Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Lo straniero nell’Antico Testamento

di Paolo De Benedetti




Fra tutti gli insegnamenti biblici, quello sullo straniero è forse il più disatteso. Oggi si «crea» lo straniero quando l’altro non è assimilabile a noi. E lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo, non per accoglierlo, come ci insegnano le Scritture, ma per scacciarlo, per spingerlo oltre le frontiere.


«Non opprimerai lo straniero: anche voi conoscete la vita dello straniero, perché siete stati stranieri nel paese d’Egitto» (Es 23,9). Il pensiero e la normativa biblica riguardo al forestiero e allo straniero (chiariremo più avanti la differenza semantica) si compendiano in questo versetto, uno degli innumerevoli che toccano il tema. Ma, prima di illustrarne alcuni, poniamoci una domanda: perché lo straniero? Come nasce lo straniero?



L’incomunicabilità linguistica

La risposta ci porta molto indietro, a un gesto di Dio. Creando un solo uomo, Dio aveva posto una barriera alla possibilità dello straniero e alla delegittimazione del diverso: «Fu creato un solo uomo... perché nessuno dica al suo compagno: Mio padre era più grande di tuo padre» (Mishnà, Sanhedrin 4.5). Ma poi, fu Dio stesso che da questa ideale identità fece emergere il diverso, lo straniero. «Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (Gen 11,1). Sono gli uomini della torre di Babele che così motivano il loro progetto: «Facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra» (ivi, 4). Ma Dio non volle che rimanessero un solo popolo con una lingua sola, confuse la loro lingua, e «li disperse di là su tutta la terra» (ivi, 8). Proprio l’incomunicabilità linguistica è il più importante elemento dell’essere straniero (si pensi all’origine del vocabolo greco bàrbaros, cioè balbuziente, in quanto incomprensibile). Ma il mito biblico contiene un insegnamento fondamentale: non pone un centro rispetto a cui essere straniero, tutti sono reciprocamente stranieri, al centro non rimane nessuno: «Essi cessarono di costruire la città» (ivi, 8). Così come l’altro da me è un io di cui io sono l’altro, allo stesso modo lo straniero è uno (individuo, gruppo, popolo) di cui io sono straniero. Si tratta di una reciprocità che, a ben pensarci, fonda l’identità e la responsabilità dell’uomo.

Tutto questo è messo alla prova non solo a livello individuale, ma ancor più a livello sociale, quando una comunità vive sulla propria terra, e quando perciò lo straniero è – proprio etimologicamente – un extracomunitario. La preoccupazione di tutelare lo status dello straniero ha spinto i legislatori biblici a moltiplicare le norme in proposito, tanto che si potrebbe indicare in questo tema una delle linee tecnologiche fondamentali della Bibbia ebraica.



Lo straniero nella tradizione ebraica

Innanzitutto, occorre un’attenzione alla terminologia: in ebraico la nozione di straniero si «incarna» in vari vocaboli, che contengono sfumature diverse o addirittura opposte. Abbiamo così i vocaboli zar, gher, nokrì o nekhar: approssimativamente, potremmo tradurre il primo con «estraneo», il secondo con «straniero residente», il terzo con «forestiero». Zar designa la cosa o la persona con cui non esiste reciprocità di diritti e doveri, per esempio un culto «estraneo», cioè idolatrico, o una persona estranea, come il laico rispetto al sacerdote. Nokhrì o nekhar è sì lo straniero, ma non residente, di passaggio, come il mercante: non è inserito nella società, e quindi non ha i diritti e i doveri relativi; per esempio non vale verso di lui il divieto del prestito ad interesse (cf Dt 23,21), ma anch’egli può prestare ad interesse. Il vocabolo fondamentale è dunque gher, lo straniero residente (solo in tempi più vicini a noi ha assunto il significato di convertito nell’ebraismo). Secondo 2 Cron 2,16, i gherim – plurale di gher – contati nel censimento di Salomone sarebbero stati 153.600 (si veda il fondamentale articolo di Amos Luzzatto, Lo straniero nella tradizione ebraica, «Studi, Fatti, Ricerche», n. 46, 1989).

I rapporti con lo straniero residente non sono regolati da esortazioni morali, non sono affidati al buon cuore, ma fanno parte della halakhà, ossia della «via» prescritta da Dio sul Sinai a Israele come base dell’alleanza. Si tratta di diritti e doveri che costituiscono una sorta di «contratto sociale», di cui potrebbe essere considerato proemio questo testo del Levitico: «Quando un gher dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli farete torto. Il gher dimorante fra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati gherim nel paese d’Egitto. Io non il Signore, vostro Dio» (Lev 19,33-34). È importante sottolineare la conclusione «Io sono il Signore, vostro Dio», perché è il suggello di tutti i grandi precetti sinaitici, vincolanti perché ispirati non da una coscienza etica umana, ma dalla immediata volontà divina.



Diversità e uguaglianza, lontananza e prossimità

Il primo e più importante diritto del gher è l’uguaglianza giuridica: «Ci sarà per voi una sola legge per il gher e per il cittadino del paese» (Lev 24,22). Perciò il gher condivide con l’orfano e la vedova da un lato, con il sacerdote dall’altra – ossia con coloro che non hanno proprietà terriere – alcuni diritti: come la straniera Rut può spigolare e cogliere ciò che cresce all’ «angolo» del campo, e ha parte alle primizie, alle decime e ai frutti dell’anno sabbatico. Può offrire un olocausto allo stesso titolo di un figlio d’Israele (cf Lev 17,8), e ha il diritto-dovere di osservare il sabato e le feste. E qui si apre la tavola dei suoi doveri: come l’ebreo, non deve cibarsi di cibi lievitati a Pasqua, di sangue, forse (ma la cosa è incerta) di animali non uccisi ritualmente. In sostanza, i divieti imposti al gher mirano a includerlo senza discriminazione alcuna nella società: lasciando però a lui la scelta di farsi pienamente ebreo mediante la circoncisione, e potendo così partecipare alla pienezza del culto, compresa la cena pasquale con l’agnello, oppure rimanere un «timorato di Dio», come si dirà molto più tardi, o, in greco, sebòmenos ton theòn. Tra i proseliti più famosi sono da ricordare la dinastia idumea di Erode e quella, sotto Claudio, del re di Adiabene.

