“E perché i figli di Israele si disposero davanti al Mar Rosso secondo l’ordine delle dodici tribù, allo scopo di preservare l’eredità dei figli di Giacobbe, che Dio suscitò il miracolo e gli fece attraversare il mare a piedi.” (Midrach Yalkout reuvéni su Esodo 14)
Il miracolo del Mar Rosso ricorda che le tribù di Israele sono indissociabili l’una dall’altra.
Si potrebbe pensare che questa divisione in 12 tribù abbia perduto,con il passare del tempo, un po’ del suo senso o del suo interesse,che i particolarismi dei padri fondatori della nazione si siano attenuati progressivamente come tutti i particolarismi, seguendo una evoluzione naturale. In effetti, è evidente che, al momento di abbandonare definitivamente l’Egitto dopo generazioni di asservimento e di assimilazione, questa costituzione del popolo in dodici famiglie ha perduto la sua forza originale.
Legati all’eredità dei loro padri
Ora la Torah respinge con forza questa idea. Lungo tutto il capitolo 14 dell’Esodo, il Midrash (commentario omiletico della Bibbia) ritorna regolarmente su questa formale esigenza: ”Come le tribù dei vostri padri, voi beneficerete dell’apertura del mar Rosso ed erediterete la terra di Israele”. Le ultime parole del Midrach, risuonano ancora di questa preoccupazione: ”Ciascuno dei figli di Israele rimase fedele all’eredità dei suoi padri e si radunò davanti al mar Rosso secondo l’ordine delle tribù. ”Quando la Bibbia ripete a sua volta” che nessuna eredità presso i figli di Israele passerà da una tribù all’altra” (Numeri 36,7) manifesta indubbiamente una preoccupazione che non è solamente quella che riguarda la preservazione del patrimonio di ogni tribù, il mantenimento di ciascuna nei limiti che gli saranno assegnati ma va largamente al di là.
Si tratta qui anche di ribadire il carattere peculiare di ciascuna tribù. Il patrimonio specifico di ciascuna deve esprimersi nel mettere radici su di una terra,nel confrontarsi con i problemi politici,ed è questa una prova decisiva.Questa preoccupazione della Torah non può essere vista come una pura e semplice esasperazione delle differenze, cosa che aprirebbe immediatamente la strada ai piccoli nazionalismi pignoli e gelosi a vocazione egemonica rischiando di compromettere seriamente ogni idea di unità
Unità nazionale
Insistendo sulla nozione di tribu, la Torah, vuole promuovere la più completa concezione di unità del popolo, che non deve essere un’unità di facciata. L’unità di un popolo che sia uno, nel senso che ogni individuo sia unico e insostituibile e arrivi ad integrarsi alla dinamica collettiva dando un pieno senso alla sua vita. Nella pratica quotidiana non è, in effetti facile riuscire a situarsi ed evolvere in un’aria mediana, tra un individualismo esacerbato e senza condivisione che non permette ad alcun progetto collettivo di realizzarsi, e un nazionalismo anch’esso portato agli eccessi che ignora ogni particolarismo, sottomettendo gli individui, senza contropartita alla ragion di Stato. I dodici figli di Giacobbe, rappresentano dodici modi differenti di vivere la Legge. Le dodici tribù costituiscono il passaggio obbligato tra l’individuo e la nazione. Ma queste figure per essere veramente operanti non possono essere dei semplici riferimenti letterari, dei modelli” mitici”. Esse debbono continuare ad incarnarsi e ad evolvere nel tempo. Non si è mai trattato di riprodurre e perpetuare nelle tribù le caratteristiche proprie dei padri, nella loro interezza e senza sfumature. Ciascuno di questi padri incarna delle tendenze, uno stile che deve essere piegato, forgiato, fino a giungere ad un completamento nella sua espressione, a livello del gruppo, legato alla sua terra...
Uno stile proprio
Ogni tribù avrà cura di realizzarsi nello “stile” che gli è proprio, completando l’opera dei padri, e assumendo fino in fondo il proprio modo specifico di vivere; in tal modo si realizzerà la trasmissione dei valori patriarcali secondo dodici modi principali che interagiscono nella storia, sola condizione, questa, per perpetuare nella sua interezza l’eredità dei padri.
Così, al di là della semplice esigenza di coesistenza pacifica, si delinea la necessità di mirare ad una complementarietà pienamente accettata e pienamente efficace, condizione per accedere alla vera unità. E già presso i figli di Giacobbe, si delineano delle associazioni, buone o cattive che siano; Simeone e Levi ”coppia maledetta” che Giacobbe voleva dividere e disperdere ad ogni costo (Genesi 49,5-7), Issacar e Zabulon la cui fruttuosa unione proseguirà in maniera esemplare.
Nel Libro dei Numeri nascono nuovi gruppi. Nel campo di Israele (cap 2) le tribù sono disposte a gruppi di tre intorno al Tabernacolo e attraverso questa sistemazione, vengono posti saldamente i fondamenti dell’unità del popolo; la presenza divina può stabilirsi in mezzo ad esso.
Ma questa unità deve ancora realizzarsi con lo stabilirsi in una terra dove porrà le sue radici; là più che mai si dovranno eludere le tentazioni nazionaliste, lasciando posto alla diversità nell’unità.
Per questa ragione la Torah vuole che sia mantenuto questo raggruppamento per tribù e che il Midrash ne sottolinei l’importanza fin dal passaggio miracoloso del mar Rosso, atto fondamentale della storia di Israele.
Con il passaggio del mar Rosso,gli Ebrei preparano la via a coloro che verranno dopo di loro
Nella liturgia della chiesa cattolica l’evocazione del passaggio del mare dà il via alle celebrazioni pasquali. Nella veglia del sabato sera, i fedeli si raccolgono sul sagrato, accendono il cero pasquale e l’introducono nella chiesa. Nella penombra, alla luce dei ceri, si innalza il canto dell’Exultet. In questo antico inno, nel quale alcuni elementi risalgono addirittura ad Ambrogio di Milano, si celebra ”la notte in cui hai tratto dall’Egitto i figli di Israele,i nostri padri, e hai fatto passar loro il mar Rosso con i piedi asciutti.È la notte in cui il fuoco di una colonna luminosa respingeva le tenebre del peccato(….)ecco la notte in cui il Cristo ,spezzando i lacci della morte, si è sollevato, vittorioso, dagli inferi(…) O notte di vera felicità, notte in cui il cielo si unisce alla terra, in cui l’uomo incontra Dio.”
L’assemblea ascolta e medita una serie di testi biblici:il poema della creazione, la liturgia di Isacco,il passaggio del mare, seguito dal canto di Mosè:
I carri del Faraone e le sue armate
Egli li lancia nel mare
Tutti i capi sono precipitati nel mare Rosso.
L’abisso li ricopre:
essi affondano,come pietre,nel fondo delle acque.
L’Exultet, come la selezione del testo, si ispira al poema ebraico delle quattro notti che segnano il mondo:creazione, Abramo, Pasqua, venuta del messia (Targoum Neofiti Esodo 12,42). Dopo alcune altre letture viene la liturgia battesimale. Il prete benedice l’acqua: ”Ai figli di Abramo tu hai fatto passare il Mar Rosso a piedi asciutti, affinché il popolo di Israele, liberato dalla schiavitù, prefiguri il popolo dei battezzati(….) che scenda su quest’acqua la potenza dello Spirito santo, affinché ogni uomo che sarà battezzato, sepolto nella morte con il Cristo, resusciti con il Cristo per la vita”.
La pasqua cristiana celebra la resurrezione del Cristo, ma, come si può constatare, si situa ugualmente in continuità con la Pasqua ebraica. Vi si celebra la potenza di Dio che fa passare il mar Rosso a piedi asciutti ai nostri padri e che fa passare Gesù dalla morte alla vita. Il passaggio del mare è un’immagine della morte-resurrezione di Gesù e un’immagine del battesimo. Gesù è stato immerso nella morte per rinascere a una vita nuova. ”Per il battesimo, nella sua morte, siamo stati dunque sepolti con lui affinchè, come Cristo è risuscitato dai morti per la gloria del Padre, viviamo anche noi una vita nuova” così scrive Paolo nella sua lettera ai Romani (6,4).
Il passaggio del mare è oggetto di una lettura tipologica. Ciò significa che gli avvenimenti raccontati nella Bibbia servono da esempio alle generazioni successive e sono immagine di ciò che si realizzerà in pienezza in Gesù Cristo. Un passaggio della Lettera ai Corinti illustra bene questo tipo di esegesi. Paolo viene a sapere che alcuni Corinti sono pieni di orgoglio. Essi pensano che, poiché sono battezzati possono permettersi tutto, compreso mangiare la carne offerta agli idoli, con il rischio di scandalizzare i più deboli. Paolo ricorda loro che la salvezza non è acquisita una volta per tutte. Lo prova ciò che è avvenuto alla uscita dall’Egitto: ”I nostri padri sono stati tutti sotto la protezione della nube, e tutti hanno passato il mar Rosso. Tutti sono stati, per così dire, battezzati in Mosè, nella nube e nel mare (…). Tuttavia, la maggior parte di essi hanno fatto dispiacere a Dio, e sono caduti nel deserto.” (10,1-2,5)
“Battezzati in Mosè” l’espressione è stupefacente. Essa significa che Mosè è una figura del Cristo. La colonna di nubi - (colonna di nubi il giorno per aprir loro la strada, colonna di fuoco la notte per illuminarli, secondo Esodo 13,21, simbolo della presenza di Dio) – e il passaggio del mare sono figure del battesimo.
Nel suo sermone per l’Epifania S.Massimo di Torino (≈ 415) commenta: la colonna di fuoco si è avanzata per prima attraverso il mar Rosso affinché i figli di Israele la seguissero senza paura. Essa ha attraversato le acque per prima per preparare la strada a quelli che l’avrebbero seguita. Fu questo , dice l’apostolo, un mistero prefigurante il battesimo. Si, fu come un battesimo, quando la nube ricopriva gli uomini e le acque li portava. In un modo più popolare, ritroviamo questa idea negli spirituals che associano il passaggio del mare al battesimo.
Quando Mosè conduceva il popolo d’Israele
Verso Canaan
(mar Rosso!)
Faraone corse loro dietro, per il solo piacere
Di essere crudele
(mar Rosso!)
Oh Faraone, è annegato, annegato, oh là là!
Oh Faraone, è annegato nel mar Rosso!
Non dimenticherò mai che un bel giorno
(mar Rosso!)
Gesù mi lavò nel suo amore
(mar Rosso!)
Terminiamo con il diacono Ephrem ( IV sec.). Per mostrare la novità apportata dal Cristo, egli associa nella stessa gioia pasquale il risveglio della natura in primavera, il passaggio del mare e la resurrezione di Gesù. Ecco un breve estratto: ”Nel mese di Nisan, quando i fiori imprigionati uscirono dai loro germogli, i bambini, a loro volta, uscirono dalla loro camera. Era festa; essi gioirono insieme per il loro bel Signore, i bambini e i fiori (…). Nel mese di Nisan, il mese rigoglioso che genera i canti, i bambini donarono la loro voce, senza più aver paura (…). Con l’agnello pasquale, i bambini poterono uscire e,come degli agnelli fuori del recinto, saltarono liberamente.” (Da Azymis XI)
(tratto da Le Monde des Religions, n. 4, pp. 53-56)
Capitolo III
Il Crocifisso, volto teologico del Risorto
Per capire quale sia questo nuovo significato occorre prima di tutto rinsaldare il legame tra crocifissione e resurrezione, legame che spesso si è portati a sciogliere o quantomeno a non considerare. Se è vero che «senza risurrezione la morte di Gesù dimostrerebbe soltanto la non-esistenza di Dio»95 – o, peggio, la sua impotenza di fronte al male – è altrettanto vero che concentrarsi sulla resurrezione senza riflettere adeguatamente sulla crocifissione rischia di gettare nell’ombra aspetti fondamentali dell’economia della redenzione e delle modalità d’azione di Dio. Scrive al riguardo G. Rossé: «Certamente il punto di partenza della fede cristiana, e di conseguenza dell’annuncio apostolico, è la risurrezione di Gesù. [...] Ma annunciare dinanzi a Israele che Dio ha risuscitato Gesù implica necessariamente proclamare come Messia e Signore un morto in croce. Chi annuncia Gesù risorto deve affrontare lo scandalo della croce. Il Crocifisso è parte integrante del messaggio pasquale. L’attenzione della giovane Chiesa non poteva non portarsi su quel Crocifisso che la Scrittura dice “maledizione di Dio”, e che Dio ha risuscitato ponendosi totalmente dalla parte di quel maledetto. Ciò che per l’ebreo è scandalo, per la fede cristiana diventa la rivelazione suprema di chi è Dio. È nel Crocifisso, considerato come respinto da Dio, che si manifesta paradossalmente la verità ultima su Dio e sul suo agire a favore dell’umanità. Il Crocifisso è il volto teologico del Risorto»96.
Paolo concentra l’attenzione proprio sulla morte di Gesù in croce, attribuendole una funzione critica nei confronti dei sapienti e dei forti di questo mondo: la croce svela l’illusione della loro forza e sapienza; Gesù crocifisso rovescia completamente la gerarchia dei valori: Dio si rivela là dove l’uomo non lo cerca, nella debolezza e nella morte; il Cristo sulla croce stravolge l’immagine di Dio che l’uomo religioso tende a costruirsi, quella di un Dio potente, glorioso, spesso lontano e tirannico. Come dice Udo Schnelle: «Per Paolo, la croce di Cristo è il criterio teologico decisivo; egli non argomenta sulla croce, ma parla a partire dalla croce»97. Nella morte del Figlio, l’amore divino ha preso definitivamene dimora, ha stabilito la sua tenda; Gesù crocifisso è il luogo della conoscenza ultima del vero Dio. «Gesù crocifisso – scrive ancora Rossé – è la via migliore che Dio abbia potuto scegliere per raggiungere il Suo fine di salvezza: penetrare fino in fondo nella condizione umana, per rivelarsi vicino all’umanità nella sua lontananza da Dio e salvarla dal di dentro portandola in Lui, al suo compimento escatologico»98.
