Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Un teologo analfabeta
in missione agli inferi
di Anna Maria Cànopi osb
Babilonia,
figura del Male nell’apocalittica
di Michel Trimaille *
Per amare il nostro fratello dobbiamo prima rispettarlo nella sua autentica realtà personale, e non possiamo farlo se non abbiamo noi stessi raggiunto il rispetto per la nostra persona, una personalità matura.
Abramo, alle querce di Mamre ci insegna che attraverso l'ospitalità dello straniero possiamo fare la più sorprendente delle nostre esperienze: l'incontro con la presenza misteriosa, vitale e stupefacente di Dio.
Non è ormai un mistero che l'ostacolo maggiore individuato da tutte le chiese è costituito dal primato papale. L'argomento è sulle agende confessionali e interconfessionali e torna negli interventi di moltissimi dialoghi bilaterali e multilaterali.
Non è raro per un cristiano sentire il suo interlocutore musulmano affermare, con forte convinzione e non senza un certo orgoglio: "Anche noi, anche noi crediamo nella Bibbia!". Questo anche se l'interlocutore non ha mai aperto il Libro sacro degli ebrei e dei cristiani...
4. Luterani ed altri cristiani
Ortodossi
Dal 26 al 31 gennaio 2004 una delegazione luterana si è recata a Costantinopoli per esaminare con dei rappresentanti del Patriarcato Ecumenico la possibilità di approfondire il partenariato tra le chiese luterane ed ortodosse.
Sia il Segretariato della Federazione Luterana Mondiale che il Patriarca Ecumenico hanno affermato la necessità di rinforzare la collaborazione tra le due famiglie confessionali perchè ciò aiuterà i loro sforzi nel fare fronte alle grandi sfide del mondo contemporaneo.
Anglicani
In occasione della sua riunione dal 21 al 23 febbraio 2004 il Comitato esecutivo della Federazione Luterana Mondiale ha approvato la creazione di una nuova commissione internazionale di dialogo con l’Alleanza Riformata Mondiale.
Il Comitato ha approvato che la nuova commissione si occupi della realizzazione del rapporto finale: “Chiamati alla comunione ed alla comune testimonianza”.
Altro compito della commissione sarà quello di iniziare due nuovi studi:
- Esame dei rapporti tra le “strutture” di Chiesa e la comunione
- Ricerca sulla storia delle Chiese luterane e riformate con un particolare riguardo alle evoluzioni che possono avere influenzato in modo positivo o negativo relazioni tra le due famiglie confessionali.
5. Riformati ed altri cristiani
Precalcedoniani
Una delegazione della Chiesa presbiteriana degli Stati Uniti si è recata nel febbraio 2004 ad Antelias in Libano presso Sua Santità Aram I catholicos Armeno di Cilicia.
Scopo della visita era quello di approfondire i rapporti tra le Chiese degli USA e quelle del Medio Oriente.
Il Catholicos Aram I ha accolto con gioia la proposta ed ha sottolineato l’importanza dell’unità come testimonianza vivente data al Vangelo di Gesù Cristo.
6. C.C.E.
Alla vigilia della fine del suo mandato, il 31 dicembre 2003, il segretario generale uscente del Consiglio Ecumenico delle Chiese, ha concesso un’intervista all’agenzia stampa: “Ecumenical News International”. Nell’intervista ha chiesto alle Chiese di accettare la sfida ecumenica di rivedere le loro idee di cristianesimo in un mondo di pluralismo religioso.
Nell’epoca della mondializzazione che vede tutto, uomini e cose, come dei prodotti commercializzabili ed il mondo come un grande mercato, si è fatta strada la tendenza a salvare le identità singole.
Il CCE, ha aggiunto, deve avere un duplice obiettivo, l’unità della Chiesa e dell’umanità.
Il pastore Sam Kobia, delle Chiese metodiste del Kenya, è stato ufficialmente istallato il 18 febbraio 2004 come segretario generale del CCE.
7. Tra Cristiani
KEK-CCEE
Il Comitato misto del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE) e della Conferenza delle Chiese Europee (KEK) si è riunito a Slaski in Polonia dal 29 gennaio all’1 febbraio 2004 ospite dell’Arcivescovo di Opale. L’ordine del giorno ha subito portato ad un dibattito sulla situazione ecumenica che esiste in questo momento in Europa. Infatti le Chiese si trovano a dover far fronte alle sfide derivanti da un contesto multireligioso e dal processo di unificazione europea.
“Un’Europa politicamente unita con delle Chiese divise costituirebbe una situazione intollerabile” ha detto il Vescovo di Coira Monsignor H. Grab.
È dunque necessario, ha aggiunto, intensificare sia il dialogo che la collaborazione. Il progresso del cammino della riconciliazione sarà, in ogni caso, più vero e visibile nella misura in cui le Chiese vivranno il vangelo.
Il Metropolita Daniel di Moldavia e Bucovina, membro del presidium del KEK, ha continuato la riflessione mettendo in evidenza i tre maggiori ostacoli attuali contro l’ecumenismo: secolarizzazione, fondamentalismo religioso, proselitismo aggressivo da parte delle “sette”.
