigile e gioioso

Nell'invitarci a vivere la tensione escatologica e l'attesa dinamica che ad essa fa riscontro, l'Avvento ci suggerisce anche alcuni atteggiamenti congeniali per accostarci proficuamente al mistero del Deus semper veniens. Tra di essi vi sono la vigilanza e la gioia, atteggiamenti che sono propri di coloro che non vogliono essere sorpresi nella notte dall'arrivo dello Sposo (cf Mt 25,1-13) o del Padrone (cf. Mc 13).

In questi due atteggiamenti è racchiuso il senso del nostro cammino. Un cam­mino da compiere con cuore "vigile" e nello stesso tempo con passo "lesto e gioioso" verso l'incontro che si spera di realizzare un giorno ma che, in qualche modo, ci è dato di anticipare quaggiù, dove la nostalgia di Dio motiva e illumina la nostra attesa.

C'è un'antifona gregoriana, tra quelle proposte per l'Avvento, che esprime bene questo aspetto così "monastico" dell'attesa vigilante e insieme dinamica. E l'antifona: "Jerusalem surge, et sta in excelso: et vide iucunditatem, quae veniet tibi a Deo tuo" (Communio - III settimana), formata da due emistichi tratti dal libro del profeta Baruc: "Sorgi, o Gerusalemme, e sta in piedi sull'altura (5,5a): osserva la gioia che ti viene da Dio (4, 36b)".

In questo imperativo "sta in piedi sull'altura", possiamo leggere un'esortazio­ne rivolta al monaco affinché stia ritto, ossia perseverante in quella fede che consente di guardare alle cose di quaggiù nella prospettiva che proviene dall'alto, dal Signore stesso. E ciò anche quando sopraggiungono lo scoraggiamento e le delu­sioni, o quando le difficoltà personali e comunitari e sembrano non lasciare tregua e il futuro si profila incerto. Anche allora, quando si tocca con mano la precarietà del cammino e le emergenze che in esso affiorano, il monaco "sta in piedi", e non permette che il suo animo sia raggiunto da un senso di disfatta.

In alcuni passaggi della propria storia personale o di quella comunitaria, lo "star in piedi sull'altura" potrebbe assomigliare molto allo "stare" di Maria sul Calvario, presso la Croce di Gesù. Potrebbe, cioè, essere un forte richiamo a per­severare sotto il peso dell'incertezza.

Per il monaco questo impegno si esprime soprattutto nella generosità della preghiera e nella dedizione al lavoro, vissuto in una maniera seria e responsabile che non lasci appigli all'ozio, nemico del progresso spirituale. Ma è un impegno che prende forma e si dispiega anche nelle relazioni con gli altri nell’apertura della condivisione, al dialogo fraterno e al perdono reciproco. Solo così una comunità può riconoscere le "visite" che il Signore le rende quotidianamente e attirarsi le sue grazie.

Infine, nelle medesima antifona Jerusalem surge, ci viene anche rivolto l’invito ad "osservare la gioia che viene da Dio" o come dice il versetto 5b (a completamento del v. 5°): a guardare verso oriente ("...guarda verso oriente"), ossia a tenere gli occhi fissi su Gesù che come sole sorge per illuminare le genti (cf Lc 2,32). In Lui, e nell'esperienza della sua misericordia, che abbondantemente riversa su di noi, la gioia e l'esultanza del cuore trovano il loro accordo più vero e profondo.

3. Il monaco: afferrato dalla speranza

fruire di quella "prossimità salvifica" che è frutto dell'incarnazio­ne del Figlio di Dio nella storia, non può non far vibrare il nostro animo di una speranza sempre nuova, capace di illuminare ogni volta da capo il nostro cammino.

