In ricordo di P. Franco

Visualizza articoli per tag: Spiritualità

Giovedì, 13 Luglio 2006 02:14

Cammino nel deserto

Il deserto è una dimensione della spiritualità cristiana: è il luogo in cui il signore ci conduce per “rinnovarci nello spirito della nostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio, nella giustizia e nella santità vera” (Ef4,24); è lo spazio in cui moriamo a noi stessi e cominciamo a vivere come figli di Dio, animati dallo Spirito di Cristo morto e risorto.

Pubblicato in Spiritualità
Etichettato sotto

Si recarono da lui con un paralitico portato da quattro persone. Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dov’egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono il lettuccio (…). Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: “Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati”. (Marco 2, 1.12).

Pubblicato in Spiritualità
Etichettato sotto

A volte accade che la convinzione di conoscere bene i linguaggi e i contesti propri alla dimensione della fede cristiana finisce per forzare le interpretazioni e per attribuire a personalità ecclesiali orientamenti solo auspicati o temuti.

Pubblicato in Spiritualità
Etichettato sotto
Venerdì, 07 Luglio 2006 00:45

I piccoli (Giovanni Vannucci)

I piccoli
di Giovanni Vannucci


La commovente pagina di Mt 11, 25-30 è preceduta da una serie di parole di condanna che Gesù rivolge al suo popolo, indifferente ai richiami austeri di Giovanni Battista, e a quelli più umani da lui rivoltigli: «È venuto Giovanni, non mangiava e non beveva ed è stato considerato come indemoniato; sono venuto io che mangio e bevo e mi dite che sono un mangione e un ebbro, l’amico dei pubblicani e dei peccatori. Allora prese a maledire le città dove aveva compiuto prodigi e non si erano convertite».

Le città incredule, che suscitarono lo sdegno di Cristo, fanno da sfondo oscuro a una nuova società che avanza e che si raccoglie intorno a Lui: i piccoli, gli affaticati, gli oppressi, ai quali rivela le cose nascoste ai saggi e agli intellettuali. Chi sono i piccoli, i fanciulli alla cui statura i discepoli sono chiamati ad adeguarsi?

Il piccolo è l’umile, l’uomo pronto ad amare e a credere, l’uomo che ha il cuore aperto allo stupore di ogni fiaba, di ogni vera rivelazione, che, nelle manifestazioni della vita, scorge la presenza del sogno e della poesia, dell’armonia e della meraviglia, che di fronte all’erba verde non pensa alla clorofilla, ma alla mano invisibile che l’ha resa bella di quel colore. Il piccolo è il meraviglioso costruttore del Regno dei cieli. Ai piccoli Gesù dice: «Venite a me».

Per avere la vita è sufficiente andare a Cristo, ma per andare bisogna voler andare! La volontà umana, la capacità di rispondere a un appello, è l’arbitra del cammino verso Cristo. Per credere a Cristo bisogna voler credere, per andare a Cristo bisogna volerci andare. Cristo non ci vuole per forza, non ci lusinga con facili ricompense, non ci violenta, non ci salva nostro malgrado. Ognuno deve avere il suo piccolo e indiscutibile merito; ognuno deve, rispondendo alla chiamata, dimostrare di avere un nome e di non essere un bruto incosciente che attende un maestro qualsiasi pronto a iniziarlo.

«Venite a me che sono mite e umile di cuore». Cristo sintetizza la sua persona in queste due qualità: dolcezza e umiltà.

Non confondiamo la dolcezza con l’untuosità e la smanceria ritenute, ordinariamente, le note che qualificano la persona devota! Quando un frutto è dolce? Quando è maturo, quando tutto in lui ha raggiunto il grado della perfezione. L’umiltà non è la sottomissione ai potenti, ai dotti, ai superuomini, ma l’estrema libertà del cuore che si è scrollato da tutte le prigioni costruite da mano umana e che può dire, in piena verità, «non conosco uomo», sono solo davanti al mistero divino.

La dolcezza di Cristo è bontà aggressiva, combattiva, è la bontà del Buon Pastore che va a cercare la pecorella smarrita, ma è anche il pastore che spacca la testa al lupo, e nella lotta al principe di questo mondo è senza debolezza, lo aggredisce ovunque lo trovi. È umile, la sua indipendenza dai potenti è assoluta fino alla morte di croce per obbedire al suo mandato.

A ben considerare, la dolcissima pagina del vangelo di Matteo si appoggia su una realtà di tensione profonda tra la violenza dei potenti e la mitezza dei piccoli, tra la forza brutale degli integrati nel regno di questo mondo e gli oppressi che conservano intatto nel cuore il sogno di un Regno diverso e sono sensibili alla poesia delle cose. Noi siamo perpetuamente nel mezzo di questa tensione, siamo dei poveri cuori minacciati dalla sclerosi, ci è necessaria una continua vigilanza sugli egoismi sempre risorgenti, per superarli conservando lo stupore, l’attesa del miracolo, dell’incontro con Cristo. Attesa che accende in noi una luce certa e pura che di niente si inquieta, che è in se stessa slancio, offerta, dono.

Abituandoci a muoverci in questa luce, l’universo lentamente cambierà di senso e di aspetto, avremo la sapienza dei semplici, non quella dei dotti e degli intelligenti! Incontreremo la dolcezza, maturità piena, di Cristo, l’umiltà , donazione al più assoluto ideale, del Maestro. Orienteremo in maniera corretta le nostre energie vitali per raggiungere la maturazione del nostro personale io, la più totale offerta di noi stessi alle energie divine. Evitando di far decadere, come fanno i dotti e gli intelligenti, la pienezza di vita, che ci viene comunicata, in oggetto di speculazioni, di ideologie, di parole, di precetti. Schivando quella degradazione della fede ai pregiudizi, agli interessi sodali volgari, alla manipolazione della psiche.

Le parole violente di Cristo contro i Farisei, che avevano miniaturizzato il mistero divino, contro i dottori della legge che avevano «fatto sparire le chiavi della conoscenza» (Lc 11, 52), contro le città che, chiuse nel loro benessere, avevano perduto l’attesa della rivelazione, conservano anche oggi il loro peso. L’umile non dice mai di no allo Spirito che lo muove e lo conduce al giogo dolce e leggero di Cristo, è il no che alimenta le fiamme dell’Inferno.

Ritrovare la pochezza dei piccoli, mi sembra l’urgente consegna del nostro tempo. Vi è fame e sete di conoscenza spirituale nel nostro mondo, ma ancora una volta i dottori della legge, gli intelligenti, avendo la chiave non la vogliono usare, e loro non entrano né lasciano entrare altri nel Regno, simili al cane che dorme nella mangiatoia, non mangia il fieno e impedisce ai buoi di mangiarlo! Eppure il seme divino germoglia e le messi biondeggiano, ma non sono gli operai del padrone quelli che mietono, e non è nei granai del regno di Dio che il grano viene raccolto!

Una divina sete d’amore è seduta sul parapetto del pozzo umano e supplichevole chiede: «Dammi da bere, dammi l’acqua deperibile della tua natura umana, in cambio ti darò quella viva della mia natura divina!».

«Ti benedico, o Padre, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli!».