L’adesione incondizionata al disegno del Padre ha condotto Gesù a solidarizzare totalmente con l’assenza di Dio che caratterizza la condizione non escatologica e di peccato dell’umanità. Il Crocifisso rivela che ogni situazione di non-Dio può essere trasformata in comunione piena con Dio. La croce di Cristo mette in crisi tutti i sistemi religiosi costruiti dall’uomo per conoscere e raggiungere l’Essere Supremo99 in questo senso la passione di Gesù è per molti versi l’opposto del sacrificio: se i sacrifici sono un momento di incontro del fedele con Dio (cfr. Es 20,22 – 26)100, la croce di Cristo è un momento (e un luogo) in cui Dio sembra del tutto assente; se il sacrificio è una pratica cultuale con cui l’uomo offre doni alla divinità per ringraziarla o guadagnarne i favori, sul Golgota appare chiaro che pratiche di questo genere, peraltro messe in atto dall’élite religiosa del popolo eletto, non solo sono vane, ma hanno esiti disastrosi: il deicidio. Gli sforzi che i più religiosi tra gli uomini compiono per difendere Dio si traducono – paradosso dei paradossi – nell’uccisione di Dio.
95 G. Rossé, op. cit., p. 107.
96 Ivi, p. 17.
97 U. Schnelle, Paulus. Leben und Denken, Walter de Gruyter GmbH & Co., Berlin, 2003, p. 209.
98 G. Rossé, op. cit., p.19.
99 Ivi, pp. 19 – 21.
100 Cfr. G. Deiana, op. cit., p. 51.
La risonanza della vicenda del profeta Giona e del suo insegnamento è diffusa nel contesto anticotestamentario (cf. 2Re 14,25) e nell'interpretazione rabbinica. (1) E’ interessante poter vedere come la storia parabolica del profeta Giona, la cui trama narrativa presenta una serie di indicazioni teologiche per il suo tempo, viene riletta nella prospettiva del compimento messianico. (2) La singolarità del tema sta proprio nell'uso che Gesù fa della storia di Giona come «segno» cristologico, che non trova un successivo sviluppo neotestamentario. (3) In questo contributo ci proponiamo di studiare i testi e i contesti evangelici che esplicitamente evocano il libro di Giona.
L'annuncio del «regno» e la pretesa del «segno»
Il riferimento esplicito alla storia del profeta Giona appare in tre contesti: Mt 12,38-42, il suo parallelo di Lc 11,29-32 e Mt 16,1-4. E’ interessante notare come la prospettiva entro la quale va interpretato il motivo di Giona è posta tra l'annuncio del «regno» e la richiesta del «segno». Nella sezione matteana dei miracoli (cf. Mt 8-9) si presentano personaggi che ricevono segni: il lebbroso (Mt 8,3), la suocera di Pietro (Mt 8,14-15), la tempesta sedata (Mt 8,23-27), i due indemoniati liberati (Mt 8,28-34), la bambina di Giairo e l'emorroissa (Mt 9,18-26), i due ciechi (Mt 9,27-31), l'indemoniato muto (Mt 9,32-34) e altri che credono senza il bisogno di vedere segni: il centurione (Mt 8.5-13), il paralitico (Mt 9,1-8). Di fronte alla fede del centurione che non chiede un segno, ma crede sull’autorità della parola, Gesù afferma:
In verità io vi dico, in Israele non ho trovato nessuno con una fede cosi grande! Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori, nelle tenebre, dove sarà pianto e stridore di denti (Mt 8,10-12).
Questo riferimento e collegato all'incredulità (4) intorno alla figura messianica di Gesù e all'annuncio del regno. Nel primo vangelo la concezione della fede e subordinata all'accoglienza della persona del Cristo (cf. Mt 14,53-58) e del regno, che si manifesta mediante la predicazione accompagnata da segni prodigiosi. Si schiude cosi la prospettiva che caratterizza la seconda parte del ministero pubblico di Gesù e che si collega con uno dei temi teologici del libro di Giona: l'universalismo della salvezza. Considerando il messaggio dei tre sinottici, di fronte alla richiesta di «segni» Gesù sembra dare due risposte diverse. Secondo la narrazione marciana il Signore nega risolutamente ogni segno della sua autorità divina (cf. Mc 8,11-12). Nell'economia della presentazione cristologica di Marco, la negazione del segno appare coerente con la struttura progressiva e rivelativa del vangelo, che chiama alla fede mediante la rivelazione della persona del Cristo (cf. Mc 8,27-30) e al discepolato mediante la sequela della croce (cf. Mc 8,31-38). La concessione di un segno, che non appare nella tradizione marciana, viene invece introdotta negli altri due sinottici, per bocca dello stesso Gesù, che reinterpreta la storia di Giona come enigmatico annuncio del proprio destino.
II contesto sinottico di Matteo
L'intenzione dell'evangelista in Mt 11-12 è quella di presentare la persona di Gesù come Messia che compie le attese d'Israele. Egli è colui che annuncia il regno nei discorsi (cf. Mt 5-7), lo rende presente nei segni miracolosi (cf. Mt 8-9) e lo affida alla missione itinerante dei discepoli (cf. Mt 10). Il modello teologico che sottosta alla figura e alla missione di Gesù è costituito dal servo sofferente di YHWH (Mt 12,15-21; cf. Is 52-53). Pertanto la domanda implicita che percorre questa sezione è tematizzata sull'identità messianica di Gesù, richiesta dall'interpellanza del Battista e rivelata nella risposta del Signore:
«Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono guariti, i sordi odono. i morti risuscitano, ai poveri è predicata la buona novella. E beato è colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,3-6).
A partire da questa lettura messianica, in Mt 12 si registrano i diversi motivi conflittuali tra Gesù e l'autorità costituita: le dispute riguardano il lavoro in giorno di sabato (Mt 12,2-3.12) e i potere di scacciare i demoni (Mt 12,22-24). Più che nel parallelo lucano, Matteo mette in luce la funzione giudiziale del Cristo, mediante la forte requisitoria contro l'ipocrisia dei farisei. Il tono profetico del confronto assume un orientamento escatologico, a motivo dell'insistenza del giudizio finale (Mt 12,33-37). Sulla stregua di questo confronto, che segna la distanza tra Gesù e il gruppo degli scribi e dei farisei, si inserisce la richiesta di un segno. che verte esplicitamente sul destino del Figlio dell'uomo e sulle conseguenze nei riguardi della «generazione perversa» (Mt 12.39.45). Mentre lo spirito impuro tornerà a dimorare e a peggiorare la condizione dei malvagi (Mt 12,43-45), la nuova famiglia di Gesù sarà costituita da quanti compiono «la volontà del Padre» (Mt 12,50).
II contesto sinottico di Luca
Il contesto lucano riporta una serie di logia riguardanti l'insegnamento di Gesù mentre è in cammino e svolge la sua predicazione alle folle. Dopo la consegna della preghiera del Padre nostro (Lc 11,1-4) e la necessità di invocare Dio con insistenza (Lc 11,5-13), l'evangelista presenta una disputa di Gesù con «alcuni» che di fronte al miracolo della guarigione del muto indemoniato, affermavano che il Signore agiva «in nome di Beelzebù» (Lc 11,15) mentre «altri, per metterlo alla prova, gli domandavano un segno dal cielo» (Lc 11,16). Gesù risponde, rivelando come la sua missione liberatrice avviene con il «dito di Dio», segno della venuta del regno di Dio (Lc 11,20). A confermare questa rivelazione, segue la similitudine dell'«uomo forte che è vinto dall'arrivo di un uomo che è più forte» (cf. la definizione del Cristo pronunciata dal Battista in Lc 3,16).
La sentenza finale di Lc 11,23 pone in modo radicale la scelta di essere con Cristo, altrimenti la condizione di schiavitù e di peccato tornerà a essere peggiore di prima (cf. Lc 11,24-26). Solo l'evangelista Luca riporta la scena della donna che benedice la maternità del Signore (Lc 11,27-28) e la significativa risposta di Gesù: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!». La rilevanza della «beatitudine dell'ascolto» pone in evidenza la diversa interpretazione lucana del segno di Giona (cf. Lc 11,29-32). In definitiva, le prospettive dei due sinottici sembrano diverse, come le conseguenti sottolineature relative all'interpretazione di Giona: in Matteo è sottolineata l'esperienza del parallelismo dei tre giorni e tre notti di Giona e quelli del Figlio dell'uomo (morte-risurrezione), in Luca l'analogato è la predicazione di Giona ai niniviti; pertanto il segno consiste nella «predicazione» stessa di Gesù.
II «segno» di Giona profeta
Dopo aver indicato lo sviluppo tematico del contesto, fermiamo l'attenzione sui due testi sinottici.
Nella versione matteana il segno di Giona consiste anzitutto nel fatto che il profeta «rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce» (cf. Gio 2,1), figura del «figlio dell'uomo» che «resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra» (Mt 12,40). Questa sottolineatura stabilisce un confronto tra Gesù e l'episodio specifico accaduto al profeta: mentre il profeta fu gettato in mare per salvare l'equipaggio, venne ingoiato nel ventre del pesce e fu riportato vivo sulla terra, il «figlio dell'uomo» morirà per salvare l'umanità, rimarrà nel cuore della terra e il terzo giorno risorgerà. Si stabilisce cosi una relazione tipologica tra Giona e Gesù secondo lo schema promessa/compimento: la «profezia» di Giona diventa un segno rivelatore, in quanto essa prefigura il destino pasquale del Cristo. che muore e risorge «il terzo giorno» per donare la salvezza universale.
Mt 12,38-42 | Lc 11,29-32 |
38 Allora alcuni scribi e farisei lo interrogarono | 29 Mentre le folle si accalcavano, Gesù |
«Maestro, vorremmo che tu | cominciò a dire: «Questa generazione |
ci facessi vedere un segno». Ed egli rispose: | e una generazione malvagia; essa cerca |
39«Una generazione perversa e | un segno, ma non le sarà dato alcun |
adultera pretende un segno! Ma nessun | segno, fuorché il segno di Giona. 30 Poiché, |
segno le sarà dato, se non il segno di | come Giona fu un segno per quelli |
Giona profeta. 40Come infatti Giona | di Ninive, così anche il Figlio dell’uomo |
rimase tre giorni e tre notti nel ventre | lo sarà per questa generazione. |
del pesce, così il Figlio dell'uomo resterà | La regina del sud sorgerà nel giudizio |
tre giorni e tre notti nel cuore della | insieme con gli uomini di questa |
terra. 41 Quelli di Ninive si alzeranno a | generazione e li con dannerà; perché |
giudicare questa generazione e la | essa venne dalle estremità della terra |
condanneranno, perché essi si convertirono | per ascoltare la sapienza di Salomone. |
Alla predicazione di Giona. Ecco, | 32 Quelli di Ninive sorgeranno nel |
Ora qui c’è più di Giona!42 La regina | giudizio insieme con questa generazione |
del sud si leverà a giudicare questa | e la condanneranno; perche essi |
generazione e la condannerà, perché | alla predicazione di Giona si convertirono. |
Essa venne dall'estremità della terra | Ed ecco, ben più di Giona c'e qui. |
per ascoltare la sapienza di Salomone; | |
ecco, ora qui c'e più di Salomone! |
Tuttavia nel confronto tra Giona e Gesù, il segno del Figlio dell'uomo rimane pur sempre enigmatico, perché Giona resta vivo nel ventre del pesce e viene rigettato all'asciutto per compiere la sua missione e da parte sua non accetta l'idea della salvezza dei pagani. mentre il Figlio dell'uomo, dopo aver predicato la salvezza a tutti. prima verrà ucciso e nel terzo giorno Dio lo farà risorgere alla vita (cf. Os 6.2). (5) In questo sviluppo si annuncia la superiorità del Cristo, non solo rispetto alla profezia di Giona, ma anche alla sapienza di Salomone. In tal modo l'evangelista propone un ulteriore messaggio: il compimento cristologico, a cui la comunità è chiamata a credere, non è solo nella linea profetica ma anche in quella sapienziale.
II giudizio escatologico che segue nelle due sentenze contro la «generazione perversa e adultera» verte sul motivo della fede nella persona del Cristo. I niniviti si convertirono alla predicazione di Giona e la regina del sud venne dall'estremità della terra per ascoltare la sapienza di Salomone, «questa generazione» invece rimane incredula e non si converte di fronte al Cristo, il cui mistero pasquale rappresenta un evento assai più importante del segno di Giona e della stessa sapienza di Salomone. Nel giorno del giudizio i niniviti si leveranno come testimoni non soltanto per accusare i contemporanei di Gesù, ma anche per affermare la sua superiorità rispetto a Giona e a Salomone.
Nella versione lucana si afferma che Giona fu «un segno per quelli di Ninive» e si omette la citazione dei tre giorni», lasciando intendere che tutta la vita di Giona «fu segno» per quelli di Ninive, soprattutto quando il profeta accetta di predicare finalmente nella grande città (cf. Gio 3). Va sottolineato come l'evangelista anticipa l'esempio positivo della figura femminile della regina del sud (Lc 11,31), a cui segue la presentazione dei niniviti pagani (Lc 11,32). II motivo determinante è dato dalla «fede nella predicazione» (Lc 11,32: kerygma) di Giona. Infatti esso è collocato alla fine della pericope, come chiave di lettura del processo di conversione dei pagani. Appare chiaro come l'evangelista, in linea con lo sviluppo narrativo e teologico del proprio racconto, intenda accentuare la necessità dell'accoglienza della predicazione da parte della «generazione malvagia» in vista della conversione, a cui tutti, giudei e pagani, uomini e donne, sono chiamati a corrispondere.
Riassumendo gli esiti delle due tradizioni sinottiche, l'impiego teologico del libro di Giona in Matteo appare più centrato sul mistero pasquale del Cristo, mentre l'attenzione di Luca verte maggiormente sul processo dell'evangelizzazione, che sottintende la prospettiva della salvezza universale e la necessità dell'accoglienza di coloro che si convertono ed entrano a far parte della comunità cristiana.
