Incontro con Jacques Arène, psicanalista
In un piccolo caffè dietro la chiesa di Notre-Dame de Lorette, a Parigi, Jacques Arène, psicanalista, ci parla delle partenze talora oscure che segnano la condizione umana. La cura analitica, in particolare, è un “partire” che si iscrive nella durata: si assume un rischio, quello di vivere affrontando il reale. La libertà dell'uomo vi è in gioco. Intervista.
Quali sono le grandi tappe del “partire” nella vita di un uomo?
Il periodo della vita che mi sembra più emblematico del “partire” al quale l'uomo è chiamato, è quello del giovane adulto nel momento in cui deve lasciare i genitori. È una tappa difficile a viversi, perché si tratta, né più né meno, di assumersi i propri desideri e di battersi per essi. Lasciare i genitori genera una forma di angoscia: “Sarò capace di tenermi in piedi nella mia vita di uomo o di donna?” Si assiste d'altronde oggi al “l'effetto Tangui” (1). I giovani rimangono sempre più a lungo in casa dei genitori. essi sono consapevoli del confortche c'è a star dentro e sono paralizzati dal rischio che c'è a essere fuori. Si ha talmente paura di esporsi che non si parte più. Ora, partire è affrontare la realtà, mettervisi in scena, sia per la lotta che per l'armonia. La stessa cosa va detta per la fine della vita: è un “partire” doloroso, perché è “non elaborato” e circondato da un grande vuoto sociale. La nostra società non riesce a proporre dei modelli sociali di confronto col reale.
Essere lasciati dai figli pone lo stesso problema in maniera simmetrica: Questa seconda parte della vita - partenza dei figli o fine di carriera - non è valorizzata. La nostra società nega totalmente lo spessore esistenziale e l'umiltà che si acquistano con gli anni. Si ritiene di vivere un declino e quella partenza avvolge i genitori in una grande solitudine. Per essere se stessi è indispensabile poter “digerire la realtà”.
Che cosa distingue una partenza che è della categoria della fuga dalla partenza che è della categoria della costruzione di sé?
La grande differenza è costituita dalla libertà! La fuga è non saper risolvere un problema altro che lasciando. Così la persona ripeterà tale atteggiamento di fronte a ogni ostacolo. Sarà continuamente sul piede di partenza. Perché si possa parlare di una vera partenza è necessario aver una forza e una densità tali che permettano di vivere la rottura in modo durevole: i passaggi all'atto senza seguito sono false partenza. Non si tratta infatti di girare in tondo nel porto, ma di seguire la rotta.
Per valutare la maturità di fronte a un progetto occorre, inevitabilmente, scontrarsi con lo sguardo dell'altro. L'ambiente circostante - non parlo della famiglia che è troppo coinvolta per essere obbiettiva - svolge un compito essenziale. I nostri conoscenti sentono, spesso meglio di noi, se abbiamo la volontà e il realismo che permetteranno ai nostri desideri di incarnarsi o se siamo in un progetto evanescente di cui si cerca di cancellare o evitare le asperità. Quante persone cercano un altrove mentre sono incapaci di affrontare il qui e ora? Bisogna tener conto dalla realtà
Le partenze sono segno di buona salute mentale?
Le partenze ripetitive non sono segni buoni. Si rimane sempre nello stesso funzionamento, come avviene con un disco rigato. Quando siete prigionieri di pulsioni, non potete scegliere, non siete un essere libero di farlo. La ripetizione appartiene alla categoria della non-libertà. C'è sempre una parte di sorpresa, una parte imprevedibile, in una partenza vera. Quando una persona diagnostica che la sua vita non le conviene più, raramente si sbaglia. Ma questa constatazione ha delle conseguenze diverse da persona a persona. È tutta la problematica del vino nuovo e degli otri vecchi come è formulata dai vangeli (Vangelo di Matteo 9,17). Prima di pensare a partire non occorrerà semplicemente cambiare l'otre, cioè il nostro sguardo sul quotidiano?
La cura psicanalitica è un'esperienza del “partire”. Per quali ragione si decide di partire?
Per alcuni è un desiderio di lasciare l'uomo vecchio e di trovare l'uomo nuovo. Un bisogno di non restare più nella ripetizione, di cambiare paesaggio interiore. A volte è più complicato. Qualche cosa di imprevisto ci mette in una sofferenza inesplicabile. Si sente che le cose non andranno più come prima. È un momento in cui si può imparare qualche cosa su di sé: io non sono quel che credevo. Ci si sente come espulsi da qualche cosa. Così molti giovani adulti si sono sentiti espulsi dall'infanzia. Ed è pertanto la partenza, involontaria, per un cammino. Infine, ed è la cosa più frequente, si dà inizio a una analisi perché si ha l'impressione che il sipario della rappresentazione non si sia mai alzato, che la nostra storia non si incarni. La persona ha la sensazione di non aver veramente scelto la sua vita, di non abitare la sua casa interiore. Ci si sente leggeri, nel senso primo del termine, cioè senza peso nella vita.
In una terapia vi sono dei momenti in cui si fa del surplace. Tutto sembra bloccato, non si va più avanti. È una sensazione necessaria, invitabile?