Giovanni Vannucci, «I piccoli», 14a domenica del tempo ordinario, Anno A; in Risveglio della coscienza, ed. Centro studi ecumenici Giovanni XXIII, Sotto il Monte (BG) ed. CENS, Milano 1984; Pag. 128-130.
Pubblicato in Maestri Contemporanei

Una spiritualità che rinnovi la pastorale
di Luigi Guccini



Anche la pastorale, come la vita religiosa, deve affrontare un profondo ripensamento, pena l’insignificanza o la sterilità. Di fronte alla diminuita pratica di molti fedeli è inevitabile la domanda “che fare?” la tentazione è, oltre allo scoraggiamento, l’omologazione alla cultura corrente. Eppure non manca una spiritualità che suggerisce atteggiamenti e percorsi. Come farli diventare “mentalità” pastorale?

Quando si riflette sulla situazione della chiesa e della pastorale nell'odierna società, non si può non rimanere colpiti da una serie di fatti. Solo qualche anno fa, al tempo del dialogo (apologetico!) tra chiesa e mondo, si poteva pensare che la chiesa non riuscisse a farsi ascoltare perché troppo aliena dalla nuova cultura, dunque ignara della lingua parlata, e cioè superata, irreparabilmente out. Ma non sono passati molti anni e si è dovuto parlare piuttosto di post-cristianesimo. Come se la chiesa avesse già dato tutto quello che aveva da dare e avesse esaurito il suo compito.

I dati di fatto a conferma di questa diffusa sensazione sono davanti a noi. Succede per esempio - e non meraviglia nemmeno più - che un fedelissimo lasci la chiesa dall'oggi al domani, senza drammi, e oltre tutto...senza cambiare vita. La pratica religiosa gli era superflua. Oppure rimane sì nella chiesa, ma - per dirla in modo un po' brutale - come si fa con il vecchio club: magari attivi nel volontariato e gradevolmente saldi nelle amicizie, ma senza riferimenti ulteriori che vadano nel profondo, a ciò che veramente decide della qualità della vita, come sesso, denaro, potere...

Succede anche l'opposto: c'è l'incredulo inquieto e insoddisfatto della sua vita, che magari s'accosta alla parrocchia, ma ne ritorna con la sensazione di non aver trovato altro che "le cose di sempre", sostanzialmente incapaci di rispondere a ciò che porta dentro e di cui ha bisogno. Così finisce che uno s'inventa la religione a modo suo. C'è molto fascino per lo straordinario e per il leader carismatico di turno, magari attorno al fenomeno dilagante di sette, magia e satanismo; oppure il grido improvviso nel momento del dolore con qualche ritorno alla fede di un tempo, ma non ci sono le condizioni - e l'aiuto necessario - perché la povera piantina ! possa crescere.

Non può non far riflettere anche quest'altro fatto: sempre meno la secolarizzazione trova credito tra gli stessi laici più laici. Si potrebbe pensare che la chiesa non ha credito perché troppo lontana dal mondo, e invece è vero il contrario: quello che manca molto spesso è piuttosto una chiesa che sappia dire qualcosa di diverso dal mondo, qualcosa che porti a sperare di più, e su basi più solide.

Ci eravamo tanto scaldati per impedire al secolarismo di svuotare l'annuncio cristiano e ci stiamo accorgendo che un cristianesimo omologato al pensiero corrente e alla "qualità di vita" che ne consegue è ancor meno cercato del cristianesimo clericale-parrocchialista di un tempo.

Il caso "vita consacrata"

Davvero non serve a niente essere a tutti i costi ragionevoli, smussare i contrasti con la cultura odierna, fare apologetica soft e affermare, in conclusione, che dentro la chiesa possono starci benissimo tutti quanti, senza particolari prezzi da pagare...Quello che si cerca va molto più in là e non sta neanche in ciò .che l'uomo d'oggi dice di cercare: sta in ciò che porta nel cuore e non lo sa, fino a quando non trova risposta. È la vicenda di molti grandi convertiti, che incontrano Cristo ma non riescono a riconoscersi nella prassi di chiesa che viene loro offerta. Pensiamo a Simone Weil, ad Adrienne von Speyr, a quella misteriosa Camilla di cui il Caffarel ha scritto un profilo così penetrante. Il punto che ritorna è sempre lì: c'è questa divaricazione tra ciò che il cuore umano cerca nel profondo e il tipo di mediazione che - nonostante la forza del vangelo che pure è nelle nostre mani -sappiamo offrire come chiesa.

È in fondo ciò che capita alla vita consacrata. Forse val la pena richiamare questo fatto, decisamente emblematico proprio per ciò che riguarda i problemi con cui si trova a fare i conti la pastorale e il suo rinnovamento.

È dal concilio che la vita religiosa sta lavorando con il massimo di intensità al suo rinnovamento. Ha tentato tutte le strade, dall'impegno per l'aggiornamento, con la riscrittura delle regole, fino alla rifondazione. Ma i risultati non ci sono stati, o almeno non nella misura desiderata. Le case di formazione sono vuote. Il modello di vita religiosa che le ha generate non attira più, non è più proposta, nonostante il cammino che pure si è fatto nel rinnovamento.

Si continua a lavorare, evidentemente, ma la convinzione che si va facendo strada è che sia l'impostazione d'insieme che ha bisogno di essere rivista. Fa riflettere, per esempio - e preoccupa - la sproporzione che c'è tra la mole di risorse impiegate - in persone, tempo e denaro - attorno ai problemi istituzionali e i risultati che si raccolgono. Si moltiplicano le assemblee e le commissioni di studio, continua abbondante la produzione di documenti, ma rimangono lettera morta. Anche l'opera dispendiosissima per la ristrutturazione delle opere e la riqualificazione del personale non ha dato i risultati sperati. Sempre di più i superiori maggiori hanno come l'impressione di girare a vuoto, come se ciò su cui bisognerebbe "mordere" fosse sempre altrove...

Alla fine si è fatta strada la convinzione che il problema sta più a monte e precisamente nel fatto che il modello di vita religiosa a cui si sta lavorando è giunto a esaurimento e che, perciò, è fatica sprecata lavorarci attorno per rivitalizzarlo. Bisogna risalire più in alto e più in profondità, con un percorso più lungo, che parta da più lontano. Come hanno creduto di dover fare molte delle nuove forme di vita consacrata, che rinunciano a strutturarsi secondo il modello tradizionale e chiedono di essere riconosciute semplicemente come associazioni private di fedeli. È che, di fronte al crollo di tutto un sistema di vita e di operatività apostolica, ci si rende conto che la strada da prendere non è in aggiustamenti semplicemente strutturali, ma nel ritorno all'essenziale, l'essenziale della fede e della vita cristiana, per riconsiderare e ridefinire a partire da lì (quindi, dopo un adeguato percorso di purificazione ), anche il resto.

Per intanto - ed è l'affermazione esplicita di molte di queste forme - quello che interessa è di essere semplicemente cristiani, sicuri che dà qui viene anche il resto.

Su che cosa puntare?