Tutto questo mostra come il popolo ebraico abbia sempre rifiutato una concezione etnico-razziale della propria comunità: è simbolico il caso di Davide, genealogicamente discendente dalla moabita Rut (secondo il diritto rabbinico l’ebraicità si trasmette per via matrilineare, e Rut «entra» nell’ebraismo, non «nasce» nell’ebraismo).ma è altrettanto simbolico che i diritti dello straniero siano indipendenti dalla conversione. In fondo, quando il Levitico comanda: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Lev 19,18), non pone condizioni di scelta religiosa; e il gher è prossimo, reá, cioè vicino. Si potrebbe dire perciò dello straniero quello che i maestri dicono di Dio: egli è lontano e vicino, viene da lontano ed è vicino. Questo rapporto con la lontananza che diventa vicina, con lo straniero che diventa prossimo, in realtà è un elemento essenziale della mia identità. Il versetto sopra citato «Ama il prossimo tuo come te stesso», nella esegesi rabbinica offre anche un’altra lettura, alternativa: «Ama il prossimo tuo perché è te stesso».

Del resto, l’identità di straniero è iscritta fin da principio, ben prima della permanenza in Egitto, nell’ebreo. Il primo a essere chiamato «ebreo», Abramo, incontrò Dio diventando straniero: «Il Signore disse ad Abram: “Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò”» (Gen 12,1).

Abramo, o Abram come allora si chiamava, era così straniero da non sapere neppure dove Dio lo avrebbe condotto. E di suo nipote Giacobbe, così si recita nella formula di offerta delle primizie, il cosiddetto «piccolo credo storico»: «Mio padre era un arameo errante, scese in Egitto, vi sette come un gher con poca gente...» (Dt 26,5). E alcuni popoli stranieri escono proprio dalla famiglia patriarcale: gli ismaeliti da Ismaele, gli edomiti da Esaù, gli ammoniti e i moabiti da Lot. Sono genealogie leggendarie, ma che suggeriscono come la diversità, l’alterità non è mai assoluta. E tuttavia – ricordiamo ancora una volta la torre di Babele – è un aspetto del genere umano disegnato da Dio. Scrive il rabbino Riccardo Di Segni: «La strada ebraica della convivenza dei popoli passa attraverso questa coscienza della diversità, dell’impossibilità dell’imposizione e della coercizione, nella presunzione comunque che vi sia uno spirito che parli e chiami tutti, ciascuno nella sua strada...La particolarità non è ostacolo all’universalità» (L’ebreo: straniero e residente, «Rocca», 15 ottobre – 1° novembre 1986).



Un insegnamento alto e disatteso

Forse, tra tutti gli insegnamenti della Bibbia, questo sullo straniero è oggi il più disatteso: non solo, ma oggi si crea lo straniero appena l’altro non è assimilabile a me, a noi, e lo si crea non per amarlo, ma per odiarlo e se è possibile per scacciarlo. Come accade a Dio, a cui un grande maestro chassidico, rabbi Parukh, riferiva le parole del salmo 119,19: «io sono straniero sulla terra».

Diceva rabbi Parukh: «Chi è sbattuto lontano in terre straniere e finisce in un paese sconosciuto, costui non ha commercio con alcun uomo e non può intrattenersi con alcuno. Ma se allora appare un altro forestiero, anche se la sua patria è un’altra, i due possono diventare amici... E se non fossero stati ambedue stranieri non sarebbero diventati così intimi. Questo intende il salmista: “Tu sei come straniero sulla terra e non hai dove posarti: dunque non sottrarti a me, ma svelami i tuoi comandamenti, perché io possa diventare il tuo amico”» (M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma 1992, p.57).

E, aggiungiamo noi, perché io possa riconoscere lo straniero che è in me.

Spiritualità Marista 

di Padre Franco Gioannetti





Trentesima parte

Un ulteriore passo in avanti possiamo farlo vedendo ancora altri brani di “Parole di un fondatore” che sono in relazione a Maria e che cito brevemente:

I maristi appartengono a Maria…74/3;  143/3;  156/7

…sono chiamati e scelti da Maria…78/7;  107;  172/26;  176/3

…debbono imitare Maria in generale…79/7;  1/2

…nella piccolezza e nella vita nascosta… 116/8;  119/8;  120/2

…avendo il suo spirito ed i suoi sentimenti… 112/6;  188/13

…avendo anche le virtù di mari: modestia, povertà, piccolezza… 146/4;  119/8;  120/2

In sintesi dunque sono chiamati ad essere “Icone viventi di Maria”.

(Il visitatore o la visitatrice stupiti e forse seccati dalle citazioni troppo sintetiche possono richiedere all’autore, P. Franco, coordinatore del sito i testi completi. Grazie).


Altri Paesi "entrano" in Europa, l'Europa si "allarga", come sentiamo ripetere in questi giorni. Oppure, realtà ancor più affascinante, ritrova una parte di se stessa per troppo tempo alienata? Dove si collocano oggi i confini dell'Europa?

Se la domenica è la Pasqua settimanale, la Pasqua è la grande domenica annuale. E se tutta la settimana converge verso la domenica e da essa riparte per vivificare, alla luce del Mistero celebrato, la nuova settimana, così la Pasqua è la meta del cammino quaresimale e sorgente della vita nuova donataci dal Cristo.

Venerdì, 01 Aprile 2005 22:38

Il male (Xavier Lèon-Dufour)

Il male
di Xavier Lèon-Dufour




Il male è un'esperienza che ogni uomo conosce. È la privazione di un bene dovuto. È una mancanza, l'assenza di un bene che dovrebbe esistere; se io non ho ali per volare, non è un male perché fa parte della mia natura di non averne. Per contro, se sono cieco dalla nascita o per un incidente, subisco un male che mi priva di innumerevoli contatti; se sono ammalato, io non dispongo più delle facoltà normali della salute che mi permettono di vivere fra i miei fratelli. L'uomo lotta con forza e saggezza per diminuire gli attacchi del male. Benissimo, ma ci sono altri mali che ci perseguitano, tra i quali possiamo citare i mali di tipo cosmico e quelli di tipo morale.

I mali di tipo cosmico ci affliggono. Si scatenano infatti molteplici catastrofi: eruzioni vulcaniche, tempeste, temporali, inondazioni, tifoni, valanghe, di fronte alle quali l'uomo è impotente, semplice vittima.

