Lo scandalo di una parola
di Vladimir Zelinskij
ZOHAR
(IL LIBRO DELLO SPLENDORE)
(Passi scelti)
DIO (EN SOPH)
(III, 225a, Ra'yà Mehemnà, "Il fedele pastore")
Egli afferra tutto e non c'è chi afferri lui. Egli non si chiama col nome JHWH e con gli altri nomi, se non quando la sua luce si diffonde su di loro; mentre quando si allontana da loro, egli, a sé stante, non ha alcun nome.
"E profondo, profondissimo; chi lo può trovare?" (Eccl. VII, 24). Non c'è luce che possa guardarlo, senza oscurarsi. Persino la "corona eccelsa", la cui luce è più forte di tutti i gradi e di tutte le schiere celesti, le superiori e le inferiori, di lei è detto: "Egli pose l'oscurità, come suo nascondiglio"(Sal. XVIII, 12). Così pure la "sapienza" e "l'intelligenza", di loro è detto: "La nube e la caligine è intorno a lui" (Sal. XCVII, 2). Tanto più le altre sephiroth, le chayoth, e gli yesodoth che sono corpi morti. Egli gira su tutti i mondi, e non c'è chi giri su di essi da ogni lato, sopra e sotto ed ai quattro angoli, all'infuori di lui. E non c'è chi esca fuori dal suo dominio. Egli riempie tutti i mondi, e non c e altri che li riempia. Egli dà loro la vita, e non c e su di lui un'altra divinità che dia a lui la vita. Così è scritto: "Tu dai la vita a tutti" (Num. IX, 6). E in relazione a ciò Daniele ha detto: "Tutti gli abitanti della Terra sono considerati come nulla dinanzi a lui ed opera a suo piacimento con la schiera celeste"(Dan. IV, 32). Egli collega e unisce ogni specie alla sua specie, in alto ed in basso, e non c e vicinanza nei quattro yesodoth, se non per mezzo del Santo, che benedetto egli sia, quando si trova in essi.
(Seconda prefazione - Tiqqunè Zohar)
Elia prese a dire: Signore dei mondi. Tu sei uno e non rispetto ad un numero. Tu sei eccelso su tutti gli eccelsi, nascosto su tutti i nascosti ed il pensiero non ti afferra affatto. Tu sei che hai fatto scaturire i dieci ordini che noi chiamiamo dieci sephiroth, per guidare per mezzo loro i mondi segreti che non sono stati svelati ed i mondi che sono stati svelati. Per mezzo loro Tu ti nascondi agli uomini, e sei Tu che le colleghi e le unisci. Per il fatto che Tu ti trovi in esse, chiunque separi una di queste dieci dall'altra, è come se ponesse una separazione in Te. Queste dieci sephiroth procedono secondo il loro ordine: l'una lunga, l'altra breve, l'altra ancora media. Sei Tu che le guidi e non c e chi guidi Te, non in alto, né in basso, né da ogni lato. Hai stabilito per loro delle membra corporee, che sono definite "corpo" rispetto alle vesti che le ricoprono, e vengono così chiamate secondo quest'ordine: "l'amore", chesed, il braccio destro; la "giustizia", gheburà, il braccio sinistro; la "misericordia", tiphereth, il corpo; "l'eternità", nezach, e la "maestà", hod, le due gambe; "il fondamento", yesod, la fine del corpo, il segno del santo patto; il "regno", malkhut, la bocca, che noi chiamiamo Torà orale. La "sapienza", chokhmà, è il cervello, il pensiero interno. L'"intelligenza", binà, è il cuore, di cui è detto: "il cuore comprende" (Talmud: Berakhoth 61a). Di queste due ultime sephiroth è scritto: "le cose segrete appartengono a Dio" (Deut. XXIX, 28). La "corona eccelsa", Keter’ Eliyon cioè la "corona regale", Keter malkhut, di cui è scritto: "Annunzia dall’inizio la fine" (Is. XLVI, 10) è il cranio, intorno al quale si pongono i filatteri. All'interno (la corona) è Jod He Waw He, che è l'ispirazione divina. E ciò che abbevera l'albero, con i suoi rami e le sue fronde, come l'acqua che abbevera l'albero e lo fa crescere grazie a tale irrigazione.
Signore dei mondi, Tu sei l'altezza delle altezze, la causa delle cause, che abbeveri l'albero con la fonte. E quella fonte è come l'anima per il corpo, che costituisce la vita per il corpo. In Te non c e immagine né somiglianza in tutto ciò che esiste all'interno (della corona). Hai creato il cielo e la terra, hai fatto spuntare nel cielo il sole, la luna, le stelle e le costellazioni e nella terra gli alberi, le erbe, il giardino dell'Eden, gli animali, gli uccelli, i pesci e gli uomini. Ciò affinché si rivelassero per mezzo loro i mondi superiori, e fosse conosciuto come si comportano i mondi superiori e quelli inferiori e come si conoscono i mondi superiori e quelli inferiori. Non v'è chi sappia nulla di te, ed all'infuori di Te non esiste unico né unicità nei mondi superiori e in quelli inferiori; Tu sei riconosciuto come Signore di tutto. Quanto alle Sephiroth, ognuna di esse ha un nome conosciuto e con tali nomi sono chiamati gli angeli. Tu invece non hai un nome conosciuto, perché riempi di Te tutti i nomi e ne costituisci la perfezione: quando Ti allontani da loro, tutti i nomi rimangono come corpo senza anima.
Tu sei sapiente e non di sapienza conosciuta, Tu sei intelligente e non di intelligenza conosciuta. Tu non hai un luogo conosciuto, se non per far conoscere la Tua forza ed il Tuo potere agli uomini e per mostrare loro come si guida il mondo con il giudizio (din) e la pietà (rachamim), che sono la giustizia (zedeq) ed il diritto (mishpat), secondo le azioni degli uomini.
Il giudizio (din) è la potenza (gheburà); il diritto (mishpat) è la colonna mediana. La giustizia (zedeq) è il santo regno (malkhut); la bilancia della giustizia sono le due basi della verità; la misura della giustizia è il segno del patto. E tutto ciò per mostrare come si guida il mondo. Ma non si deve intendere che Tu abbia una giustizia (zedeq) conosciuta, che è il giudizio (din), o un diritto (mishpat) conosciuto che è la misericordia (rachamim). E parimenti per tutti gli altri attributi.
(III, 257b - 258a,
Ra’yà Mehemnà "Il fedele pastore")
Bisogna sapere che egli è chiamato saggio in ogni tipo di saggezza, intelligente in ogni tipo di intelligenza, benefico in ogni tipo di beneficio, consigliere in ogni tipo di consiglio, giusto in ogni tipo di giustizia e re in ogni tipo di regno, fino all'infinito (En Soph) ed all'imperscrutabile (En Cheqer). Ed in tutti questi attributi, in uno è chiamato "pietoso" in un altro "giudice", e così per tanti attributi fino a En Soph.
E se Tu dicessi: Allora c'è differenza tra "pietoso" e "giudice"?
C'è da dire che ancor prima di creare il mondo egli è stato chiamato con tutti quegli attributi a causa delle creature che erano destinate ad essere create. Perché, se non per quelle creature che sono nel mondo, sarebbe chiamato "pietoso" e "giudice"? Sì, soltanto a causa delle creature destinate ad essere create. Perciò tutti i suoi nomi sono appellativi fissati sulla base delle sue azioni. Per esempio egli ha creato a sua somiglianza l'anima, così definita sulla base della sua attività sulle singole membra del corpo, che è chiamato piccolo mondo ('olam qatan). Come il Signore del mondo si comporta con tutte le sue creature e con ogni generazione secondo le loro azioni, così l'anima si comporta secondo le azioni delle singole membra. In quella parte del corpo, con cui l'uomo realizza un precetto divino (mizwà), l'anima prende il nome di misericordia, beneficio, grazia e pietà. Invece in quella parte del corpo, con cui l'uomo commette una trasgressione, l'anima prende il nome di giudizio, ira e furore.
Ma al di fuori del corpo, a chi sarebbe applicata la pietà o la crudeltà?
Così pure il Signore del mondo, prima che creasse il mondo e creasse le sue creature, rispetto a chi avrebbe potuto essere chiamato misericordioso, pietoso o giudice? Ma tutti i suoi nomi sono degli appellativi, con cui viene chiamato, soltanto a causa delle creature che sono nel mondo.
E per tale motivo che quando la generazione degli uomini è buona egli è chiamato nei loro confronti JHWH, con l'attributo della misericordia; mentre quando la generazione degli uomini è malvagia, egli è chiamato ADNY, con l'attributo della giustizia, per ogni generazione e per ogni uomo secondo il suo attributo. Ma non si deve intendete che egli abbia un attributo né un nome conosciuto, sull'esempio delle sephiroth, ognuna delle quali ha un nome conosciuto, un attributo, uno spazio ed una collocazione determinata.
In quei nomi il Signore del mondo si diffonde; in essi scorre; in essi viene appellato; in essi si cela; in essi si insedia, come l'anima nelle membra del corpo. E come il Signore dei mondi non ha un nome conosciuto, né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato, così pure l'anima non ha un nome conosciuto né una collocazione conosciuta, ma il suo potere è in ogni lato e non c'è parte del corpo che ne sia priva. Perciò non bisogna attribuirla ad un solo luogo, perché se così fosse mancherebbe il suo dominio sulle altre membra. Così non si deve chiamarla con un solo nome, né con due, e neppure con tre, dicendo che essa è sapiente ed intelligente e possiede conoscenza e nulla più; perché, così facendo, la si priva degli altri attributi. Tanto più il Signore del mondo, che non può essere attribuito ad un luogo conosciuto, né essere chiamato con nomi. Quando egli era unico, prima che creasse il mondo, perché avrebbe dovuto essere chiamato con quei nomi o con altri appellativi, come per esempio: "pietoso, misericordioso e longanime, etc." (Esodo XXXIV, 6), giudice, forte, potente e molti altri attributi del genere? Con tutti quei nomi e quegli appellativi egli è chiamato a causa dei mondi e delle creature che sono in essi, per mostrare il suo dominio su di essi.
Così pure per l'anima, a motivo del suo dominio su tutte le membra del corpo, egli l'ha resa simile a lui. Non che essa sia simile a lui nella sostanza, perché mentre egli l'ha creata, non c e una divinità sopra di lui che l'ha creato.