Il logion di Mt 16,1-4 e I'accenno «ironico» a Simone figlio di Giona (Mt 16,17)
Collegata con Mt 12,38-42, un'ulteriore menzione del «segno di Giona» ritorna in Mt 16,1-4:
1 I farisei e i sadducei si avvicinarono per metterlo alla prova e gli chiesero che mostrasse loro un segno dal cielo. 2 Ma egli rispose loro: «Quando si fa sera, voi dite: "Bel tempo, perchè iL cielo rosseggia"; e al mattino: "Oggi burrasca, perche il cielo è rosso cupo". Sapete dunque interpretare l'aspetto del cielo e non siete capaci di interpretare i segni dei tempi? 4 Una generazione malvagia e adultera pretende un segno! Ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona». Li lasciò e se ne andò.
Il brano si contestualizza in Mt 16,1-12, dove si presentano due scene: la richiesta di un segno da parte dei farisei e dei sadducei, seguita dalla risposta di Gesù. (vv. 1-4) e il successivo dialogo del Signore con i suoi discepoli sulla barca (vv. 5-12). E’ nella prima scena che Gesù fa riferimento al «segno di Giona», senza ulteriori specificazioni, rispondendo ai rappresentanti del giudaismo («farisei e sadducei», cf. Mt 3,7; 15,1-20), che perseverano nel metterlo alla prova. Sebbene Gesù avesse moltiplicato i pani per la folla (cf. Mt 15.29-39), i farisei e i sadducei non sono ancora soddisfatti del segno compiuto e pretendono la stessa richiesta di Mt 12,38-42: la conferma inconfutabile dell'identità messianica di Gesù richiede «un segno dal cielo». intendendo per «cielo» la realtà trascendente di Dio. Questa volta la risposta del Signore si trasforma a sua volta in una domanda che fa leva sul contrasto tra la capacita dei suoi interlocutori di interpretare due segni atmosferici: il rossore del cielo alla sera e alla mattina (vv. 2-3).
Pertanto la similitudine della previsione del tempo meteorologico pone in questione la capacita di discernimento del «segni dei tempi» da parte degli avversaridi Gesù. Attratti da un messianismo distorto e fallace, essi si aspettano segni prodigiosi che mirano al prestigio religioso e al potere pubblico; ma la missione del Cristo rifugge proprio questo messianismo fino alle estreme conseguenze (cf. Mt 27,40). La risposta di Gesù si completa al v. 4: la generazione «malvagia e adultera», rappresentata dall'incredulità refrattaria e ostile all'azione di Dio, da parte dei responsabili del giudaismo, non merita alcun segno se non il «segno di Giona». La mancanza di ulteriore specificazione fa pensare che il testo rimandi al precedente logion di Mt 12,38-42.
Alcuni autori hanno inteso collegare il motivo di Giona all'espressione rivolta a Pietro da parte di Gesù in Mt 16,17, dove viene denominato «Simone figlio di Giona»:
E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio the e nei cieli».
L'interpretazione si basa sull'ipotesi secondo la quale Gesù, rispondendo ai farisei e ai sadducei, avrebbe rimandato con un accenno ironico all' umile fede di Pietro a cui verrà affidata la Chiesa, che qui e definito «figlio» (nel senso simbolico) di Giona. Pur lasciando aperta questa ipotesi a ulteriori verifiche, il testo sembra esulare dalla prospettiva che vorrebbe collegare la figura di Giona con quella di Simon Pietro. Infatti tale interpretazione rimane periferica rispetto alla relazione tipologica Giona-Cristo, emersa da Mt 12,38-42 e Lc 11,29-32 e collegata al motivo teologico-narrativo del «segno» messianico e della rivelazione del «Cristo, Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16).
Conclusione
Il percorso proposto ha permesso di cogliere alcuni aspetti della ricchezza del libro di Giona reinterpretato nei racconti evangelici. Possiamo segnalare tre principali prospettive che emergono dall'interpretazione evangelica:
a) la prospettiva cristologica, in quanto il «segno di Giona» fa riferimento al mistero della morte e della risurrezione di Cristo;
b) la prospettiva kerigmatica perché la vita e la missione del profeta si esplica mediante la predicazione della salvezza ai pagani, i quali accolgono l'invito alla conversione e ricevono il perdono di Dio, tra le proteste del profeta (cf. Gn 4.1);
c) la prospettiva antropologica, in quanto dal libro si coglie la dimensione umana del protagonista, il suo conflitto interiore, la paradossalità dialettica della sua missione e del suo portato teologico.
In definitiva una «storia» dall'esito imprevedibile, come imprevedibile è la misericordia di Dio per noi.
Note
1) Alcuni rabbini sostenevano che «Giona figlio di Amittai» fosse quel figlio della vedova di Sarepta risuscitato da Elia e tra i midrashim esegetici vi è il Midrash Giona. In alcune leggende ebraiche su Giona si descrivono storie romanzate sulle vicende narrate nel libro del profeta, a indicare l'importanza che il libro ricoprì nello sviluppo della riflessione teologica successiva (cf. A. UNTERMAN, Dizionario di usi e leggende ebraiche, Laterza, Bari 1994. 122).
2) Per l'approfondimento cf. H.W. WOLFF, Studi sul libro di Giona, Paideia, Brescia 1982; G. LIMENTANI, Giona e il Leviatano, Paoline, Milano 1998; E. WIESEL, Cinque figure bibliche, Giuntina, Firenze 1988.
3) A differenza di altre tipologie anticotestamentarie riprese e applicate al Cristo nel Nuovo Testamento (Noè, Abramo, Davide, Salomone, Isaia, Geremia, Daniele, ecc.), la figura di Giona ritorna solo in Matteo e Luca. Per un approfondimento, cf. V. MORA, Le signe de Jonas, Cerf, Paris 1983; R. FARRIS, Matteo, Borla, Roma 1982, 281-283; S. GRASSO, Il Vangelo di Matteo, Deboniane, Roma 1995, 322-325.
4) Per uno sviluppo del tema. cf. M. CAIROLI, La «poca fede» nel Vangelo secondo Matteo. Uno studio esegetico-teologico, Pontificio Istituto Biblico, Roma 2005; V. FUSCO, «L'"incredulità del credente”: un aspetto dell'ecclesiologia di Matteo», in Parole Spirito e Vita 17 (1988) 118-142.
5) Commenta a proposito A. Mello: «Quanto alla predicazione profetica di Giona, il suo valore prefigurativo è piuttosto quello dell'anti-tipo, ossia del contrario. Giona aveva un messaggio di sventura a cui i niniviti cedettero, facendo penitenza; Gesù porta un evangelo di salvezza in faccia alla quale "questa generazione" rimane incredula. "Ho inviato un profeta a Ninive, che la indusse a convertirsi facendo penitenza. Ma questi figli di Israele che sono a Gerusalemme, quanti profeti ho inviato loro!” (Eikha Rabba, Peticha 31)» (A. MELLO, Evangelo secondo Matteo. Commento midrashico e narrativo, Qiqajon, Magnano 1995, 229-230).
(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)
Capitolo II (continua)
§3. Il sacrificio convertito
Questa rassegna, per quanto breve, rivela quale diffusione e importanza avesse il sacrificio nell’Antico Testamento e quanto sia inaccettabile la proposta di eliminarlo dalla storia della salvezza: «L’abbondanza con cui la categoria del sacrificio è attestata nella Scrittura ne fa un polo essenziale della soteriologia cristiana. Né essa è meno attestata nella tradizione», scrive B. Sesboüé[86]. Ma la rassegna appena vista mostra anche un’altra cosa: che la passione di Cristo non rientra in nessuna delle categorie sacrificali dell’Antico Testamento. Niente fa pensare che una simile morte potesse avere una dimensione sacrificale, dal momento che non ebbe luogo nel tempio e neppure per mano dei sacerdoti; fu anzi perpetrata da empi (cfr. At 2,23). Del resto la morte di un uomo non fu mai considerata un sacrificio dalla tradizione veterotestamentaria; nei sacrifici dell’Antico Testamento si offrivano agnelli, capretti, tori, tortore, colombe o, in modo incruento, prodotti della terra, mai uomini. A tal proposito può essere illuminante il parallelo tra la morte di Gesù e quella di Giovanni Battista: tutti e due sono vittime dell’odio dei loro nemici (Lc 3,19; Mt 14,1 – 12), ma solo la morte di Gesù sarà inquadrata nella categoria del sacrificio; il supplizio del Battista sarà classificato come martirio[87].
La morte di Gesù, anzi, ha tutte le carte in regola per essere considerata l’esatto contrario del sacrificio, dell’atto gradito a Dio: se è vero che «i sacrifici sono anzitutto un momento di incontro del fedele con Dio, durante il quale il Signore concede la sua benedizione, ossia la fertilità e il benessere»[88], allora la crocifissione di Cristo è un antisacrificio, il momento non dell’incontro con l’Altissimo ma del suo rifiuto e della sua maledizione. Secondo Gérard Rossé, infatti, con ogni probabilità Gesù è caduto sotto la sanzione della Legge espressa in Dt 21,22 – 23: «Se un uomo avrà commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte e appeso a un albero, il suo cadavere non dovrà rimanere tutta la notte sull’albero, ma lo seppellirai lo stesso giorno, perché l’appeso è una maledizione di Dio e tu non contaminerai il paese che il Signore tuo Dio ti dà in eredità»[89].
È opinione diffusa che Gesù sia morto sulla croce perché questa era la pena che i romani comminavano a schiavi ribelli, banditi famigerati e criminali particolarmente pericolosi; se Roma non fosse stata solita togliere lo ius gladii ai popoli sottomessi, Gesù sarebbe probabilmente morto per lapidazione, la pena di morte ebraica più praticata. In realtà, fa notare Rossé, il supplizio della crocifissione era conosciuto e praticato in Israele anche prima che i romani ne facessero uso sistematico; esisteva una crocifissione come punizione giudaica, eseguita nel nome della Legge e in riferimento alla sentenza di Dt 21,22 – 23. La LXX, coordinando i verbi dei versetti in questione («se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e sia messo a morte e che lo appendiate a un legno...»), suggerisce il seguente svolgimento: il condannato è prima ucciso per lapidazione (influenza probabile di Dt 21,18 – 21), poi il suo cadavere è appeso a un legno (albero, palo). Tuttavia l’interpretazione più primitiva e più comune leggeva Dt 21,22 nel modo seguente: «Se un uomo ha commesso un delitto degno di morte e tu l’avrai messo a morte, tu l’appenderai al legno»; in questo caso la condanna riguarda una morte per crocifissione, non una lapidazione seguita dall’impiccagione del cadavere. La testimonianza più diretta e importante di tale pena capitale si trova nel Rotolo del Tempio, scoperto nelle grotte di Qumran. A differenza di Dt 21,22, che parla in modo generico di delitto degno di morte, il manoscritto del Mar Morto menziona due crimini specifici: il caso di un traditore che consegna il suo popolo a una nazione straniera; il caso di un condannato a morte che, riuscendo a fuggire, si rifugia in altre nazioni dalle quali maledice il suo popolo. Per tali delitti il rotolo prescrive: «Lo appenderete al legno, e morirà (...). E non lascerai il loro (sic) cadavere sul legno durante la notte, ma li dovete seppellire il giorno stesso, perché sono maledetti da Dio e dagli uomini coloro che sono appesi al legno e tu non contaminerai la terra che ti ho dato in eredità» (11 Q 19 LXIV 6 – 13). Il Rotolo del Tempio, insomma, confermerebbe che, attorno all’era cristiana, il testo di Dt 21,22 – 23 era applicato alla crocifissione di criminali, pena sentenziata nel nome della Legge e compresa come punizione giudaica. Non si può quindi escludere, prosegue Rossé, che il Sinedrio stesso abbia condannato Gesù alla crocifissione con l’accusa di essere un bestemmiatore o un falso profeta, anche se il potere esecutivo era in mano a Pilato[90]. Come sia, è plausibile ritenere che Gesù, condannato in nome della Legge e crocifisso, fosse considerato da molti, in Israele, un maledetto da Dio, sulla base di Dt 21,23. Paolo è il primo ad affermarlo in modo esplicito in Gal 3,13: «Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della Legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno». Va precisato, fa ancora notare Rossé, che l’apostolo attribuisce la maledizione non a Dio ma alla Legge: Gesù crocifisso subisce la maledizione della Legge e si trova così in piena solidarietà con l’uomo sotto la Legge, per riscattarlo; nondimeno la citazione di Dt 21,23 in Gal 3,13 testimonia che Paolo conosce il legame tra il supplizio della croce e la maledizione a esso legata[91].
Anche il processo intentato a Gesù, non solo la sua passione, sfugge alle tradizionali categorie ebraiche e romane: la morte del Messia è stata decisa non dal Sinedrio al completo, riunito in modo regolare, ma durante una seduta notturna di alcuni sinedriti. Gesù fu ritenuto pericoloso al punto da essere consegnato a Pilato. E il prefetto romano, la cui crudeltà era conosciuta, ne sentenziò la morte per crocifissione in maniera del tutto ingiustificata[92]. Scrive Rossé: «Con ogni probabilità il motivo dell’arresto e della condanna sono stati il gesto e la profezia contro il tempio; ruolo attivo hanno avuto i Sadducei; motivo nascosto: Gesù metteva in discussione l’ordine stabilito; motivo politico da portare a Pilato: una pretesa regalità (vedi il titulus della croce). Ma se Pilato avesse ritenuto Gesù politicamente o socialmente pericoloso, avrebbe anche fatto ricercare e arrestare i suoi complici, cioè i discepoli, ma non lo fece»[93].