Tutti questi mali rendono coscienti del carattere imperfetto della creazione, ma noi non ci sentiamo per niente responsabili.

Per contro, siamo colpiti dai mali di ordine morale. Più noi avanziamo in età, e più pesa sulla nostra coscienza l'evidenza dell'impurità nel nostro agire. D'altra parte un'altra evidenza si impone che non c'è bisogno di esplorare, perché ne percepiamo sperimentalmente la presenza. L'uomo è il peggiore nemico dell'uomo: sfruttamento dei poveri, guerre, stupri, delitti, torture, ecc. Ci sentiamo complici di tutti questi mali, almeno collettivamente.

Di fronte a tutti questi mali scandalosi, qual è la nostra reazione? Essa varia secondo le età. Prima, è un grido di indignazione, segno di esuberanza di vita che non può tollerare queste ingiustizie. Poi, poco a poco, essa si esprime con una rassegnazione di tipo stoico: si pensa che sia meglio limitare gli eccessi, e non perdere la propria serenità. Si pensa di crearsi una buona coscienza facendo l'elemosina. Si pensa così di coprire lo scandalo, pur sapendo che la cisti continua a resistere e ci si consola pensando che ce ne sono molte altre, con le quali si può peraltro convivere senza soffrire troppo.

Tuttavia, sono molti coloro che vorrebbero conoscere l'origine di questi mali, pur essendo in disaccordo con noi, che sappiamo che all'origine di tutto c'è un'altra forza. Quale?
Spontaneamente noi pensiamo a Dio, ad un essere che ci ha creati e che è quindi responsabile dell'ordine della creazione. E questo si esprime con la protesta: «Che cosa ho fatto a Dio perché mi tratti così?». Come può un Dio onnipotente lasciare che avvengano simili ingiustizie?

Noi affermiamo effettivamente che Dio è capace di trasformare in grazia il peccato dell'uomo, quando gridiamo la nostra gioia: «Felix culpa!». Ma la domanda si ripropone: Come mai Dio può «permettere» il male, anche se poi deve risultarne un bene?

Noi condividiamo maggiormente la reazione del giusto Giobbe, che non accetta la sorte di sofferenza per un innocente come lui: ma non accettiamo, di fare come lui, di chiudere la bocca e di inchinarci davanti ad un mistero del quale noi constatiamo solo il carattere arbitrario. Non avendo più il senso del Dio trascendente nel quale credeva Giobbe, ho il diritto di subire l'ingiustizia? Sì, la storia di Giobbe non fornisce una valida risposta agli occhi della ragione.
Siamo così portati a rivedere la comprensione del rapporto con Dio stesso. È forse Dio un artigiano che lancia nell'esistenza il mondo come si trattasse di una cosa della quale in seguito si disinteressa?
Questo modo di presentare la creazione come la produzione di essere viventi lasciati alla mercé di un mondo ostile è frequente, come quando di fronte ad un incidente mortale si dichiara: «Era la volontà di Dio». Non è forse logico ribellarsi davanti a un Dio omicida?

Eppure Dio è un Dio d'amore. Non ha creato l'uomo come un prodotto grezzo, inerte.
Ha aperto con lui un dialogo d'amore. Con la creazione, l'uomo è chiamato ad una alleanza. È invitato a cooperare con lui per l'avvento del suo regno. Questo ci propone la Genesi.
Adamo non è semplicemente un qualcosa di compiuto. È chiamato a costruire il mondo, non solo attraverso la «pro-creazione», né semplicemente amando Eva, la sua compagna, ma cooperando all'intera creazione nella quale è collocato. È chiamato ad una sinergia di amore creatore con Dio, a condizione che egli rimanga in rapporto di amicizia con colui che gli ha dato l'esistenza.

Questa condizione si rivela nel racconto della Genesi dal momento che Adamo può mangiare i frutti di tutti gli alberi del giardino ad eccezione di uno solo: quelli dell'albero della conoscenza del bene e del male. Qualunque sia l'interpretazione di questo divieto, è evidente che Adamo deve riconoscere che egli esiste in dipendenza da Dio.
Ora, egli cede alla tentazione insinuata dal serpente, creatura del nostro mondo.
Secondo questo racconto, la responsabilità del peccato non ricade su Dio, ma solamente sulla creatura, cioè sul serpente e su Adamo.

I teologi hanno discusso a lungo sul ruolo specifico di Adamo: spesso Adamo è considerato come l'origine del peccato. Tuttavia il testo non dice così; Adamo non sta all'origine del peccato, ma ha lasciato entrare il peccato nel mondo; egli non ne è la causa, ma il tramite attraverso il quale il Peccato è venuto. Inutile speculare su Adamo responsabile del peccato, perché il peccato esisteva prima che Adamo lo commettesse.
Un Peccato (con la maiuscola) esisteva quindi prima di Adamo.
Alcuni lo identificano con il serpente, ma niente giustifica questo tipo di sintesi. Nel simbolismo mitico, il peccato è una entità che preesiste ad Adamo.

Sorge allora un nuovo problema: questa creatura coesisterebbe forse con Dio?
Qui si pone il dilemma: insieme con Dio coesisterebbe il Peccato, oppure il Peccato sarebbe una produzione di Dio? Noi pensiamo che, con l'atto di creare Dio ha suscitato il Peccato; Dio non ne è la causa formale, ma l'occasione. In che modo? Emergono due interpretazioni.

Una prima interpretazione si fonda sul racconto della Genesi. L'uomo è vivo non per se stesso, ma in virtù del soffio divino che gli è concesso oggi. Se egli rimane in vita, è grazie alla relazione che non finisce in un atto passato, ma che continua e che costituisce il presente del suo essere. Il progetto di Dio consiste nel fare sì che il non-Dio diventi Dio. Per realizzare questo progetto, l'uomo deve riconoscere che, in questa ricerca di Dio, deve «rinnegare se stesso». Questa condizione contraddice di fatto il suo desiderio fondamentale: quello di porsi nell'essere. Ecco quello che Gesù ripete senza stancarsi: «Bisogna rinnegare se stessi». E' questo l'invito formale di Dio.