È necessario, ha aggiunto, superare le controversie con un dialogo corresponsabile profondo e vivendo una spiritualità autentica.
Ed ha concluso dicendo: “Creati da un Dio che è comunione di persone, non possiamo che esistere nella comunione”.
Il Comitato ha poi proposto un cammino triennale: 2005-2006-2007 che guidi le Chiese in una riflessione su “Cristo luce dell’avvenire”.
Questo cammino offrirà alle Chiese l’occasione di riflettere, incontrarsi con riferimento alle radici cristiane dell’Europa.
CETA
Il pastore Mvune Dandala, segretario generale della Conferenza delle Chiese di tutta l’Africa (CETA) si è rivolto ai responsabili delle Chiese invitandoli ad essere in prima linea nella difesa dei diritti umani, soprattutto in Africa dove esistono delle crisi persistenti legate ai conflitti ed all’insicurezza.
V. MARIA PRESSO LA CROCE
La pericope di Gv 19,25-27 è veramente una scena notevole, inserita nel cuore del mistero pasquale di Cristo. La sua importanza emerge dalla densità del brano, dal contesto dell'"ora" e del suo rapporto con l'episodio di Cana.
Cana e la Croce
Iniziando da quest'ultimo, bisogna dire che la scena delle nozze (Gv, 1-12) non solo annunzia ed anticipa, in qualche misura, quella della croce, ma attinge in essa senso compiuto e rivela la sua densità. Poste all'inizio e al termine del Vangelo, costituiscono due episodi-chiave, fondamentali non solo per comprendere la figura e il ruolo di Maria, ma lo stesso messaggio giovanneo.
Le due scene, attentamente orchestrate appaiono in evidente parallelismo. I personaggi sono i medesimi:
In un caso come nell'altro, la Vergine non viene presentata col nome di "Maria", ma come "la madre di Gesù" e come "donna" titolo mai usato da un figlio nei confronti di sua madre! In ambedue i brani si parla dell'"ora" di Gesù, che a Cana non è ancora giunta (cf 2,4) e sul calvario è compiuta (cf 19,27). Sia l'episodio di Cana come quello della Croce sono seguiti dalla medesima espressione: "Dopo questo…" (2,12; 19,28).
E' una formula non semplicemente temporale, ma consequenziale, che nel contesto rivela notevole importanza:
Possiamo dire, in generale, che se Cana si presenta sotto il segno dell'ora non ancora venuta, la Croce costituisce il compimento dell'ora.
Se a Cana c'era il "principio" dei segni, il segno archetipo, sulla Croce c'è il segno per eccellenza (il Figlio dell'uomo innalzato) che rivela la gloria di Dio, grazie al quale i discepoli credono in lui.
Gv 19,25-27 nel contesto dell'"ora" di Gesù
La scena di Gv 19, 25-27 riceve luce dal confronto con Cana, ma rivela la sua eccezionale densità nel contesto immediato degli "atti" di Gesù in croce (Gv 19, 17-37). Si tratta di cinque episodi nei quali si articola l'ultima fase della passione;
La nostra pericope, come si vede, è al centro degli aventi supremi dell'ora di Cristo, tutti altamente simbolici e di eccezionale portata teologica.
Non si può non sottolineare con Bultmann la profonda unità di queste scene e la loro importanza dal momento che l'evangelista le presenta quale misterioso compimento delle Scritture.
Non possono dunque essere lette su un piano materiale e fenomenologico, ma devono essere intese quale rivelazione pasquale. Sembra anzi che proprio nel nostro episodio sia presene una scena di rivelazione, nella quale si manifesta la vera identità della madre di Gesù e del discepolo amato.
Nonostante la presenza di altre persone, al centro della scena del calvario ci sono - come si è notato - tre protagonisti:
Dal punto di vista della frequenza, la figura maggiormente sottolineata è Maria. Ella appare anzitutto quale madre di Gesù, ma anche come la "donna" madre del discepolo. Questa rivelazione esplicita, peculiare del quarto Vangelo, faceva parte dei segreti del Padre e del Figlio, dei misteri della salvezza, che solo al momento dell'"ora" vengono svelati.
Il discepolo, a sua volta, non è solo colui che segue il Maestro ed è da lui amato, ma - appunto perché tale - è anche il figlio della "donna".
Maria è così madre di Gesù e "donna"-madre del discepolo.
Se la maternità nei confronti di Gesù è tradizionalmente accettata, il titolo di "donna" e la maternità nei confronti del discepolo richiedono delle spiegazioni.
Il discepolo di Gesù
Come sempre nel quarto vangelo, e specialmente in queste scene della Passione, non ci si può limitare ad una comprensione materiale e dunque superficiale del messaggio. La nostra non è un semplice atto di pietà familiare nei confronti di una madre che sarebbe rimasta sola, come spesso si afferma, specie in ambito non-cattolico. Ciò contraddice al testo stesso che sottolinea anzitutto la presenza e il ruoli di Maria ("Donna, ecco il tuo figlio"), e solo in secondo luogo, come conseguenza, affida al discepolo la madre.
E poi i rapporti che intercorrono tra di essi non sono nell'ordine della natura, ma della generazione secondo lo spirito.