Abbiamo indugiato, perché non credo che sia molto diversa la situazione a livello pastorale. Anche la pastorale conosce la sua crisi e quanto profonda. Anche le chiese locali hanno intensamente lavorato per il rinnovamento, ma siamo al punto in cui siamo: ritorna sempre di nuovo il discorso sulla crisi della parrocchia, viene riconfermata come struttura portante della pastorale, ma la situazione è quella che è: troppe cose non tornano.

Che fare in questa situazione: puntare sulla pratica religiosa, ovviamente rinnovata, come la vita consacrata avrebbe potuto puntare sull'osservanza religiosa? Ma proprio questa strada si è dimostrata senza frutto. La crisi della vita religiosa, anzi, è intervenuta in un momento in cui come non mai l' osservanza era in auge. Segno che il problema è altrove. Ed è così anche per la pastorale della chiesa: la pratica religiosa è importante, ma non riuscirà mai da sola a produrre ciò che occorre, né tanto meno a rispondere oggi a ciò che il cuore dell'uomo cerca nel profondo e il Vangelo è in grado di dare.

Bisogna andare più in profondità ed è ciò che aveva intuito Bonhoeffer di fronte alla situazione che si andava profilando: il punto decisivo, diceva, è uno solo ed è «la ricerca di colui che solo ha importanza: la ricerca di Gesù Cristo... Per noi ciò che veramente conta oggi è sapere che cosa vuole da noi Gesù...» (Sequela, 13). Oppure san Francesco il quale, in un momento per tanti aspetti molto simile al nostro, non accettò mai di farne una questione di osservanze o di pratica religiosa, ma capì che unica risposta poteva essere solo il Vangelo e il Vangelo sine glossa. Era troppo grande l'impresa che la chiesa aveva davanti perché si potesse puntare su qualche altra risorsa o semplici aggiustamenti di carattere strutturale.

Siamo a questo punto pure oggi, e perfino di più. Siamo riportati all'origine e, per dirla in termini di annuncio, all'apostolica vivendi forma delle origini, quando il vangelo veniva trasmesso da persona a persona da parte di comunità che semplicemente lo vivevano e se ne sentivano responsabili.

Giocarsi sul vangelo

Non ci si illude con questo che sia semplice o che siano tutti d'accordo. Secondo la lettera agli amici della Comunità di Bose in occasione dell'ultimo Natale «la tentazione più seria» oggi è rappresentata «dall'irresistibile fascino della religione civile». Sempre di più «la politica avverte il bisogno di utilizzare il codice religioso ed è pronta al riconoscimento dell'utilità sociale della religione». Ma quel che è peggio è che «l'invito rivolto in questo modo alla chiesa da intellettuali non cristiani trova purtroppo accoglienza favorevole anche

da parte di autorevoli ecclesiastici che desiderano apprestare una chiesa forte, massicciamente visibile e presente negli spazi lasciati vuoti dal crollo delle ideologie». Non conta niente se poi l'80% degli italiani si dichiara cattolico, ma solo il 40% dice di credere alla risurrezione di Cristo; quello che si coglie tra le righe è il sogno di una chiesa «applaudita, riconosciuta, a volte perfino ricompensata da Cesare per il bene che fa..., mentre la comunità dei discepoli di Gesù resta incapace di vera profezia...». E "la chiesa di canale 5", come dice umoristicamente, ma non troppo, qualcun altro: una chiesa che «si identifica sempre più con l'occidente ricco e potente».

È evidente la divaricazione che c'è tra questa idea di chiesa e una concezione e prassi -sopra si citava san Francesco - che faccia perno unicamente sul Vangelo e sulla forza disarmata della Parola, come dice ancora la nostra lettera. Ed è su questo sfondo, che richiede però un radicale cambiamento di mentalità, che si intravede la portata e la via di quel rinnovamento della pastorale a cui si mira e che potrebbe trovare proprio nel!a spiritualità la sua sintesi.

È un discorso complesso che ha bisogno di molto approfondimento. Intanto ci sarebbe da notare che la chiesa deve riflettere innanzitutto in se stessa l'immagine di Dio che vuol presentare al mondo. Di quale Dio parliamo quando parliamo di Dio? Quale volto di Dio si può intravedere dietro una chiesa che crede di dovercela fare da sola, che cerca di affermare se stessa e che non sa vivere in modo evangelico il momento di povertà e debolezza che sta attraversando? Sono interrogativi decisivi. Come fa l’uomo - peccatore e limitato per definizione - a scoprirsi amato e perciò salvato, se l'annuncio che portiamo è ancora segnato dal bisogno e dall'ansia di affermare noi stessi, sia pure come chiesa e "a fin di bene"?

Significa che la prima via da imboccare per una pastorale rinnovata in senso spirituale è la via dell'umiltà. L'impressione che si ricava molto spesso è che nella pastorale ecclesiastica ci sia ancora troppo bisogno di riuscire, di fare il pieno, di assembrare gente, di mettere al muro gli avversari e vincere. Ma il Dio che annunciamo non ha bisogno di vincere e non ha mai promesso ai suoi un successo mondano. Si è tanto parlato di chiesa povera e dei poveri, riducendo il discorso al tema economico, pur fondamentale e lacerante. Oggi fa infinitamente più questione (almeno qui in occidente) il vedere una chiesa che non sa fare evangelicamente i conti con la sua propria povertà: una chiesa che...pensa di essere alla dissoluzione, perché non le riescono più le cose di sempre e le istituzioni di cui dispone fanno acqua.

Bisognerebbe ricordare di più che la teologia dell'umiltà fa un tutt'uno con la teologia della croce. E poi ricordare che l'umiltà riguarda non solo i singoli ma anche (e forse soprattutto) i soggetti collettivi. Le beatitudini sono proclamate da Gesù come programma per il Regno, e se la chiesa è sacramento del Regno, non si riuscirebbe a capire perché. ..se ne possa dispensare.

Se non andiamo errati, parte da qui, oggi, la vera riforma pastorale, purificata da ogni volontà di riconquista. E la pastorale - non lo si dimentichi - è responsabile dello stile di presentazione che la chiesa fa di sé al mondo.

In prospettiva personalista

Forse abbiamo indugiato anche troppo. Ma è evidente quanto sia decisiva, nell'opera pastorale e di evangelizzazione, la visione di chiesa da cui si muove e il tipo di obiettivi a cui si mira. È anzi qui, in definitiva, che si decide la partita.

Le cose da dire in questa linea sarebbero molte, e innanzitutto c'è l'attenzione da prestare alle persone. È nella persona in definitiva che si risolve l'annuncio, ed è quando uno incontra il Signore e aderisce a lui nella fede che l'opera si può dire compiuta. Ed è ugualmente in questa prospettiva che le risorse provenienti dalla spiritualità cristiana dimostrano tutto il loro valore e la loro forza anche in campo pastorale. Finché l'opera della chiesa non riesce ad aprire i cuori alla fede in un effettivo incontro con Cristo; finché le coscienze non vengono rigenerate in senso veramente cristiano; finché la persona stessa non arriva a fare di Cristo e della sua parola il criterio che guida tutte le sue scelte..., l’opera della chiesa non ha ancora raggiunto il suo scopo.