Ma l'uomo rifiuta di andare contro il suo essere. L'invito divino gli sembra un paradosso.
L’invito divino non è la causa del peccato dell'uomo, ma ne è l'occasione immediata. In tal modo il peccato sarebbe entrato nella creazione.
I
Possiamo accettare questa soluzione? Sembrerebbe che un Dio di questo genere permetta il peccato in vista di un bene reale: non sarebbe allora fare del peccato un mezzo in vista del bene? Evidentemente è un'ipotesi insostenibile. Il progetto di Dio, peraltro, non finisce con la creazione, ma ha il suo compimento nell'incarnazione: Dio non si accontenta di dire quello che bisogna fare, ma lo fa lui stesso. Dio si fa uomo. Anzi, secondo Paolo, si fa Peccato. «Colui che non aveva conosciuto il peccato, Dio lo ha fatto Peccato, affinché in Lui noi divenissimo giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

Morendo sulla Croce Gesù ha rinnegato se stesso, compiendo pienamente il progetto divino: «Per questo Dio lo ha esaltato perché ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore a gloria di Dio Padre» (FiI 2,6.11). Diventa il nuovo Adamo, principe e capo di una umanità nuova; ormai ogni uomo rivela Dio solo in Gesù.

Il mistero della Croce non dà una spiegazione razionale al mistero dell'iniquità: al contrario, invita a far morire ogni razionalizzazione del mistero.
Ormai solo in Gesù si manifesta il volto di Dio, un Dio umiliato. Il male non è per questo «spiegato», resta un mistero: quello della croce, dove il Peccato è morto. Il mistero del dolore degli innocenti trova il suo senso nel mistero del Golgota.

Un'altra considerazione permette di approfondire il mistero. La prendo da Maurice Zundeì. Siccome Dio è amore, la creazione instaura un dialogo di amore con l'uomo. Dio deve dunque aspettarsi dall'uomo, suo partner, una risposta. Se c'è rifiuto di questo amore, l'insuccesso è certo. Dio certamente non è la causa dell'insuccesso, ne è la vittima, perché, proprio in nome di questo suo amore, non può imporlo senza togliere all'uomo la libertà che Egli ha creato. Dio, in un certo senso, è sottomesso alla sua creatura. Gesù ha mirabilmente espresso questo, lavando i piedi ai suoi discepoli. Zundel lo dichiara: «Non si è mai raggiunto il senso della creazione con eguale profondità: ogni creatura è per Dio il suo Dio» (L’humble prèsence, Tricorne, Genève 1935, p. 19). Lungi dall'essere impassibile di fronte al rifiuto che gli viene opposto, Dio soffre. Lui stesso è «l'azione silenziosa di quest'amore gratuito e disappropriato che ci attira senza costringerci» (Hymne a la joie, Sigier, Québec 1982, p. 47).

Invece di parlare di un Dio incapace di impedire al male di diffondersi, è meglio ascoltare il paradosso chiaro e luminoso di un commentatore di M. Zundel: «Amore onnipotente, Dio è insieme anche totalmente e dolorosamente impotente» (François  Rouiller, Le scandale du Mal et de la souffrance chez Maurice Zundel, 1999, p. 150).

Ancora una volta, nel mistero della Croce, il peccato dell'uomo, e quindi il Male, trova il suo senso.

Venerdì, 01 Aprile 2005 22:15

Il battesimo del fuoco (Giovanni Vannucci)

Il battesimo del fuoco
di Giovanni Vannucci






Le autorità religiose di Gerusalemme gli mandarono degli inviati a chiedergli chi egli fosse, e in nome di chi battezzava. Giovanni risponde di non essere il Messia atteso, né un profeta, ma uno che grida: "Raddrizzate le vie del Signore". Il suo battesimo è la preparazione al battesimo dello Spirito Santo che verrà amministrato da uno che è già in mezzo al popolo. Il giorno dopo Gesù andò da Giovanni, che ancora non lo conosceva, e gli si rivelò come "l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo", il peccato che insidia radicalmente l'uomo: la ricaduta nel nulla. Lo riconobbe come l'Atteso perché Colui che l'aveva inviato a battezzare gli aveva detto: "Tu va' a battezzare con l'acqua, quegli su cui vedrai discendere lo Spirito e rimanere su di lui è Colui che libera dal peccato non più simbolicamente con l'acqua, ma realmente con lo Spirito Santo". Giovanni vide plasticamente, come colomba, discendere e posarsi su Gesù lo Spirito Santo, e lo riconobbe e lo annunciò come "il Figlio di Dio".

Nelle narrazioni dell'incontro riportate dagli altri evangelisti ci sono dei particolari che mostrano gli avvenimenti sotto una luce differente, quasi delle contraddizioni; mi soffermo su di essi perché dal contrasto appare, così mi sembra, che Giovanni ha colto il significato soprastorico dell'incontro del Battista con Gesù, significato che diventa emblematico di quella interiorizzazione del mistero di Gesù Cristo che caratterizza il quarto Vangelo, sì da renderlo il Vangelo che indica le tappe da percorrere per il nostro personale incontro e la nostra personale unione con la Parola che vuole incarnarsi in noi, per renderci figli di Dio. Nelle narrazioni dell'incontro riportate dagli altri evangelisti ci sono dei particolari che mostrano gli avvenimenti sotto una luce differente, quasi delle contraddizioni; mi soffermo su di essi perché dal contrasto appare, così mi sembra, che Giovanni ha colto il significato soprastorico dell'incontro del Battista con Gesù, significato che diventa emblematico di quella interiorizzazione del mistero di Gesù Cristo che caratterizza il quarto Vangelo, sì da renderlo il Vangelo che indica le tappe da percorrere per il nostro personale incontro e la nostra personale unione con la Parola che vuole incarnarsi in noi, per renderci figli di Dio.

Negli altri evangelisti, lo Spirito Santo scende su Gesù dopo che è stato battezzato. Matteo e Marco dicono che fu a Gesù che i cieli si aprirono e che fu Lui a vedere lo Spirito Santo che scendeva. Nel Vangelo di Giovanni, non è negato, ma neppure affermato che la discesa dello Spirito Santo abbia fatto seguito al battesimo di Gesù, di cui l'evangelista non fa parola. Il punto in cui concordano è il fatto che il Battista inizia la sua predicazione di penitenza che precede la manifestazione di Gesù come portatore dell'immersione nello Spirito Santo; nella prospettiva dell'evangelista l'episodio costituisce la rivelazione dell'uomo che dopo il suo ritorno alle sue origini divine, il battesimo nell'acqua, scopre che il suo compito, unico e inalienabile, è quello di divenire come Gesù, uomo dello Spirito Santo.