Ed ancora: l'anima è soggetta a taluni mutamenti, accidenti e cause relative ad essa, ciò che non è per il Signore di tutto. Perciò essa è simile a lui, per quanto concerne il suo dominio su tutte le membra del corpo, ma non sotto gli altri aspetti.
(Zohar Chadash - 55b-d - Tiqquné Zohar)
Egli ha fatto scaturire ogni cosa dallo stato di potenza in atto: egli muta le sue azioni ed in lui non è mutamento. Egli è colui che ordina le sephiroth: nelle sephiroth c'è la grande, la media e la piccola, ognuna di esse sulla base dell'ordinamento da lui operato, mentre in lui non è ordine. Egli ha creato tutto con l'intelligenza (binà) e non c'è chi abbia creato lui. Ha modellato e formato tutto con la gloria (tipheret), mentre egli non ha modello né modellatore.
Egli ha fatto tutto con il regno (malkhut) e non c e chi abbia fatto lui. E poiché egli è all'interno di queste dieci sephiroth, con le quali ha creato, ha modellato ed ha fatto ogni cosa, vi ha posto il nome della sua unità affinché ve lo riconoscessero. Chiunque separa qualsiasi sephirà da un'altra di queste dieci sephiroth, che sono chiamate Jod He Waw He, è come se ponesse una separazione in lui. E lui che unisce la lettera Jod con la He e la Waw con la He, che non vengono chiamate JHWH se non in lui. E così pure per ADNY, per EHYH e per ELHYM. Non appena si allontana da esse, egli non ha un nome conosciuto. E lui che lega tutti i nomi degli angeli, li lega insieme e sorregge i mondi superiori e quelli inferiori. Se egli si allontana da loro, non hanno più mantenimento, né conoscenza, né vita.
Non v'è luogo dove egli non sia: di sopra fino all'infinito (En Soph) e di sotto allo sconfinato. Da ogni parte non esiste divinità all'infuori di lui. Ma, nonostante egli si trovi in ogni luogo, ecco che non ha posto la creazione (beriyà), la formazione (yézirà) e l'azione (’asiyà) né nel trono, né negli angeli, né nel cielo, né nella terra e nel mare, né in qualche creatura del mondo, affinché tutte le creature lo conoscano attraverso le sephiroth.
E non soltanto questo, ma di più, tutte le creature sono state create attraverso le sephiroth, alcune per mezzo della creazione, altre per mezzo della formazione, altre ancora per mezzo dell'azione. Ma nelle sephiroth, nonostante che egli abbia tutto creato, formato e fatto attraverso di loro, non si può parlare di creazione, di formazione e di azione come negli esseri inferiori, se non come mondo dell'ispirazione. Perciò le sephiroth della corona (keter), della sapienza (chokhmà), dell'intelligenza (binà), della conoscenza, che sono nelle altre creature, non assomigliano ad esse, secondo quanto è scritto: "A chi dunque mi assomiglierete, in modo che io sia veramente simile? - dice il Santo" (Is. XL, 25), e secondo l'esempio della Torà, della quale è detto: "E più preziosa delle gemme) e tutto ciò che hai di più caro non la eguaglia" (Prov. III, 15). Egli crea, forma e fa ogni cosa.
Nonostante che egli sia conosciuto dagli uomini attraverso le dieci sephiroth, che sono la corona eccelsa (keter ’eliyon), la sapienza (chokhmà), l'intelligenza (binà), etc. è detto di lui: egli è sapiente, ma non di sapienza conosciuta; è intelligente, ma non di intelligenza conosciuta; è benefico, ma non di beneficio conosciuto; è potente, ma non di potenza conosciuta; è glorioso in ogni luogo, ma non in un luogo conosciuto; è maestoso e magnifico in ogni luogo, ma non in un luogo conosciuto; è giusto, ma non in un luogo conosciuto; è re, ma non di una regalità conosciuta; è uno, ma non rispetto ad un numero, come è invece l'uno che assomma i tredici attributi. Nonostante che egli sia al di fuori di tutto, sorregge i mondi superiori e gli inferiori, e sorregge tutti i mondi fino all'infinito (En Soph) ed allo sconfinato. Ma non esiste chi sorregga lui. Ogni pensiero si sforza di pensarlo, ma nessuno di essi sa raggiungerlo. Perfino Salomone, di cui è detto: "Fra il più saggio tra tutti gli uomini" (1Re, V, 11), cercò di raggiungerlo con il suo pensiero ma non vi riuscì. Perciò disse: "Voglio diventar sapiente; ma la sapienza è lontana da me" (Eccl. VII, 23).
Se egli dà la vita a qualcuno, con l'attributo di JHWH, non esiste chi lo possa uccidere. Se poi egli dà la morte a qualcuno con l'attributo di ADNY, non esiste chi gli possa dar la vita. E queste lettere, nonostante che vi sia in esse la morte e la vita, non derivano in sé la vita e la morte se non da lui. Né derivano la loro vicinanza ed unione se non da lui. Il nome non è chiamato perfetto, se lui non è in esso, né realizza alcuna azione, se lui non è in esso. Anche le forze del male, che costituiscono un altro dominio, sono tutte in suo potere, e di loro è detto: "Tutti gli abitanti della terra sono considerati come nulla dinanzi a lui ed opera a suo piacimento con la schiera celeste" (Deut. IV, 32). Non c'è chi possa opporsi a lui, dicendogli: cosa hai fatto? Egli afferra ogni pensiero, ma non c'è pensiero che possa conoscerlo. Non gli era necessario fissare un'entità limitata, attraverso la quale pensare e conoscere, ma l'ha fissata per le creature, perché il loro pensiero non lo può raggiungere in ogni luogo. Infatti egli possiede dei mondi anche al di sopra delle sephiroth, come i capelli che sono innumerevoli. E proprio perché gli uomini sapessero invocarlo in un luogo determinato, egli ha fissato per loro le sephiroth. Ciò affinché essi lo potessero conoscere tramite loro, che sono collegate con i mondi superiori e quelli inferiori. Egli ha creato per mezzo delle sephiroth tutte le creature, affinché potessero conoscerlo attraverso di esse.
Del buon uso di un ortodosso
di Vladimir Zelinskij
Sant’Andrea
e la Chiesa del Terzo millennio
di Vladimir Zelinskij
Cosa resta della suddivisione del mondo in campi d’azione che fu fatta alle origini della missione cristiana, quando gli apostoli vennero mandati ad gentes? Invece di conservarli e di tradurli in gelose contrapposizioni, il cristianesimo del Terzo millennio deve spalancarsi al nuovo mondo, in un rinnovato slancio missionario che della Tradizione conservi solo l’essenziale, e l’unità.
Immaginiamo per un minuto un mosaico, uno di quegli antichi mosaici conservatisi solo a frammenti che rivestivano le cupole o le pareti delle antiche chiese bizantine. Supponiamo che un ignoto maestro, in una certa cattedrale, abbia deciso di dispiegare davanti a noi l’intera storia dell’Incarnazione del Verbo di Dio, trasmettendo attraverso le pietruzze il racconto degli evangelisti. Entrati nella cattedrale ci troviamo di fronte a una raffigurazione in cui ogni tessera musiva rappresenta un rigo di Vangelo. Alzando gli occhi vediamo prima di tutto l’immagine di Cristo al centro, dominante sugli altri, circondato dai dodici apostoli. Vi sono degli apostoli la cui figura è tracciata, o meglio scolpita dai versetti evangelici in modo più ricco e pieno, come Pietro e Giovanni. E tuttavia, di molte raffigurazioni è rimasto soltanto il nome, l’orma di una persona vivente che ha attraversato a suo tempo la storia, tutto il resto - agiografia, martirio, glorificazione – si è composto in un’immagine organica solo più tardi, nella Tradizione.
Fra questi apostoli - che diremmo "di prima grandezza" - e tutti gli altri, Andrea si pone per così dire a mezza via, la sua immagine è costituita soltanto di poche "tessere" evangeliche. Noi possiamo tentare di ricostruire la figura intera dell’apostolo, non come fu in vita (operazione quasi impossibile), ma quale ci è stato tramandato in qualità di "messaggero", come la bocca che ha pronunciato quel particolare annuncio che ci è stato inviato proprio attraverso di lui. Infatti tutto ciò che sapremo in seguito di Andrea dai racconti agiografici, - i suoi pellegrinaggi apostolici verso le coste del Mar Nero, "nella terra di Frigia" e "nella Propontide" come dice san Dimitrij di Rostov, la benedizione del luogo dove sarebbe sorta Kiev, quindi il martirio a Patrasso – non è che la continuazione e lo sviluppo di quell’annuncio. Leggendo attentamente questi passi, cerchiamo di comporli come pietruzze per ricostruire le parti mancanti del nostro mosaico. Cominciamo dal primo capitolo del Vangelo di Giovanni.
"Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito era Andrea, fratello di Simon Pietro. Egli incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: "Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)" e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: "Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (che vuol dire Pietro)" (Gv 1, 40-42).
Abbiamo trovato il Messia
In un primo momento Andrea, che faceva ancora il pescatore in Galilea, era stato discepolo di Giovanni il Battista. Da lui il futuro apostolo avrebbe sentito per la prima volta le parole che in bocca a Cristo sarebbero diventate la Buona Novella: "Il regno dei cieli è vicino". Ma cosa significava questo regno nelle parole di Giovanni? Quando Giovanni predicava, sembrava che il regno, pur restando invisibile, si ergesse minaccioso e fiammeggiante davanti agli uditori, pronto a concedere grazia e ad accogliere nella "sua ammirabile luce", ma anche a giudicare con ira, ira che sembrava levarsi come un’onda oscura alle spalle del profeta, pronta ad abbattersi. "Razza di vipere!" esclama Giovanni rivolgendosi a farisei e sadducei che sono venuti da lui per farsi battezzare, "Chi vi ha suggerito di sottrarvi all’ira imminente? Fate dunque frutti di conversione" (Mt 3, 7).