È in questa linea del restò che si è sempre mosso il cammino di fede della nostra gente. Non è senza significato che L' arte di amar Gesù Cristo di sant' Alfonso abbia avuto in Europa non meno di ventimila edizioni , e che l’Unesco abbia elencato gli Esercizi spirituali di s. Ignazio fra i cento libri che hanno maggiormente influito sulla cultura mondiale. ..Le "devozioni" a cui è stata abituata la nostra gente avranno avuto i loro limiti e così una certa educazione alla "pietà", ma non si possono ignorare i frutti che hanno prodotto nella coscienza credente.

Così come non si può ignorare quel tessuto interiore e insieme pratico di virtù che ha caratterizzato nel profondo la coscienza collettiva del nostro popolo. Ed è ancora l'insegnamento dei nostri santi, soprattutto quelli più presenti alla vita della gente, che sta all'origine di quei valori di speranza, sopportazione del dolore, rispetto dell'altro, solidarietà verso i deboli, convinzione di essere amati e importanti davanti a Dio, bisogno di interiorità..., che hanno caratterizzato ma in modo così profondo l'animo del popolo cristiano.

Davvero non è più il tempo di una pastorale di militanza collettiva. Occorre saper aiutare a incontrare Dio di persona. Con l'educazione alla preghiera, senza dubbio, ma anche con quella testimonianza che viene dalla fiducia, dalla non direttività, dalla giusta pazienza con cui dare all'altro il tempo tecnico di capacitarsi e di crescere, dalla non fiducia nel valore salvifico delle opere, e dunque da un certo modo di guardare anche il peccato e il limite. Senza rinunciare all’esigenze di una seria vita spirituale. Serietà anche in fatto di sesso, di soldi e potere; al di là di ogni equivoco. Ma dentro un rapporto educativo che miri al complesso della persona, presa nel suo divenire mai improvvisato, nell'interazione sapiente di tutti i valori.

Nel tessuto della storia

Quando si parla di spiritualità e vita spirituale c'è certamente anche il rischio di portare il discorso su percorsi e a conclusioni che non sono quelli giusti. Il primo rischio è quello dell'intimismo, il ridurre cioè la spiritualità in un ambito esclusivamente. privato, che induce a chiudersi, anziché esporsi con libertà e coraggio a tutto ciò che interpella il cristiano "da fuori”. Una prassi che poi porta., in ambito pastorale, a fermare il discorso sul piccolo gruppo, molto affiatato e impegnato, ma senza quel respiro apostolico che costituisce comunque il vero compito della chiesa nel mondo.

È a questa apertura, mai sufficientemente vasta e profonda, che rimandano le testimonianze. dei grandi credenti del nostro tempo. Se, da un una parte, essi chiedono più religione, più mistero, più apertura al trascendente e quindi più spiritualità, non per questo si presentano come uomini e donne estranei alloro tempo, che intendono la profezia come un rompere con il mondo. Non glielo consentirebbe il Dio che hanno incontrato, il quale è un Dio che "si perde" per il mondo, come dimostra Gesù. La loro "attesa di Dio" (Simone Weil) è dall'interno di questa condizione umana, che essi hanno sposato e di cui condividono fino in fondo la sorte. A. von Speyr sosteneva la fede in un "Dio diverso", proprio perché infinitamente più grande di tutte le misure in cui lo vorremmo rinchiudere quando lo consideriamo Salvatore. E non avevano paura del mondo Edith Stein, La Pira, madre Teresa, Ch. de Foucauld o p.s. Magdeleine, questa donna che ha fatto dell'immersione nel mondo - nella vita di tutti, come insegna il "modello divino Gesù " - la sostanza del suo progetto di vita.

Se c'è qualcosa che resiste, dopo l'interminabile stagione del dialogo con il mondo, è proprio la solidarietà dei grandi mistici recenti con la sorte umana, con la condizione di tutti. Nessuno come loro ha saputo ascoltare il mondo e l'uomo che lo abita ed è a questo che essi rimandano la nostra pastorale. I nostri contemporanei pongono interrogativi nuovi e hanno diritto di essere ascoltati. Non possiamo ridurli a pensare e a sperare secondo formule ormai stereotipe. La loro "attesa di Dio" e di un "Dio diverso" va molto al di là e interpella la chiesa nel modo più forte. Le risposte di ieri - incentrate sulla compattezza sociale, sull'appartenenza, dunque sull'obbedienza e su una rinuncia a se stessi intesa come impegno a non ragionare. e non rischiare in proprio - non bastano più. Oggi è il valore della persona e della sua responsabilità a fare da fondamento alla ricerca della fede, e questo dobbiamo saper ascoltare.

L'aver capito che Dio ama l'uomo e perciò lo salva ci mette in grado di far percepire a chi ci incontra la stima che abbiamo di lui, e questo per una ragione che risale al mistero stesso di Dio. L'anima della pastorale è in fondo qui: saper credere all'opera di Dio nei nostri interlocutori, senza giudicarli, senza condannarli mai, neanche quando sbagliano. È questo che li può far trasalire dal profondo del cuore, fino a rivelare loro una realtà di vita e di salvezza mai prima sospettate.

Temi da approfondire

Sono solo alcuni accenni a un tema di grande attualità, che viene sempre più in evidenza nella chiesa d’oggi. Solo “accenni” perché, in effetti, il problema non è semplicemente qui, nel sottolineare ancora una volta l’importanza e l’attualità del tema. Sta piuttosto nel fatto che la spiritualità cristiana – presa in se stessa e nei suoi riferimenti all’opera dell’evangelizzazione – ha bisogno di essere ripensata e ritrovata nei suoi veri contenuti, nel suo vero significato. Si è già fatto molto in questi anni; il problema è come far sì che quanto è stato acquisito a livello specialistico diventi mentalità. Appunto, come arrivarci? È un problema insieme di studio e di rinnovamento interiore. Un problema di formazione. Bisogna rimboccarsi le maniche e rimettersi a scuola, la scuola dello Spirito.

(da Settimana, 11, 2005)

Nato in Dalmazia nel 1866, visse sino al 1942, quasi sempre a Padova. Ultimo di dodici figli, pareva uno "scarto umano": piccolissimo, claudicante, pronunzia difettosa, sempre malaticcio; cosa mai avrebbe potuto realizzare? Ma lo sguardo di Dio era su di lui per farne un capolavoro di bellezza e di forza spirituale. La nobiltà d'animo suppliva all'aspetto fisico.

Pubblicato in Spiritualità
Etichettato sotto
Martedì, 13 Giugno 2006 22:55

Gregorio Nisseno, Santo (Franco Gioannetti)

Gregorio Nisseno, Santo
di Franco Gioannetti



Uno dei grandi dottori che, nella seconda metà del secolo IV, diedero splendore alla Chiesa di Cappadocia. È speculativo, contemplativo, filosofo, mistico.

Nacque a Cesarea di Cappadocia nel 335 circa e morì nel 394 circa.

La sua giovinezza è piena di quei contrasti che sono caratteristici del suo tempo e del suo ambiente. La sua famiglia, benestante, che era stata perseguitata da Valerio per motivi di fede, ebbe su di lui un grande influsso. Ebbe una buona formazione culturale ed abbracciò la professione di Rettore.