Soffermiamoci sulla predicazione del Battista, quale è riportata dagli altri evangelisti; ai Farisei e Sadducei, chiusi e sicuri nei loro sistemi dottrinali e rituali, vengono rivolte delle dure parole: "Razza di vipere, cambiate la direzione dei vostri pensieri. Cessate di dire: abbiamo Abramo per padre. Dio può suscitare da queste pietre i figli di Abramo" (Mt 3, 7-9); alla folla, agli esattori del fisco, ai soldati vengono date queste indicazioni: "Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha, non esigete niente di più del dovuto, non fate violenza a nessuno" (Lc 3, 10-14). Il battesimo del Battista è un vigoroso richiamo a Dio, sorgente dei valori che informano l'attività umana. Ai dotti viene detto di rivedere nella verità divina le loro teorie, agli altri di regolare i loro rapporti con il prossimo non seguendo le proprie aspirazioni egoistiche, ma l'apertura di coscienza che solo Dio può dare.

Il battesimo nell'acqua è nella chiara presa di coscienza delle origini divine dell'uomo, è il fermo distacco da tutte le forze istintive e passionali. È la nascita all'io cosciente e responsabile. Quando questo battesimo è portato a compimento, l'uomo può accedere al secondo battesimo, quello dello Spirito Santo. Lo Spirito Santo scende come forza distruttrice e rinnovatrice di tutto l'uomo che, in questo bagno purificatore e trasfigurante, comprende con stupore gioioso di essere il figlio prediletto di Dio. È la nascita dell'io spirituale, dell'io consapevole del proprio destino sovrumano, la più alta coscienza personale.

Il passaggio dall'io cosciente, quello che nasce nel battesimo dell'acqua, all'io spirituale, quello che nasce dalla discesa dello Spirito Santo, è compiuto dal battesimo del fuoco. Quello in cui l'uomo deve sperimentare la passione, la morte, la totale purificazione della carne e del sangue, la rinunzia a tutto ciò che viene dal basso per ritrovare l'unità nell'Origine divina. Questo battesimo è indicato da Cristo: "Il Figlio dell'Uomo dovrà soffrire, essere rinnegato e disprezzato dagli uomini prima di morire e risorgere". La nostra risurrezione nella vita divina deve essere preceduta, come quella di Cristo, dalla passione e dalla morte.

Questo è il battesimo nel fuoco che media il superamento dell'io cosciente allo stato dell'io spirituale. L'io spirituale, ultima tappa della realizzazione cristiana, richiede il superamento dell'umano con l'eliminazione di ogni particolarismo, di ogni separazione attraverso l'identificazione con il mistero divino, la "volontà del Padre". Allora il cristiano, come Gesù Cristo, potrà salire "alla destra del Padre". Questo ritorno alla destra del Padre, nell'esperienza religiosa cristiana, a differenza di altre esperienze religiose, non è un annientamento nell'Assoluto, ma uno stato attivo di coscienza universale, la coscienza dei figli di Dio, arricchito dalla coscienza acquisita dall'io cosciente unita e fusa nell'io spirituale.
Venerdì, 01 Aprile 2005 21:59

Se.....

Se si potesse ridurre la popolazione mondiale ad un villaggio di 100 persone, mantenendo le proporzioni di tutti i popoli esistenti al mondo, tale villaggio sarebbe così composto...

Mercoledì, 30 Marzo 2005 22:42

Introduzione all'Ebraismo (Riccardo Di Segni)

Introduzione all'Ebraismo
di Riccardo Di Segni *


Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose.

Una lunga storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.

Il contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta società, e la tensione ad un rinnovamento "messianico" hanno precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo.

Infine la drammatica evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la dignità umana.

Gli ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa.

È evidente già in questa definizione che la condizione ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione.

La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche, provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello da questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.

Gli ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre millenni di storia.

Parlando di millenni, l’approssimazione è d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui modi di sviluppo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una tradizione critica - nata e sviluppata in particolare nel modo protestante tedesco - che mette sistematicamente in discussione la validità delle notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per scontati.

Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino ad oggi, la terra d’Israele.

Delle origini di Abramo la Bibbia quasi tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può indicare il discendente di ‘Ever, o colui "che viene dall’altra parte": parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una scelta che lo distingue da tutti gli altri.

La scelta di Abramo è quella di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti, e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà a tutte le famiglie della terra.

La Bibbia poi racconta le vicende della famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo nome, Israel, "colui che ha lottato con Dio", ed è riuscito a vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più nobile, di "figli di Israele", o semplicemente di Israele.

Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento di un grande capo, Mosè.

Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte Sinai per ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè.

Con Giosuè inizia l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse, per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è collocato dagli storici all’inizio del primo millennio.

La presentazione biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale, della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile, in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli inizi del regno.

Dopo la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due; la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo regno).

Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano.

Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio, sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico. Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi, ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo Tempio.

Nel 332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135 l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata nella repressione più brutale.

Da allora gli ebrei non ebbero più unità statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni.

Con il trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sé stesso, al quale tutt'alpiù poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione.

La civiltà cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di pari dignità.

La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli ebrei culminò in questo secolo con la persecuzione nazista, nel corso della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica, con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima attualità quotidiana.

Se per la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli avvenimenti di cui era stato vittima.

Nell’anno 70 la distruzione, da parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è, nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di Aron, fratello di Mosè.

Nel momento in cui l’ebraismo politico si avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito, e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e l’insegnamento.

Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare. Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e spirituale dell’ebraismo.

Da questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita religiosa di ampie fasce di comunità ebraiche.

Anche in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica. Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione, forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla a ogni costo.

Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione di ruoli; non esiste al di fuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà.

Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si moltiplichino le espressioni antropomorifche, che rappresentano simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che per definizione non le appartiene.

Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile, estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza, l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane.

Ciò si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la giustizia.

Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro di salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la tutela divina sulla storia.

Ma il Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e amore.

Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la presenza, che per la mente umana è apparentemente contradditoria, della realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perché sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo istante), alla vicenda quotidiana.

Secondo la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo. Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco.

In questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino. Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza.

Questo vincolo è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio, stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono nascere da una scelta e da un impegno superiore.

