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Sabato, 09 Aprile 2005 19:12

Speranza di comunione (Giuseppe Goisis)

Il dialogo interreligioso
Speranza di comunione
di Giuseppe Goisis


Pur non essendoci antitesi tra dialogo ed evangelizzazione, possono manifestarsi in questo ambito situazioni assai delicate. Il dialogo interreligioso, per essere fecondo, implica non la svendita della propria identità religiosa, bensì il suo approfondimento critico. L’atteggiamento dialogante non è mai rancoroso, ma al contrario improntato da reciproca, autentica misericordia. Si dialoga infatti tra persone, uomini e donne in ricerca, non tra istituzioni. Uno sforzo che va accompagnato da uno spirito di invocazione e di preghiera.

Già Paolo VI, con l’enciclica Ecclesiam suam(1964), aveva indicato nel dialogo la via maestra della Chiesa; negli anni più recenti, si viene comprendendo – con sempre maggior nitidezza – come il dialogo interreligioso non contraddica la missione evangelizzatrice della Chiesa; tale dialogo può, al contrario, recare ad una conoscenza reciproca più approfondita, può condurre anche ad un arricchimento vicendevole.

Nella Redemptoris missio(1990), si ricorda come "Dio chiama a sé tutte le genti in Cristo", e tale chiamata riguarda sia le singole persone come i popoli (§ 55).

Al cuore di ogni tradizione religiosa – pur tra le lacune, insufficienze ed errori – si manifesterebbero quei "germi di verità" già individuati da Giustino: come i raggi, come i riflessi di quella Verità che coincide col Verbo stesso di Dio, illuminando tutti gli uomini senza distinzione.

Dialogo ed evangelizzazione

Affrontando la questione con spirito realistico, se non c’è antitesi tra il dialogo e l’evangelizzazione (che ritiene fermo che la salvezza procede da Cristo "tanquam per ianuam", è pur vero che possono manifestarsi tensione, e situazioni difficili e delicate; il legame tra dialogo ed evangelizzazione può essere profondo ed armonico, ma suppone una distinzione, non una confusione o una reciproca strumentalizzazione, quasi che dialogo ed evangelizzazione siano intercambiabili...

Per tale possibile confusione, il dialogo interreligioso può degradare a tecnica di assimilazione, o addirittura di dominio; e l’evangelizzazione perdere di slancio, imponendosi una prospettiva di universale equivalenza fra tutte le religioni (l’antica narrazione dei tre anelli, che esprime in maniera analogica l’unità trascendentale fra le tre grandi religioni monoteistiche, si convertirebbe nel racconto dei tre impostori, ognuno dei quali presenta una parziale verità, ma anche, simultaneamente, una parziale menzogna!).

La convergenza universale delle religioni, non la loro assimilazione

Nonostante un certo diffuso spirito riduttivo, il dialogo interreligioso non significa svendita della propria identità al supermercato delle religioni dominanti, ma, viceversa, approfondimento e problematizzazione della propria identità religiosa, affrontando una sfida positiva che si oppone all’intolleranza, al fondamentalismo e allo spirito di guerra.

C’è una religione "guscio", che rischia di confliggere con la presenza dell’"altra" religione, assimilandola e riducendola in troppo angusti confini: c’è una religione "ispirazione", nella quale l’Assoluto si manifesta, sia pure attraverso gli erramenti e le espressioni condizionate dagli schemi storico-culturali di partenza.

Ecco, il dialogo ha bisogno di studio e di approfondimento: non ci si approssima all’alterità religiosa con improvvisazione o dilettantismo, ma con fatica, rispetto e prove infinite di comprensione.

La presenza dell’alterità religiosa m’interpella, non possiede alcunché di ovvio e scontato, mantenendo qualcosa di inedito e, in questo incontro, dovrei trovarmi nella disposizione d’essere sorpreso; non si tratta, a guardar meglio, di un’alterità totale, ma di un cammino di convergenza, nel quale somiglianze e differenze vengono, progressivamente, in luce. Se si trattasse di un’alterità totale, nonostante ogni sforzo, io non potrei comprendere nulla della differente religione a cui m’approssimo. Quel che è in gioco è la convergenza universale delle religioni, non tanto la loro omologazione o il loro livellamento; e non c’è chi non capisca come tale movimento di convergenza potrebbe avere una formidabile efficacia per l’affermarsi dei diritti dell’uomo e per il diffondersi di un’autentica pace nella giustizia.