Sotto l’influsso del fratello Basilio, che aveva iniziato un’esperienza monastica, seguito in questo dalla sorella Macrina, si avviò ad un approfondimento della vita cristiana attraverso lo studio della Scrittura e dei grandi Dottori che avevano lasciato la loro impronta culturale nella vita della giovane Chiesa.

Ma nel 370 il fratello Basilio, che era stato eletto vescovo di Cesarea e che aveva bisogno di persone di cui fidarsi, lo fece eleggere vescovo di Nissa, cittadina nel cuore dell’Asia Minore. Fedele alla fede di Nicea, fu perseguitato e fatto deporre da Demostene, vicario del Ponto, simpatizzante verso gli Ariani. Fu però riabilitato con gioia del popolo nel 378.

La morte del fratello Basilio, alla cui ombra era sempre vissuto, lo fece passare in primo piano. Fu incaricato di ispezioni nelle chiese del Ponto, dell’Acaia, della Palestina e dell’Arabia. A causa della sua vita culturale e spirituale, stimata da tutti, fu costretto a prendere posizione nelle controversie dottrinali. Morì nel 394.

Le sue opere sono di contenuto esegetico, letterario e spirituale; con, nel De vita Moysis, delle note di profonda mistica che influenzarono anche autori venuti dopo di lui. Nelle sue omelie in Cantica Canticorum sviluppa una mistica dell’estasi, dell’amore che apre nuovi orizzonti alla spiritualità. Il suo trattato De Beatitudinibus ha, nel capitolo sulla purezza del cuore, espressioni profondamente importanti per la vita spirituale.

Rilevante l’importanza dei suoi trattati di teologia, dove approfondisce il dogma e si sforza di renderne conto. I suoi trattati di spiritualità sono costituiti principalmente da commenti della S. Scrittura e poi da scritti strettamente spirituali. Tra questi emerge il De virginitate. Importanti anche i sermoni e le omelie.

La dottrina

Gregorio di Nissa è teologo nel senso più stretto del termine, nella misura in cui mistero di ha nella sua opera un posto considerevole. Qui, per motivi di spazio, tratteremo essenzialmente gli aspetti più inerenti questa rubrica: spiritualità e mistica.

La teologia spirituale di Gregorio N. è una conseguenza della sua teologia sacramentaria. Essa è, sotto l’azione dei sacramenti, lo sbocciare delle potenze divinizzate dell’anima. Secondo un’immagine a lui cara, Gregorio paragona le virtù dell’anima, vivificate dai sacramenti della Chiesa, gli alberi del Paradiso. Il Nisseno rappresenta la vita spirituale come un percorso dalla luce alle tenebre, in cui distinguere tre grandi vie:

  • La via della luce (i principianti): essa è caratterizzata dalla purificazione di tutti gli elementi estranei all’anima e dalla restaurazione dell’immagine di Dio in lei. In primo luogo bisogna lottare contro il pervertimento delle disposizioni sensibili o passioni; quindi raccoglimento ed unificazione in sè per repulsa delle cose sensibili e vane. Caratteristiche: il distacco da ogni vana preoccupazione, una profonda fiducia filiale. La purificazione ed unificazione dell’anima le permettono una prima conoscenza di Dio in lei.
  •  La via della conoscenza di Dio nello specchio dell’anima. È questo un aspetto essenziale della sua mistica, si tratta di una esperienza della grazia che Gregorio esprime con la dottrina dei sensi spirituali. Questa esperienza della grazia è una conoscenza di Dio; non conoscenza dell’essenza di Dio che è inaccessibile, ma esperienza della presenza di Dio che Gregorio chiama sentimento di presenza. Il fondamento di questa esperienza è la presenza della trinità nell’anima, mediane la grazia, la divinizzazione dell’anima è un’azione divina che comporta una vicinanza speciale di Dio ad essa. La conoscenza dello specchio è una conoscenza mediata, ove la presenza di Dio è conosciuta attraverso la sua azione sull’anima. Possiamo dunque avere un’esperienza di Dio in noi, ma man mano che progrediamo scopriamo che Dio trascende infinitamente tutto ciò che non possiamo conoscere.
  •  La terza via, la conoscenza di Dio nella tenebra; essa consiste nel comprendere che la vera conoscenza di Dio consiste “nel comprendere che Egli è incomprensibile”. Questo fino a comprendere che “trovare Dio consiste nel cercarlo incessantemente” e che “nel progredire sempre nella ricerca sta il godere veramente dell’amato”.
Gregorio porta l’anima a Dio per la via della spiritualità estatica dell’amore. Quindi la vera esperienza mistica è, nella tenebra, l’unione a Dio. Gregorio esprime con i termini: “sobria ebbrezza”, “sonno vigile”, “eros impassibile”. Dove Gregorio intende per “eros” la carità intensa, la follia dell’amore che strappa l’anima a se stessa per gettarla in Dio.
Pubblicato in Mistica

Spiritualità Marista
di Padre Franco Gioannetti


Trentaseiesima parte

La povertà

Nello stile marista la povertà è strettamente connessa con il carisma dell’Istituto, perché riguarda il distacco dai beni temporali e, insieme, da altre forme di ricchezza, quali la stima, la risonanza, il successo, le amicizie dei potenti, le soddisfazioni e il plauso degli uomini. La povertà permette di restare “ignoti et quasi occulti”.

Il tenore di vita esteriore del Marista dev’essere semplice e comune; il cibo, gli indumenti, gli oggetti d’uso si contraddistinguono per un solo aggettivo che il P. Colin attribuisce loro: “vulgaris”. (Constit., cap. VI, p. 12: “Alimentis vulgaribus…, pallio ex panno vulgari…, laneo vulgarique panno…, vestem ex vulgari item panno”.)

La povertà è “pons firmus ad beatam aeternitatem, et antemurale contra salutis hostes et vanas huius speculi sollicitudines”. (Ibid., cap. II, art. I, n. 84, p. 31).

Nella trattazione sistematica dei voti il P. Fondatore non si contenta di richiamare le norme giuridiche vogenti in materia di voto di povertà; ad essa aggiunge un altro articolo: De quibusdam aliis ad paupertatem spectantibus, ove traccia un cammino di più intima assimilazione a Cristo e a Maria. ( Ibid., cap. II, art. Iv, n. 137, p. 48; n. 148, p. 51.)

Richiamandosi forse alla pratica della povertà in altri istituti (francescani, trappisti), il P. Colin dà delle norme o, almeno, delle indicazioni che avrebbero contraddistinto il Marista da certi religiosi e dal clero secolare: nessuno, neppure il Superiore Generale, dovrebbe avere a proprio uso esclusivo una cavalcatura (Ibid., cap. II, n. 141,. Pp. 49-50); la biancheria stessa da bucato dovrebbe essere, possibilmente, comune: le offerte per i ministeri non sollecitate (Ibid., cap. II, n. 150, p. 52); gli stipendi di mese e le elemosine, qualora la Società avesse altre fonti sufficienti di reddito, “non recipere optimum est” (Ibid., cap. II, n. 142, p. 50).