L’elezione di Israele non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua, che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile nè soggetto a ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come "un reame di sacerdoti" rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere.

Da questi presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale. L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non deve essere necessariamente condivisa da altri.

Per tutti i popoli, che vengono chiamati tecnicamente i "noachidi", cioè i discendenti da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli della terra per arrivare al livello di "giusti" sarà sufficiente il rispetto una normativa essenziale, che nella tradizione rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto dell’ordine "naturale" (morale sessuale essenziale, rispetto degli animali).

L’ebraismo ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto riguarda Israele, la fine della sua dispersione e della sofferenza in mezzo alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele; l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su immagini escatologiche di redenzione universale e totale.

Tutte queste speranze hanno un nome comune, messianesimo, da "messia" che in ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.

* Rabbino Capo di Roma

Donne che vivono e lottano per i propri diritti e quelli dei propri figli, in situazioni esistenziali difficili e tra secolari discriminazioni. Ma anche volti e azioni che fanno parte dell’inarrestabile progresso di un mondo musulmano vasto e diversificato che non si può ridurre a stereotipi.

Giustizia, pace e salvaguardia del creato
don Tonino Bello



Il Discorso pronunciato all'Arena di Verona, il 30 aprile 1989, alla Vigilia dell'Assemblea Ecumenica di Basilea.


Carissimi amici,
radunati in nome della pace, della giustizia e della salvaguardia del creato, in questa splendida Arena dove si visibilizza per qualche ora il popolo sterminato dei costruttori di pace!
Io vi porgo lo stesso saluto che oggi, giorno del Signore e signore dei giorni, risuona nelle nostre Chiese, dove, radunato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito, si visibilizza il popolo santo dì Dio.
La pace di Gesù Risorto sia con tutti voi!
Un popolo che sta in piedi.
E vorrei tanto che da questo catino, divenuto icona del popolo invisibile dei costruttori di pace, partisse un grande saluto verso quella "moltitudine immensa, che nessuno può contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua", che la pace la costruisce nel silenzio della storia o nell'esilio della geografia. Nei bagni di folla o nella solitudine dei deserti. Nelle foreste dell'Amazzonia o nel vortice disumano delle metropoli. Sul letto di un ospedale o nel nascondimento di un chiostro. Nell'operosità di una scuola materna che si apre ai valori della mondialità o nel travaglio provocato da uno stile di accoglienza nei confronti dei fratelli di colore.
E' un popolo sterminato che sta in piedi. Perché il popolo della pace non è un popolo di rassegnati.
E' un popolo pasquale, che sta in piedi, come quello dell'Apocalisse: "tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello".
Davanti al "trono" di Dio. Non davanti alle poltrone dei tiranni, o davanti agli idoli di metallo.
E davanti all'"Agnello". Simbolo di tutti gli oppressi dai poteri mondani. Di tutte le vittime della terra.
Di tutti i discriminati dal razzismo.
Di tutti i violentati nei più elementari diritti umani.
A questo popolo invisibile della pace, dall'Arena di Verona, giunga la nostra solidarietà.
Ma anche il nostro incoraggiamento: con le parole delle beatitudini, secondo la traduzione che Sostituisce il termine "beati" con l'espressione "in piedi".
"In piedi, costruttori di pace. Sarete chiamati figli di Dio".


1. Dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario di Dio

La prima cosa che desidero dirvi è questa: l'evoluzione del concetto di pace ha subito lo stesso arricchimento che, nella rivelazione cristiana, ha avuto il concetto di Dio.
Nell'economia del Vecchio Testamento, il monoteismo assoluto di Jahweh era il cardine portante di tutta la storia della salvezza.
Poi, "quando venne la pienezza dei tempi", Gesù ci ha rivelato che Dio è pluralità di persone: Padre, Figlio e Spirito.
Esse vivono così profondamente la convivialità delle differenze, esistono cioè così unicamente l'una per l'altra, che formano un solo Dio.
Uno per uno per uno fa sempre uno. Un solo Dio in tre Persone: è la formula con cui noi cristiani esprimiamo il mistero principale della nostra fede.
Si è passati, così, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario di Dio.
Per la pace è avvenuta la stessa cosa.
Siamo giunti alla pienezza dei tempi, ed è balenata alle nostre coscienze la convinzione che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato. Siamo passati, per così dire, dal monoteismo assoluto al monoteismo trinitario della pace.
Dal monoteismo assoluto
al monoteismo trinitario della pace...
Tutto questo crea scandalo.
Così come ha creato scandalo Gesù, quando ha proclamato di essere figlio di Dio. Al punto tale, che l'hanno ucciso. Finché per secoli e secoli nelle nostre chiese abbiamo parlato di pace, nessuno ha contestato.
Quando, sulla scorta della Parola di Dio, si è scoperta la stretta parentela della pace con la giustizia, si sono scatenate le censure dei potenti.
Si è detto che il profeta vuole prevaricare sul re. Così come durante il processo di Pilato, la folla ha accusato Gesù di voler prevaricare su Cesare.
Si è asserito che collegare il discorso sulla pace, e quindi il discorso sulla guerra, con i discorsi sull'economia perversa che domina il mondo, sul profitto, sulla massimizzazione del profitto, sui debiti del Terzo Mondo, sulla crescente divaricazione tra Nord e Sud, sulla violazione pertinace dei diritti umani... significa fare la parte degli utili idioti.
Sicché, la giustizia, collocata da Dio stesso accanto alla pace quale sua partner naturale, continua a destare, purtroppo, più sospetto di quanto non susciti scandalo quando viene collocata, sia pure come aggettivo, accanto alla guerra. Tant'è che si parla ancora di "guerra giusta".
Questa sì che è convivenza contro natura!
…nella pienezza dei tempi
Carissimi amici, anche per quanto riguarda la pace è giunta la pienezza dei tempi.
E come nella pienezza dei tempi Gesù, nostra Pace, ci ha rivelato la Paternità di Dio, nostra Giustizia, e ci ha rivelato anche lo Spirito che è Signore e dà la vita a ogni creatura, così oggi abbiamo il privilegio di capire che l'annuncio della Pace si completa, oltre che con la lotta per la giustizia, anche con l'impegno per la salvaguardia del creato.
Quello della tutela dell'ambiente non è l'ultimo ritrovato della nostra furbizia brontolona o delle nostre strategie del consenso. Non è ammiccamento alle mode correnti. Ma è un compito primordiale che ci sovrasta come partner dello Spirito Santo, affinché la terra passi dal "Kàos", cioè dallo sbadiglio di noia e di morte, al "Kòsmos", cioè alla situazione di trasparenza e di grazia.
Tra otto giorni celebreremo la festa di Pentecoste e noi ripeteremo l'invocazione "Manda il tuo Spirito, Signore: tutto sarà ricreato, e rinnoverai la faccia della terra".
La faccia della terra.
La crosta della terra.
La pelle di questa nostra terra, deturpata dagli inquinamenti, invecchiata dalle nostre manipolazioni, violentata dalle nostre ingordigie.
Ebbene, questa pelle diventerà fresca come la pelle di un adolescente. E si realizzerà la splendida intuizione dì Isaia che, addirittura invertendone l'ordine, aveva collegato insieme salvaguardia del creato, giustizia e pace: "In noi sarà infuso uno Spirito dall'alto. Allora il deserto diventerà un giardino.. e la giustizia regnerà nel giardino.. e frutto della giustizia sarà la pace". (Is 32,15-17). Il deserto, quindi, diventerà un giardino. Nel giardino crescerà l'albero della giustizia. Frutto di quest'albero sarà la pace!
C'è da chiedersi: è mai possibile che questa visione trinitaria della pace, così saldamente fondata sui plinti della Sacra Scrittura, abbia tanto stentato a diffondersi perfino nelle nostre Chiese?
La risposta è semplice: se solo ora dal monoteismo assoluto della pace siamo passati al monoteismo trinitario, è perché siamo giunti davvero alla pienezza dei tempi.
Il che non significa che ormai il discorso sia acquisito. Tutt'altro.
Come per il discorso trinitario su Dio, nei primi dieci secoli del cristianesimo, si sono sostenute tante lotte, sono scoppiate tante dispute, e sono celebrati tanti Concili; così sarà per il discorso trinitario sulla pace.
Nicea... Costantinopoli... Efeso!
Assisi... Basilea... Seoul!
Vogliamo salutare, in questo momento, dall'Arena di Verona, i delegati delle Chiese italiane che dal 16 al 21 maggio saranno a Basilea.
E proprio perché siamo consapevoli dell'importanza che questo avvenimento racchiude, vogliamo salutarli con lo stesso entusiasmo con cui i fedeli delle prime comunità cristiane salutavano i loro vescovi che partivano per i grandi concili ecumenici.