La predicazione del più grande dei profeti "nati da donna", Giovanni il Battista, annuncia l’imminente regno messianico e il giudizio, il quale, secondo le parole di san Pietro, deve iniziare "dalla casa di Dio" (1 Pt 4, 17). "Il regno è vicino…" e Andrea ha saputo ascoltare. È lui cronologicamente il primo testimone del passaggio più importante o, per usare una terminologia eucaristica, della "frazione" della fede esigente dei profeti nella fede degli apostoli, una fede che parla del realizzarsi di ogni promessa nella venuta di Gesù di Nazaret. In quel "mormorio di un vento leggero" (1 Re 19, 12) con cui Gesù si è manifestato al mondo, egli riconoscerà il regno messianico e l’Unto stesso, atteso da tanti secoli. Prima ancora di Pietro, Andrea dà una definizione della fede apostolica. "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo". Questa formula assumerà la sua compiutezza teologica in Pietro: "Tu sei il Cristo, figlio del Dio vivente". La confessione di Pietro è più ardita, più ampia, la confessione di Andrea vale per sé e per il fratello, infatti dice "abbiamo". In questa comune confessione di Andrea e Pietro risuona la voce del regno "che viene", della legge e dei profeti che si compiono nel Messia.
Tuttavia Gesù, nell’atto di assumere il nome di Cristo, sa che questo nome diventerà una confessione piena soltanto dopo la Croce. "Allora ordinò ai discepoli di non dire ad alcuno che egli era il Cristo" (Mt 16, 20). È necessario che egli compia l’altra parte della profezia: diventare il servo sofferente, l’Agnello offerto in olocausto, "soffrire molto". Tutto questo Andrea, Pietro e gli altri discepoli ancora non lo potevano accettare. Pur confessando la fede apostolica nel Messia che viene, essi rimangono per ora solo suoi discepoli. Sarà Gesù stesso che farà di loro degli apostoli nel vero senso della parola.
"Mentre camminava lungo il mare di Galilea vide due fratelli, Simone, chiamato Pietro, e Andrea suo fratello, che gettavano la rete in mare, poiché erano pescatori. E disse loro: "Seguitemi, vi farò pescatori di uomini"" (Mt 4, 18-19).
Pescatori di uomini
Le parole di Gesù si realizzano immediatamente: Andrea si affretta a fare ciò cui è chiamato. Essendo "pescatore", egli "pesca" Pietro, poi Filippo; Filippo, a sua volta, diventa "pescatore" di Natanaele. Le "reti degli apostoli" ancor oggi sono il simbolo della missione, il dono dell’annuncio. Ma qual è il segreto di questa "pesca di uomini"? Da dove viene agli apostoli il potere sulle anime umane?
Torniamo ancora a considerare la chiamata di Andrea. Essa inizia con la frequentazione del Signore. Giovanni il Battista, "fissando lo sguardo su Gesù che passava disse: "Ecco l’agnello di Dio!". E i due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. Gesù allora si voltò e, vedendo che lo seguivano, disse: "Che cercate?". Gli risposero: "Rabbì, dove abiti?". Disse loro: "Venite e vedrete". Andarono dunque e videro dove abitava e quel giorno si fermarono presso di lui" (Gv 1, 35-39). Riflettendo su questo incontro, sant’Agostino dice: "Uno dei due era Andrea. Andrea era fratello di Pietro, e dal Vangelo sappiamo che Cristo invitò Pietro e Andrea a lasciare la loro barca dicendo: "Vi farò pescatori di uomini". Cristo mostrò loro dove viveva, ed essi andarono e restarono con Lui. Che giornata meravigliosa devono aver trascorso! Chi potrà dirci cosa avranno sentito dal Signore? Edifichiamo anche noi nel nostro cuore una casa in cui il Signore possa venire e ammaestrarci, e possa rimanere per conversare con noi" (Omelia 9).
"Essendo restato con Gesù, e avendo imparato tutto ciò che Gesù gli insegnava", dice san Giovanni Crisostomo, "Andrea non nascose in sé questo tesoro, ma si affrettò dal fratello per comunicargli il tesoro che aveva ricevuto". Ascolta bene ciò che disse: "Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo" (Gv 1, 41)… Le parole di Andrea erano le parole di un uomo che attendeva con impazienza la venuta del Messia, la sua discesa dai cieli; di un uomo che fu tutto pervaso dalla gioia quando vide la Sua venuta, così che si affrettò a comunicarla agli altri" (Omelia 19 sul Vangelo di Giovanni) (1).
Anche dalle poche menzioni ad Andrea che si trovano nella patristica possiamo tracciare la struttura interiore del suo apostolato: l’attesa del Signore e del Suo regno assieme al profeta, l’incontro col Signore faccia a faccia, la gioia della rivelazione, la fermezza della confessione, quindi la predicazione dell’annuncio che aveva ascoltato e accolto col cuore, a coloro che ne avevano bisogno, a chi cercava di ascoltarlo. "La fede dipende dalla predicazione e la predicazione a sua volta si attua per la parola di Cristo", dice san Paolo (Rm 10, 17). Al seguito di Cristo l’apostolo "aprì la mente all’intelligenza delle Scritture" (cfr. Lc 24, 45), e tuttavia queste Scritture non sono semplicemente annotate "con l’inchiostro e lo stilo" sulla pergamena o la carta, ma sono incise con la voce di Cristo "sulle tavole di carne dei vostri cuori" (2 Cor 3, 3). Il dono di diventare apostolo consiste nell’"ascoltare le Scritture" e predicarle al cuore dell’uomo dall’interno, nel far sì che questi abbia intelligenza di sé fino in fondo, fino all’ultima profondità accessibile nella Parola di Dio, poiché solo in Cristo possiamo conoscere e vedere noi stessi fino in fondo. L’apostolo non avrebbe potuto catturare nessuno nelle reti di Cristo, se Cristo stesso, non riconosciuto come il seme nella parabola del seminatore, non fosse stato "gettato" in ogni uomo.
Come avvenga questa "pesca" apostolica lo vediamo dalla storia di Natanaele. Filippo, che "era di Betsaida, la città di Andrea e di Pietro" (Gv 1, 44), porta da Cristo Natanaele, il quale è convinto a priori che da Nazaret non possa venire niente di buono. Ma Cristo gli dice delle parole che lo trapassano per la sorprendente conoscenza che dimostrano. "Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico" (Gv 1, 48). E Natanaele non si limita a ricordare qualcosa, ma soprattutto riconosce se stesso sotto lo sguardo del Dio vivo, in quell’episodio del passato "sotto il fico" che era noto solo a lui e a Dio. Così avviene il miracolo dell’incontro; riconoscendo il Signore, l’uomo riconosce di nuovo anche se stesso. "Sarebbero manifestati i segreti del suo cuore", dice san Paolo, "e così, prostrandosi a terra adorerebbe Dio, proclamando che veramente Dio è fra voi" (1 Cor 14, 25).
Il "pescatore di uomini" conduce l’uomo ai segreti del suo cuore, al sacramento della conoscenza del Dio vivo, ma lui stesso non accede a questi segreti, e non partecipa all’incontro. È come se Andrea si tirasse da parte, come se si allontanasse; si limita a "condurre" qualcuno, a "dire" a qualcuno, a presentare, a far conoscere, a mostrare la via, lui che durante la vita terrena di Cristo si è semplicemente trovato al Suo fianco. Così, avendo visto un giorno una grande folla raccolta per ascoltarlo, e vedendo che la gente aveva fame, Gesù dice all’apostolo Filippo: ""Dove possiamo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?" Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva bene quello che stava per fare… Gli disse allora uno dei discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: "C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?"" (Gv 6, 5,8).
La moltiplicazione dei pani, l’incontro con gli elleni
Altri due importanti passi evangelici sono legati alla partecipazione e alla mediazione di Andrea, e tutti e due toccano l’essenza stessa del suo servizio apostolico. Sto parlando della moltiplicazione dei pani e della prima comparsa dei gentili nel contesto evangelico, di quei greci che erano venuti per la festa a Gerusalemme e avevano voluto vedere Gesù. In entrambi gli episodi il ruolo di Andrea è oltremodo modesto, quasi impercettibile; in uno di essi egli parla all’apostolo più anziano del cibo di cui è in possesso un ragazzo; nell’altro, assieme a Filippo annuncia a Gesù l’arrivo degli elleni. Tuttavia, se leggiamo la Bibbia come la leggevano un tempo i Padri, anche in questi due passi possiamo cogliere l’allegoria di cui è carica ogni frase della Scrittura. La moltiplicazione dei pani contiene in sé la visione profetica del pane "sceso dal cielo", come si definisce Cristo stesso, è la chiara prefigurazione dell’Eucaristia. Gesù sazia con cinque pani e due pesci un’enorme folla di popolo; dopo la Sua resurrezione sazierà col proprio corpo generazioni e generazioni di cristiani. "Tu infatti o Cristo Dio nostro sei colui che offre e colui che viene offerto; colui che riceve e colui che viene distribuito", si dice in una preghiera sacerdotale della liturgia ortodossa. Una delle vocazioni apostoliche consiste appunto nell’adempiere questa profezia: compiere il sacramento della moltiplicazione dei pani, quando ormai Cristo non è più tra noi nella carne, "creare nella memoria di Cristo", nel pane eucaristico che diventa il Suo corpo e la Sua Chiesa, mettendosi però in disparte nel far questo. Essere la parola di Gesù, il gesto di Gesù, l’annuncio di Gesù, il miracolo compiuto dalle Sue mani, infine la Sua stessa presenza sacramentale, senza mai coprire neppure un lembo di questa presenza con se stessi.
La moltiplicazione eucaristica dei pani, accanto all’annuncio del Verbo, è lo scopo e il significato interiore dell’apostolato, che è volto innanzitutto a "moltiplicare" Cristo stesso, il Suo nome, la Sua vita, la Sua opera di salvezza. Questa moltiplicazione è già iniziata durante la vita del Salvatore, quando ha preso a diffondersi rapidamente sulla terra l’annuncio che le profezie si sono avverate, che il Messia è venuto sulla terra, che il Verbo di Dio parla agli uomini per bocca di Gesù. I greci giunti per la festa a Gerusalemme alla vigilia della Pasqua "si avvicinarono a Filippo… e gli chiesero: "Signore, vogliamo vedere Gesù". Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose: "È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo"" (Gv 12, 22-23).