Abbiamo delle idee sul cambiamento. Ma in psicanalisi spesso un treno ne nasconde un altro: si viene per far scomparire un sintomo e si scopre una cicatrice. Così, il grande problema di un certo paziente è, da sempre, la sua relazione col padre e si trova di fronte a un'angoscia nei confronti della madre che non era prevista nel programma. Viene pensando di liberarsi dal soffrire e trova talora una sofferenza più grande ancora. La terapia è un rischio, e io avverto i miei pazienti perché non si sentano traditi. Si fa talvolta del surplace perché il viaggio non è quello che ci si aspettava.
Pertanto lo scopo principale della psicanalisi non è tanto quello di soffrire meno, ma di essere più liberi. Un terapeuta aiuta il suo paziente a uscire dai suoi trabocchetti, dalle sue immaginazione di una “vita riuscita”… Non si tratta tanto di sbarazzarsi dei vecchi demoni, ma di lasciarsene meno abbindolare. Come dice Lacan, “la guarigione viene in più”. Il solo e vero pericolo del surplace è di restare nel mezzo del guado. Non si può più tornare indietro, non si vuole più andare avanti. I punti morti esistono in tutti i veri percorsi. In ogni modo bisogna sapere che la terapia non ci farà uscire dalla divisione interiore che ci ha messo in movimento. Occorre, una volta per tutte, abbandonare l'idea che saremo un giorno “guariti” da quella tensione interiore che ci spinge in avanti. Infine il surplace è anche proprio di coloro che scelgono l'oscurità e preferiscono andar male, fare male. Facendo male all'altro io lo tocco, dunque lo colpisco, dunque condivido e non mi sento più solo. È il fascino delle tenebre.Si preferisce la propria sofferenza che si conosce a un altrove “meno sofferente” che non si conosce… Fortunatamente la progressione non è lineare. Vi sono momenti di rottura e di crisi. Una parte della nostra libertà si annida proprio là, in questo movimento interiore: avanzo o non avanzo?
La psicanalisi apre su una dimensione di sé più grande del sé. Quale differenza da un lavoro spirituale?
L'uomo moderno ha sempre più difficoltà a dire “io”, a trovare il senso dell'“io”. E quindi del “tu”.Questa domanda di identità si pone sempre più e sempre più presto in terapia. Si è usciti fuori dal senso primario della psicanalisi. Eppure il lavoro analitico non cerca di dare un senso alla vita, ma di identificare l'origine di alcune sofferenze. La ricerca del senso esige altri luoghi…
In un lavoro spirituale, quale è considerato dalle tradizioni monoteistiche, il presupposto è che Dio esista. E l'accompagnatore lo metterà al centro della relazione. Come se fosse presente una terza persona. Non è questo il caso dell'analisi in cui, a causa del mio dovere di riservatezza, io faccio come se Dio non ci fosse. E tuttavia, per me, i momenti di veri cambiamenti sono di competenza della grazia. Perché sono imprevedibili, incomprensibili. Le trasformazioni profonde della nostra vita si compiono a volte in un quarto di secondo. Se no, l'analista sarebbe soltanto il testimone di un movimento prestabilito. Torniamo ancora alla libertà. Vi è un punto d'incontro misterioso, una interazione, fra la grazia divina che lavora e agisce nel cuore dell'uomo, e la nostra libertà.
Quale nesso lei vede fra la nevrosi e l'esodo?
Nella nevrosi c'è qualche cosa del tipo dell'esilio da se stessi. Non si è nella propria vita, si vive nella realtà come in un mondo estraneo. Come dice Camus in Noces la creazione è bella, ma l'uomo se ne sente escluso. È così che l'uomo moderno ha un rapporto nevrotico con il mondo: è l'esilio di Babilonia. Ora, prendere la strada dell'esodo è uscire dall'esilio per tendere verso una terra che è la nostra. Ugualmente intraprendere una analisi per uscire dalla nevrosi è partire da una prigione, da un paese di schiavitù, per entrare più a fondo nella propria identità e imparare a dire “io”, cioè a portare se stessi. Mosè cammina, ma non raggiungerà mai la Terra promessa: il lavoro per arrivare a casa non è mai finito.
Nel deserto, ci dice la Bibbia, Dio fa alleanza con il suo popolo. Si fa alleanza con un terapeuta?
È meglio non andare da soli nel deserto. D'altronde l'esodo è un'avventura collettiva. Paradossalmente si viene in analisi per guadagnare indipendenza, mentre la terapia non è un luogo dove si impara a essere soli. Al contrario si impara a conoscere le proprie dipendenze, a lasciare le cattive e ad accogliere le buone. E proprio attraverso l'ascolto, l'alterità, diviene possibile un vero cammino esigente. Non credo al navigatore solitario. C'è bisogno di appoggiarsi su delle relazioni. Così, se un paziente consegna ciò che ha di più intimo e si sente accolto, non squalificato, si può parlare di alleanza. La differenza con l'alleanza fra Dio e il suo popolo è che Dio si impegna per sempre e incondizionatamente, quale che sia il comportamento di Israele. L'analista invece può rinunciare se si trova in difficoltà con l'uno o con l'altro dei suoi pazienti. Non è onnipotente e può scontrarsi con delle oscurità che lo superano. La potenza di creare nelle tenebre non è data a tutti…
Intraprendere una analisi per uscire dalla nevrosi, è uscire da un paese di schiavitù per entrare più a fondo nella propria identità. Mosè cammina ma non raggiunge mai la Terra promessa. il lavoro per arrivare a casa propria non è mai finito.
1) Tangui è un film di Etienne Chatiliez che racconta la storia di un giovane di 28 anni che non riesce a lasciare la casa dei genitori.
(da Actualité des religions n° 45, p.46)