2. Il Dio dei filosofi e il Dio di Gesù Cristo

La seconda cosa che voglio dirvi, strettamente collegata con la prima, è questa: il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio dei profeti, il Dio che in Gesù ha manifestato il suo volto trinitario, non è il Dio di Socrate, di Platone, di Aristotele, delle accademie, dei filosofi insomma.
Il Dio dei filosofi è l'ultima conclusione della nostra attività raziocinante.
E' la soglia suprema messa in cima a tutta l'impalcatura degli umani sillogismi.
E' la casa che svetta sui basamenti della nostra logica organica.
La sua tenuta dipende dalla saldezza dì questi basamenti. Se un solo passaggio razionale cede sotto l'urto di un ragionamento opposto, ruzzola anche Dio che ci sta sopra.
Il Dio dei filosofi, insomma, è un Dio che regge solo se è garantito dalla sicurezza dei nostri argomenti.
E poi non scalda. Non coinvolge. Non ti riempie di passione.
Accettare questo Dio è come sposare una donna di cui hai preso tutte le misure, di cui ti sei fatto consegnare tutti i certificati di garanzia, e contro i cui rischi di abbandono ti sei premunito con mille polizze di assicurazione.
Il Dio di Gesù Cristo è diverso.
Non viene dal basso. Ci è stato rivelato dall'alto. Non è frutto della carne e del sangue della nostra sapienza terrena. E' un Dio garantito solo dalla nudità della nostra fede.
Non è un Dio a cui ci si aggrappa con i funambolismi della mente. Ma un Dio a cui ci si abbandona con la fiducia del cuore, dietro un richiamo che inesorabilmente ti precede.
Attenzione! Non è che si voglia disprezzare la fatica della ricerca umana o che si intenda svilire l'importanza di un Dio trovato dagli sforzi del nostro pensiero. No! Quella della ricerca razionale di Dio è una fatica benedetta, che ogni cristiano deve compiere con tutti gli altri uomini che lo cercano con cuore sincero. Diciamo solo che questo Dio, dopo che l'abbiamo trovato, non ci appaga. Anzi, non ci si può chiamare neppure credenti per il semplice fatto di averlo raggiunto attraverso gli impervi sentieri del pensiero.
Il Dio vero, quello di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, quello rivelatoci da Gesù, è totalmente Altro ed è totalmente Oltre.
E noi credenti, dopo aver condiviso la fatica del pensiero con tutti i ricercatori onesti, dobbiamo essere l'indice puntato verso questo totalmente Altro e totalmente Oltre.
La pace del mondo e la pace di Gesù Cristo
Ed eccoci al momento cruciale di questa seconda riflessione.
Per la pace vale lo stesso discorso che si è fatto per Dio.
C'è una pace dei filosofi. E c'è una pace di Cristo.
La prima è quella prodotta dai nostri sforzi diplomatici, costruita dai dosaggi delle cancellerie, frutto degli equilibri messi in atto dalle potenze terrene. Al punto che, se una sola condizione va in crisi, si rompe il giocattolo e ruzzola tutto intero il castello.
La pace di Cristo, invece, è quella che non esige garanzie, che scavalca le coperture prudenziali, e che resiste anche quando crollano i puntelli del bilanciamento fondato sul calcolo.
Questo è il senso profondo dell'espressione evangelica che proprio oggi è risuonata nella Messa: "vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come ve la dà il mondo, io la do a voi" (Gv 14,27)
Questo è il salto di qualità a cui ci provoca la frase divenuta ormai celebre di D. Bonhoeffer: "Osare la pace per fede".
Ci riempie di commozione un testo che questo grande testimone del Risorto scrisse nel 1934, e che è divenuto un monito per noi: "Una via alla pace che passi per la sicurezza non c'è. La pace infatti deve essere osata. E' un grande rischio, e non si lascia mai e poi mai garantire. La pace è il contrario della garanzia. Esigere garanzie significa diffidare, e questa diffidenza genera di nuovo guerre. Cercare sicurezze significa volersi mettere al riparo. Pace significa affidarsi interamente al comandamento di Dio, non volere alcuna garanzia, ma porre nelle mani di Dio Onnipotente, in un atto di fede e di obbedienza, la storia dei popoli... Chi rivolgerà l'appello alla pace così che il mondo oda, che sia costretto a udire?... Solo la Santa Chiesa di Cristo può parlare in modo che il mondo, digrignando i denti, debba udire la parola della pace, e i popoli si rallegreranno perché questa Chiesa di Cristo toglie, nel nome di Cristo, le armi dalla mano dei suoi figli e vieta loro di fare La guerra e invoca la pace di Cristo sul mondo delirante".
Carissimi amici, come per la ricerca di Dio abbiamo detto che non intendiamo svilire lo sforzo della fatica razionale, anzi la incoraggiamo e la sosteniamo, ma sentiamo anche il dovere di indicare il totalmente Oltre e il totalmente Altro di Dio, sulla base di ciò che Cristo ci ha rivelato di Lui, così per quanto riguarda il mistero della pace, col più grande rispetto per lo sforzo che il mondo laico sta compiendo, e con la gioia più grande nel vederci accomunati come credenti accanto a tanti camminatori di ogni fede, sentiamo il dovere di dare il nostro contributo specifico, originale, coraggioso!