Se la fede ci permette di aderire cori certezza alla Verità, che è Cristo - quel Cristo al quale abbiamo detto il nostro "sì" nel battesimo e che abbiamo deciso liberamente di seguire abbracciando la vita monastica -, la speranza agisce sulla nostra volontà spronandoci a riconsegnarci a Lui ogni giorno con gioia. Una ri­consegna che ha come presupposto la certezza che in Cristo si manifesta la fedeltà a Dio e la sua azione liberatrice nei nostri confronti.

La speranza non è una virtù facoltativa, da relegare in un angolino e da rispolverare quando si ha l'acqua alla gola. Come le altre virtù teologali, anch'es­sa è saldamente radicata in Dio, ed è quindi intimamente e quotidianamente con­nessa col cammino cristiano-monastico. La speranza è quel seme foriero di vita che preme nel buio della terra in attesa di germogliare; è quella molla segreta o quella "tensione escatologica" che dà impulso alla ricerca quotidiana di Dio nelle pieghe della storia,

Eucharistia, n. 20).

Che l'Avvento sia un tempo in cui forte è il richiamo alla speranza, è illustrato anche dall'antifona Ad te levavi animam meam, tratta dal Sal 24,1-3 e posta - quasi a dargli il "La" - in apertura del periodo avventuale: "A te, Signore, elevo l'anima mia, Dio mio, in te confido: non sia confuso! Non trionfino sudi me i miei nemici! Chiunque spera in te non resti deluso". È il canto della fiducia che si dipana nell'intreccio tra speranza, da una parte, e la reale possibilità di cadere preda della confusione e della delusione dall'altra. Affinché ciò non si verifichi la speranza viene fatta propria e vissuta dal credente come un'attesa fiduciosa nella potenza salvifica del Signore, antidoto sicuro di fronte al momentaneo o apparente trionfo dei nemici, ossia del male in tutte le sue forme.

4. Il monaco: lungimirante nella pazienza

il passo, egli sa anche "attendere" quello che spera, nella consa­pevolezza che l'oggetto sperato non può essere forzatamente anticipato.

Ad esempio, è fuor di dubbio che ogni monaco nutra il profondo desiderio di vivere radicalmente la bellezza della sua vocazione, di darsi completamente al Signore seguendolo senza riserve, di spendersi perché la sua comunità si edifichi sempre di più nell'amore, nel sostegno reciproco, nella condivisione fraterna ed amicale, e perché possa risplendere come segno di comunione in un mondo lace­rato e profondamente segnato dalla logica dell'individualismo e del tornaconto. Eppure, nonostante un siffatto desiderio alberghi nel cuore di ciascun monaco, questi tocca con mano il divario esistente tra l'ideate da perseguire e la realtà del suo quotidiano. Ciò significa che se da una parte egli assume l'impegno di perse­guire l'oggetto che intravede nella speranza, dall'altra egli è anche capace di at tendere con pazienza il suo avverarsi. Il monaco, cioè, perseverando nel dono di sé alla luce di quella "sapienza interiore" che anima e sorregge la sua non si arrende di fronte alle contraddizioni della vita e non cede alle contrarietà e alle tribolazioni che potrebbero frenare il suo cammino di fede e di ricerca di Dio.

La pazienza insita nella speranza non fa dunque a pugni con essa e non le tarpa le ali, poiché non è sinonimo di arrendevolezza ma piuttosto di tenacia, una tena­cia irrorata di fiducia o - come dice I 'Apostolo - una "virtù provata" che dà spes­sore alla speranza: "Noi ci vantiamo anche nelle tribolazioni, ben sapendo che la tribolazione produce la pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza" (Rm 5,3-4).

In ultima analisi - e il tempo di Avvento è lì a ribadircelo con forza - la speran­za cristiana è sempre in grado di aprirsi un varco luminoso verso la luce del Cristo, il "sì" fedele di quel Dio che è Padre e per il quale nemmeno le tenebre "sono oscure e la notte è chiara come il giorno" (Sal 138,12).

Come la notte di Natale, appunto, quando la Luce divina si è aperta un varco e ha fatto irruzione nell'oscurità del mondo depositando nella storia umana il segno indelebile di una Presenza che non verrà mai meno.