Un dialogo tra persone non tra istituzioni

C’è un dialogo vitale, che non si nutre solo delle riflessioni degli esperti e degli incontri dei rappresentanti delle varie religioni, al vertice; c’è un movimento impetuoso "dalla base", che spesso pare spiazzare i vertici medesimi; tale dialogo di vita si nutre di comunione e condivisione, di convergenza verso obiettivi concreti, come le opere di pace e giustizia, con un’attenzione straordinaria a quei cammini formativi che si protendono ad una ricerca – personale e sociale – dell’armonia, aprendo alla pluralità di verità. Studiosi cristiani come J. Dupuis e R. Panikkar, pur evidenziando certe contraddizioni e mettendo in guardia contro le resistenze del fondamentalismo, reclamano la maturazione di una coscienza aperta; non si tratta di abbandonarsi all’illusorio richiamo del sincretismo, cercando – spesso con frettolose giustapposizioni – di poter fare sintesi dove una lunga storia ha diviso e contrapposto; si tratta, invece, del difficile compito di risalire all’originario, nel punto in cui le varie tradizioni religiose si sono compartite e distinte; abbandonare le proprie sicurezze, scoprendo l’alterità nel proprio cuore, per potersi aprire più liberamente, nutrendosi di quell’Amore che vive nel segreto, nascosto nella profondità delle origini.

Ostacola il dialogo interreligioso un passato a volte punteggiato da torti e rancori reciproci; è un atteggiamento nuovo, di conversione, quello che dovrebbe imporsi, delineandosi il cammino della difficile misericordia, una misericordia capace di purificare la memoria e di immetterci in una prospettiva nuova. È una scommessa sulla speranza, e su un tempo recuperato e riscattato: senza tale speranza, ogni dialogo interreligioso non pare avere autentiche opportunità!

Come ogni dialogo, il dialogo interreligioso può comportare incomprensioni e difficoltà, anche grandi; si tratta di una ricerca che può essere facilmente fraintesa, o gravata da insincerità e chiusure, più o meno improvvise; come accennavo, tale dialogo deve essere accompagnato da studio, approfondimento, senza nessuna superficiale abdicazione, ma anche senza arroganti pregiudizi, più o meno consapevoli. Un Dio più grande, un Cristo più grande possono polarizzare davvero il movimento di convergenza fra le religioni, a vantaggio dello spirito di fraternità, che potrebbe far lievitare tutta la terra (andrebbero, su questa linea, recuperate alcune intuizioni di due grandi cristiani: Teilhard de Chardin e Mc Luhan).

Un dialogo che si nutre di preghiera

Gli incontri interreligiosi di Assisi, promossi da Giovanni Paolo II, possono farci riflettere sull’importanza della preghiera in comune, una preghiera umile, insistita e piena di fervore, preparata dal previo riconoscimento dei malintesi e dei torti reciproci; un tale spirito sembra permeare gli incontri più recenti anche dei gruppi ecumenici, persuasi ormai della necessità di un ampliamento della prospettiva, che comprenda anche, con le debite mediazioni, il dialogo interreligioso.

Ciò che è chiaro è che occorrono cammini formativi ben scanditi e persuasivi ed anche, in ambito cristiano, una spiritualità coerente ed aperta.

Tali cammini formativi dovrebbero condurre al superamento di stereotipi, pregiudizi e chiusure aprioristiche, favorendo una purificazione ed apertura del cuore. Se entriamo nella prospettiva di questo dialogo di vita la questione riguarda pienamente anche le famiglie, trasformandosi nella semplice e profonda testimonianza dei valori, umani e spirituali, per cui si vive; solo la semplice e diretta testimonianza dei valori per cui si vive può aiutare gli altri, e soprattutto i più giovani, a vivere...

La spiritualità che si può intravedere sullo sfondo è una spiritualità laicale, di laici che "con l’esempio della loro vita e con la propria azione possono favorire il miglioramento dei rapporti tra seguaci delle diverse religioni" (richiamato in Redemptoris missio, §57).

In sintesi, l’autentico e genuino dialogo esige non meno che una sincera purificazione del cuore, una vera e propria conversione interiore; sotto il profilo educativo, occorre una preghierad’unità, capace di volgerci al Cuore dell’umanità e del mondo, liberandoci dai nostri schemi più angusti e dall’orologio dell’"io" e del "mio", orgoglio "umano, troppo umano".

Occorre, inoltre, una formazione all’assimilazione ed alla pratica delle virtù; la virtù della sincerità, che non è solo la "virtù crudele" che si pretende, l’educazione all’ umiltà e alla lealtà, che incrementa la consistenza della propria ricerca ed illumina le difficoltà e le incomprensioni che scandiscono il dialogo intrapreso; capire, e far capire, che pace non è irenismo, che dialogo non è strategia dissimulatoria, ed infine che la propria fede si configura, necessariamente, come una Sorgente da custodire con tenerissimo amore.