E il nostro contributo è quello di essere segno dell'inquietudine, richiamo del "non ancora", stimolo dell'ulteriorità. Spina dell'inappagamento, insomma, conficcata nel fianco del mondo.
Per un a Chiesa coraggiosa e profetica
Riconosciamolo. Come Chiesa accusiamo ancora pesanti deficit di "parresia". Siamo ancora fermi alla pace dei "filosofi", e non ci decidiamo ad annunciare finalmente la pace dei "profeti".
Dovremmo essere indice puntato verso il totalmente "altro", e verso il totalmente "oltre" gli isolotti raggiunti dalle minuscole asfittiche paci terrene, e invece siamo spesso prigionieri del calcolo, vestali del buon senso, guardiani della prudenza, sacerdoti dell'equilibrio.
E' vero, sì, che i "profeti" debbono tenere conto delle lentezze con cui i "re" elaborano le mediazioni e le fanno camminare nella prassi quotidiana. E' vero anche che devono accettare di vedersi sempre tra le mani eccedenze di annunci che non verranno mai canalizzare in scelte storiche concrete. Ma non tocca ai profeti operare riduzioni in scala. E sarebbe ben triste che a provocare cadute di tensione, per quel che riguarda l'annuncio della pace, dovessero essere proprio loro.
In certe comunità si densifica sistematicamente il sospetto. Si paventano strumentalizzazioni anche nelle scelte più generose a favore degli ultimi.
Ogni occasione è buona per opporre, allo spirito delle intuizioni evangeliche di pace, il rigore della lettera che uccide. Si spiano annidamenti di "discordanze" col magistero ufficiale, a ogni svolta di frase.
Talvolta, per frenare la valanga inarrestabile della profezia, si fa uso maldestro e ingeneroso perfino di estemporanee espressioni del Papa, resecate dal loro contesto e scorniciate dal genere letterario confidenziale e bonario con cui sono state pronunciate. E non si tiene conto, invece, di tutto il magistero audace e non ancora dissepolto di questo Pontefice, che ormai in ogni suo discorso ci sprona ad "affrontare la tremenda sfida dell'ultima decade del secondo millennio", con l'imperativo etico della solidarietà, e va denunciando in tutto il mondo, come nessun altro, le "strutture di peccato" che opprimono i poveri!
Siamo arrivati al punto che, come cristiani, ci troviamo oggi nella necessità di dover recuperare i forti distacchi in tema di pace, che una moltitudine di non credenti ha inflitto a noi, titolari delle inesauribili riserve utopiche del Vangelo!
La paura dell'olocausto nucleare ha fatto fare a loro più strada di quanta non ne abbiano fatta fare a noi la fede, la speranza, e l'amore.


3. Ceri pasquali e non lucignoli fumiganti

In piedi, allora, costruttori di pace.
Non abbiate paura! Non lasciatevi sgomentare dalle dissertazioni che squalificano come fondamentalismo l'anelito di voler cogliere nel "qui" e nell'"oggi" della Storia i primi frutti del Regno.
Sono interni alla nostra fede i discorsi sul disarmo, sulla smilitarizzazione del territorio, sulla lotta per il cambiamento dei modelli di sviluppo che provocano dipendenza, fame e miseria nei Sud del mondo, e distruzione dell'ambiente naturale.
Fin dai tempi dell'Esodo, non sono più estranee alla Parola del Signore le "fatiche di liberazione degli oppressi dal giogo dei moderni faraoni.
Coraggio! Non dobbiamo tacere, braccati dal timore che venga chiamata "orizzontalismo" la nostra ribellione contro le iniquità che schiacciano i poveri. Gesù Cristo, che scruta i cuori e che non ci stanchiamo di implorare, sa che il nostro amore per gli ultimi coincide con l'amore per lui.
Se non abbiamo la forza di dire che le armi non solo non si devono vendere ma neppure costruire, che la politica dei blocchi è iniqua, che la remissione dei debiti del Terzo Mondo è appena un acconto sulla restituzione del nostro debito ai due terzi del mondo, che la logica del disarmo unilaterale non è poi così disomogenea con quella del vangelo, che la nonviolenza attiva è criterio di prassi cristiana, che certe forme di obiezione sono segno di un amore più grande per la città terrena… se non abbiamo la forza di dire tutto questo, rimarremo lucignoli fumiganti invece che essere ceri pasquali.
Ce lo auguriamo con le parole di Bonhoeffer a Basilea, "vogliamo parlare a questo mondo, e dirgli non una mezza parola, ma una parola intera. Dobbiamo pregare perché questa parola ci sia data". E noi pregheremo.
Anzi, è proprio dall'Arena di Verona, in questo splendido vespro di primavera, che vogliamo cominciare il grande settenario, in preparazione alla Pentecoste che celebreremo domenica.
E invocheremo lo Spirito Santo. Non solo perché rinnovi il volto della terra. Ma anche perché faccia un rogo di tutte le nostre paure.

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