Quanto fin qui esposto rende facile condividere ciò che Joseph Moingt dice sulla passione di Cristo: «La croce è un sacrificio sotto il modo di non esserlo, sacrificio unico nel suo genere, che non entra nel genere sacrificale, un sacrificio che si compie consumando in sé la ragion d’essere e il senso sacrificale degli altri sacrifici religiosi, i quali sono inefficaci e non sono graditi a Dio, un sacrificio che trasforma radicalmente l’atteggiamento religioso degli uomini per renderli degni della rivelazione e del culto del Dio nuovo rivelato sulla croce»[94]. Possiamo in un certo senso dire – riprendendo il pensiero di Sesboüé, che parla di «senso convertito assunto dal termine sacrificio» (cfr. op. cit., n. 79) – che la morte di Gesù redima anche il sacrificio. Non elimina il sacrificio dalla storia della salvezza, non lo rinnega, anzi abbraccia un po’ tutte le pratiche sacrificali della storia di Israele e di alcune riprende il linguaggio (il pasto sacro, l’effusione di sangue), ma nello stesso tempo – secondo quella logica di tradizione e novità, di continuità e compimento/superamento che lega in modo indissolubile Antico e Nuovo Testamento – le trascende, va oltre, dà loro un significato del tutto nuovo.
[86] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 291.
[87] Cfr. G. DEIANA, op. cit., p. 73.
[88] Ivi, p. 51.
[89] G. ROSSÉ, Maledetto l’appeso al legno. Lo scandalo della croce in Paolo e in Marco, Città Nuova Editrice, Roma, 2006, pp. 8 – 9.
[90] Ivi, pp. 9-11.
[91] Ivi, pp. 11-12.
[92] Ivi, p. 8.
[93] Ivi, p. 8, n. 1.
[94] J. MOINGT in Mort pour nos péchés. Recherche pluridisciplinaire sur la signification rédemptrice de la mort du Christ, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles, 1976, p. 167.
Per quanto riguarda i sette grandi sacramenti, la liturgia non si accontenta di osservare le norme minimali per la loro "validità" giuridica, cioè la verità della materia e l'esatta pronuncia della formula che l'accompagna; sebbene tutto questo sia determinante per fare ciò che intende fare la Chiesa. La liturgia si preoccupa anche (ed è la sua caratteristica specifica) della validità o efficacia pastorale. Infatti, la liturgia comunica il deposito della fede «attraverso i riti e le preghiere» (cf SC 48). La partecipazione alla liturgia non solo deve essere attiva, ma anche consapevole perché sia fruttuosa (cf SC 11). Per questa ragione i riti devono splendere per nobile semplicità, essere chiari per brevità, senza inutili ripetizioni; siano adatti alla capacità di comprensione dei fedeli e non abbiano, generalmente, bisogno di molte spiegazioni (cf SC 34). Tutto questo vale anche per la cresima. Mi sembra importante richiamare queste caratteristiche della celebrazione liturgica in un momento in cui c'è chi tende a identificare il mistero cristiano semplicemente con ciò che non si capisce affatto, confondendo la realtà soprannaturale invisibile con i segni visibili che intendono comunicarla.
La crismazione con la formula che l'accompagna è il cuore del sacramento della cresima. Per questo Paolo VI, affinché fosse chiaro il significato del sacramento, sostituì la formula invalsa nel medio evo (XII sec), che non faceva alcun riferimento allo Spirito se non nella benedizione conclusiva della formula stessa con il segno di croce (= Ti segno con il segno della croce e ti confermo con il crisma della salvezza. Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo).
L'attuale formula (= Accipe signaculum doni Spiritus Sancti) risale al V secolo ed è comune alla Chiesa bizantina. Non solo un segno di grande valore ecumenico attingendo all'antica e comune eredità della Chiesa indivisa, ma anche una presa di posizione dottrinale sul significato specifico della confermazione: il dono dello Spirito che conferma e porta a compimento la nascita dall'acqua e dallo Spirito Santo per essere conformati a Cristo e partecipi della sua missione.
La rubrica che precede il momento culminante della confermazione prevede come preferenziale che i cresimandi si accostino processionalmente al vescovo. Questo è certamente il gesto più significativo, come del resto si fa normalmente anche per accostarsi alla mensa eucaristica. Il movimento processionale nella liturgia esprime infatti l'identità e la missione della Chiesa: un popolo in cammino nel tempo, sulle strade del mondo, verso la pienezza della vita in Cristo.
Non è certo la celebrazione in atto il momento per fare un'articolata catechesi sulla cresima. Le opportune monizioni non sono lezioni. La dottrina dovrebbe essere oggetto degli incontri catechistici, specie nell'anno che prepara a questo evento. Se poi alla confermazione segue immediatamente, nella stessa celebrazione, la prima partecipazione all'eucaristia. tanto meglio. I due sacramenti si integrano perfettamente, non l'uno a scapito dell'altro, come qualcuno obietta, ma integrandosi reciprocamente recuperando la loro originaria sequenza. Si tratta, infatti, di quella particolare unzione che abilita il battezzato a partecipare alla mensa eucaristica, anzi, a identificarsi a quel Gesù che ha portato a compimento il suo sacerdozio offrendo se stesso (cf Eb 7,27).
Il cresimato è abilitato a unire l'offerta della propria vita all'offerta unica e irripetibile di Cristo. Non è senza ragione che fin dal 1971 «i cresimati e, secondo l'opportunità, i loro padrini, genitori, coniugi e catechisti possono ricevere la comunione sotto le due specie» (Rito della confermazione 37). Si tratta di sottolineare l'importanza del sacramento, dando alla celebrazione tutta la ricchezza possibile della sua ritualità. Il segno di pace, che conclude il rito del sacramento, sostituisce lo "schiaffetto" che, di quel gesto originario, era diventato, per così dire, un semplice organo-testimone, così da assumere lungo i secoli interpretazioni, se non del tutto improprie, certamente parziali e marginali come, ad esempio, il coraggio di professare la propria fede anche a prezzo della derisione e persecuzione. Impegno di ogni vero cristiano, ma non legato a questo gesto.
(Vita Pastorale, n. 9, 2015, p. 53)
Rilettura del decalogo: il settimo comandamento
Dietro colui che è sorpreso a rubare c'è uno società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, quelli che hanno fatto della speculazione un'arte, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.
Introducendo al VII comandamento, abbiamo fatto spazio all'utopia, anzi alla radicalità cristiana, che guarda ai beni tutti come dono e dunque li custodisce, ne ha cura, senza la prevaricazione del possesso. In verità, la radicalità di cui parliamo appartiene anche a certa tradizione ebraica che, poiché le cose tutte appartengono al creatore, legge il furto come profanazione del nome di Dio e perciò come bestemmia. Di fatto, però, cristiani e non, siamo addivenuti a un'accezione privata e/o pubblica del possesso, perciò dell'opporre gli uni agli altri diritti acquisiti circa le persone e le cose. Ci è giocoforza avventurarci nelle maglie di quest'ordinario nostro vivere e declinare il furto nella scala di peccaminosità (e reato) che esso comporta.
Rispetto delle persone e dei beni
Il Catechismo della Chiesa cattolica sotto il titolo "il rispetto delle persone e dei loro beni" distingue il rispetto dei beni altrui e a seguire il rispetto dell'integrità della creazione. Nella prima prospettiva il furto è considerato «usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario» (CCC, 2408). Non c'è furto se il consenso è "presunto", ovvero se il possesso è contrario «alla ragione e alla destinazione universale dei beni».
Dunque, dinanzi a una necessità urgente relativa a bisogni immediati ed essenziali non c'è furto che tenga. Ovvero, non si può parlare di furto. E come beni essenziali vengono indicati: nutrimento, rifugio, indumenti... Proprio i puntini di sospensione fanno capire che l'elenco non è esaustivo e che, a ben riflettere, è, all'opposto, un furto negare a qualcuno il diritto nativo a nutrirsi, ad avere un tetto, ad avere vesti adeguate a difendere il proprio pudore e la propria dignità.
Ebbene, nel mondo in cui viviamo milioni (miliardi?) di persone sono prive di questi diritti inalienabili. Il che ci apre al delitto immane collettivamente consumato verso chi non ha casa, nutrimento, vestito. Le cronache del nostro tempo di crisi, anche nell'opulento Occidente, anche a casa nostra, ci mettono dinanzi a chi per bisogno sottrae cibo dagli scaffali dei supermercati, a chi occupa immobili, disabitati vuoi per iniquità vuoi per incuria. Diventa più sottile la questione del vestirsi. Ma se ne allarghiamo la valenza, anche al riguardo la responsabilità collettiva è enorme.
Una perla del CCC al paragrafo 2409 riguarda la discrepanza tra le disposizioni della legge civile e il VII comandamento. Il furto resta tale anche quando l'azione del sottrarre a qualcuno un bene proprio non si configura come reato. E, bisogna pur dire che, nella dissoluzione dell'ethos pubblico e nell'iniquità di un legiferare a favore del privilegio, tantissime azioni riprovevoli e riconducibili al furto, alla sottrazione indebita a singoli o alla comunità, di fatto non vengono più perseguite come tali, anzi è diventato obbligato vantarsene come azione virtuosa - meglio "fruttuosa" - di chi se ne avvantaggia.
Società all'insegna della frode
L'elencazione del paragrafo citato accosta l'appropriarsi di cose avute in prestito al mantenere come proprie le cose smarrite, il commettere frode nel commercio al pagare salari ingiusti e ancora all'alzare i prezzi speculando sull'ignoranza o sul bisogno altrui. Speculazione, corruzione, uso privato dei beni sociali di un'impresa, lavori eseguiti male, frode fiscale, contraffazione di assegni e di fatture, spese eccessive, sperpero, danno arrecato alle proprietà private e pubbliche. Sembra quasi di scorrere le colonne dei nostri quotidiani. La nostra società è nel segno della frode, della speculazione, della corruzione, dello sperpero, della contraffazione.
È chiaro che a fare la differenza è il peso del bene sottratto. Personalmente trovo che l'ingiuria più grave, purtroppo impunita, è quella relativa alla bellezza. Basta entrare in una stazione, salire su un treno ordinario, entrare in un ospedale, in una scuola, in una Asl per capire come non contano nulla le persone e i loro bisogni e come ci si accanisca a rendere invivibili mezzi, ambienti, risorse di altissimo valore sociale.
Una cosa esige la morale cattolica e anche questa ce la siamo dimenticata: il risarcimento. Non basta mettere in carcere chi ha rubato. Il più delle volte non serve, anche perché i ladri che popolano le carceri, quelli che del furto hanno fatto un "mestiere", il più delle volte sono tali per "bisogno". Dietro colui che è sorpreso a rubare - quale che sia l'entità del furto - c'è una società che non l'ha garantito nei bisogni primari. In carcere non stanno i ladri sopraffini, i "colletti bianchi", quelli che della speculazione hanno fatto un'arte, della corruzione uno stile di vita, dell'uso dei beni sociali un fatto privato dovuto.
In carcere non vanno quelli che allungano e incrementano il costo delle opere pubbliche, che frodano sulla qualità dei materiali, che "ungono" per ottenere autorizzazioni poi disastrose. In carcere non vanno quelli che hanno a disposizione congrui rimborsi spese e che se ne servono, oltre la legittimità della loro funzione, per gratificare e corrompere. Ebbene tutti costoro dovrebbero restituire il mal tolto, risarcire l'offesa arrecata ai singoli e alla collettività. Il più delle volte - nel nostro ordinamento – proprio questi reati vanno in prescrizione.
Il tragico è ancora che soggetti siffatti passano pure per buoni cristiani; li si assolve senza che abbiano restituito il mal tolto. Discorso questo che tocca tutti, laici e chierici. Per questi ultimi, poi, c'è spesso, purtroppo, la pretesa di collocarsi al di sopra della legge. Risarcire, restituire il bene sottratto, riparare all'ingiustizia compiuta. Sono cose praticamente impossibili nella misura in cui la frode, la speculazione, l'appropriazione crescono qualitativamente.
Una finanza creativa, che calpesta le persone
Nella babele dell'infinito numero di leggi è facile trovare vie d'uscita. Quelle che non ha chi non ha mezzi, non ha cultura, non ha santi protettori, non ha la possibilità di farsi valere e perciò paga anche quello che altri dovrebbero pagare al suo posto. Penso alla cosiddetta finanza creativa, all'andare in fumo di miliardi e miliardi così come all'incrementarsi di miliardi e miliardi, senza che ciò abbia un corrispondente riscontro di beni, mentre reale e concreto, è l'impoverimento di chi s'è fidato, di chi, magari, ha provato pure lui a rischiare e si ritrova alla fine privo di risorse. Penso allo scandalo dei "derivati", al debito gestito come denaro contante e pagato, tragicamente, non dalle banche, ma da singoli e incauti loro clienti.
Forse, però, l'aspetto più inquietante è quello relativo non alle cose, ma alle persone. E, ancora sulla scia del CCC 2014, lo dico non genericamente, visto che il furto nel sottrarre un bene tocca sempre comunque la persona. Lo dico delle persone ridotte in schiavitù, asservite per ragioni egoistiche, ideologiche, mercantili, totalitarie, negando loro la dignità personale. Persone acquistate, vendute e scambiate come merci. E il discorso si fa pesante relativamente all'appoggio offerto, direttamente e indirettamente, anche con una legislazione ingiusta, ai «mercanti di carne umana» - come li ha chiamati Papa Francesco. Offende il VII comandamento il mercato dell'immigrazione, lo sfruttamento dei lavoratori, clandestini e non o comunque irregolari. E di nuovo è mercato di carne umana il racket della prostituzione, del gioco d'azzardo, o anche quello che accende le guerre e recluta addirittura bambini-soldati. È mercato di carne umana quello che incrementa nuove e vecchie schiavitù, la più odiosa delle quali è quella legata all'idolatria dell'utile, con disprezzo di chi vi contribuisce e ne resta escluso.