Il dialogo interreligioso non è brumosa ricerca dell’armonia, come in un certo stile New Age/Next Age, ma sofferto sforzo di comunione e condivisione, via controversa e tortuosa, che può comportare il dolore di venir deformati ed incompresi; ma il dialogo, come ricorda Giovanni Paolo II, è una via verso il Regno, una via che darà i suoi frutti, anche se le occasioni opportune di tali frutti le sa solo il Padre comune, che tutto dispone ed ama.
Pubblicato in Dialoghi

La fede nell'incarnazione del Verbo non si ferma all'avvenimento storico puntuale della nascita di Gesù a Betlemme, ma è fede nella sua presenza in noi tuttora attraverso il dono dello Spirito ed i suoi frutti.

Pubblicato in Chiese Cristiane
Mercoledì, 30 Marzo 2005 22:42

Introduzione all'Ebraismo (Riccardo Di Segni)

Introduzione all'Ebraismo
di Riccardo Di Segni *


Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose.

Una lunga storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.

Il contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta società, e la tensione ad un rinnovamento "messianico" hanno precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo.

Infine la drammatica evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la dignità umana.

Gli ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa.

È evidente già in questa definizione che la condizione ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione.

La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche, provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello da questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.

Gli ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre millenni di storia.

Parlando di millenni, l’approssimazione è d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui modi di sviluppo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una tradizione critica - nata e sviluppata in particolare nel modo protestante tedesco - che mette sistematicamente in discussione la validità delle notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per scontati.

Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino ad oggi, la terra d’Israele.

Delle origini di Abramo la Bibbia quasi tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può indicare il discendente di ‘Ever, o colui "che viene dall’altra parte": parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una scelta che lo distingue da tutti gli altri.

La scelta di Abramo è quella di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti, e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà a tutte le famiglie della terra.

La Bibbia poi racconta le vicende della famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo nome, Israel, "colui che ha lottato con Dio", ed è riuscito a vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più nobile, di "figli di Israele", o semplicemente di Israele.

Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento di un grande capo, Mosè.

Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte Sinai per ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè.

Con Giosuè inizia l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse, per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è collocato dagli storici all’inizio del primo millennio.

La presentazione biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale, della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile, in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli inizi del regno.

Dopo la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due; la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo regno).

Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano.

Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio, sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico. Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi, ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo Tempio.

Nel 332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135 l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata nella repressione più brutale.

Da allora gli ebrei non ebbero più unità statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni.

Con il trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sé stesso, al quale tutt'alpiù poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione.

La civiltà cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di pari dignità.

La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli ebrei culminò in questo secolo con la persecuzione nazista, nel corso della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica, con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima attualità quotidiana.

Se per la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli avvenimenti di cui era stato vittima.

Nell’anno 70 la distruzione, da parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è, nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di Aron, fratello di Mosè.

Nel momento in cui l’ebraismo politico si avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito, e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e l’insegnamento.

Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare. Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e spirituale dell’ebraismo.

Da questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita religiosa di ampie fasce di comunità ebraiche.

Anche in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica. Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione, forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla a ogni costo.

Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione di ruoli; non esiste al di fuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà.

Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si moltiplichino le espressioni antropomorifche, che rappresentano simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che per definizione non le appartiene.

Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile, estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza, l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane.

Ciò si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la giustizia.

Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro di salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la tutela divina sulla storia.

Ma il Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e amore.

Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la presenza, che per la mente umana è apparentemente contradditoria, della realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perché sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo istante), alla vicenda quotidiana.

Secondo la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo. Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco.

In questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino. Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza.

Questo vincolo è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio, stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono nascere da una scelta e da un impegno superiore.

L’elezione di Israele non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua, che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile nè soggetto a ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come "un reame di sacerdoti" rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere.

Da questi presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale. L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non deve essere necessariamente condivisa da altri.

Per tutti i popoli, che vengono chiamati tecnicamente i "noachidi", cioè i discendenti da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli della terra per arrivare al livello di "giusti" sarà sufficiente il rispetto una normativa essenziale, che nella tradizione rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto dell’ordine "naturale" (morale sessuale essenziale, rispetto degli animali).

L’ebraismo ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto riguarda Israele, la fine della sua dispersione e della sofferenza in mezzo alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele; l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su immagini escatologiche di redenzione universale e totale.

Tutte queste speranze hanno un nome comune, messianesimo, da "messia" che in ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.