Tuttavia le norme che riguardano la povertà esterna vanno lette alla luce dell’articolo “De Societatis spiritu”. Lì la povertà non è descritta solo come spogliarsi delle cose terrene, bensì lo abbiamo visto diffusamente nelle pagine precedenti, come distacco dalla propria considerazione, abnegazione completa di se stessi, considerandosi come servi inutili e feccia degli uomini. La povertà è svestirsi di ogni manifestazione dello spirito mondano negli edifici, nel tenore di vita, nei rapporti con il prossimo, “amantes nesciri et omnibus subesse” (Ibid., art. X, n. 50, p. 19).

Perfino le opere di zelo, da praticare necessariamente nel mondo, devono essere accompagnate dall’”amore per la solitudine e il silenzio e dalla pratica delle virtù nascoste”. In un periodo in cui generalmente i religiosi erano economicamente bene installati e la Chiesa di Francia cercava sistematicamente di recuperare i beni che i diversi regimi le sottraevano, la Società di Maria viene chiamata a dare testimonianza di autentico spirito di povertà evangelica e di gratuità.

Nel capitolo finale delle Costituzioni, pensato dal P. Colin come la sintesi di tutte le norme, la povertà è computata come uno dei “quattro angoli inespugnabili”, sui quali è edificata la Società. Essa è “omnium virtutum conservatrix, et ideo Societatis vere praesidium et tutela” ( Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161). Ritrovando un intimo collegamento con altri aspetti dello spirito marista il P. Fondatore afferma che la povertà, liberando il cuore dalle cose terrene e superflue (Ibid., cap. XII, art. V, n. 442, p. 161)…

Venerdì, 02 Giugno 2006 21:09

La missione dell’uomo (Giovanni Vannucci)

La missione dell’uomo
di Giovanni Vannucci


Il mistero che oggi celebriamo, la Pentecoste, la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli, è il fondamento eterno della nostra esperienza religiosa cristiana, della nostra esperienza della Chiesa. E vorrei in parole semplici potervi dire quello che penso sulla discesa dello Spirito Santo, sulla trasformazione operata in quegli uomini dallo Spirito Santo. Una delle prime cose che voglio dirvi è questa: nel Cenacolo dove erano i discepoli, secondo la narrazione degli Atti degli Apostoli, lo Spirito Santo discende sopra di loro a forma di fiammelle e discende su ciascuno dei presenti. Questo è un fatto, è un’immagine della prima trasmissione del mistero cristiano. E l’eterna trasmissione del mistero cristiano è sempre fatta attraverso immagini davanti alle quali noi dobbiamo sostare in silenzio per poterne comprendere l’insegnamento che ci viene dato dalla figura, dal simbolo, che costituisce l’immagine.

Così in questo primo pensiero sul mistero della Pentecoste, lo Spirito Santo discende non come globo di fuoco su tutti i discepoli e neppure discende come una fiammella sul primo discepolo, fondamento della Chiesa, Pietro, ma su tutti. E discende in fiammelle distinte l’una dall’altra. Questa è una verità che dobbiamo cercare di vivere, perché lo Spirito Santo nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti. Nella diversità poi delle sue fiammelle, di quei quantum di luce e di calore che lo costituiscono, viene dato a ciascuno dei dodici. Non ce l’ha più il prete e meno i laici, non ce l’ha più il Papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici.

Ma come e a chi è concesso lo Spirito Santo? In una forma personale, in una forma distinta, in una forma differente da quella che viene concessa ad altri. E questo costituisce l’aspetto profondo: anche se non siamo riusciti a realizzare sempre, per un continuo affermarsi di potenza dell’uomo, questa realtà della Chiesa, tuttavia rimane l’essenza della Chiesa, l’aspetto divino della Chiesa, l’aspetto profondo della Chiesa, lo Spirito che viene consegnato da Gesù. A ciascuno è concesso lo Spirito e la pienezza dello Spirito noi la raggiungiamo mettendo insieme le piccole fiammelle, e allora riusciremo a comprendere quell’intensità di luce, di calore, di illuminazione, di verità, che viene concessa a tutta la Chiesa quando è in questo stato di perfetta umiltà e di perfetta attenzione agli altri. E questa è una realtà che dobbiamo pazientemente e faticosamente recuperare se vogliamo che la nostra Chiesa sia “una Chiesa”, cioè una comunione di soggetti, non una realtà sociale con un capo e dei sudditi. Quindi abbiamo la responsabilità di quella fiammella, di quel dono dello Spirito Santo che abbiamo ricevuto.

Però vorrei portare la vostra attenzione su altri elementi della festa della Pentecoste. Ricorre il numero sette. Se voi aprite un qualunque manuale di storia delle religioni e andate all’indice, dove si parla dei numeri sacri, e prendete il numero sette, voi troverete che il numero sette ricorre in tutte le esperienze religiose dell’uomo: anche in quelle che noi chiamiamo esperienze religiose dei primitivi, per esempio gli sciamani della Siberia - è un fenomeno che viene studiato molto attentamente, perché contiene delle grandi verità... -. Lo sciamano, quando sale sul suo albero - l’albero ha sette tacche, sette segni incisi -, quando giunge al settimo segno riceve la rivelazione della divinità, riceve le risposte che si attende da questa sua ascesa verso l’alto. Poi abbiamo i sette doni dello Spirito Santo. Il numero sette è il numero della completezza, che non viene raggiunta astrattamente per una combinazione di concetti, ma attraverso l’esperienza dell’uomo la nostra coscienza scopre che la realtà è costituita dal sette. E’ il numero della pienezza divina e umana.

L’invisibile non manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità; il divino manifestato ha il numero tre, che è il numero della divinità che si manifesta. Tre più tre fa sei, più uno... E chi è quest’uno? E’ l’uomo, che nel mondo del visibile è il punto in cui tutta la realtà invisibile si compendia e si esprime. Ed è l’uomo che deve - attraverso la sua attività di coscienza, di pensiero, di meditazione, attraverso il suo impegno religioso - scoprire e il visibile e l’invisibile. Questa è la missione dell’uomo.

L’aspetto non manifesto della divinità lo possiamo esprimere molto vagamente con dei vocaboli umani. L’aspetto manifesto è costituito dal tre, cioè dalla potenza: quando diciamo e chiamiamo Iddio onnipotente. Poi è costituito dall’amore, poi è costituito da una volontà che è libertà. Stamattina noi leggevamo qui un bellissimo testo di Gioacchino da Fiore : il succedersi di varie ere. L’era del Padre, che è il Vecchio Testamento, l’era del Figlio, che è l’era dell’amore. Nel Nuovo Testamento l’umanità - secondo questo grande uomo, Gioacchino da Fiore - si sta dischiudendo verso un’altra rivelazione, un’altra manifestazione del divino che è la volontà per la libertà. Quindi, il Padre è il Padre onnipotente, il legislatore, il sovrano, il re; il Figlio è il portatore dell’amore, della misericordia, della compassione; e lo Spirito Santo è colui che completa l’opera del Padre e del Figlio nell’apertura della nostra coscienza a una libertà, la libertà dei figli di Dio, dove l’amore trova la sua completezza e supera tutti i suoi limiti, dove la potenza paterna trova la sua piena manifestazione nel rispetto verso tutte le infinite creature che appaiono all’esistenza. E noi uomini, la nostra coscienza, siamo quell’uno che riceve questa rivelazione, la vive e la manifesta. E allora si ha la completezza della manifestazione religiosa e divina e spirituale nella storia degli uomini.