Gesù sa che il suo cammino terreno ormai volge al termine. Inviato dal Padre celeste solo alle "pecore perdute della casa d’Israele" (Mt 15, 24), il Messia di cui parlavano la Legge e i profeti, va verso la crocifissione, per poi "essere glorificato" come Signore di tutti i popoli. L’incontro con gli stranieri anticipa la Sua glorificazione, che sarà opera dello Spirito Santo e degli apostoli. Questi dovranno diventare testimoni della nuova era, lavoratori e portatori dell’annuncio pasquale. Questo annuncio è destinato a tutti i popoli. La confessione di Andrea e Pietro parlerà per bocca dei loro lontani e ignoti discendenti. Il nome di Cristo sarà udito fino agli estremi confini della terra.
"Per tutta la terra è corsa la loro voce, e fino ai confini del mondo le loro parole" (Rm 10, 18), ricorderà san Paolo il Salmo 18.
Il territorio di Andrea
Di qui inizia la divisione del mondo in confini, che poi diventeranno i territori apostolici.
"I confini della terra", leggiamo nella Storia della Chiesa russa di Anton Kartas'ov, "sono soltanto il compito massimo, lo scopo, la direzione. Da Gerusalemme sono tracciati idealmente dei raggi, e i settori compresi fra di essi rappresentavano i territori della missione apostolica, che per le loro dimensioni universali superavano le possibilità fisiche e la durata stessa della vita di un uomo. Gli apostoli, recandosi a predicare nella direzione assegnata a ciascuno… venivano mandati dallo Spirito Santo… esattamente in quei determinati paesi, quindi essi in linea di principio, sul piano spirituale (e su quello concreto, nella persona dei loro continuatori e successori) diventavano gli apostoli di quei determinati paesi e dei popoli che li abitavano; erano i loro protettori celesti nella storia, per sempre". (2)
Sicuramente dopo la Storia della Chiesa russa scritta da E. Golubinskij, la versione per cui l’apostolo Andrea sarebbe approdato nella regione del fiume Dniepr e avrebbe benedetto il luogo dove, a distanza di cinque secoli, doveva sorgere la città di Kiev, non è più considerata come un fatto reale, scientificamente dimostrabile, e tuttavia la realtà spirituale di questa tradizione rimane valida e viva ancor oggi. Per altro, il senso di una tradizione può cambiare col tempo, obbedendo a quello che "lo Spirito suggerisce alle Chiese", come dice l’Apocalisse. Per noi oggi non è tanto importante il fatto della diretta discendenza apostolica del cristianesimo nella Rus’, di cui tanto andavano fieri i nostri antenati, ma piuttosto il fatto di concepire la Chiesa russa come parte del territorio della Gerusalemme storica e celeste. In sostanza, i confini a cui gli apostoli sono stati inviati dallo Spirito Santo, e dove magari essi non sono mai giunti fisicamente, sono diventati nuove province del regno di Dio, che "viene" nella penitenza predicata dal Battista, nella fede messianica abbracciata da Andrea, nella confessione di Pietro divenuto roccia della Chiesa, nelle visioni di Giovanni che ha dischiuso i misteri del regno di Cristo. Difficilmente qualcuno di noi potrebbe affermare che un territorio apostolico, il nostro o uno altrui, si è mantenuto perfettamente fedele a questo regno, tuttavia la nostra infedeltà non rende la vicinanza del regno più lontana, la rende solo umanamente più difficile. Poiché, come dice Gesù, "Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono" (Mt 11, 12).
Questo "impadronirsi" del regno di Dio, che come compito interiore è affidato al singolo cristiano e a tutta la Chiesa, porta in sé una memoria storica e al tempo stesso escatologica. Il regno di Dio è venuto nel Cristo storico, crocifisso sotto Ponzio Pilato, che ha inviato i "pescatori di uomini" perché lo portassero in tutta la terra, ma questo regno deve ancora venire nel "regno del secolo futuro", nel "Figlio dell’uomo che viene sopra le nubi del cielo" (Mt 24, 30). E tuttavia i due regni non sono divisi come sono divise le nostre Chiese; il territorio terreno del Salvatore non è diviso da quello celeste e non si contrappone ad esso, sono le due realtà dell’unico regno, del quale "ci si impadronisce" per gli sforzi apostolici, cui spetta il compito di aprire la strada a questo regno nella storia, di legare le due realtà, quella passata e quella futura in una sola, che diventerà un presente indescrivibile, la vita in Dio. Agli apostoli (e quindi ai loro successori) è dato lo spazio, "i confini della terra" cui sono stati mandati, ma è dato anche l’intero tempo storico, l’intero cammino da un regno all’altro da percorrere. E non soltanto percorrere, ma portarvi tutta il proprio territorio terreno, per inserirlo nel futuro regno di Cristo, che non avrà mai fine.
Perciò, se la Chiesa russa rimane "territorio mistico" dell’apostolo Andrea, anche l’intero cammino storico di questa Chiesa, dalla leggendaria benedizione del I secolo fino all’ingresso nel regno del secolo futuro, si può considerare tempo del suo apostolato, iniziato già in Galilea, poi dopo la Pentecoste nella Gerusalemme storica, e ritornato infine alla Gerusalemme celeste. E in questa nuova Gerusalemme si incontreranno alla fine, e si uniranno tutti i territori apostolici con tutte le loro Chiese. Così, dopo l’Ascensione, si incontrarono a Gerusalemme i discepoli di Cristo; "salirono al piano superiore dove abitavano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo di Alfeo e Simone lo Zelota e Giuda di Giacomo" (At 1, 13).
Questo piano superiore si è spalancato "fino agli estremi confini della terra" (At 1, 8).
Il Terzo millennio
Dov’è oggi questo piano superiore abitato dagli apostoli? Dove sarà domani? Certe volte guardiamo con tanto amore, quasi con passione, il nostro passato, la nostra tradizione e la preziosa eredità dei secoli trascorsi, che stacchiamo gli occhi dal futuro. Ma il futuro non lascia che ci dimentichiamo di lui. Viene, com’è venuto un tempo Giovanni il Battista, e parla di giudizio, di penitenza, dell’ira divina, del regno che si avvicina. Il giudizio si può manifestare nelle persecuzioni, com’è accaduto nel XX secolo alla Chiesa russa, o nell’asfissia spirituale, morale, culturale del cristianesimo che incombe inesorabilmente su di noi. Ciò che chiamiamo oggi "globalizzazione", se ne consideriamo l’aspetto più profondo, quasi intimo, è opera di una nuova razza umana, una razza che "non ha orecchi per sentire", come dice il Vangelo, che ha perso l’udito per la Parola di Dio, che perde la vista interiore e non ne vede il Volto.
Grazie ai mezzi per scambiarsi le informazioni, la terra fino ai suoi confini più estremi ci sta in pugno, come dice un proverbio inglese, il mondo è diventato la nostra ostrica (the world is our oyster), che possiamo mangiare come vogliamo. E tuttavia l’informazione stessa può mangiare, inghiottire o tagliare a fette noi, fare di noi il proprio schermo, un oggetto, un accumulatore. Penso che stiamo assistendo solo alle prime doglie del parto, che preannuncia la nascita di un mondo apparentemente nelle mani dell’uomo. E in questo mondo, sotto i nostri occhi si disperde, si volatilizza l’aria stessa di cui il cristianesimo respira. Le parole che erano dense di significato per noi 2000 anni fa, e in base alle quali continuiamo a comprenderci e a riconoscerci l’un l’altro - giudizio, penitenza, speranza, salvezza, preghiera, timor di Dio, rapporto col Signore - si disseccano, perdono il proprio contenuto mentale, e lentamente passano nella categoria degli oggetti da museo, venerandi, divertenti, dimenticati, praticamente inutili. Cosa sarà di tutti i territori apostolici e delle nostre Chiese storiche nell’aria rarefatta del nuovo millennio? A differenza di molti ortodossi, io non penso che non abbiamo niente da offrire alla storia futura, oltre a una rapida fine, cruenta e fiammeggiante. E se oggi viviamo in un’epoca di crisi del cristianesimo, in tempi di crescente apostasia, il cui acme non è ancora stato toccato, mi pare di cogliere al di là di questa un nuovo ritorno della Buona Novella, che non parlerà nella lingua di un mondo morto e sepolto, ma in quella del mondo che nasce sotto i nostri occhi, e gli sarà comprensibile, verrà recepita così come fu recepita due millenni fa: come il lieto annuncio della salvezza. La Buona Novella ritroverà se stessa immancabilmente anche in questa nuova esistenza che sembrerebbe così lontana dal cristianesimo, saprà ritrovare un terreno sotto i piedi, attraversare la terra "fino agli estremi confini", non in senso spaziale, infatti per la parola non c’è più spazio, ma in senso antropologico, saprà arrivare a nuovi "estremi confini" dell’uomo.
Come dev’essere la Chiesa di Cristo per percorrere il cammino che le sta davanti? Cosa deve rimanere e cosa deve rinnovarsi? Cosa, della sua eredità, è segnato col marchio incancellabile degli apostoli? Nel pormi queste domande torno col pensiero ad Andrea, il primo chiamato.
Il Vangelo di Andrea
L’immagine di Andrea nel Vangelo è resa con pochi tratti, apparentemente casuali. Ma nelle Sacre Scritture non c’è mai niente di casuale. Sono tratti precisi e lievi, tanto lievi che sembrano quasi confusi, se però li consideriamo con più attenzione creano una sorta di icona dell’apostolo, come l’immagine di una vetrata.
E quel poco che si dice di Andrea ci aiuta non solo a ricostruire la sua figura, ma anche a rileggere la Buona Novella a partire dai pochi segni che ne denunciano la presenza. Ovunque Andrea si presenta come un intermediario, come un messaggero. Porta suo fratello Simone, il quale diventerà principe degli apostoli, parla a Gesù degli elleni che Lo vogliono vedere, Gli riferisce le parole sui pesci e il pane che nutriranno una folla di uomini, e questo avviene alla vigilia della crocifissione e glorificazione di Gesù. Dietro a tutti questi segni si indovina un’allegoria: il "pescatore di uomini" li rende discepoli del Salvatore, il pane terreno diventa pane celeste, la mediazione fra Gesù e gli stranieri diventa missione, e la missione porta con sé l’annuncio pasquale. E in tutto questo vediamo l’apostolo quasi simile al suo primo maestro Giovanni, che poteva dire di sé: "Egli deve crescere e io invece diminuire" (Gv 3, 30).