Offende il VII comandamento la pretestuosa delocalizzazione delle imprese; la vergognosa rottamazione dei lavoratori; lo sfruttamento dell'ingegno, della creatività, dell'immaginazione; lo sfruttamento nei Paesi poveri (ma anche da noi) di quanti sono costretti a incrementare le ricchezze di pochi, avendo negati regole e diritti. Offende il VII comandamento il furto della dignità, della speranza, l'orizzonte buio di un presunto do ut des comunque utilitaristico e mercantile; l'imposizione disperante di una vita senza ideali, senza utopie, senza la bellezza e l'armonia del vivere e dell'operare "insieme". Detto altrimenti, è offesa contro il VII comandamento tutto ciò che viola l'essere umano, la sua dignità di persona fatta a immagine di Dio. Il che offende anzitutto Dio stesso, la sua signoria, il suo progetto di affidare a tutte le sue creature la "culturazione" del vivere e la "coltivazione" del creato.
(Vita Pastorale, n. 3, 2014, pp. 46-47)
Se identifichiamo Dio con l’Essere sussistente in se stesso del tomismo (“Ipsum esse subsistens”), allora il nostro esistere è inevitabilmente un esilio da Lui. Lo dice l’etimologia del verbo latino “exsistere”, nel quale troviamo un nucleo statico, “-sistĕre”, e un nucleo dinamico che indica il moto da luogo, “-ēx”1. Alla lettera, esistere significa “stare da…”, “essere presenti nella realtà a partire da un’origine”. Esistere vuol dire stare nel mondo provenendo da Dio, dunque essere in qualche modo lontani da Lui. È quanto afferma Paolo in 2Cor 5,6-8: «Così, dunque, siamo sempre pieni di fiducia e sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo in esilio lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione. Siamo pieni di fiducia e preferiamo andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore»; il testo greco è in realtà meno drastico della traduzione CEI, non usa il termine “esilio” e dice solo «siamo lontani (ἐκδημοῦμεν) dal Signore», ma il senso è quello. L’Apostolo delle Genti costruisce un gioco di parole utilizzando due participi molto simili ma dal significato antitetico: “endemountes” (ἐνδημοῦντες), che vuol dire “abitanti”, “residenti in patria”, ed “ekdemountes” (ἐκδημοῦντες), il cui significato è “esuli”, “assenti dal proprio paese”. In questo modo Paolo esprime il paradosso della nostra condizione esistenziale: siamo nel mondo, dimoriamo nel corpo, e nello stesso tempo siamo lontani dal Signore, che è la nostra vera e definitiva patria. Il credente è un pellegrino, un viandante in cammino verso casa: «Infatti non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura» (Eb 13,14).
Gettati fuori del mondo di Dio
Durante un’appassionata omelia pronunciata il 29 maggio 2022 nella Chiesa del Gesù per la solennità dell’Ascensione, il gesuita Ottavio De Bertolis ha sottolineato il carattere metaforico della cacciata di Adamo: «Noi nasciamo fuori del mondo di Dio, e se non fosse per la sua grazia ci rimarremmo. Nasciamo gettati fuori. La metafora è il cherubino che con la spada chiude l’accesso al paradiso; il paradiso perduto, direbbe Milton. Ebbene, quel paradiso non è più perduto perché ci siamo rientrati attraverso l’umanità di Gesù Cristo, perché il Verbo si è fatto carne, ha assunto la nostra debolezza; noi, che moriremo, rientriamo nel mondo di Dio attraverso la nostra morte». Non dissimile da quello di padre De Bertolis S.J. è il pensiero del teologo redentorista Théodule Rey-Mermet: «No, l’umanità non è nata in un paradiso terrestre. Quel cielo di felicità e di divina amicizia descritto da Genesi 3 è il modello della creazione: non è passato, ma futuro; non è dietro, ma davanti a noi. È il disegno di Dio per la fine dei tempi. È posto all’inizio della Bibbia perché si comincia sempre per definire il modello. Ma, nell’esecuzione, l’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti, ma con umili abbozzi amorosamente perfezionati da Dio secondo le leggi di un lento sviluppo. Questa è proprio la verità storica: “L’umanità non è iniziata con esseri perfetti poi decaduti”. Ma la Genesi ha annunciato sotto forma di una magnifica parabola sia il futuro che Dio ha concepito per essa, sia il difficile cammino che essa dovrà percorrere prima di giungere al traguardo»2.
Un’inevitabile condizione dovuta al fatto stesso di esistere
Questa condizione di esilio da Dio o lontananza che dir si voglia non può certo essere considerata un peccato nel senso proprio del termine, così come lo definisce il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Il peccato è un’offesa a Dio: “Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto” (Sal 51,6). […] Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare “come Dio” (Gen 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è “amore di sé fino al disprezzo di Dio”. Per tale orgogliosa esaltazione di sé, il peccato è diametralmente opposto all’obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza» (CCC 1850). Si tratta piuttosto di una inevitabile condizione dovuta al fatto stesso di esistere. È ciò che Heidegger chiama “Geworfenheit”, la “gettatezza”, l’essere lanciati nel mondo come dadi sul tavolo da gioco, l’essere-per-la-morte; non a caso i francesi di solito traducono “Geworfenheit” con “déréliction”, “derelizione”, “abbandono”. Veniamo gettati in un universo che non abbiamo scelto, ci è in gran parte sconosciuto, non manca talvolta di mostrarsi ostile nei nostri confronti e nel quale persino la materia inorganica, secondo una delle più accreditate teorie sulla fine del cosmo, è destinata alla morte entropica. Più che un’offesa a Dio, l’esistenza sembra un’ingiuria alla creatura e in particolare all’uomo, l’unico ente, per quanto ne sappiamo, ad avere coscienza del proprio destino di morte. Se non è un peccato nel vero senso della parola, tuttavia questa condizione produce nell’uomo una certa carenza d’essere che la rende molto simile al peccato. Come direbbero gli esistenzialisti, tale condizione determina uno sfasamento tra esistenza ed essenza: per l’esistenzialismo ateo di Sartre l’uomo è l’unico ente nel quale l’esistenza precede l’essenza, per cui egli deve darsi da fare per diventare se stesso attraverso le proprie scelte e il proprio impegno nel mondo; per l’esistenzialismo cristiano di Kierkegaard, Karl Barth, Paul Tillich e altri, invece, è l’essenza, divina e infinita, a precedere l’esistenza. Non manca chi ritiene possibile una terza posizione, come il pastore valdese Angelo Cassano: «Personalmente ritengo che non solo l’esistenza preceda l’essenza, come per Sartre, ma anche il contrario. Le due affermazioni viaggiano su binari paralleli e sono interconnesse»3. Come sia, questo sfasamento – che prendendo in prestito i concetti dell’elettrotecnica possiamo rappresentare come la mancata coincidenza tra tensione e corrente in una sinusoide applicata su un carico non puramente resistivo – esiste sempre, e secondo Tillich conduce al peccato. Per il teologo tedesco, Cristo è colui che corregge lo sfasamento tra essenza ed esistenza poiché, in virtù del suo essere pienamente Dio e pienamente uomo, le possiede entrambe in perfetto sincronismo.
Il tesoro sperperato del simbolo adamitico
Purtroppo l’interpretazione letterale di alcuni testi biblici ha fatto sì che per secoli e millenni la colpa di tutto ciò che di negativo esiste nel mondo fosse scaricata sull’uomo, con l’unica attenuante – se di attenuante si può parlare – della tentazione diabolica. Testi, per fare solo due esempi, come il racconto della caduta di Genesi 3 e il passo della Lettera ai Romani in cui Paolo scrive che «a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte» (Rm 5,12). Se la creazione è opera di un Dio sommamente buono ed è essa stessa buona (cfr. Gen 1,1-31), si pensava, il male e il negativo non possono che venire da creature corrotte e corruttrici, il diavolo in primis e poi l’essere umano. Oltre ad aver colpevolizzato oltremisura l’uomo, questa interpretazione ha contribuito a fuorviarlo e deresponsabilizzarlo, a fargli perdere coscienza dei suoi veri errori, limiti e peccati: «Perfino la morte era colpa nostra», ebbe a dire Raniero La Valle durante una conferenza sull’argomento tenuta tempo fa presso il monastero camaldolese di S. Gregorio al Celio in Roma. È evidente che la tradizionale interpretazione della Genesi non è più accettabile: chi può ancora sostenere che il genere umano discenda da un’unica coppia di progenitori e che il peccato originale si trasmetta, come diceva sant’Agostino, attraverso il concepimento (opinione peraltro mai fatta propria dalla Chiesa)? Paul Ricoeur ha scritto parole molto chiare, al riguardo: «Il concetto di peccato originale è un falso sapere e deve essere infranto come sapere […]»4. Per poi aggiungere: «Non si dirà mai abbastanza quanto male ha fatto alla cristianità l’interpretazione letterale, bisognerebbe dire “storicista”, del mito di Adamo; essa lo ha fatto cadere nella professione d’una storia assurda e in speculazioni pseudo-razionali sulla trasmissione quasi biologica d’una colpevolezza quasi giuridica per l’errore di un altro uomo, respinto lontano nella notte dei tempi, non si sa bene dove, tra il pitecantropo e l’uomo di Neanderthal. Contemporaneamente il tesoro nascosto del simbolo adamitico è stato sperperato»5.
Un peccato per analogia
In effetti – faceva notare nel 1973 il gesuita Maurizio Flick – «i Padri dei primi tre secoli ammettevano che tutti gli uomini hanno ricevuto un’eredità funesta da Adamo, una corruzione, e in modo speciale la morte; ma non dicevano che questa corruzione dovesse chiamarsi “peccato”»6. Per Ireneo di Lione il vero responsabile del peccato non è Adamo ma il serpente tentatore; Adamo è più vittima che colpevole, e i suoi discendenti vivono in un regime di cattività instaurato dal diavolo così come un esercito sconfitto è tenuto prigioniero dal vincitore. Per questo Dio maledice il serpente e la terra ma non maledice Adamo, nei confronti del quale si mostra anzi misericordioso; per Ireneo, Dio permette la morte affinché il peccato non diventi immortale7. Secondo il vescovo di Lione, quindi, ciò che Cristo redime non è tanto un peccato quanto una condizione di degrado, di separazione da Dio che accomuna tutti gli uomini.
La dottrina del peccato originale trovò la sua formulazione tecnica soltanto ai tempi di sant’Agostino, nella polemica anti-pelagiana. Con questa formulazione, secondo Flick, il Doctor Gratiae «volle dire, come mostrano vari studi convergenti (de Blic, Clémence, Staffner, Sage…) che la situazione in cui l’uomo nasce è realmente simile a quella in cui egli si mette per un peccato personale, in quanto implica la morte dell’anima (cioè la privazione della grazia) e una perversità della volontà (la concupiscenza) […]»8; la dottrina agostiniana sul peccato originale sarà successivamente confermata dai concili di Cartagine del 418, di Orange (529) e di Trento (1545). Si tratterebbe insomma di un peccato per analogia. Scrive ancora Flick: «Si è dunque segnati dal peccato per il fatto stesso che si entra per la nascita a far parte dell’umanità attuale. Il dogma del peccato originale consiste quindi essenzialmente nell’affermazione che l’uomo nasce in uno stato caratterizzato da questi tre elementi: privazione della grazia (“elemento ontico”), corruzione della volontà (“elemento personalistico”), dipendenza dal peccato personale antecedente (elemento “sociale” e “storico”). Per questi tre elementi la condizione nativa dell’uomo è realmente simile a quella che segue un atto personale gravemente peccaminoso, e perciò può essere detta analogamente “peccato”»9. È ciò che sostiene anche Karl Rahner quando parla della differenza tra “peccato originale originante” e “peccato originale originato”: «Peccato originale originante significa dunque il peccato proprio di cui è personalmente responsabile Adamo, a differenza dal peccato originale originato dei discendenti di Adamo: questo si può chiamare “peccato” solo in senso analogo»10. Di peccato per analogia parla anche il Catechismo della Chiesa Cattolica edizione 1993: «[…] Adamo ed Eva commettono un peccato personale, ma questo peccato intacca la natura umana, che essi trasmettono in una condizione decaduta. Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l’umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giustizia originali. Per questo il peccato originale è chiamato “peccato” in modo analogico: è un peccato “contratto” e non “commesso”, uno stato e non un atto» (CCC 404).
Letto in questa chiave, Genesi 3 – lungi dal voler riferire «con esattezza protocollare ciò che è successo all’inizio della storia umana»11 – si configura come un racconto appartenente al genere drammatico, sapienziale ed eziologico che descrive la nostra condizione di sempre: l’uomo nasce condannato a morte, non è padrone di sé e della propria volontà, è preda della concupiscenza e di appetiti sfrenati, vive in perenne conflitto con Dio, con se stesso, con gli altri e con la creazione.
Nella Rivelazione il dato fondamentale non è il peccato
L’insieme dottrinale riferentesi al peccato originale, spiega ancora Maurizio Flick, è stato tradizionalmente concepito secondo uno schema discendente dalla causa all’effetto, deducendo l’effetto a partire da una causa identificata con la trasgressione paradisiaca. In altri termini, dal peccato originale originante si è voluto dimostrare il peccato originale originato. Ora, questo modo di presentare il messaggio cristiano inverte la prospettiva in cui la Rivelazione pone il peccato. Nella Rivelazione il dato fondamentale, il nucleo del messaggio, non è il peccato ma Cristo, colui che può salvare l’uomo dalla morte e dal fallimento esistenziale. L’origine, la causa del male è collocata solo sullo sfondo. Occorre dunque abbandonare la visione amartiocentrica che già tanti danni ha provocato e orientarsi verso un cristianesimo realmente centrato sul Redentore e sulla redenzione. Allora il testo paolino di Rm 5,11-21 non è più un discorso sul peccato e sulla morte ma sul dono di grazia e sulla vita eterna: «Esso spiega che dobbiamo gloriarci in Cristo, autore della nostra salvezza»12. Non ha quindi molto senso continuare a domandarsi di chi sia la colpa, se a peccare sia stato il “sinanthropus” di Teilhard de Chardin, l’australopiteco Lucy o il sapiens, in quale anno sia stato commesso il peccato originale e cose del genere. Il peccato, inteso in senso lato come l’eredità funesta di cui parlavano i Padri, accompagna l’uomo da sempre ed è ovunque presente, come scrive Teilhard in Nota su alcune rappresentazioni storiche possibili del peccato originale: «Occorre che allarghiamo a tal punto le nostre vedute sul peccato originale da non poterlo più collocare, attorno a noi, né qui, né là, e che sappiamo soltanto che esso è dappertutto, mescolato con l’essere del Mondo tanto quanto Dio che ci crea e il Verbo Incarnato che ci riscatta»13. Ma in questa situazione innata e desolante, che la teologia scolastica chiama peccato originale originato, opera il Creatore infinitamente buono, che fin dagli inizi della storia perdona, soccorre, dona gratuitamente la sua misericordia salvifica: «Perciò la certezza fondamentale su cui si basa la fede nella redenzione non è l’informazione storica su fatti avvenuti all’origine del mondo […] ma è la rivelazione su Cristo, Redentore necessario di tutti i membri della nostra umanità, senza alcuna eccezione»14.