* Rabbino Capo di Roma
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Donne che vivono e lottano per i propri diritti e quelli dei propri figli, in situazioni esistenziali difficili e tra secolari discriminazioni. Ma anche volti e azioni che fanno parte dell’inarrestabile progresso di un mondo musulmano vasto e diversificato che non si può ridurre a stereotipi.

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Martedì, 29 Marzo 2005 23:55

Ortodossi. Tensioni e compromessi (L. Pr.)

Ortodossi
Tensioni e compromessi
di L. Pr.




Grecia-Costantinopoli.
Compromesso, soddisfacente per ambedue le parti (non ancora formalmente definito), è stato raggiunto fra il Sinodo della Chiesa ortodossa greca (presieduto dall'arcivescovo di Atene, Christodoulos) e il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo I. La materia del contendere riguarda la nomina dei vescovi nelle 34 diocesi appartenenti ai «nuovi territori» della Grecia (il Nordest e la Tracia) che dipendono canonicamente da Costantinopoli e pastoralmente da Atene. Il caso esplode nel luglio scorso dopo la morte dell'arcivescovo di Tessalonica (a cui si sono poi aggiunte le sedi vacanti di Eleutheroupolis e Kozani). La prassi invalsa prevedeva la presentazione della lista dei candidati da parte del Sinodo greco al patriarca. Bartolomeo ha invece preteso il pieno rispetto di un accordo del 1928, secondo cui non si trattava di mera informazione, ma di vera valutazione. Il Sinodo greco non si oppone a questa richiesta ma, nella riunione del 1° marzo, specifica che l'eventuale censura su un nome o l'introduzione di altro nome deve essere accompagnata da motivazioni coerenti coi sacri canoni. L'episodio mostra la permanente tensione fra il patriarca e il primate di Grecia, ambedue decisi a difendere e ampliare il proprio ruolo.

Il 1° marzo Bartolomeo I ha inoltre deciso di modificare la composizione del Sinodo della sua Chiesa, la più alta istanza decisionale. Finora i dodici membri venivano scelti fra i vescovi residenti in Turchia. D'ora in poi il Sinodo sarà composto da sei membri con nazionalità turca e altri sei provenienti da altre diocesi ortodosse nel mondo, fra quelle direttamente dipendenti dal Patriarcato ecumenico di Costantinopoli. La precedente composizione era legata alla disposizione del potere turco, che tendeva a ridurre il patriarca a espressione della minoranza ortodossa greca in Turchia, non riconoscendo alcuna rappresentatività internazionale alla sua figura. La decisione unilaterale, che sembra non aver sollevato alcuna rimostranza del governo turco, preoccupato di non aver ostacoli per l'entrata in Europa, rafforza la rilevanza pastorale oltre a quella canonica del Sinodo.

Mosca-Europa occidentale. Il Patriarcato di Mosca vuole ricondurre le diverse Chiese ortodosse di origine russa operanti in Occidente sotto la sua giurisdizione. Il progetto è attivo, secondo diverse declinazioni, sia verso la Chiesa «oltre frontiera», la cui sede è a New York, sia verso le presenze ortodosse in Europa. A queste è stata indirizzata una lettera di Alessio Il che formalizza la proposta: un'unica diocesi in Europa occidentale con ampie autonomie. L'ipotesi è diversa e concorrente rispetto a quella coltivata da tempo dalle Chiese ortodosse più consistenti, operanti in Francia: l'avvio di un'Assemblea dei vescovi con l'elezione del presidente e l'attesa di una sola Chiesa ortodossa operante nello stesso territorio.

Dopo i primi imbarazzati silenzi l'Assemblea dei vescovi ortodossi di Francia (che raccoglie la diocesi del Patriarcato ecumenico, quella di tradizione russa sotto la giurisdizione del Patriarcato ecumenico, la serba, la romena, I'antiochena e quella del Patriarcato di Mosca) ha deciso nella sua riunione del 9 marzo di rispondere alla sollecitazione di Alessio Il con una serie di visite e dialoghi ai patriarchi delle Chiese di riferimento: Costantinopoli, Antiochia, Mosca, Serbia e Romania. La scelta mira a far decantare la potenzialità eversiva (molte comunità sono ormai interetniche e non accetterebbero un ritorno indietro) della proposta di Alessio e a dare alla decisione una tonalità conciliare. In una recente intervista, l'arcivescovo Gabriel di Vylder, responsabile della Chiesa ortodossa di tradizione russa dipendente dal Patriarcato di Costantinopoli, ha censurato la lettera di Alessio Il come «un colpo che attenta all'unità della nostra arcidiocesi ed è suscettibile di provocare uno scisma nel corpo della Chiesa. Scusate, ma questo è inaccettabile» (SOP, aprile 2004 ).