Ma parliamo dei sette doni. Noi, in Occidente, abbiamo perduto molte conoscenze. Per gli antichi l’uomo era composto di sette corpi; noi abbiamo molto semplificato. Cos’è l’uomo? E’ un animale che cammina eretto. E Cartesio ha detto: l’uomo è una macchina abitata dall’anima. Abbiamo la macchina, che è il nostro fisico, e il motore interno, che è l’anima. L’uomo è composto di anima e di corpo e noi abbiamo talmente generalizzato questo termine “anima” che non sappiamo più che cosa sia. Poi lo Spirito è cantato dal nostro linguaggio ... Quindi l’uomo è composto di due realtà, anima e corpo. Per gli antichi era composto di sette corpi ; era come una specie di corteo dove ci sono sette personaggi. C’è un personaggio, il vagabondo, che passa da un’osteria all’altra; se non è tenuto d’occhio, con facilità cade nel fosso, si smarrisce, oppure compie dei gesti irresponsabili. Poi c’è un’altra presenza in noi che si potrebbe chiamare il lavoratore, quello che fa, quello che compie delle azioni con grande passione; poi c’è un altro personaggio, che è lo studente, che si interessa, va a scuola, cerca di imparare, cerca di capire le cose della vita; poi c’è la madre, che accompagna questo corteo; poi c’è il magistrato, un giurista, un guerriero; poi c’è l’artista, un intellettuale, uno scultore, un poeta, un musicista; e infine c’è il prete.

Ecco, questi sono i sette corpi della nostra realtà umana: in noi c’è un corpo che è un po’ il briaco della compagnia, il vagabondo. Quante volte ci prende la mano il corpo! Si vorrebbe fare, intraprendere, poi viene la stanchezza; oppure se devo passare una bella giornata alle Stinche, questo signore, il corpo, reagisce al polline e comincia a starnutire, è la febbre del fieno: non si può mai disporre pienamente del nostro corpo. Poi c’è la nostra intelligenza che ci fa conoscere le cose, vogliamo sapere il perché dell’esistenza dell’uomo, il perché di una cosa, come è costruita una casa, come si fa un’operazione matematica, come si chiamano le stelle del cielo. Tutte queste cose le vogliamo sapere: è la parte della nostra ragione che non crede, della ragione che vuol sapere le cose, capire le cose. Poi c’è anche una parte di noi che nel corteo, ho detto, è la madre, la misericordia, l’amore, la protezione della vita, la parte del nostro essere che ci porta a guardare con grande affetto e simpatia tutte le manifestazioni della vita, a difendere la vita, a proteggere la vita, a sostenere la vita. E, infine, ci sono altri tre personaggi: uno, vi ho detto, può essere il magistrato, l’uomo di legge, oppure un militare, un guerriero, ed è la parte del nostro essere che ci porta a organizzare, a dare una gerarchia alle nostre attività, un ordine alle attività del corpo, alle attività della mente, alle nostre attività emotive. E poi c’è un’altra parte del nostro essere che, vi ho detto, è l’artista: è la parte del nostro essere che capisce, per un movimento incomprensibile e inspiegabile, il senso delle cose, oppure che, improvvisamente, sente la bellezza di un tramonto, di un’alba, di un fiore, e le esprime in forme di arte perfetta; cioè in noi c’è l’artista, è la parte più mutevole del nostro essere perché può essere perduta, repressa. E infine in noi c’è il prete, il sacerdote, che è la parte del nostro essere che capisce il significato profondo dell’esistenza. Al termine dei sette doni c’è la sapienza, alla base c’è Dio. Tutto questo ci deve rendere stupefatti e deve dare alla nostra vita un senso di responsabilità di fronte a tutta l’esistenza, alla nostra esistenza personale e all’esistenza di tutti gli altri esseri. Ascendendo questa scala di sette gradini si riesce a comprendere il senso dell’esistenza, perché il significato del nostro esistere è il significato dell’esistere di tutti gli altri esseri.

Io mi sono domandato molte volte: che cos’è avvenuto di tutte queste cose? Nelle cerimonie del battesimo, per esempio (ieri abbiamo battezzato un bambino), vengono toccati dei punti del corpo: tre punti, la nuca, la fronte, il cuore che, secondo tutta la tradizione e orientale e occidentale, sono i tre centri sottili che, quando si risvegliano, mettono l’uomo a contatto con delle forme di conoscenza differenti. Il cristianesimo si è sempre interessato soltanto di questi tre centri superiori. Non si è mai interessato dei centri inferiori. Per esempio, tutto l’induismo, nella sua pratica dello yoga, comincia dal centro più basso, poi mano a mano sale e giunge ai tre centri superiori. Il cristianesimo si è sempre interessato di sviluppare questi tre centri superiori; e si è pensato che sia questa una delle differenze per l’impostazione della meditazione cristiana in confronto alle altre meditazioni, perché quando si sviluppano i tre centri superiori gli altri seguono inevitabilmente l’ordine di armonia.

Ma io mi sono domandato: cosa è avvenuto nel Cenacolo in quegli uomini? Vi do una spiegazione che è mia, quindi non siete per niente obbligati a seguirla. Ma, cerco di indovinare perché, ordinariamente, davanti a questi misteri religiosi, a queste immagini meravigliose, ci abbandoniamo, così, a una contemplazione esteriore, oppure ci accontentiamo di spiegazioni tradizionali che non ci permettono di penetrare il mistero; non è che io voglia spiegare il mistero, ma voglio darvi delle indicazioni che, per me, sono abbastanza ragionevoli per poter capire quello che è avvenuto nella coscienza di quegli uomini nel Cenacolo. Ché prima della Pentecoste Pietro era un pavido, gli altri erano, anche loro, molto legati alla loro umanità. Improvvisamente da quegli uomini scaturisce l’annuncio della Parola e scende nel cuore degli uomini e trasforma tutto l’Occidente. Deve essere avvenuto qualcosa.

Io penso sia avvenuto questo: lo Spirito, discendendo dall’alto, ha preso possesso di quegli uomini nei tre centri. Cioè, del senso del sacro, e hanno raggiunto la sapienza, hanno capito il perché dell’esistenza e quindi hanno compreso con intensità di vita e di partecipazione - non di spiegazione, ma di partecipazione - quella realtà portata da Cristo sulla terra e che loro avevano vissuto, alla quale avevano partecipato, ma che non avevano ancora compreso. Hanno capito che Cristo iniziava una nuova era per la coscienza umana, l’era dell’amore. Poi di loro è stato preso possesso anche dell’altro centro, dell’intuizione, non più abbandonata a improvvisazioni di momenti di particolare emozione, ma diretta verso la comprensione di quel mistero che era stato rivelato e che essi avevano compreso con la loro esperienza. Poi quel personaggio che vi ho descritto come il portatore dell’organizzazione, della gerarchia, e nel lavoro nostro personale e nel lavoro di società (il magistrato, n.d.r.), anche questo è stato preso e trasformato con violenza dallo Spirito Santo, perché doveva nascere una nuova società, perché l’uomo non è mai riuscito a creare una società e anche dentro la Chiesa non siamo mai riusciti a creare quella nuova società che era annunciata da Cristo.