Giovanni annunciava il giudizio e il regno, ma sia il giudizio che il regno vengono sempre, sono nascosti nella nostra storia terrena. Il giudizio, o crisi, può toccare tutto, anche ciò che consideriamo sacro per noi, inseparabile dalla nostra fede. Eppure, riflettendo sul destino del cristianesimo nel terzo millennio, mi piace ricordare le parole di Teilhard de Chardin: dietro a ogni crisi Cristo ritorna rinnovato. E dopo ogni crisi, in ogni epoca fino alla fine dei secoli, verrà gente nelle cui parole la presenza dell’apostolo Andrea non farà che rinnovarsi, come si rinnova un’icona:
"Abbiamo trovato il Messia, che significa il Cristo".
Note
1) Patrologia Greca 59, 120-121.
2) A. Kartas'ov, Oc'erki po istorii Russkoj Cerkvi, Mosca 1993, v. 1, pp. 50-51.
Charta Oecumenica
Linee guida per la crescita della collaborazione
tra le Chiese in Europa
KEK - CCEE
(Conferenza delle Chiese Europee
Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa)
- a seguire l'esortazione apostolica all'unità dell'epistola agli Efesini (Ef 4,3-6) e a impegnarci con perseveranza a raggiungere una comprensione comune del messaggio salvifico di Cristo contenuto nel Vangelo;
- a operare, nella forza dello Spirito Santo, per l'unità visibile della Chiesa di Gesù Cristo nell'unica fede, che trova la sua espressione nel reciproco riconoscimento del battesimo e nella condivisione eucaristica, nonché nella testimonianza e nel servizio comune.
- a far conoscere alle altre Chiese le nostre iniziative per l'evangelizzazione e a raggiungere intese in proposito, per evitare in tal modo una dannosa concorrenza e il pericolo di nuove divisioni;
- a riconoscere che ogni essere umano può scegliere, liberamente e secondo coscienza, la propria appartenenza religiosa ed ecclesiale. Nessuno può essere indotto alla conversione attraverso pressioni morali o incentivi materiali. Al tempo stesso, a nessuno può essere impedita una conversione che sia conseguenza di una libera scelta.
- a superare l'autosufficienza e a mettere da parte i pregiudizi, a ricercare rincontro reciproco e a essere gli uni per gli altri;
- a promuovere l'apertura ecumenica e la collaborazione nel campo dell'educazione cristiana, nella formazione teologica iniziale e permanente, come pure nell'ambito della ricerca.
- a operare insieme, a tutti i livelli della vita ecclesiale, laddove ne esistano i presupposti e ciò non sia impedito da motivi di fede o da finalità di maggiore importanza;
- a difendere i diritti delle minoranze e ad aiutare a sgombrare il campo da equivoci e pregiudizi tra le Chiese maggioritarie e minoritarie nei nostri paesi;
- a pregare gli uni per gli altri e per l'unità dei cristiani;
- a imparare a conoscere e ad apprezzare le celebrazioni e le altre forme di vita spirituale delle altre Chiese;
- a muoverci in direzione dell'obbiettivo della condivisione eucaristica.
- a proseguire coscienziosamente e con intensità il dialogo tra le nostre Chiese ai diversi livelli ecclesiali e a verificare quali risultati del dialogo possano e debbano essere dichiarati in forma vincolante dalle autorità ecclesiastiche.
- a ricercare il dialogo sui temi controversi, in particolare su questioni di fede e di etica sulle quali incombe il rischio della divisione, e a dibattere insieme tali problemi alla luce del Vangelo.
- a intenderci tra noi sui contenuti e gli obbiettivi della nostra responsabilità sociale e a sostenere il più possibile insieme le istanze e la concezione delle Chiese di fronte alle istituzioni civili europee;
- a difendere i valori fondamentali contro tutti gli attacchi;
- a resistere a ogni tentativo di strumentalizzare la religione e la Chiesa a fini etnici o nazionalistici.
- a contrastare ogni forma di nazionalismo che conduca all'oppressione di altri popoli e di minoranze nazionali e a ricercare una soluzione non violenta dei conflitti;
- a migliorare e a rafforzare la condizione e la parità di diritti delle donne in tutte le sfere della vita e a promuovere la giusta comunione tra donne e uomini in seno alla Chiesa e alla società.
- a sviluppare ulteriormente uno stile di vita nel quale, in contrapposizione al dominio della logica economica e alla costrizione al consumo, accordiamo valore a una qualità di vita responsabile e sostenibile;
- a sostenere le organizzazioni ambientali delle Chiese e le reti ecumeniche che si assumono una responsabilità per la salvaguardia della creazione.
- a contrastare tutte le forme di antisemitismo e antigiudaismo nella Chiesa e nella società;
- a cercare e intensificare a tutti i livelli il dialogo con le nostre sorelle e i nostri fratelli ebrei.
- a incontrare i musulmani con un atteggiamento di stima;
- a operare insieme ai musulmani su temi di comune interesse.
- a riconoscere la libertà religiosa e di coscienza delle persone e delle comunità e a fare in modo che esse, individualmente e comunitariamente, in privato e in pubblico, possano praticare la propria religione o visione del mondo, nel rispetto del diritto vigente;
- a essere aperti al dialogo con tutte le persone di buona volontà, a perseguire con esse scopi comuni e a testimoniare loro la fede cristiana.
Metropolita JEREMIE, presidente della Conferenza delle Chiese Europee | MILOSLAV card. VLK, presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali d'Europa |
Entrano in conflitto la testimonianza interiore dello Spirito e l'incidenza di un magistero ecclesiastico e delle confessioni di fede. La discussione ecumenica su Maria non può svincolarsi da questa problematica che dev'essere risolta in altra sede.
La Madre di Dio
nella celebrazione
della Grande Settimana bizantina
P. Ermanno M. Toniolo, o.s.m.
Premessa
1. Anche se questa sera non siamo in un contesto liturgico, il solo capace di introdurci a comprendere la presenza di Maria nella Settimana Santa bizantina, ci poniamo tuttavia spiritualmente nel cuore delle celebrazioni, come si svolgono nelle chiese: celebrazioni fatte innanzitutto di ambiente sacro, attorno all'altare e agli altri segni visibili della invisibile Presenza; fatte di icone, che trasmettono incessantemente i loro molteplici messaggi convergenti al Messaggio, che è Cristo; celebrazioni fatte di testi, di riti, di gesti, di canti, che ripresentano il Signore tanto nella sua veste visibile, che può essere percepita dai sensi sotto i veli della Parola e del Sacramento (o di altri segni, come la croce, l'epitaffio, ecc.), ma soprattutto lo ripresentano nella sua realtà divina, fonte di Luce, di Spirito Santo e di vita, raggiungibili solo attraverso le vie della conoscenza spirituale.
Attorno al suo mistero celebrato nell'oggi della comunità che lo celebra, gravitano tutti gli esseri creati, celesti e terrestri, angeli, uomini e creature, anche i demoni, conculcati e spodestati dalla sua umile e onnipotente signoria.
La liturgia bizantina, in modo privilegiato rispetto alla liturgia occidentale, si presenta come una immensa mistagogia: un entrare cioè progressivamente delle creature nel mistero conosciuto, attualizzato, sperimentato; mistagogia della quale il vero mistagogo è Cristo col suo Spirito, mentre tutti gli altri, anche Maria, vi sono da lui introdotti, ciascuno a suo modo e secondo il proprio ruolo.
2. La Pasqua o meglio il Mistero Pasquale, da tutte le chiese e da sempre è stato ritenuto e celebrato come il vertice della rivelazione, il culmine dell'esperienza conoscitiva e mistica, sia comunitaria che personale: la Pasqua del Signore è Pasqua dei fedeli, che rinascono a Pasqua dal fonte battesimale: sono cioè illuminati dal Cristo morto e risorto, immersi nel suo mistero di morte e di Vita.
Si capisce l'importanza vitale della Pasqua, e come essa venga celebrata solennissimamente nell'anno liturgico, fin dall'antichità, con una quaresima di preparazione e cinquanta giorni di festa; come venga settimanalmente celebrata nella pasqua ebdomadaria, la domenica; e come caratterizzi la santificazione delle ore del giorno, specialmente la preghiera della sera (lucernario e vespri a Cristo, luce che non tramonta) e la preghiera del mattino (Cristo, sole di risurrezione e di vita).
3. Evidenziare dunque la presenza di Maria nella Settimana Santa è coglierne il significato più pregnante: la sua maternità protesa alla Pasqua, la sua figura come modello ecclesiale nel cuore stesso del mistero di Cristo, cioè al vertice della rivelazione del mistero salvifico di Dio.
Questo lo fa molto relativamente la liturgia occidentale, anche nella sua forma restaurata dopo il Concilio Vaticano II; lo fa invece, in modo singolare, la liturgia bizantina.
La Settimana Santa bizantina: prima parte
1. Dal sabato di Lazzaro al Giovedì Santo
La Grande Settimana comincia con il Sabato che precede la domenica delle Palme, dedicato alla risurrezione di Lazzaro: è il "Sabato di Lazzaro". La Settimana Santa si trova così fra due Sabati, che celebrano rispettivamente due risurrezioni, una relativa all'altra: quella di Lazzaro, quella di Cristo (non dimentichiamo che l'annuncio della risurrezione in rito bizantino si fa ancora il Sabato Santo mattina, come fino a poco tempo fa si faceva anche nel rito latino). Fino a questo giorno la liturgia era intrisa del senso del peccato e della conversione; ora entra già nella prospettiva della morte e della risurrezione.
La Domenica delle Palme celebra Gesù che entra in Gerusalemme come Re messianico e Sposo, accompagnato da fanciulli innocenti e da folle umili di popolo, che raffigurano il resto fedele di Israele di cui parlano i profeti: questo Israele, infatti, è come la sposa casta che accoglie il suo Re e Sposo, lo riconosce nella luce dello Spirito, lo acclama e lo confessa, quale Egli è, pur nella veste povera della sua umanità: egli infatti viene come agnello per essere immolato per il riscatto di tutti.