(da Il Regno, 8, 2005)

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Martedì, 29 Marzo 2005 23:40

Ucraina. Per il Patriarcato (L. Pr.)

Ucraina
Per il patriarcato
di L. Pr.


I cattolici ucraini di rito orientale non intendono rinunciare alla richiesta di un patriarcato per la loro Chiesa con sede a Kiev. Ma dopo l'importante visita del card. W. Kasper, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell'unità dei cristiani, ad Alessio Il a Mosca (16-22 febbraio) e l'unanime, decisa opposizione ortodossa, l'attesa per una decisione del papa rispondente ai desideri dei greco-cattolici ucraini si è stemperata. I responsabili della Chiesa «uniate» ucraina hanno reagito esponendosi fortemente per riaffermare le loro ragioni. Il card. Lubomyr Husar, arcivescovo maggiore di Lviv degli ucraini, ha firmato e diffuso una dichiarazione (1° marzo) a nome del sinodo dei vescovi e mons. Basil H. Losten, eparca ucraino di Stamford (USA), portavoce della commissione ecumenica ucraina, ha pubblicato una lettera aperta ai patriarchi ortodossi.

La storia ucraina. Il confronto avviene sullo sfondo della complessa storia della cristianità ucraina, da sempre attenta sia alle sue radici orientali sia alla comunione con Roma (anche dopo il 1054), e del duro martirio patito nel secolo appena concluso (fra guerre, persecuzioni, fame e violenza, si calcolano 17 milioni di morti). Rilevante è anche l'attuale contesto geopolitico, con l'imminente estensione dell'Unione Europa fino alla frontiera ucraina e le prossime elezioni politiche del paese (previste per il 31 ottobre), che verteranno anche sulla collocazione pro-occidentale o pro-sovietica della Repubblica.

Accanto ai testi diffusi, va registrata la visita del card. Husar al papa (27 marzo) e le 150 firme di parlamentari ucraini, stimolati da O. Hudyma, che hanno sollecitato il riconoscimento del patriarcato. Tutte le Chiese ortodosse sono contrarie; anche il Patriarcato di Mosca teme un patriarcato nella sede della sua origine storica (Kiev) e un'intesa fra «uniati» e Chiesa ortodossa ucraina di Filarete per una chiesa di tipo nazionale e in funzione anti-russa. Per decenni dall'Ucraina sono venuti un numero rilevante di ecclesiastici ortodossi e un sostegno economico ragguardevole. Nessuna incertezza fra i vescovi della Chiesa greco-cattolica. Il sinodo del 2002 ha unanimemente richiesto al papa il patriarcato. Semmai si può registrare una modifica: dalla disponibilità a procrastinare nel tempo la risposta si è passati alla domanda
per un adempimento immediato, considerato maturo e non rinviabile. In Vaticano quanti sono favorevoli si avvalgono della tesi della prova di forza per tutti i patriarcati ortodossi degli ultimi secoli e della convinzione che la coerente plausibilità della soluzione istituzionale si rivelerà nel futuro. Il no è invece alimentato dall'affermazione della priorità ecumenica per la Chiesa cattolica, dal riconoscimento della diversità ecclesiologica fra evangelizzazione e proselitismo e dalla responsabilità cattolica sull'insieme del cammino ecumenico delle Chiese cristiane.

Osservazioni da Kiev. Husar lamenta che l'ultima parte della discussione sia stata svolta a Mosca, non a Roma, ne a Leopoli, ne a Kiev, e, «cosa essenziale, senza la nostra partecipazione». Ma le trattative «in nessun modo cancellano quel corso generale per lo sviluppo del patriarcato che scaturisce dalle decisioni del sinodo dei vescovi della nostra Chiesa». «Secondo il diritto canonico, la Chiesa greco-cattolica ucraina è una Chiesa sui iuris, non una parte di un'altra Chiesa, e perciò si sviluppa conformemente alla propria natura ecclesiologica». Sollecitati dall'esempio del metropolita Jossyp Slipyi (1892-1984) «siamo profondamente convinti della necessità di tale struttura canonica per il consolidamento dell'unità della Chiesa e del popolo e per un loro adeguato sviluppo». «Siamo convinti che la struttura patriarcale è utile sia per noi sia per le altre Chiese ortodosse e quelle cattoliche orientali».