Era necessario un lavoro in serie, affidando a ciascun operaio la produzione di una determinata parte dell’opera e organizzandola entro tempi sufficientemente brevi. Questa è una capacità organizzativa che abbiamo noi uomini, che parte da noi uomini e che è un prolungamento della nostra ragione, della nostra intelligenza nella vita. Così, quando organizziamo la nostra vita, noi cerchiamo di prevedere tutto ciò che ci può capitare durante la giornata e incanaliamo in un certo ordine la nostra giornata. Quando poi viviamo in società, il responsabile della società ha una particolare immagine dell’uomo e vuole che gli uomini corrispondano ad essa nella vita sociale, imitino questo modello che lui ha dell’intelligenza dell’uomo: un militare, davanti a un esercito, ha una particolare visione del soldato e vuole che il soldato imiti questa idea che lui ha del soldato.

Nel cristianesimo le cose non sono così: non è l’uomo che crea la società, ma è lo Spirito Santo che crea la società. E la Chiesa non è creata dagli uomini, ma è creata, alimentata e fecondata dallo Spirito Santo. Quando Cristo dice a Pietro: “Tu sei pietra e su questa pietra io edificherò la mia Chiesa” - vi ho detto altre volte che chi edifica la Chiesa non è Pietro, né il Papa, ma il Cristo -, dicendo: tu sei pietra, Cristo prende un simbolo religioso che è antichissimo quanto è antica l’umanità; è forse il primo simbolo dell’umanità religiosa: la pietra . E la pietra cos’è? Cosa rappresenta? Rappresenta la Grande Madre. Quando i primi cristiani chiamarono la Chiesa “Madre”, si riferivano a questa esperienza profonda. Cioè la Chiesa è quella struttura duttile e malleabile come l’utero della donna quando porta avanti un germe, un germe che ha accolto. Questo organo femminile aumenta mano a mano che il germe si sviluppa. Quando poi il germe ha raggiunto, nei nove mesi, la sua piena maturazione, lo lascia. Questa è la struttura della Chiesa.

Mi direte, non è così. Non è così perché noi uomini faticosamente arriviamo a liberarci da noi stessi. Perché se Dio nella sua manifestazione visibile è il potere, è un potere differente dal potere di noi uomini. Confrontate l’onnipotenza di Dio con il concetto che noi abbiamo di onnipotenza. Non corrisponde. E’ un’impotenza. Ve lo accennavo per Natale, quando noi veneriamo nel Fanciullo la manifestazione suprema della divinità. In questa immagine, in questa realtà noi non facciamo altro che dire che l’onnipotenza di Dio di fronte alle nostre onnipotenze e potenze umane è una impotenza, una non potenza. Ma questo lo abbiamo dimenticato proprio nella nostra prassi religiosa, perché ci siamo abbandonati senza distinguere chiaramente quella che deve essere la realtà cristiana da quella che è la realtà umana.

Gli uomini sono portati a creare delle strutture mentre la Chiesa, essendo opera dello Spirito Santo, è come il seno di Maria santissima, che accoglie la parola di Dio e cresce mano a mano che questa Parola cresce nel suo grembo. E allora le strutture dure, nella Chiesa, sono assolutamente un’opera diabolica, un’opera antispirituale, un’opera che la cristianità viveva in un dato momento, che non è più aperta alla fecondazione dello Spirito, ma si abbandona a quelle forze che vengono dal basso; cioè l’uomo cattolico, l’uomo di un’altra Chiesa, non è più l’uomo cristiano, ma un uomo puramente umano e allora si hanno delle durezze, si hanno quelle strutture potenti e pesanti che abbiamo portato ad esempio e che ora sogniamo e aspiriamo a superare, se riusciamo ad accettare la realtà che in ognuno di noi c’è lo Spirito Santo in una forma particolare e differenziata da tutte le altre forme.

Questo volevo dirvi. E cos’è avvenuto negli apostoli? Dio ha preso possesso di queste capacità di uomo e ha dato loro una saggezza divina, agli apostoli ha dato un’intuizione divina e una capacità di organizzazione divina. Per noi la situazione è differente: noi dobbiamo raggiungere lo Spirito Santo attraverso un faticoso cammino, lungo la vita terrena; cammino di riordinamento di tutte quelle parti che compongono il nostro essere e, una volta raggiunto questo riordinamento, possiamo sperare che avvenga in noi quella folgorazione che, imprevista e inattesa, si è compiuta negli apostoli. E allora anche il numero sette, anche i nostri sette corpi saranno unificati da questa fiamma che discende sul nostro capo e che tutto unifica, tutto illumina, tutto trasforma. E saremo in mezzo agli uomini delle creature che portano il mistero totale, non solo il mistero divino ma anche il mistero dell’uomo, rivelandone la compostezza, la pace, la luce, la creatività, l’armonia, l’equilibrio, l’amore, la pietà, la saggezza, che non nascono dall’uomo ma da Dio. In noi nascono, vi dicevo, come conquista, conquista lenta, accanita, tenace, ardente, che ci accompagna per tutta la vita.

Anche noi siamo in cammino verso la nostra Pentecoste, verso la presa di possesso di quella fiammella che è discesa su di noi e che discende continuamente su di noi, che è lo Spirito Santo. Di questo dobbiamo essere consapevoli. Allora - vedi Carolina - riusciamo a ordinare il corteo di quei sette personaggi... sanno dove vanno e, quando scopriranno dove sono diretti, capiranno che sono diretti verso la luce, cioè alla visione completa e illuminante di tutto il mistero e della loro vita e delle vite degli altri, e dell’esistenza attuale e dell’esistenza futura. Saremo delle persone che capiscono, che comprendono, e in conseguenza di questa comprensione e di questa saggezza raggiunta, ci comporteremo come creature illuminate e santificate dallo Spirito Santo.



1) Giovanni Vannucci, omelia pronunciata nell’eremo di S. Pietro alle Stinche, Greve in Chianti (FI), durante il rito eucaristico pomeridiano delle ore 18, domenica 6 giugno 1976 (Domenica di Pentecoste), Anno B; registrata su nastro magnetico da Elena Berlanda e trascritta da Consalvo Fontani. Pubblicata da Fraternità di Romena editrice, Pratovecchio (AR), 2005, in Nel cuore dell’essere, pg. 157-166.undefined
Pubblicato in Maestri Contemporanei
Venerdì, 02 Giugno 2006 20:35

La solidarietà di Dio (Alex Zanotelli)

"Passai vicino" - a te dice il Signore parlando ad Israele schiavo in Egitto - "ti vidi mentre ti dibattevi nel sangue…". (Ez 16) E’ il Signore che si accorge del grido degli schiavi forzati a costruire i palazzi imperiali del faraone.

Pubblicato in Spiritualità
Etichettato sotto

Search