Sul tema comune di Cristo-Sposo, delle nozze di Dio con l'umanità redenta, dell'accoglienza o del rifiuto della redenzione, si articolano i temi dei primi tre giorni della Settimana Santa: il lunedì ha come tema congiunto la figura del patriarca Giuseppe ebreo venduto dai fratelli e il fico maledetto da Gesù, simbolo dell'Israele infedele, che non ha accolto il dono di Dio; il martedì ha per tema la parabola delle dieci vergini che attendono - vigilanti o meno - lo Sposo che viene; il mercoledì commemora la donna - una donna "peccatrice", sottolinea la liturgia - che unse il Signore con il miron: ma è Gesù il Mironeffuso, lo Sposo celebrato dal Cantico dei cantici, venuto a lavare la Sposa - l'intera umanità - nel suo sangue. In questo mercoledì inizia la presenza oscura di Giuda: mentre la peccatrice è il tipo degli uomini che confessando il peccato ricevono il perdono di Dio, Giuda è il tipo di chi non capisce e non accoglie: la donna viene trasfigurata dal perdono, egli resta imprigionato nella sua passione, accecato dal denaro:
"Giuda, il falso,
preso da amore per il denaro,
medita di tradire con inganno te, o Signore,
che sei il Tesoro della vita" (I, p. 177)
Si chiude così la prima parte della Settimana Santa, e si entra nel Triduo sacro.
2. La presenza di Maria nella prima parte della Settimana Santa.
Potremmo dire che è una presenza sfumata: fa parte dei contesti oranti di tutto l'anno liturgico bizantino. Ma qui, la sua figura di Vergine-Madre mentre il Figlio, lo Sposo dell'umanità, sta per entrare nella sua passione, si carica inevitabilmente di pathos: perché in lei egli ha sposato questa umanità, nascendo; e perché per mezzo di lei noi tutti, peccatori, speriamo il perdono.
Ecco due testi, fra i non molti presenti nell'ufficiatura. Il primo è di Andrea di Creta (+740):
"Dimora santa di Dio,
ti sei rivelata, o Vergine,
in te infatti il Re dei cieli ha abitato corporalmente,
e da te è uscito, bello,
dopo aver riplasmato in sé,
divinamente, l'uomo".
Il secondo è del monaco Cosma di Maiuma (+751):
"O Tuttapura,
che con il Figlio tuo hai confidenza di Madre,
non trascurare la cura di noi della tua stirpe,
perché te sola presentiamo al Signore,
noi cristiani, come offerta gradita".
La Settimana Santa bizantina: il Triduo Sacro
Con l'immagine soavissima del Signore, Pane celeste e divino che nutre l'universo, e in controluce, con l'immagine di Giuda, il traditore, che medita di vendere l'Inapprezzabile, la liturgia bizantina introduce i fedeli nel Triduo sacro.
È il Theotokion di Compieta che, in certo modo, fa da ponte alle precedenti celebrazioni incentrate su Cristo Sposo, e alle seguenti, che commemorano la sua Passione. Così canta l'ultimo tropario del Grande Mercoledì:
"Tu sola ti sei rivelata
Talamo celeste e Sposa sempre vergine,
portando nel tuo seno Dio
e generandolo incarnato da te senza mutamento.
Perciò ti esaltano tutte le generazioni,
con fede ortodossa,
come Sposa e Madre di Dio".
1. Il Grande Giovedì
"I Padri divini, che hanno disposto bene ogni cosa, avendo ricevuto questa tradizione dai divini apostoli e dai santi evangeli, ci hanno tramandato di celebrare in questo giorno quattro misteri: il santo Lavacro, la mistica Cena (cioè la consegna dei nostri tremendi Misteri), la Preghiera di Gesù e il Tradimento". Così dice la memoria liturgica.
Il tema principale del Giovedì Santo è la Lavanda dei piedi ("il santo Lavacro") e la Cena. La Lavanda prefigura il lavacro battesimale: ne sono "illuminati" gli apostoli tutti, ad eccezione di Giuda, che invece si ottenebra sempre più, fino a non comprendere ormai nulla del suo Signore, né parole né gesti. La Cena è il Banchetto della comunione: della conoscenza innanzitutto del Mistero eucaristico, e della comunione col Signore della gloria, che trasfigura l'uomo. È qui, in apertura dell'Ufficio mattutino, che si ritrova l'unico accenno a Maria, ma immensamente significativo, nel canone di Andrea di Creta.
"La Sapienza infinita di Dio,
causa universale, elargitrice di vita,
si è fabbricata la casa
dalla Madre pura ignara d'uomo.
Rivestito infatti del tempio del suo corpo,
gloriosamente si è coperto di gloria
il Cristo, Dio nostro!".
È il Banchetto della Sapienza divina, che Gesù imbandisce donando il suo Corpo e il suo Sangue e convocando gli amici: è il Banchetto sacramentale e sapienziale: Maria è alla radice, Madre pura, ignara d'uomo, di quel purissimo Corpo e di quel Sangue divino. Chi se ne ciba con vera fede, è introdotto ai Misteri tremendi, al segreto di Dio.
2. Venerdì Santo
"Oggi si celebra la memoria della santa, salvifica e tremenda passione del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo... e inoltre anche la confessione salvifica sulla croce del ladro riconoscente crocifisso con lui". Così il Sinassario. Da una parte, si staglia potente la luce della Croce; dall'altra, il ladro che si confessa peccatore e che riconosce in Cristo crocifisso il Signore del Regno:
"Ricordati di me!". In filigrana, l'immagine tortuosa di Giuda, che non volle comprendere: i testi liturgici ripetono, quasi come un ritornello: "Ma l'empio Giuda non volle comprendere!".- Perché?
"Oggi Giuda abbandona il Maestro
e assume il diavolo;
è accecato dalla passione del danaro
e cade fuori della luce, ottenebrato...".
La Croce di Cristo, che per amore si è fatto povero ("il Povero" del salmo 40), povero fino a morire nudo sulla croce, per arricchirci con la sua povertà, non è soltanto il segno di contraddizione predetto da Simeone: è luce per chi l'accoglie, tenebra per chi la rifiuta. Il ladro pentito ne è illuminato, ed entra nel Regno; Giuda all'opposto scende nella morte.
Ma è proprio in questo contesto che s'innalza al sommo la figura di Maria. Nel cuore dell'Ufficio mattutino (l'orthros) viene cantato il proemio e la prima stanza del celebre kontakion di Romano il Melode su Maria al Calvario: il proemio verrà poi ripetuto in tutte le ore diurne. Suona così:
"Venite, esaltiamo tutti
Colui che per noi è stato crocifisso!
Maria lo vide sul legno, e diceva:
Anche se patisci la Croce,
tu sei il mio Figlio e mio Dio!".
Più del ladro, del ladro teologo, che riconosce in Cristo il Re del regno, Maria è giunta al vertice della conoscenza mistica. Si è trattato anche per lei di un lungo e verginale cammino di fede: tutto il kontakion di Romano il Melode mette in luce questo suo progressivo penetrare nelle profondità, inaccessibili alla ragione, della kenosi suprema di Cristo, dell'ultimo abbassamento della sua infinita condiscendenza per salvare l'uomo:
"Vedendo il proprio Agnello condotto al macello,
Maria, l'Agnella, lo seguiva
con le altre donne, consumata dal dolore,
e diceva così: Dove vai, Figlio?
Forse ci sono altre nozze a Cana
e là ora ti affretti per fare di nuovo il vino dall'acqua?
Vengo con te, Figlio?
O meglio, rimango con te?
Dimmi una parola, o Parola,
non passare accanto a me in silenzio, tu che mi hai serbata pura,
perché tu sei il mio Figlio e mio Dio!".
La Settimana Santa contempla spesso la sofferenza di Maria ai piedi della croce. Il titolo "Agnella", che è attribuito a Maria, è un titolo antichissimo. Lo ritroviamo per la prima volta nella Omelia sulla Pasqua di Melitone di Sardi, il quale così descrive Cristo Agnello immolato:
"E' lui, che in una Vergine s'incarnò,
che sul legno fu sospeso,
che in terra fu sepolto
che dai morti fu risuscitato,
che alle altezze dei cieli fu elevato.
E' lui l'Agnello muto,
è lui l'Agnello sgozzato,
è lui che nacque da Maria, l'Agnella pura..."
Ora, secondo l'Esodo l'agnello pasquale doveva essere senza macchia. Tale è Cristo, l'Innocente, l'Immacolato. Ma anche Maria è detta Agnella, e non solo con riferimento pasquale, come se soltanto la sua maternità sia orientata all'immolazione pasquale; è detta Agnella, in simmetria con l'Agnello, anche per la sua purezza, la sua verginale immacolata bellezza. I libri liturgici sono attenti ad indicare la purezza dell'Agnella. Al momento della sua presentazione al tempio era già l'Agnella senza macchia, la pura colomba. A Natale ugualmente si canta l'Agnella senza macchia che sta per dare alla luce l'Agnello: perché l'Agnello nasce per essere immolato. Ma è soprattutto sul Golgota che l'Agnella senza macchia viene cantata con una insistenza sorprendente. Agnella immacolata, immacolatissima Agnella (Panamòmetos): son titoli che attirano l'attenzione sull'ineffabile purezza della Vergine: Agnella vittima che si unisce al suo Agnello immacolato per portare con lui il peccato del mondo. Più la Vittima è pura, più si accosta a Dio; più è accetta, più collabora alla Redenzione. Un tropario delle lodi del Venerdì Santo, mette in risalto questa sua partecipazione alla sofferenza del Figlio:
"Oggi la Vergine immacolata,
vedendoti innalzato sulla croce, o Verbo,
soffriva nelle sue viscere di madre,
aveva il cuore trafitto amaramente,
e, gemendo con dolore dalle profondità dell'anima,
si lacerava le guance, si strappava i capelli,
consunta dalla sofferenza.
Perciò, battendosi il petto, esclamava flebilmente:
Ahimè Figlio divino, ahimè Luce del mondo!
Perché sei tramontato ai miei occhi,
o Agnello di Dio?" (II, pag.90).
Accanto al Signore che volontariamente si immola, il solo Santo, l'Immacolato per natura, può stare la Madre, e; in gradini più bassi, il vergine Giovanni, le donne perdonate dai loro peccati e ora fedeli. Quando Gesù dall'alto della croce vide il supremo dolore della Madre, contemplò anche questa meravigliosa purezza che aveva ammirato prima della creazione del mondo. Mai come in questo momento la Madre sua era paragonabile ad un giglio tra le spine. Maria è la tutta pura.