L'esarca B. Losten denuncia l'opposizione precipitosa dei patriarchi ortodossi prima ancora di conoscere a fondo la questione. Ritiene scarsamente apprezzabile la ragione del principio ecclesiologico: un vescovo per ogni territorio. Plausibile e ragionevole un tempo non lo è oggi, con i cristiani divisi in un mondo globalizzato, come del resto è visibile nel comportamento pratico delle Chiese ortodosse. Altre voci sottolineano aspetti diversi. M. Marynovych, vicerettore dell'Università cattolica ucraina, si mostra consapevole della distanza critica di buona parte della pubblicistica cattolica in Occidente sulla questione. Mentre I. Dacko, direttore dell'lstituto per l'ecumenismo della stessa università, sottolinea l'ambiguità dell'ecumenismo invocato da Mosca e le ragioni politiche che emergono dal comportamento e dalle parole dei responsabili russi.

Oggi la Chiesa greco-cattolica ucraina può contare su cinque milioni di fedeli (sui 50 dell'intero paese), in larga maggioranza raggruppati nella parte occidentale del paese. È guidata da 15 vescovi per cinque eparchie e da 2.200 preti. l monaci sono 750, le religiose 1.100, le chiese sono 3.000. Presenze significative di cattolici ucraini sono registrate, in seguito a una triplice ondata di emigrazione, negli Stati Uniti (due esarcati), in Canada (cinque diocesi), in Brasile, Argentina e Australia. In Europa occidentale la presenza tradizionale è registrata in Inghilterra, Francia e Germania. Ma nell'ultimo decennio si contano anche in Italia circa 200.000 ucraini.

La recente nomina del nunzio apostolico in Ucraina, mons. Ivan Jurkovic, finora nunzio apostolico in Bielorussia, sembra segnalare la volontà della Santa Sede di voler privilegiare il dialogo ecumenico.

(da Il Regno, 8, 2005)
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Non esiste né è mai esistito un organismo che stabilisca in modo ufficiale chi è walî. Un santo è tale per volontà popolare, talvolta la popolarità si estende a tutti i territori musulmani come nel caso dei fondatori delle confraternite.

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Venerdì, 25 Marzo 2005 01:17

Chiese Cattoliche orientali

CHIESE CATTOLICHE ORIENTALI



Quanti sono i membri delle Chiese cattoliche orientali:

Maronita 3.300.000
Italo-albanese 62.000
Caldea 313.000
Siro-malabarese 3.155.000
Armena 249.000
Copta 190.000
Etiopica 141.000
Sira 109.000
Siro-malankarese 310.000
Melchita 1.100.000
Ucraina 5.200.000
Rutena 500.000
Romena 2.000.000
Bizantino-cattolica neII'ex Jugoslavia 49.000
Bulgara 20.000
Slovacca 238.000
Greca 2.500
Ungherese 280.000
Russa 4.000
Bielorussa 5.000
Georgiana (dato non disponibile)
Albanese (dato non disponibile)
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Mercoledì, 23 Marzo 2005 00:07

Un ecumenismo da vivere (Giacomo Ruggeri)

Un ecumenismo da vivere
di Giacomo Ruggeri





«L'ecumenismo è uno dei rari punti luminosi nel 20° secolo, che è stato un secolo buio con due guerre mondiali: milioni di uccisi, fuggitivi, conseguenza di due sistemi totalitari e disumani. In questo secolo buio inizia il movimento ecumenico per impulso della grazia dello Spirito Santo. I cristiani di tutte le chiese e comunità cristiane separate sin da 1500 anni come le chiese antiche orientali, da 1000 anni come le chiese ortodosse, da 500 anni come le comunità protestanti, tutti quanti si sono accorti che questa divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del vangelo ad ogni creatura. Così il ristabilimento dell'unità era uno dei principali intenti del concilio Vaticano II». Con queste parole il card. W. Kasper ha aperto la relazione raccolta negli atti di un convegno svoltosi due anni or sono, ora divenuto un punto di riferimento dopo la promulgazione della Charta oecumenica a Strasburgo il 22 aprile 2001.

Nel momento in cui viene sancita la Carta Europea, è importante sottolineare che la credibilità del Vangelo è data dall'unità dei cristiani stessi. A partire dal documento della Charta oecumenica, le edizioni Banca del gratuito hanno raccolto in un unico volume i preziosi contributi che offrono uno spaccato tra memoria e profezia, in ordine alla causa ecumenica.

La ricerca della verità

Kasper tiene a precisare che «il problema ecumenico concerne la tesi dell'unicità della chiesa di Cristo che sussiste, cioè che è concretamente presente, nella chiesa cattolica e che le comunità che non hanno la successione apostolica nell'episcopato non sono chiese nel senso proprio. C'è una differenza nodale con le comunità protestanti. È del tutto naturale che, in una situazione di non ancora piena unità cristiana, sul cammino ecumenico ci siano delle pietre d'inciampo e a volte addirittura dei macigni. Tuttavia questo non deve scoraggiare e amareggiare, ma piuttosto spingere a proseguire sulla via del dialogo. Il nostro cammino non dovrà essere caratterizzato da uno spirito di indifferentismo, di relativismo o di falso irenismo poiché la verità dovrà essere ricercata in maniera autentica e senza compromessi fuorvianti. Novo millennio ineunte afferma con lucidità e realismo le tristi eredità del passato che seguono ancora oltre la soglia del loro millennio. La celebrazione giubilare ha registrato qualche segnale davvero profetico e commovente, ma ancora tanto cammino rimane da fare. Tuttavia, nonostante il cammino sia faticoso, esso è anche pieno di speranza e lo Spirito è capace di sorprese sempre nuove».