La Terra, un sistema di riferimento non-inerziale e non-spirituale
Il fatto che la condizione di esilio da Dio nella quale veniamo al mondo non possa essere considerata un peccato nel senso proprio del termine, non vuol dire che il peccato personale non esista. Esiste eccome, e il credente è chiamato a continua conversione, a fare tutto ciò che è in suo potere per evitarlo: anche questo rientra nel dato fondamentale della Rivelazione. Una parte rilevante del problema è che il mondo in cui nasciamo – e qui per mondo intendiamo non tanto la società umana quanto il mondo della natura – ha una straordinaria capacità di convincerci che non siamo altro che materia, corpi destinati alla morte. Si tratta in fondo di quella che per i Vangeli di Matteo e di Luca è la prima tentazione di Cristo nel deserto, la tentazione del pane (Mt 4,1-4; Lc 4,1-4): la risposta di Gesù svela il vero obiettivo del maligno, che non è dar da mangiare a un affamato ma convincerlo di non essere che ventre, necessità biologiche da soddisfare. Questo probabilmente è vero oggi molto più che nel passato, anche a causa degli straordinari progressi della scienza e della tecnica. Discipline importantissime, beninteso, ma per loro natura incapaci di riflettere sul principio ontologico universale – l’essere che unisce diversificando – e quindi di farci intravedere un orizzonte di trascendenza. Senza questo orizzonte, però, l’uomo va alla deriva: «Lo spirito umano esige più che la scienza per comprendersi in seno al mondo»15.
L’uomo contemporaneo, preda del riduzionismo materialistico, ragiona un po’ come i pensatori del passato, che continuavano a domandarsi, senza trovare risposta, perché un corpo lanciato in aria a un certo punto cada a terra. La soluzione al problema arrivò con il principio di inerzia scoperto da Galilei ma già intuito da Giordano Bruno nel famoso esempio della nave che si trova ne La cena de le ceneri (1583)16. E fu una soluzione del tutto contro-intuitiva, alla quale si giunse cambiando la domanda, l’approccio al problema: ci si cominciò a chiedere perché il sasso non prosegua la sua corsa all’infinito. Sembra la stessa domanda di prima ma è radicalmente diversa, perché parte dal presupposto che il corpo, se non interviene nessuna forza esterna a modificarne lo stato, continui a muoversi di moto rettilineo uniforme. I corpi cadono perché la Terra è un sistema di riferimento non-inerziale, nel quale cioè prevale la forza di gravità. Per analogia possiamo dire che è anche un sistema di riferimento non-spirituale, capace di convincere l’uomo dell’assoluta impossibilità che la vita continui oltre la morte e che anzi proprio dopo la morte possa raggiungere la definitiva pienezza. Ecco allora che la condizione di esilio in cui nasciamo può diventare – e di fatto spesso diventa – un peccato nel senso proprio del termine, cioè la scelta di credere nella sola realtà materiale, di dire no all’offerta salvifica di Cristo. E forse non si tratta nemmeno di una scelta: l’uomo post-moderno, figlio del positivismo e dello scientismo, lo ritiene quasi un dovere, pensa di non poter credere diversamente. La vita eterna gli appare del tutto impossibile. L’uomo di sola ragione non può, non deve credervi.
Il peccato originale originante: un inizio assoluto
Quando l’insegnamento della Chiesa sul peccato originale venne fissato dai succitati concili di Cartagine, di Orange e di Trento, nessuno metteva in discussione il peccato originante commesso da Adamo, per cui i concili si limitavano a ripetere il racconto di Genesi 3 senza interpretarlo17. Oggi non lo si può più fare. La paleoantropologia propende per l’ipotesi poligenista piuttosto che per quella monogenista: l’umanità attuale non proverrebbe da un’unica coppia ma da un gruppo più o meno grande di progenitori. Se questo è vero, se non esiste un Adamo storicamente identificabile, come si può continuare a parlare del peccato originale originante in termini di colpa personale? Chi lo avrebbe commesso? E in cosa consisterebbe esattamente? La distinzione della teologia classica tra peccato originale originante e peccato originale originato va fatta salva, se è vero che, come sostiene Flick, il peccato originale originante «non sembra essere riducibile alla massa di tutti i peccati commessi dall’umanità». In questa serie di colpe, precisa il gesuita, «mi sembra che la prima abbia una funzione speciale, essenzialmente diversa dalle altre. Infatti, il primo in una serie di atti umani non è semplicemente primo in ordine cronologico, ma segna un inizio assoluto, che non può non avere una speciale importanza. Inoltre, in questo modo si spiega meglio il salto qualitativo avvenuto nella condizione umana, in ordine alle sue relazioni con Dio»18. A tal proposito potrebbe tornare utile far cadere la distinzione tra il primo Adamo e i suoi discendenti, tra una condizione pre e post lapsaria, tra il prima e il dopo. Non dobbiamo cercare il peccato originale originante in chissà quale antenato preistorico; siamo noi a commetterlo, siamo noi il primo Adamo che continuamente cade e, cadendo, genera una moltitudine di peccati originati.
Il peccato originale: l’interpretazione di Thomas Merton e dell’anonimo autore de La nube della non conoscenza
Ma cos’è esattamente questo peccato originale originante che «non sembra essere riducibile alla massa di tutti i peccati commessi dall’umanità» e nello stesso tempo «segna un inizio assoluto» (Flick)? Il racconto di Genesi 3 può essere interpretato in molti modi diversi, non solo come peccato di “hybris”. Ne ricordiamo qui altri due che ci sembrano particolarmente originali e interessanti. Thomas Merton, senza troppo preoccuparsi della distinzione tra peccato originante e originato, identifica il peccato originale con l’egocentrismo umano: «Anche se sono buoni, i miei atti naturali, quando sono soltanto naturali, tendono a concentrare le mie facoltà sull’uomo che non sono, su colui che non posso essere, il falso Io in me, la persona che Dio non conosce. E questo avviene perché sono nato nell’egoismo. Sono nato egocentrico. E questo è il peccato originale»19.
Le parole di Merton sulle facoltà che tendono a concentrarsi sul falso Io ci permettono di fare un parallelo con un altro grande contemplativo, l’anonimo autore de La nube della non conoscenza, con ogni probabilità un monaco certosino inglese del XIV secolo20. L’anonimo propone una singolare interpretazione del peccato originale: a suo avviso, «l’uomo ha peccato quando ha smesso di contemplare Dio, secondo quanto leggiamo nella Scrittura: “Chiunque rimane in lui non pecca” (1Gv 3,6)»21. Quelle facoltà, tutte le facoltà umane che Merton vede dirottate sul falso Io, sull’Ego, dovrebbero invece convergere su Dio. In fondo non è altro da ciò che prescrivono lo Shemà Israel di Dt 6,4-9 e il primo comandamento del Decalogo (Es 20,2-17; Dt 5,6-21). Focalizzare tutte le proprie facoltà su Dio significa centrarsi sull’Essere sussistente, e così ricevere da Lui tutto l’essere partecipato che la nostra condizione di creature (o di enti, per usare il linguaggio della metafisica) permette di accogliere. Dunque disobbedire a Dio – la disobbedienza di Adamo – vuol dire in ultima analisi smettere di ascoltare la voce dell’Essere, che – come sperimenta il profeta Elia sull’Oreb – si presenta come «qôl demamah daqqah», espressione che, tradotta alla lettera, significa «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12)22. Non è affatto facile ascoltare questa voce, lo sanno bene i mistici: occorre mettere a tacere il chiacchiericcio mentale, disciplinare l’immaginazione, resistere alle distrazioni, dominare la curiosità e il desiderio di esperienze sensazionali… Vuol dire in sostanza sviluppare le proprie capacità di attenzione e quindi di preghiera; già i primi Padri, riflettendo sull’assonanza tra le due parole greche che significano attenzione (“prosoché”) e preghiera (“proseuché”), avevano infatti compreso lo stretto legame tra queste due realtà.
La follia di Eva
Disobbedire a Dio significa insomma “dis-ascoltarlo”, cioè mancare di cogliere – per cattiva volontà, incapacità, pigrizia, instabilità, eccetera – la voce di silenzio sottile, la voce dell’Essere. È un peccato di disattenzione, più che di “hybris”; un peccato che commettiamo tutti, sempre, senza neanche rendercene conto. Nell’istante in cui smette di far convergere tutte le sue facoltà sull’Essere sussistente in se stesso, l’uomo si ritrova frammentato, alienato, carente d’essere, il che è tipico della condizione peccaminosa. Tale carenza non può essere colmata attraverso sforzi umani, come cercano di fare Adamo ed Eva: il problema non si risolve coprendo la propria ontica nudità con le maschere dell’Ego, tentando di nascondersi alla vista di Dio, scaricando la colpa sull’altro, cercando di prendere e possedere. L’unico modo è tornare a contemplare l’Essere, a indirizzare tutte le facoltà ed energie su di Lui. Riguardo all’Ego appena menzionato, si fa molta confusione tra questo e l’Io, inteso sia come pronome, sia – soprattutto – come ciò che secondo la tripartizione freudiana della mente è il mediatore tra l’Es/Id e il Super-Io. Si sente dire spesso che per unirsi a Dio è necessario «mortificare l’Io», «annullare la propria volontà», «morire a se stessi» e cose del genere. In realtà ciò che bisogna far morire non è l’Io ma l’Ego, cioè la nostra personalità falsa, idealizzata, creata da noi, egocentrica e capricciosa. Se vogliamo amare, agire nel mondo, vivere da persone sane e relazionarci correttamente con gli altri, al contrario, l’Io dev’essere ben saldo. Un Io fragile e destrutturato non conduce alla santità ma alla neurosi e alla psicosi. L’Io e l’Ego stanno tra loro in un rapporto di proporzionalità inversa: più cresce e si consolida l’uno, più diminuisce l’altro (e viceversa). Lo si vede in Gen 3,2-3, nella risposta che la donna (si chiamerà Eva solo più avanti, in Gen 3,20) dà al serpente che le chiede se è vero che Dio ha comandato di non mangiare di nessun albero del giardino: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, ma del frutto dell’albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: non ne dovete mangiare e non lo dovete toccare, altrimenti morirete». La donna commette un errore disastroso, fatale: scambia di posto l’albero della vita e quello della conoscenza del bene e del male (Gen 2,9). In mezzo al giardino non c’è l’albero dai frutti proibiti, ma l’albero della vita. Nella mente della donna nasce così l’idea che Dio sia colui che si oppone alla vita, che impedisce all’essere umano di vivere pienamente, il che ovviamente è assurdo e falso. Così la donna comincia a non capire più niente, a confondere, a non discernere più – cioè, nel linguaggio giudaico, a “conoscere” – il bene e il male; allora, per usare le parole della biblista Bruna Costacurta, «Eva, da donna-saggezza, donna che dà la vita, diventa donna-follia». L’Ego di Eva, la sua personalità decaduta, peccaminosa, finisce col divorare anche l’Io razionale.
L’“esperienza zero” della mistica
Il peccato originale originante spezza uno dopo l’altro tutti gli anelli che compongono la catena delle relazioni umane (cfr. Gen 3). Il primo a rompersi è l’anello tra Dio e l’uomo, poi quello tra l’uomo e se stesso, quindi si spezza l’anello tra l’uomo e il suo prossimo, infine quello tra l’uomo e il creato. Questi anelli vanno ricomposti esattamente nell’ordine in cui sono stati spezzati. Cercare di ricostruirli diversamente, cominciando per esempio dalla relazione tra l’uomo e il suo prossimo, è impresa destinata al fallimento. Secondo l’autore de La nube, la via migliore per farlo è la contemplazione: esercitarsi costantemente, indefessamente, senza scoraggiarsi, nella difficile arte di focalizzare tutte le proprie facoltà ed energie su Dio. Questa è la contemplazione, che Thomas Merton descrive come qualcosa di simile allo stato dell’anima di Adamo ed Eva nel paradiso terrestre: «Tutto è tuo, ma a una condizione infinitamente importante: che sia tutto dato»23. La contemplazione è come il sonno: deve venire da sola, non può essere afferrata, pretesa, ottenuta con uno sforzo dell’umana volontà. È un dono di Dio, ma esige che l’uomo impari a vivere in uno stato di fiduciosa ricettività e silenzio. La contemplazione coincide con l’esperienza mistica, che non consiste affatto nell’avere visioni spettacolari, nello sprofondare in stati di trance o nel godere di ineffabili delizie spirituali. L’autore de La nube, anzi, considera tutto questo un serio pericolo per l’autentica contemplazione, una tentazione diabolica: «Alcuni di questi uomini, il diavolo li inganna in modo del tutto meraviglioso. Infatti, manda loro una specie di rugiada – cibo degli angeli, essi pensano – che discende come dal cielo e cade dolcemente e deliziosamente nella loro bocca. […] Ma per quanto a loro possa sembrare santo, tutto questo non è che una mera illusione […]. Ed ecco che spesso il diavolo inganna le loro orecchie con suoni inusitati, i loro occhi con luci folgoranti, il loro naso con profumi gradevolissimi: nonostante tutto, questi sono fenomeni fasulli»24. Gli fa eco Thomas Merton: «L’ambizione spirituale è un ostacolo all’unione mistica. […] La nube, non diversamente dai grandi testi della tradizione apofatica, ci avverte che l’appetite for experiences – o, più crudamente, il desiderio di stati di trance – costituisce il danno più grave allo sviluppo di un’autentica vita mistica»25. L’esperienza mistica, propriamente parlando, non è neanche un’esperienza, o almeno non rientra tra ciò che comunemente viene considerato “esperienza”: secondo Swami Agehananda Bharati, al secolo Leopold Fischer, per oltre trent’anni docente di antropologia alla Syracuse University, essa è «esperienza zero» (“zero experience”)26. L’esperienza, infatti, viene normalmente definita come conoscenza: «conoscenza pratica della vita o di una determinata sfera della realtà» (Garzanti), «conoscenza diretta di qualcosa per osservazione, per prova o per percezione» (De Mauro), eccetera. Ma l’unione mistica, come abbiamo visto, avviene nella non-conoscenza, nella nube, nella notte oscura. Lo stesso Rahner, quando parla dell’esperienza trascendentale di Dio e della grazia, non si riferisce a un’esperienza particolare, categoriale, quanto piuttosto al fondamento di tutte le esperienze, all’orizzonte entro il quale esse hanno luogo, all’atmosfera in cui siamo immersi27.