(da Il sacro speco di S. Benedetto, 6, 2005)

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti

Trentanovesima parte

La comunione

Era convinzione del P. Fondatore, ne abbiamo diffusamente parlato, che la Società di Maria fosse chiamata a rivivere l’esperienza della Chiesa apostolica. Certamente a motivo della presenza della Madre di Gesù tra i discepoli, ma anche per la comunione (koinonia) e l’unione fraterna che contraddistingueva i credenti, e cioè per lo stile di “vita apostolica”. Al termine di un ritiro del 1846 il P. Colin esortava:

“Miei cari confratelli, che i legami di una intima carità ci uniscano sempre in modo che noi possiamo essere veramente un cuore solo ed una anima sola. La Società di Maria deve rappresentare i primi tempi della Chiesa”. (Parole di un fondatore, op. cit., Doc. 115, n. 4)

Si tenga presente che la citazione di Art. 4,32 ricorre con frequenza nelle esortazioni del P. Fondatore (Parole di un Fondatore , Doc. 42, n. 3; Doc. 115, n. 5; Doc. 116, n. 8; Doc. 143, n. 2). Nelle Constit. il riferimento agli Atti ricorre esplicitamente due volte nel contesto della comunione dei beni e una volta per inculcare l’unione fraterna (Constit., cap. III, n. 142, p. 50; cap. Vi, n. 283, p. 97; cap. XII, n. 437, p. 159).

Lo spirito della Società è contrassegnato dalla comunione tra fratelli. La sintesi del pensiero spirituale del P. Colin è contenuta nell’art. IV del cap. XII delle Costituzioni. I concetti che hanno un particolare rilievo sono:

  • La Società è una “famiglia”, un “corpo”.
  • La fraternità si costruisce con l’ascesi e la “sincera amicizia”.
  • Gli stessi studi, lo stesso tipo di formazione in consonanza con la Chiesa Romana, uno scambio frequente di lettere tra confratelli, l’uniformità di stile di vita, di abbigliamento , di abitazione facilitano l’unione.
  • L’obbedienza è “il vincolo che unisce i sudditi con i Superiori”.
  • Compito dei superiori è essere segno e garanzia di unità tra i fratelli.
Domenica, 05 Novembre 2006 21:20

Le molte icone di Dio (Marcelo Barros)

Le molte icone di Dio
di Marcelo Barros

Il pluralismo religioso che caratterizza il nostro tempo e di cui il mondo ha acquisito chiara coscienza ha un significato positivo: la molteplicità delle fedi rientra nel piano divino per l’umanità e dovrebbe aprire la strada verso la pace.

Il mondo odierno è caratterizzato da un incremento smisurato della povertà e da una sorprendente situazione di pluralità di culture e religioni che le emigrazioni e i mezzi di comunicazioni costringono a convivere.

Per secoli, in America Latina la chiesa cattolica si è mantenuta “bianca ed europea”. Fino a un passato non molto lontano, vescovi e clero si sono opposti a che la gente seguisse una religione che non fosse il cattolicesimo. Le popolazioni, però, hanno sviluppato un cristianesimo fatto di devozioni e di tradizioni orali che si sono mescolate, sintetizzando credenze diverse. Questo “meticciato cattolico” ha significato per molti un’appartenenza religiosa doppia, quando non multipla.

Le autorità coloniali ed ecclesiastiche proibirono agli africani strappati alle loro terre e portati come schiavi in Brasile, in Colombia o nei Caraibi, di praticare i propri culti tradizionali e li obbligarono a diventare cattolici. Fu uno sforzo inutile: anche battezzati, gli schiavi neri mantennero le loro religioni antiche e diedero vita a una sintesi di credenze cristiane e di culti di matrice africana. Sorsero così il candomblé a Bahia, lo xango a Recife, la Casa de Mina a São Luis nel Maranhao, la Santeria in Cuba e i cultos negros in Colombia. Ovviamente, queste sintesi spirituali - profonde e sofferte - furono condannate dalla gerarchia ecclesiastica, forse incapace di cogliere il fatto che in esse si realizzava quello che Raimundo Panikkar ha definito “dialogo intra-religioso”, cioè un pluralismo di tradizioni religiose che il credente vive nel proprio cuore.