Verso quali prospettive e quale, dunque, lo scopo dell'impegno ecumenico? Il card. Kasper evidenzia che «il futuro ecumenico non è un viaggio nel buio, ma ha uno scopo chiaramente definito nel Vangelo secondo la preghiera del Signore alla vigilia della sua morte. Questo scopo è l'unità dei seguaci di Cristo. Più precisamente dobbiamo dire è l'unità visibile dei seguaci di Cristo perché la struttura della salvezza e della chiesa è "incarnatoria", perciò l'unità non può essere soltanto spirituale. In conformità alla dottrina cattolica esistono tre vincoli di questa unità:
1) La professione della stessa fede.
2) La celebrazione degli stessi sacramenti.
3) L'unità nello stesso ministero apostolico, particolarmente nell'episcopato nella successione apostolica e in comunione con il successore dell'apostolo Pietro principe degli apostoli e vescovo di Roma.
È quindi necessario imparare o continuare ad imparare dagli altri e con gli altri perché il dramma della divisione impedisce alla chiesa di attuare la pienezza della cattolicità nel suo essere e nel suo operare
».

«Qual è, dunque, lo scopo dell'impegno ecumenico?» si è chiesto il card. Kasper e ha proseguito:  «Il card. Ratzinger lo ha definito in modo molto breve e allo stesso tempo molto chiaro: le chiese devono rimanere chiese e tuttavia diventare una chiesa. Ciò vuol dire: sin dal concilio la nostra chiesa ha abbandonato il concetto di ecumenismo di mero ritorno e lo ha sostituito con il concetto di ecumenismo di viaggio, di pellegrinaggio a partire da una comunione imperfetta verso la piena comunione. Il concilio dichiara anche che l'unità non richiede affatto che si sacri fichi la ricca diversità di spiritualità, di disciplina, di riti liturgici e di elaborazione della verità rivelata a condizione che tale diversità rimanga fedele alla tradizione apostolica».
Impegnarsi per l'ecumenismo, è stato detto in modo chiaro ed evidente nel corso del tempo, non sta nel creare o dare vita all'unità delle chiese. «l'unità - prosegue Kasper - ha bisogno di essere accolta e sviluppata  in maniera  sempre più profonda, come scrive il Santo Padre. Inequivocabilmente questo imperativo è insieme forza che sostiene e salutare rimprovero per la nostra pigrizia e ristrettezza di cuore. Ma anche questa piena unità non possiamo né fare né costruire, solo lo Spirito di Cristo può rivelarci questa unità. Non possiamo fare l'unità, ma possiamo pregare per l'unità. Così il concilio, come l'enciclica Ut unum sint, ribadisce la priorità dell'ecumenismo spirituale e il primato della preghiera
».

Dono indistruttibile


Ma la Charta oecumenica, che di certo ha un taglio nettamente pastorale, su quali punti insiste, soprattutto per le implicanze della nuova Europa di oggi? Mons. Aldo Giordano, così afferma: «Il secondo capitolo della Charta è intitolato In cammino verso l'unità visibile delle chiese in Europa, quindi vengono indicati i passi che le chiese devono fare per crescere nell'unità visibile. Anche questo punto è molto delicato; infatti la chiesa cattolica afferma che in essa l'unità visibile già sussiste, ma anche i fratelli di Mosca hanno scritto la stessa cosa. Essendo le prospettive diverse, bisogna trovare dei testi che accettati da tutti».

In questo secondo capitolo, che tratta i passi che devono essere fatti per crescere nell'unità visibile, è stato dato il primato all'evangelizzazione. La prima responsabilità è essere credibili in Europa nel testimoniare il Vangelo, ma le divisioni minano tale credibilità. In questo capitolo leggiamo: «Ci impegniamo a riconoscere che ogni essere umano può scegliere, liberamente e secondo coscienza, la propria appartenenza religiosa ed ecclesiale. Nessuno può essere indotto alla conversione attraverso pressioni morali o incentivi materiali. Al tempo stesso a nessuno può essere impedita una conversione che sia conseguenza di una libera scelta».