L’uscita dal flusso esperienziale dell’esistenza terrena
La (non)esperienza mistica è proprio ciò che consente di uscire dal flusso esperienziale e accidentale dell’esistenza terrena, che il buddhismo e altre religioni orientali chiamano saṃsāra e considerano insostanziale e carico di dolore e sofferenza. A questo punto, visto che abbiamo chiamato in causa l’esperienza zero della mistica, possiamo usarla – un po’ come si fa nell’analisi matematica con i cosiddetti “annichilatori” – per eliminare, azzerare l’elemento in comune ai sostantivi “esistenza” ed “esperienza”, vale a dire la preposizione “ex”. Così l’esistere non è più uno “stare da…”, un “essere presenti nella realtà a partire da un’origine”, ma soltanto un essere presenti, un “esserci”. Grazie all’esperienza mistica non c’è più il moto da luogo, la distanza da Dio. Lo sfasamento tra essenza ed esistenza che caratterizza la nostra condizione e la carenza d’essere causata dal peccato sono sanati, risolti. E l’uomo, semplicemente, è. L’esilio è terminato. Siamo tornati in patria.
Note
1 Cfr. R. Radice, Esistenza e identità. Il punto di vista del pensiero antico, Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 1-2 (2015), pp. 79-81.
2 In J. Delumeau, Scrutando l’aurora. Un cristianesimo per domani, Edizioni Messaggero Padova (EMP), Padova, 2003, p. 81.
3 A. Cassano, Prima l’esistenza o prima l’essenza?, Riforma.it, 30 novembre 2021.
4 P. Ricoeur, «Il peccato originale»: studio di significato, in ID., Il conflitto delle interpretazioni (titolo originale: «Le péché originel»: étude de signification, in ID, Le conflict des interprétations. Essais d’hermenetique, Seuil, Paris, 1969, pp. 266-267), trad. it., Jaca Book, Milano, 1977, pp. 286-287.
5 Ivi, p. 280.
6 M. Flick S.J., Il dogma del peccato originale nell’attuale riflessione teologica, nota redatta per incarico della Commissione per la Dottrina della Fede e la Catechesi, 30 dicembre 1973, p. 3.
7 Ireneo di Lione, Contro le eresie e gli altri scritti (titolo originale: Adversus haereses, Libro terzo, 23,3-23,7), a cura di E. Bellini (nuova edizione a cura di G. Maschio), Jaca Book, Milano, 1997, pp. 290-294.
8 M. Flick S.J., op. cit., p. 3.
9 Ivi, pp. 5-6.
10 K. Rahner – H. Vorgrimler, Dizionario di teologia, trad. it., TEA, Milano, 1994, p. 482.
11 M. Flick, op. cit., p. 2.
12 Ibidem.
13 P. Teilhard de Chardin, Note sur quelques Représentations historique possibles du Peché originel, in Oeuvres Complètes, 10: Comment je crois, pp. 61-70.
14 M. Flick, op. cit., p. 5.
15 P. Gilbert, La pazienza d’essere. Metafisica. L’analogia e i trascendentali, Pontificio Istituto Biblico, collana Philosophia, 2015, p. 10.
16 G. Bruno, La cena de le ceneri, Dialogo terzo.
17 Cfr. M. Flick, op. cit., p. 4.
18 Ivi, pp. 6-7.
19 T. Merton, Semi di contemplazione, trad. it., Garzanti Editore, Milano, 1991, p. 42.
20 Come scrive A. Gentili in Premessa alla nuova edizione de La nube della non-conoscenza e gli altri scritti (Àncora Editrice, Milano, 1997, p. VI), l’identificazione dell’ignoto autore rimane a tutt’oggi problematica, anche se accurate ricerche credono di poterlo identificare in Adam Horsley, sacerdote in cura d’anime presso prestigiose università inglesi poi passato alla certosa di Beauvale.
21 Cfr. A. Gentili, op. cit., p. 55.
22 Cfr. Dicastero per la Cultura e l’Educazione – Sezione Cultura, La voce del silenzio.
23 T. Merton, op. cit., p. 173.
24 Anonimo del XIV secolo, La nube della non-conoscenza e gli altri scritti, Àncora Editrice, Milano, 1997, cap. 57, p. 224.
25 T. Merton, Preface, in W. Johnston, The Mysticism of the Cloud of Unknowing. A modern interpretation, St. Meinrad, 1975, pp. IX-XI.
26 Cfr. H.D. Egan, Christian Apophatic and Kataphatic Mysticism, in «Theological Studies» 39 (1978) 400.
27 Cfr. G. Sambonet, L’orizzonte teorico in cui è inscritto “Ai piedi del Maestro”, www.guiasambonet.com/blog/2018.
Il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» è un Dio capace di «pentirsi», ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo.
Il testo di Giona 4
1 Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. 2Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. 3Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». 4Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».
5Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. 6Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.
7Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. 8Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».
9Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». 10Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! 11E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».
L'ira di Giona (4,1-4)
In questo capitolo conclusivo il narratore ci presenta due soli personaggi, Giona e il Signore, posti a confronto tra loro. Una parola chiave per capire l'intero capitolo è certamente la parola «male»,. All’inizio del racconto è stato il «male» commesso dai Niniviti (1,2) che ha provocato l'intervento del Signore; in 3,8 il re di Ninive invita i suoi sudditi ad allontanarsi dal male; Dio se ne accorge e si pente del «male» che avrebbe voluto fare a Ninive (3,10). Ma tutto questo diventa un «male» per Giona. Il v. 1 suona alla lettera cosi, nel testo ebraico: «Ma fu male per Giona di un male grande ed egli ne fu adirato». L'ira di Giona nasce perche Dio non ha commesso il male che aveva promesso di fare! II male non fatto da Dio è un male per il profeta, e ne provoca la collera.
La preghiera del profeta, riportata ai vv. 2-3, è ancora più sorprendente; strana preghiera, ancor più strana di quella fatta dal ventre del pesce! Soltanto adesso troviamo la risposta alla fuga di Giona, nei primi versetti del libro. Giona non era fuggito certo per paura dei niniviti, né per timore di non riuscire a portare a termine la propria missione. Era fuggito perché, sapendo bene che Dio è buono, era sicuro che Dio avrebbe perdonato gli abitanti di Ninive.
Il v. 3 ripete una formula tradizionale della fede di Israele, il modo in cui Dio si rivela a Mose sul Sinai (Es 34,6-7; cf. anche Sal 103,8; 145,8; GI 2,13). Il Dio di Israele è un Dio pietoso, pieno di amore, lento all' ira; un Dio che arriva a pentirsi, come si è visto nel c. 3, del male che egli stesso ha minacciato di fare. E allora, a che serve andare a predicare in suo nome, se tanto poi lui fa come vuole e, contro le attese del profeta, perdona le persone più cattive che esistano al mondo?
Comprendiamo che il profeta era andato sì a Ninive, ma con le gambe, non con il cuore; o se volete: Dio perdona, ma Giona no. La reazione del profeta, che si ripeterà poco dopo al v. 8, è radicale; non solo si adira, ma annuncia che per lui e meglio morire che vivere. Questa frase è sorprendentemente simile a quella pronunciata da Elia in 1Re 19,4. Il profeta, in fuga dalla regina Gezabele che vuole ucciderlo, si siede sotto un ginepro nel deserto invocando la morte. Ne uscirà soltanto grazie al cibo e all'acqua che un messaggero divino gli offre.
II narratore di Giona riprende consapevolmente la tradizione sulla fuga di Elia e la applica a Giona. Ma mentre Elia ha qualche motivo valido per fuggire (Gezabele lo vuole morto), Giona è animato solo da motivi egoistici. Inoltre, mentre la fuga di Elia diviene incontro con Dio sull’Oreb, la fuga di Giona si trasforma in uno scacco per il profeta. Ponendo in parallelo Giona con Elia il narratore vuole mostrarci la piccolezza di Giona. una sorta di profeta fallito.
Giona appare quasi come un uomo malato. preoccupato soltanto di se stesso, come si nota dall'ossessiva ripetizione dei pronomi personali di prima persona all'interno della sua preghiera: «Non era questo che io dicevo... quando ero nel mio paese?» (cf. 4.2 ) e di nuovo al v. 4. che alla lettera suona cosi: «Prendi la mia vita da me perché è meglio il mio morire che il mio vivere». Giona è del tutto ripiegato su se stesso e non riesce a comprendere la logica di Dio. Giona diviene immagine di un credente chiuso nel proprio modo ristretto di vedere, preoccupato soltanto della propria salvezza, convinto della verità delle proprie asserzioni e adirato con il mondo intero e anche con Dio, che non vuole dargli ragione. Immagine per noi di quello che rischia oggi di diventare la Chiesa, se non si apre alla logica sconvolgente dell'agire di Dio.
Ma Dio ha misericordia anche di Giona e al v. 4 inizia a dispiegare tutta la sua pedagogia nei confronti del profeta recalcitrante; non accusa direttamente Giona, ma lo pone di fronte alla propria responsabilità.
La pedagogia di Dio (4,5-8)
Dio dunque non accusa, ma si serve di fatti per educare Giona. Per tre volte risuona il verbo «provvedere» a proposito dell'agire divino, che educa Giona con mezzi molto semplici: il ricino (v. 6), un verme (v. 7), il vento che si aggiunge al sole (v. 8).
Al v. 5 si vede come Giona si sottrae alla domanda divina relativa alla sua ira. Il narratore non lo dice esplicitamente, ma sembra chiaro il motivo per cui Giona si sofferma nella capanna che ha costruito, osservando la città. Egli non crede ai suoi occhi: Ninive si èconvertita! Ma lo ha fatto davvero? Oppure ritornerà a peccare e Dio dunque potrà finalmente distruggerla? E in questo caso Giona sarà lì, in prima fila, a godersi lo spettacolo.
La crescita della pianta di ricino e il suo successivo seccarsi a causa del verme,il sole e il vento bruciante che adesso colpiscono la testa di Giona, sono piccoli segni che non educano il profeta, ma che rivelano ancora di più come egli sia preoccupato soltanto di se stesso: meglio morire che vivere! (cf. il v. 8). E’ bastata la crescita della pianta per renderlo felice («Una grande gioia»!); è sufficiente che essa secchi per renderlo di nuovo desideroso di morire e adirato più di prima (cf. la nuova risposta di Giona a Dio al v. 9).
Il segno del ricino è ancora più importante: è Dio che lo ha fatto crescere, ed è lui che lo ha seccato. E’ meglio vivere in un mondo nel quale ci sono rifugi efficaci, ma provvisori, come il ricino, oppure abbandonarsi alla misericordia di Dio che tollera anche l'esistenza di Ninive, perdonandola come se non avesse in precedenza commesso colpe orribili? Il ricino e il verme che lo secca richiamano il lettore, insieme alla permanenza di Ninive, al cuore del libro: la misericordia di Dio.
II confronto finale (4,9-11)
La nuova domanda di Dio (v. 9) mette Giona alle strette; vale davvero la pena di adirarsi per una pianta di ricino? Ma tale domanda serve soltanto a mettere in luce il vero cuore del libro, espresso dall'ultima domanda di Dio nei due versetti finali. Come tu ti sei preoccupato di una pianta, non devo io preoccuparmi di uomini e di animali?
L'espressione del v. 11: «Non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra» e di difficile interpretazione; chi ha pensato al fatto che i niniviti sono come bambini privi dell'uso di ragione, chi invece al fatto che essi sono incapaci di distinguere il bene dal male. In questo caso, il motivo per cui Dio salva i niniviti ancora più chiaro. Non perché essi se lo meritino — perché cioè si sono convertiti! — ma perché egli è misericordioso! Questa interpretazione rafforza l'idea che sia proprio la scoperta di una cosi grande misericordia di Dio che scatena l' ira del profeta.
Notiamo, di passaggio. l'interesse del testo nei confronti degli animali (cf. in precedenza il testo di Gio 3.7-8); essi non hanno alcuna autonomia, ma la loro sorte è la stessa degli uomini. Dio pertanto si interessa anche di loro.
Il libro si chiude così con una domanda, caso unico nella Scrittura, una domanda rivolta prima di tutto a coloro che si credono buoni, come Giona. Ma la domanda posta dal Signore a Giona resta nel testo senza risposta; ci troviamo di fronte a una tecnica narrativa interessante, quella della finale aperta. La risposta di Giona non ci viene offerta, perché il narratore invita ogni ascoltatore della storia a dare la propria risposta: Giona avrà fiducia nella bontà di Dio, oppure la rifiuterà? Non lo sappiamo, né lo sapremo mai. Sappiamo soltanto ciò che potrà essere la nostra personale risposta.