Perciò è la sola che possa stare sempre accanto al Figlio; la sola che possa con libertà parlargli di noi, come afferma esplicitamente un altro tropario di questo Grande Venerdì:
"Poiché non abbiamo parrisia
per i molti nostri peccati,
o Madre di Dio Vergine,
supplica tu il Nato da te...
Non sdegnare le suppliche dei peccatori,
o Tuttasanta,
perché è misericordioso e potente nel salvare
lui che ha accettato anche di patire per noi".
Ma quando il Figlio della Tuttapura è steso sul legno, la sua contemplazione è inchiodata alla croce, senza staccarsene: vede, guarda, contempla. L'ultimo grado della conoscenza spirituale quaggiù, che necessariamente diventa comunione e fusione, è l'annientamento del Figlio-Dio, fino ad essere brutalmente legato, schiaffeggiato, flagellato, coronato, sputato in faccia, condannato e ucciso: e tutto questo, solo perché egli lo vuole! L'Agnella contempla il Figlio, l'Agnello, così umanamente sfigurato: lo contempla immolato, ingiustamente condannato, percosso, inchiodato, crocifisso, morto... I riferimenti a Cristo in croce sono innumerevoli. Il tropario delle lodi del Venerdì della Passione si rivolge alla Madre:
"Vedendoti appeso al legno, o Cristo,
te, il Creatore di tutte le cose e Dio,
Colei che senza seme ti aveva generato,
diceva amaramente: Figlio mio,
dove è scomparsa la bellezza del tuo volto?
Non posso vederti iniquamente crocifisso" (II, pag. 91).
Si potrebbe dire che tutta l'attenzione di Maria è centrata su di Lui che muore in croce. Più che la dolorosa passione, è la sua morte che Lei medita; e questa contemplazione di dolore la fa partecipare al suo sacrificio. Maria, Agnella pura, intrisa di dolorosa passione, "vede" Gesù, nella sua misteriosa indecifrabile natura divina nascosta sotto il velo di carne, ora sfigurato e confitto alla croce: vede, contempla, crede. Nonostante Cristo muoia sulla croce, Maria crede in Lui, crede che Lui è Dio. Ha percorso anche lei il suo cammino di fede, e cioè di conoscenza progressiva del Mistero che ora le si rivela in tutta la sua cruda e onnipotente realtà: le stanze del kontakion di Romano, a partire dalla prima che viene cantata il Venerdì Santo, lo mostrano in modo inequivocabile: anche lei, superando lo stupore proprio di ogni creatura davanti alle manifestazioni divine, è stata introdotta nel Mistero: ieri l'angelo l'aveva introdotta nel Mistero dell'incarnazione, oggi è il Figlio che la introduce nel mistero della sua Passione, con la quale liberamente vuol salvare l'uomo.
Proprio per questo l'Ufficio del Venerdì Santo ripete come ritornello anche nelle Grandi Ore il proemio di Romano il Melode, quasi aggrappandosi alla statura della Madre-Vergine, icona dell'itinerario di fede e del vertice umano della contemplazione:
"Maria lo vide sul legno e diceva:
anche se sopporti la croce,
tu sei il mio Figlio e mio Dio!" (II, pag. 101).
3. Il Grande Sabato
Scrive Costantino Andronikov:
"Liturgicamente, il sabato introduce alla domenica; il Grande Sabato, alla domenica di Pasqua. Metafisicamente, ma anche esistenzialmente, il mistero del Sabato si rivela nell'Ottavo Giorno del Signore. Tutto è compiuto e tutto è in germe. La condiscendenza vertiginosa del Figlio di Dio raggiunge il punto estremo della sua curva. Si sta abbozzando la risalita sfolgorante. La Kènosi è giunta al suo termine; la glorificazione è già intrapresa. La notte si chiude nel riposo; sta per spuntare il giorno senza tramonto. Il fondo dell'abisso assoluto dell'abbandono, perfino da parte del Padre, nella solitudine mortale, è stato raggiunto. Sta per cominciare l'ascensione del Re dell'universo con la sua Chiesa nascente, nella pienezza trinitaria. Tutti gli uomini, vivi o morti, possono fin d'ora stringere la mano che li aveva all'inizio formati dal nulla e che li innalza verso la vita eterna. Tutti gli uomini possono ormai rispondere alla chiamata della Parola incarnata che li ha fatti a sua immagine e che ha condiviso la loro sorte fino al sepolcro, tutti, a partire dal primo che conteneva l'umanità in germe: il Cristo è andato a cercare Adamo in capo al mondo e "lo ha trovato sotto terra" (prima stanza). Il Vivente afferra il morto. La salvezza si apre".
Il tema liturgico del Sabato Santo è così indicato dal Sinassario:
"Oggi si celebra la sepoltura del Corpo divino e la discesa agli inferi del Signore e Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. Per questi misteri il genere umano è stato richiamato dalla corruzione alla vita eterna".
L'azione liturgica più singolare, che avvolge di profondo significato mistagogico e di intima commozione i fedeli, è il rito dell'epitaphion. Così Maria Bianco descrive il termine epitaphion e il rito del Sabato Santo:
"Epitafion. In greco classico con questo termine si intende soprattutto l'elogio funebre; ma nella lingua liturgica più abitualmente significa il velo ricamato che rappresenta il corpo del Signore nell'atto della sua sepoltura. Esso è oggetto di specialissima venerazione il venerdì e il sabato santo. Tutto l'anno questo velo è onorevolmente custodito in Chiesa, in un quadro, assieme alle sante icone; ma il venerdì santo è deposto sull'altare e su di esso si appoggia il libro dei santi evangeli. Poi a Vespro, al canto dell'Apolitikion Il nobile Giuseppe, l'epitafion è solennemente riposto in un'arca, figura del santo Sepolcro, tutta ricoperta di fiori e di profumi. Là tutto il popolo accorre a rendergli omaggio. Ci si prostra due volte fino a terra, facendosi il segno di croce, si bacia il Vangelo e l'immagine di Cristo impressa sul velo, poi di nuovo ci si prostra fino a terra, segnandosi. C'è pure l'abitudine di dare ai fedeli, in segno di benedizione, qualche fiore che abbia toccato la santa immagine. Davanti a quest'arca il sabato santo si cantano gli enkomia, in persona delle sante mirofore; l'epitafion nella sua arca è portato in processione fuori del tempio al canto di un lungo tropario proprio. Questa processione notturna è uno dei momenti più forti della pietà popolare in tutto l'anno liturgico. Infine, all'inizio della veglia pasquale, la notte di Pasqua, l'epitafion è tolto dall'arca e deposto di nuovo sull'altare, dove resterà fino alla vigilia dell'Ascensione" (M. Bianco, Liturgia orientale della settimana santa, vol. II, p. 248).
Gli "Enkomia" o Elogi funebri o Lamenti o Compianto
Gli Enkomia sono una lunga serie di tropari suddivisi in tre stanze, e cantati a cori alterni assieme ai versetti del salmo 118: 156 versetti, 156 tropari. Dal punto di vista celebrativo, essi sono il cuore della commemorazione liturgica. Collocati nell'ufficio mattutinale (orthros), fungono da intimo legame tra la Passione consumata in Croce, la folgorante discesa negli inferi, il pianto delle mirofore al sepolcro, la trepida attesa della risurrezione. Come in una tragedia greca - si tratta infatti della suprema Tragedia, diventata vita per il mondo - il coro, composto da un piccolo gruppo: la Madre, Giovanni, Giuseppe, Nicodemo, le pie donne, chiama a raccolta tutto il creato e dà voce agli eventi, dalla crocifissione alla sepoltura, dalla discesa negli inferi all'annuncio già prossimo della vittoria pasquale. Trabocca, nei testi, lo sconvolgente stupore davanti ai due poli che qui si toccano e si incrociano: l'infinita grandezza, potenza, signoria del Verbo, e l'estrema umiliazione umana che ha voluto spontaneamente subire con la sepoltura di tre giorni, per scardinare le potenze dell'inferno che ci tenevano schiavi e far uscire definitivamente i morti dalla morte. Tutto il creato è spettatore attonito di questo evento divino: trema, condivide il pianto, adora e attende.
Davanti alla sepoltura di Cristo, gli Angeli, contemplando morto il loro Creatore, rimangono esterrefatti e si coprono il volto: perché egli è la Vita che non può morire. Il sole si oscura, perché è tramontato il Sole senza tramonto; la terra è sconvolta fin nelle viscere, quando il Verbo che è luce si nasconde sotto terra. Soltanto gli uomini ciechi ed empi, mentre Dio muore, insultano e bestemmiano.
Lo stesso Ade, che si apre ad accogliere come vinto il Signore che è stato crocifisso, viene sgominato e vinto dal Salvatore,
"il Vivificante, che lo spoglia delle sue prede e fa risorgere i morti da secoli".
In questo contesto immenso, che è insieme pianto e canto, primeggia la Madre: i testi le assegnano un posto di privilegio. È la Vergine-Madre, colei che lo ha generato; è l'Agnella che l'ha visto morire, ed ora lo deve consegnare al sepolcro. Il suo cuore è una diga che si apre in torrenti di lacrime:
"O Dio e Verbo! Mia gioia!
Come potrò sopportare la tua sepoltura di tre giorni?
Ora le mie viscere di madre sono dilaniate!".
"Chi mi darà pioggia e fonti di lacrime
per piangere il mio dolce Gesù?
diceva la Vergine Sposa di Dio".
E chiamando al compianto tutte le creature, sembrava dir loro così:
"Monti e vallate, e voi figli dell'uomo,
e creature del cosmo, piangete!
fate cordoglio con me, la Deipara!".
Il dolore della Vergine, però, anche se straripante, era insieme pienezza di adorazione, di cui faceva omaggio supremo al suo Figlio Dio:
"Gesù, mia gioia, tu amata mia luce,
perché t'han posto in un buio sepolcro?
oh, misterioso umiliarsi di Dio!".