Qui viene affrontato il tema del proselitismo, anche se questo termine non appare nel testo in quanto è troppo carico di emotività e di un pluralismo ermeneutico di interpretazione. Il problema è dato dal fatto che, da una parte, bisogna arginare quelle costrizioni che possono esistere in certe forme di annuncio del vangelo: dall'altra vi è il dovere dell'evangelizzazione e la libertà di coscienza.

Il secondo titolo di questo capitolo è Andare l'uno incontro all'altro. In esso si sottolinea il voler superare l'autosufficienza per scoprire la ricchezza di stare con l'altro evitando i pregiudizi. Siamo nella società dei media, dove tutto è trasparente ma, in realtà, «ci sono molti pregiudizi che nascono dall'ignoranza». Ed è sull'ignoranza che spesso nascono e prendono vita ambigue visioni religiose, specie in Europa. A tal proposito Mons. Giordano mette in guardia: «Come chiese ci accorgiamo che in Europa si diffonde un religioso molto ambiguo (le sette, un certo tipo di buddismo che entra in Europa che non è quello classico delle grandi vie dell'Asia). Probabilmente il buddismo avrà in Europa un'influenza maggiore di quella che avrà l'islam e l'incontro con l'Asia sarà la grande sfida del futuro (i due terzi della popolazione mondiale abita in Asia). Da una parte, come chiese, vogliamo difendere la libertà di religione di tutti ma, dall'altra, ci sono esperienze molto pericolose».

L'unità è il frutto di un amore nel segno della croee, è l'agape di Dio fatta anche di riconciliazione e di perdono reciproco. Ed è su questa linea che Mons. Chiaretti, nel redigere le conclusioni per quanto concerne lo scenario italiano afferma: «Dalla Charta oecumenica ci giunge un ulteriore invito alla speranza sapendo che l'ecumenismo è una realtà complessa, in continua evoluzione e questo documento vuole essere l'inizio di questo ulteriore processo di avvicinamento. Tuttavia c'è un preciso impegno morale, quello della receptio del documento multilaterale da parte dei cattolici in Italia delle diverse diocesi ed entro tre anni si farà una verifica sia sul testo che sulla receptio».

Da straordinario a ordinario


Quali le piste obbligate affinché questo documento non cada nel vuoto? Mons. Chiaretti indica alcuni punti-base: «I contenuti di questa carta devono essere conosciuti, acquisiti, divulgati dai vescovi in primo luogo ma anche dai presbiteri nella pastorale ordinaria delle chiese locali. Fino ad oggi abbiamo pensato che l'ecumenismo appartenesse alla pastorale straordinaria della chiesa oggi dobbiamo considerarlo come parte della pastorale ordinaria. Non si può annunciare con fedeltà il vangelo se non si entra appieno dentro questa dimensione ecumenica. I contenuti della Charta devono essere approfonditi anche in giornate e incontri di studio e di riflessione sia a livello popolare che a livello accademico vale a dire negli istituti di scienze religiose e negli istituti teologici Oggi è presente anche una particolare preoccupazione che riguarda il riqualificare l'insegnamento della religione cattolica che ha una sua dimensione storico-culturale all'interno delle scuole laddove viene scelto. È molto importante che ci sia questa consapevolezza della dimensione ecumenica e del dialogo interreligioso soprattutto per le caratteristiche della nostra popolazione scolastica sempre più pluralista e bisognosa di una lettura intelligente di queste diverse realtà religiose, come è altrettanto importante una preparazione adeguata dei catechisti e dei ministri laici. Tali contenuti... devono essere tradotti in forme concrete nelle celebrazioni ecumeniche e affrontati in forum di chiese e comunità ecclesiali anche limitati ad un particolare territorio per trovare poi concretamente punti di incontro e di collaborazione, inculturazione e di servizio reciproco».


AA.VV., Charta oecumenica per l'Europa. Prospettive di riconciliazione all'inizio del terzo millennio, ed. Banca del gratuito, (per richieste del testo: 0721/865012/13).

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Martedì, 22 Marzo 2005 23:13

La Chiesa Ortodossa Copta (Mervyn Duffy)

La fondazione della chiesa in Egitto è strettamente unita alla figura di S. Marco Evangelista che, secondo la tradizione, fu martirizzato ad Alessandria nel 63 d.C. L'Egitto divenne presto una nazione cristiana ed in Alessandria nacque un centro estremamente importante di riflessione teologica. Inoltre, i monaci del deserto egiziano fornirono i primi modelli per la tradizione monastica cristiana, e nutrirono molto presto la spiritualita’ con i detti dei “padri del deserto”.

Pubblicato in Chiese Cristiane

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