La misericordia di Dio nel libro di Giona
Occorre fare attenzione a non dare del libro di Giona una lettura anti-ebraica, favorita, nel passato, da una lettura tipologica che faceva di Giona l'araldo dell'ingresso dei pagani nella Chiesa, a scapito di Israele.
Il problema posto dal libro di Giona, evidente nella domanda conclusiva rivolta da Dio al suo profeta, si può meglio capire sullo sfondo storico nel quale il libro è stato composto. Ci troviamo in un periodo, verso la fine dell'epoca persiana (IV sec. a.C.) nel quale la figura profetica è ormai in crisi. Autori come Giobbe e lo stesso autore del libro di Giona mettono in dubbio che il Dio d'Israele possa essere legato a regole prefissate. Per Giobbe, la giustizia di Dio non dipende dal comportamento dell'uomo; Giobbe non soffre a causa dei suoi presunti peccati. Giona va oltre: neppure la misericordia di Dio può essere legata a comportamenti umani; essa dipende esclusivamente da lui. E questo per il profeta fedele, il «figlio di Amittai», è semplicemente intollerabile. tanto da portarlo a invocare la morte. Meglio morire piuttosto che vivere. in un mondo dove Israele non è più in grado di sperimentare la giustizia di Dio!
Il problema è grave: dove va a finire la giustizia di Dio, già messa in crisi dal libro di Giobbe. di fronte alla sua misericordia? Più radicalmente: che fare di un Dio che sembra smentire anche la sua stessa parola, pur di salvare le sue creature?
Ma il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» (1,9) è un Dio capace di «pentirsi» (3,9-10; 4,2), ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo (4,10-11). Il Dio dell'esodo, che svela adesso i suoi attributi di misericordia (4,2). Un popolo che il profeta Nahum stimola all' odio verso i propri nemici, nel libro di Giona impara che anche il peggior nemico è capace di conversione ed è comunque oggetto dell'amore di Dio.
(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)
Capitolo II (continua)
§2. I sacrifici nell’Antico Testamento: una breve rassegna
L’etimologia fa risalire il verbo sacrificare a sacrum facere, che significa rendere sacro, mettere un oggetto a disposizione del divino. La storia generale delle religioni attesta che il sacrificio è una delle sue categorie centrali. Il sacrificio esercita funzione di comunicazione e di scambio tra il mondo dell’uomo e la sfera del sacro, il mondo di Dio o degli dei. In questione, nel sacrificio, c’è il rapporto dell’uomo con il divino [82]. Il Dizionario di Teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler definisce il sacrificio come segue: «Il concetto di sacrificio, nella sua forma più completa che peraltro non sempre si ritrova in tutti i sacrifici [...], si potrebbe all’incirca descrivere così [...]: sacrificio è un atto nel quale ad opera di persone che ne hanno legittimamente il potere in quanto rappresentanti di una comunità di culto, un dono controllabile con i sensi viene trasformato nel corso di un rito cultuale e così sottratto all’uso profano, immesso nella dimensione del “sacro” e dato pienamente a Dio per esprimere la dedizione di sé, nell’adorazione, al Dio santo; in tal modo il dono, da Dio accettato e santificato, nel banchetto sacrificale della comunità di culto diventa il segno della volontà divina di instaurare un rapporto comunitario con l’uomo» [83].
La Bibbia attesta l’esistenza, e spesso la coesistenza, di diversi tipi di sacrificio. Il libro del Levitico, nei capitoli 1 – 7, li espone in modo sistematico e in linguaggio tecnico: l’olocausto (‘ôlah); l’offerta; il sacrificio di comunione (con lode, votivo o volontario); il sacrificio per il peccato (del sommo sacerdote, dell’assemblea di Israele, di un capo, di un uomo del popolo); il sacrificio di riparazione (’ašam); l’offerta. L’olocausto, il cui termine greco corrispondente significa combustione completa, è il sacrificio in cui la vittima viene per intero bruciata in onore di Jahve. Nei testi più antichi aveva lo scopo di rendere omaggio a Dio, supplicarlo, ringraziarlo e adempiere un voto; solo più tardi assunse valore espiatorio. L’olocausto è il sacrificio ordinario del culto pubblico e ne rappresenta la massima espressione; la sua mancanza costituiva la più grande minaccia contro il popolo ebraico (Dn 8,11ss). Sempre accompagnato da oblazioni e libagioni (Nm 15,2 – 16), l’olocausto era l’unico sacrificio che potesse essere offerto anche da un pagano (Lv 22,18.25). Il sacrificio espiatorio era imposto dalla Legge a colui che la trasgrediva per inavvertenza; la materia e la vittima variavano alquanto secondo la condizione del trasgressore, ma ciò che più caratterizzava questo sacrificio era il rito del sangue: parte del sangue veniva sparso attorno all’altare dell’olocausto, mentre la maggior parte era aspersa sette volte in direzione del velo del tempio e sui corni dell’altare dei profumi; benché fossero praticati in ogni periodo dell’anno, i riti espiatori raggiungevano la loro massima solennità nello jôm kippûr, il giorno dell’espiazione. Nel sacrificio di riparazione, che aveva lo scopo di riparare un danno arrecato al diritto di proprietà divina o umana, la vittima era un agnello il cui valore veniva valutato simbolicamente in relazione alla riparazione da compiere [184].
Un’altra categoria di sacrificio, assai diffusa tra i semiti, consisteva essenzialmente in un pasto sacro (šelāmîm) in cui il fedele mangiava e beveva «dinanzi a Jahve» (Dt 12,18; 14,16); l’alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio di questo genere. Certo non ogni banchetto sacro presuppone necessariamente un sacrificio; tuttavia nell’Antico Testamento questi banchetti di comunione di fatto implicavano il sacrificio: parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, padrone della vita, mentre la carne serviva da cibo per i commensali. Nei diversi rituali codificati dal Levitico il concetto di sacrificio tende a concentrarsi attorno all’idea di espiazione. Il sangue vi svolge una parte importante, ma in definitiva l’efficacia del sacrificio deriva dalla volontà di Dio (Lv 17,11; cfr. Is 43,25) e presuppone sentimenti di penitenza. La riparazione delle impurità rituali e delle colpe non volontarie iniziava i fedeli alla purificazione del cuore, così come le leggi sul puro e l’impuro orientavano le anime verso l’astensione dal male. Il pasto dei šelāmîm traduceva e realizzava nella gioia e nell’euforia spirituale la comunione dei commensali tra loro e con Dio, perché tutti partecipavano della stessa vittima [85].
[82] Cfr. B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 293.
[83] K. RAHNER /H. VORGRIMLER, Dizionario di teologia (titolo originale Kleines Theologisches Wörterbuch, Verlag Herder GmbH & Co. KG, Freiburg, 1968), trad. it., Editori Associati, Milano, 1994, p. 612.
[84] Cfr. A. ROLLA in Introduzione generale alla Bibbia, Elledici, Torino, 2006, pp. 263 - 264.
[85] Cfr. C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, pp. 1125 - 1126.
Capitolo II (continua)
§1. Importanza e universalità del sacrificio
Il cristianesimo non sacrificale di Girard può essere comprensibile come reazione a certe soteriologie grossolane nate da cattive interpretazioni dell’opera di Anselmo e in particolare del Cur Deus homo, ma non può essere accettato, preso per buono: Girard ragiona a partire da un’idea troppo restrittiva del sacrificio, che non tiene conto della realtà complessa e sfaccettata che la teologia vede invece racchiusa in questa categoria. C’è senz’altro del vero e del buono nella visione dell’antropologo francese, fa notare Sesboüé: «Girard non mette il dito su un qualcosa di molto reale nel cristianesimo storico? Non è vero che, stando a certi discorsi teologici, pastorali, spirituali, l’idea di sacrificio ha funzionato in terra cristiana così com’egli dice?» [74] . Resta il fatto che il sacrificio non può essere espunto dal cristianesimo con tanta disinvoltura. Anzi, non può esserne espunto affatto: farlo significherebbe sfigurare la Sacra Scrittura. Dice il Dizionario di Teologia Biblica di Xavier Léon-Dufour alla voce sacrificio: «Un rapido sguardo alla Bibbia ci informa sull’importanza e sull’universalità del sacrificio. Esso costella tutta la storia: umanità primitiva (Gen 8,20), vita dei patriarchi (Gen 15,9...), epoca mosaica (Es 5,3), periodo dei giudici e dei re (Giud 20,26; 1 Re 8,64), età postesilica (Es 3,1 – 6). Ritma l’esistenza dell’individuo e della comunità. L’episodio misterioso di Melchisedech (Gen 14,18), in cui la tradizione ravvisa un pasto sacrificale, l’attività liturgica di Jetro (Es 18,12) allargano ancora l’orizzonte: fuori del popolo eletto (cfr. Gn 1,16), il sacrificio esprime la pietà personale e collettiva. I profeti, nelle loro visioni del futuro, non dimenticano le offerte dei pagani (Is 56,7; 66,20; Mal 1,11). Così, quando tracciano a grandi linee il loro affresco della storia, gli scrittori dell’Antico Testamento non concepiscono vita religiosa senza sacrificio. Il Nuovo Testamento preciserà questa intuizione e la consacrerà in modo originale e definitivo» [75]. Vero è che alcuni profeti dell’Antico Testamento prendono recisamente posizione contro i sacrifici (cfr. Is 1,11 – 17; Ger 6,20; 7,21 – 22; Os 6,6; Am 5,21 – 27; Mi 6,6 – 8), ma la loro polemica, afferma Sesboüé, è di tipo dialettico, va ben compresa: non condanna i sacrifici in quanto tali ma la loro perversione, allorché sono contraddetti da una condotta di vita incoerente [76] .
Eliminare il sacrificio dal Nuovo Testamento sembrerebbe più agevole. Chi volesse farlo troverebbe facile appiglio in certi passi evangelici, come Mt 9,13 («Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio») e Mc 12,33 («amarlo con tutto il cuore, e con tutta la mente e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso val più di tutti gli olocausti e i sacrifici»). Ma un’operazione del genere entrerebbe in conflitto con altri versetti dei Vangeli, dai quali emerge, sottolinea G. Deiana, che Gesù non intende affatto annullare il sistema rituale del tempio: al lebbroso, dopo la guarigione, chiede di offrire il sacrificio prescritto dalla Legge (Mt 8,4); egli impone la riconciliazione con il fratello prima di offrire il sacrificio (Mt 5,23 – 24); e del resto il compito di Gesù è formulato senza possibilità di equivoco in Mt 5,17 – 19:
«Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli».
C’è dunque una conferma esplicita delle istituzioni veterotestamentarie. La Chiesa delle origini, a parere di Deiana, deve aver faticato non poco per trovare il giusto equilibrio tra la tradizione giudaica e l’innovazione cristiana. Se ne può avere conferma mettendo a confronto At 15 e 21,20 – 25: secondo At 15 la comunità cristiana, già ai tempi del cosiddetto concilio di Gerusalemme, avrebbe superato il vincolo delle norme giudaiche; a giudicare da At 21,20 – 25, invece, sembrerebbe che la comunità di Gerusalemme fosse ben ancorata alle tradizioni cultuali e rituali dell’Antico Testamento [77].
Diversa è l’opinione di Sesboüé: «Quando passiamo al Nuovo Testamento, dobbiamo riconoscere con R. Girard la scarsa rilevanza del tema sacrificale nei vangeli. La menzione più significativa messa sulle labbra di Gesù è negativa» [78]; a riprova Sesboüé porta gli appena citati Mt 9,13 (cfr. 12,7) e Mc 12,33. Il teologo gesuita ammette che al momento della presentazione di Gesù al tempio i suoi genitori hanno senza dubbio offerto nel tempio «un paio di tortore o due giovani colombe» (Lc 2,24) e che «il senso delle parole dell’istituzione eucaristica è certamente sacrificale, il termine sacrificio non viene però adoperato, e gli esegeti discutono su ciò che, in tali parole, risale effettivamente a Gesù e su quanto è il frutto dell’attualizzazione liturgica della comunità primitiva» [79]. Tuttavia, aggiunge Sesboüé: «L’essenziale è manifestamente altrove. Tutta la vita prepasquale di Gesù è stata una pro-esistenza, cioè un’esistenza per il Padre e per i fratelli, un dono totale di sé che si spinge fino al dono della vita. Tutta la sua vita assumeva così il valore d’un sacrificio esistenziale, che fungerà da fondamento al senso convertito assunto dal termine sacrificio nella tradizione cristiana dal Nuovo Testamento in poi. Tale esistenza di servizio è orientata verso il passaggio di Gesù al Padre e mira correlativamente al passaggio di tutti i suoi fratelli riconciliati al Padre. Il sacrificio di Gesù, espresso anche nella preghiera, è la forma che assume il ritorno del Figlio al Padre quando egli rimette il proprio spirito nelle sue mani. Gesù, istituendo l’eucaristia, ci dice quale senso egli dona alla sua morte» [80]. Sesboüé conclude così la sua riflessione: «Tale complesso è molto coerente. Se Gesù “sembra preoccuparsi dei sacrifici rituali solo per stigmatizzarne gli abusi”, non si vede perché si sarebbe servito della categoria del sacrificio “per caratterizzare la propria vita e la propria morte”. Non stupisce quindi che i Vangeli non dicano nulla che indichi che Gesù associò la sua vita e la sua morte alla nozione di sacrificio rituale. In compenso tutta la sua vita ci invita a riconsiderare il senso del sacrificio a partire dalla sua proesistenza. Tale distanza tra la realtà e il vocabolario era senza dubbio indispensabile per operare la necessaria conversione del senso del sacrificio, senso che i profeti avevano già indicato» [81].
[74] B. Sesboüé, op. cit., libro I, pp. 43 – 44.
[75] C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, p. 1124.
[76] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 299.
[77] G. DEIANA, Dai sacrifici dell’Antico Testamento al sacrificio di Cristo, Urbaniana University Press, Roma, 2006, pp. 71 - 73.
[78] B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 300.
[79] Ibidem.
[80] Ibidem.
[81] Ivi, pp. 300 – 301; le frasi riportate tra virgolette alte sono di X. Léon-Dufour.