Ancor più grande dell'immenso dolore di Madre e di Theotokos è la fede di Maria: una fede discepolare, protesa come tutta la sua vita verso la Pasqua del Signore. Nel contesto della Settimana Santa bizantina, fortemente orientata alla Risurrezione, gli innografi hanno voluto quasi ritrarre nei sentimenti della Madre l'attesa e la speranza dell'uomo, che Cristo ha redento e immerso nei fulgori della risurrezione: anche se tuttora siamo nel nostro Sabato Santo, segnato dalla morte, e dalla figura di un mondo che sarà trasfigurato. L'icona di Maria del Sabato Santo è l'ultima icona della speranza cristiana: un'immagine evangelica di Maria, già tratteggiata da due testi di Luca: "Maria conservava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore" (Lc 2, 19.51). La Vergine durante la vita del Signore aveva ascoltato e accolto con fede e custodito gelosamente nel cuore non solo la predizione dolorosa della sua morte, ma anche l'annuncio della sua gloriosa risurrezione dopo tre giorni. Qui, al sepolcro del Figlio, davanti a una tomba sigillata - sepolcro nuovo come il suo grembo di vergine da cui era nata la Vita - è Lei che ricorda al Figlio sepolto la fedeltà alla parola che ha dato:
"Fiumi di lacrime effonde la Madre
al monumento ove giaci sepolto;
ti grida: Sorgi, perché l'hai predetto!".
È su questa fede dolorosa e fiduciale della Madre, compartecipata dalla Chiesa, e sulla fedeltà del Signore, del Vivente e Vivificante, alla sua promessa, che poggia la speranza dell'uomo; se ne fa eco il coro delle mirofore:
"Ritorna presto, Signore, tra i vivi,
per dissipare l'affanno profondo,
di lei che, Vergine, t'ha generato!".
E rivolto alla Madre-Vergine, a chiusura degli Enkomia, è il coro delle mirofore, ma in loro siamo tutti noi che la supplichiamo:
"O Vergine, rendi degni i tuoi servi
di vedere la risurrezione del Figlio tuo!".
Non poteva mancare, a tanta fede, a un interrogativo che lo chiamava direttamente in causa sulla sua parola, la risposta di Cristo. Com, secondo i libri sacri, Dio entrò in scena e rispose a Giobbe e al suoi amici; qui, dal fondo dell'Ade dove ha richiamato a vita Adamo ed Eva perduti, il Signore risponde al pianto e all'attesa della Madre. È il primo tropario dell'Ode IX, opera del monaco Cosma di Maiuma:
"Madre, non piangere sopra di me,
vedendo chiuso in un buio sepolcro
l'eterno Figlio che desti alla luce:
risorgerò con potenza e splendore
e innalzerò fino a gloria immortale
chi con amore e con fede ti canta".
Siamo giunti così alle soglie della Risurrezione. Sta già tremando la terra; sta per aprirsi il sepolcro: la pietra sarà rotolata inutile fuori della tomba. Ma chi contemplerà per primo il volto del Risorto, portando a compimento definitivo il proprio itinerario di dolore, di fede e di conoscenza? Certo, la Madre. Introdotta per prima nel mistero dell'Incarnazione, entrata per prima in quella della Risurrezione, resta per tutti - prima fra le mirofore - l'Annunciatrice pasquale:
"Illùminati, illùminati, o nuova Gerusalemme,
la gloria del Signore è sorta sopra di te!
Danza ora ed esulta, o Sion,
e tu rallegrati, o pura Madre di Dio,
nella risurrezione del Figlio tuo!"
(Giovanni Damasceno, Ode IX del Canone)
a cura del Centro Russia Ecumenica
00193 Roma – Vicolo del Farinone, 30
tel 06-6896637
Le Chiese dell'oriente cristiano
IV. Chiesa Ortodossa Etiopica
di Mervyn Duffy
Chiesa Ortodossa Greca
Il ripristino del diaconato femminile
di Phyllis Zagano
A 40 anni dall’Unitatis Redintegratio
Un cammino tra ombre e luci
di Brunetto Salvarani
Quale sarà il futuro del movimento ecumenico? Il card. Walter Kasper, presidente del Pontificio Consiglio per l’Unità dei Cristiani, nel tracciare un bilancio del cammino ecumenico a 40 anni dal decreto conciliare Unitatis Redintegratio (= UR) promulgato da Paolo VI il 21 Novembre 1964 dalla quasi unanimità dei padri conciliari, ha mostrato una grande fiducia nel futuro. L’occasione per la valutazione è stata costituita da una Conferenza internazionale tenuta a Rocca di Papa (Roma) dall’organismo vaticano non solo per celebrare adeguatamente l’anniversario, ma anche per interrogarsi sulle nuove prospettive del dialogo tra le confessioni cristiane, oggi. Durante quell’incontro è stato confermato il carattere di caso serio da assegnare all’ecumenismo, nella consapevolezza – come ha rilevato Kasper – "che la divisione dei cristiani è uno degli ostacoli più gravi per l’evangelizzazione alla quale siamo chiamati".
A dire la propria, a Rocca di Papa, c’erano anche, opportunamente, le voci degli altri, dal metropolita di Pergamo, Johannis Zizioulas, del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, al professor Geoffrey Wainwryght, del Consiglio Metodista Mondiale, per le Chiese della Riforma. Il pastore e teologo Paolo Ricca nel confermare una valutazione largamente positiva ha posto alcuni interrogativi a partire da esso: "L’UR ha avuto la grande intuizione di proporre la Trinità come modello dell’unità, fornendo di quest’ultima un’immagine dinamica e non uniformante. Le diversità delle chiese possono essere definite il segno della ricchezza dello Spirito, carismi affidati a ciascuna di esse? Molto si è parlato dei peccati contro l’unità, ma allo stesso modo andrebbero esaminati quelli contro la diversità".
Significato di ecumenismo
Qual è il significato della parola ecumenismo? Per i geografi greci dell’antichità ecumeneoichumène = abitata, sottinteso ghè = terra). Dietro ad esso c’è in ogni caso il riferimento all’oikos, nel senso di casa, abitazione. Nel medesimo ambito semantico si colloca la parola "ecumenismo", che il Vaticani II descrive così: "Per movimento ecumenico si intendono le attività e le iniziative che, a seconda delle varie necessità della chiesa e l’opportunità dei tempi sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani…" (UR 4). Giuseppe Chiaretti, arcivescovo di Perugina e, all’epoca, Presidente del Segretariato per l’Ecumenismo e il Dialogo della CEI, evidenziava che "la parola ecumenismo vuol dire ricerca insieme della casa comune". designava la parte abitata della terra (dal participio
Ma non dobbiamo stancarci a domandarci in quale direzione si sta movendo, oggi, l’ecumenismo, anche se rispondere è davvero difficile. Contro coloro che affermano che l’ecumenismo è paralizzato, Kasper dice che preferisce parlare di uno stadio di maturazione e di un necessario chiarimento.
L’ecumenismo, oggi, lo si potrebbe paragonare al movimento del pendolo il cui moto ondulatorio rimanda ad un percorso permeato di ombre, ma anche di luci. Un clima inasprito, negli ultimi anni, del cupo risorgere di piccole patrie ed etnocentrismi, chiusure identitarie che rilanciano sul presunto scontro di civiltà, conflitti interreligiosi,fondamentalismi e integralismi di ogni risma oscurano il dialogo. È, però, innegabile come il secolo appena concluso ha fatto registrare indubbi passi avanti.
Situazioni apertamente critiche
Rinunciando a stilare un elenco di situazioni apertamente critiche ci limitiamo a riandare ad un caso emblematico quanto spinoso: le relazioni cattolico-ortodosse in Russia. Nel febbraio dell’anno scorso il cardinal Kasper si è recato a Mosca, dopo un periodo di fortissime tensioni, culminato con l’elevazione, da parte cattolica dello status di diocesi delle quattro amministrazioni apostoliche già erette in quel paese. [Le accuse di parte ortodossa sono di tenere un atteggiamento uniatista in Ucraina e quella di svolgere un’azione di proselitismo nel territorio canonico dell’Ortodossia]. Secondo il resoconto del cardinale l’esito della visita è stato positivo ed effettivamente ha segnato la ripresa del dialogo. Al Patriarca Alessio II egli ha comunicato la volontà di voltare pagine perché: "… l’Europa, il mondo non hanno bisogno delle nostre divisioni, ma della nostra unità". Di ritorno, Kasper ha ammesso che "vi è certamente una responsabilità preminente della chiesa cattolica in campo ecumenico. Non solo perché siamo la chiesa più grande (…), ma per la concezione ecclesiologica che abbiamo maturato".
Unità nella diversità
Per una valutazione equilibrata della situazione va ribadito che il cammino ecumenico non consiste in un viaggio verso l’ignoto, non vuol causare né un assorbimento reciproco, né una fusione; non dovrebbe produrre uniformità, ma unità nella diversità e diversità nell’unità.La via dell’incontro ecumenico è giovane e non deve essere frettolosa. Solo con l’UR al n. 7 nella Chiesa cattolica si delineano i tratti primari di un atteggiamento autenticamente ecumenico: "conversione interiore, rinnovamento nello Spirito, rinuncia a se stessi, sincera abnegazione, umiltà di servizio, generosità fraterna".
Accanto all’UR una serie di altri eventi hanno caratterizzato il cammino:
Un ecumenismo di stile
Fra gli indizi che lasciano ben sperare c’è la novità delle chiese locali, centri studi e comunità a ribadire che le parole d’ordine dell’incontro tra le fedi cristiane saranno meno squisitamente teologiche e più spirituali.
Un autentico specialista, don Piero Coda, così si esprime in merito: "non vorrei venissero moltiplicate le commissioni, le strutture. Prima di tutto penso a uno stile. Lo stile tocca la sostanza: uno stile ecclesiale di ascolto, di partecipazione, di corresponsabilità, diventa di per sé unvito allo scambio, all’apertura, e produce luoghi do formazione adeguata".
Lo evidenziava lo stesso Giovanni Paolo II nella Ut Unum sint:"Il movimento a favore dell’unità dei cristiani non è soltanto una qualche appendice, che si aggiunge alla tradizionale attività della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione" (n. 20).
B. Salvarani, Un cammino tra ombre e luci. A quarant’anni dall’Unitatis Redintegratio, in "Testimoni", 1 (2005), pp. 7-10. Riduzione di Cesare Filippini.