Oggi, la situazione che si era venuta a creare in America Latina con la tratta degli schiavi (caratterizzata, cioè, dalla presenza di credi religiosi in uno stesso territorio) è diventata mondiale. Nell’Europa occidentale vivono oggi oltre cinque milioni di musulmani e parecchie centinaia di migliaia di buddisti e di seguaci di altre religioni orientali. La stessa condizione è presente nell’America del nord. Le chiese devono prendere coscienza di questo fenomeno e considerarlo non come “problema” che crea difficoltà, bensì come “grazia di Dio”, un kairos, cioè “occasione propizia”, “tempo favorevole” in cui è richiesto uno sforzo maggiore per ascoltare la Parola di Dio e vivere la propria fede con gioia e gratitudine.

Una seria teologia cristiana del pluralismo religioso accerta la molteplicità delle religioni non come un fatto inevitabile da subire, ma come positività, una “benedizione dello Spirito” per le chiese e per tutte le religioni. Il cuore vero di una religione - qualunque essa sia - è la sua proposta di esperienza d’intimità con il mistero divino che dà il senso ultimo alla vita. La “grazia” di ogni religione è l’apertura al mistero, che però è “relativa”, in quanto vissuta ed espressa in maniera “condizionata” dalla cultura. Tutte le religioni sono “mediazioni”.

Il dialogo inter-religioso. che suppone l’accettazione del pluralismo, è molto di più che una semplice questione di rispetto o di tolleranza. È un’esigenza di quella sete di assoluto di cui ogni religione è un’espressione particolare. L’assoluto non può essere “compreso” totalmente da questa o quella religione.

Nel cristianesimo, l’esperienza di intimità con il divino si ha attraverso la sequela di Cristo, che ci ha rivelato che Dio è amore. Il Dio di Gesù Cristo non si è fatto conoscere principalmente perché noi gli prestassimo un culto, ma soprattutto perché, grazie alla caritas che lui è e che egli ci dona, anche noi possiamo amarci. Lo dice magistralmente l’incipt della recente enciclica di Benedetto XVI, Deus caritas est «“Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). Queste parole esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana (...) e ci offrono una formula sintetica dell’esistenza cristiana: “Noi abbiamo riconosciuto l’amore che Dio ha per noi e vi abbiamo creduto”. Abbiamo creduto all’amore di Dio - così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva».

Il vero interesse di Dio è che gli uomini e le donne abbiano la vita. L’aveva già detto Sant’Ireneo di Lione: «La gloria di Dio è l’uomo vivente». Mons. Oscar Romero parafrasava queste parole così: « La gloria di Dio è l’uomo oppresso liberato».

Cinque anni fa, la commissione latino-americana dell’Associazione ecumenica dei teologi del Terzo Mondo ha varato un progetto editoriale: cinque volumi in cui raccogliere i migliori studi sulle relazioni esistenti tra la teologia della liberazione e la teologia del pluralismo religioso. Ne sono già stati pubblicati tre, ricchi di spunti per una sintesi di queste due correnti teologiche.

Nel 1970, mons. Hélder Câmara, invitato a partecipare alla Conferenza mondiale delle religioni per la pace, Kyoto (Giappone), affermò: «Le religioni e i cammini spirituali devono dialogare e camminare insieme, se vogliono essere la coscienza etica dell’umanità e il grido pacifico dei poveri»

(da Nigrizia, Maggio, 2006)

Pubblicato in Maestri Contemporanei
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Se vogliamo che il Verbo di Dio nasca in noi dobbiamo saper scendere silenzio in questo profondo, in questa oscurità totale.

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