Chi è dunque il discepolo? E' una persona e al tempo stesso un simbolo. Secondo Bultmann le parole di Gesù innalzato solennemente sulla croce hanno in fondo lo stesso significato di quelle rivolte al Padre nella preghiera sacerdotale di Gv 17,20ss: "non prego soltanto per loro, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me…".
Anche secondo M. Dibelius "il discepolo amato" esprime "il tipo dei discepoli": l'uomo della fede, il testimone della croce, "il figlio della madre di Gesù, cioè il rappresentante dei discepoli che, con la loro posizione in rapporto a Dio, sono diventati essi pure fratelli di Gesù (20,17)".
Si noti che il discepolo, nel nostro testo, è presentato per tre volte (vv. 26-27) e sempre con l'articolo determinativo, per così dire, in forma enfatica: il discepolo amato rappresenta tutti coloro che hanno creduto ed hanno accolto Gesù. Essi costituiscono il nuovo popolo di Dio: sono la comunità dei redenti dal sacrificio dell'Agnello (al quale non dev'essere spezzato alcun osso) (vv. 33.36); sono la chiesa nata dal sangue e dall'acqua, scaturiti dal costato del Redentore (v. 34), la nuova Eva tratta dal fianco del nuovo Adamo dormiente sulla croce (cf Ef 5,23-32).
La "donna", madre dei figli di Dio
La "donna", per conseguenza, è madre del discepolo e dei discepoli, anzi della comunità di tutti coloro che erano dispersi e per i quali Gesù è morto. "Egli infatti doveva morite… per raccogliere nell'unità i dispersi figli di Dio" (Gv 11,51s).
Nel pensiero veterotestamentario i "dispersi figli di Dio" sono i figli d'Israele esiliati tra le genti a motivo dei loro peccati (cf Dt 4,25-27; 28,62-66; 30,1-4, ecc.). Il Signore che li aveva disseminati tra i popoli, lontano dalla loro terra, li ricondurrà nel loro paese e nella loro casa. Dei regni divisi di Israele e di Giuda farà un solo popolo e un discendente di Davide sarà il loro pastore (cr. Es 34, 23-24; 37,24). Con essi stringerà un'alleanza nuova, il cui mediatore sarà un misterioso "servo" di Dio (cf. es 42,6; 49,8), il quale offrirà la sua vita in riscatto per le moltitudini (cf 53,10s).
Tutte le genti verranno allora e si raduneranno in Gerusalemme, la quale diventerà madre di figli innumerevoli (cf Is 49,19-20; 60,1-9; Tb 32,12s). Già sposa di Dio - abbandonata a causa delle sue infedeltà e privata dei suoi figli - essa vedrà il ritorno del Signore ed accoglierà entro le sue mura una discendenza che non si può contare. Sarà una maternità prodigiosa ed universale. La città ed il popolo vengono indicati frequentemente col simbolo di una donna, sposa e madre, e con il titolo di "figli di Sion", invitata a gioire per la redenzione e il ritorno dei suoi figli. "Agli occhi della prima generazione cristiana - osserva A. Serra - la madre di Gesù si configurava come l'incarnazione ideale della "figlia di Sion". In lei, persona individua, maturava esemplarmente la vocazione di Sion-Geruasalemme e di tutto Israele, popolo dell'Alleanza".
Su questo sfondo, il discepolo amato rappresenta tutti i redenti, e Maria, la "donna"-figlia di Sion, simboleggia la comunità dell'alleanza, madre dei figli di Dio dispersi ed ora raccolti in unità.
Maria non è figura soltanto dell'antica figlia di Sion, nella quale peraltro le splendide promesse si realizzarono solo parzialmente e temporaneamente: ella realizza e inaugura, quale primizia, la vocazione della nuova Sion, la comunità del Nuovo Testamento, madre di tutti i credenti. Proprio perché madre di Cristo, "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29), Maria è madre di tutti coloro che sono rinati per la fede in lui. La sua maternità, iniziata con al nascita di Gesù, attinge sul Calvario la sua pienezza. Come si vede, l'episodio di Gv 19,25-27 va ben al di là di una semplice scena domestica, d'un atto di premura filiale da parte di Gesù.
L'accoglienza della madre
Di fronte a questa maternità, dono-rivelazione del Maestro, il discepolo è chiamato ad un atteggiamento di fede, a un'adesione vitale, a una decisione che sorge dal profondo della sua libertà: decisione libera, ma non facoltativa. Il discepolo amato non può non accogliere il dono del suo Signore. L'accoglienza della madre è una delle note che caratterizzano il vero discepolo di Cristo. E "immediatamente, in quel momento stesso" (è l'esatta traduzione del testo) (v. 27), il discepolo l'accolse come madre.
L'"ora" dell'accoglienza della madre - che non è tanto indicazione cronologica, ma momento teologico - coincide (ed è di grande significato) con il compimento dell'"ora" di Gesù. l'espressione "dopo questo", con la quale inizia il verso seguente (v. 28) non è - come s'è notato - una semplice formula di transizione, ma intende sottolineare uno stretto legame tra quel che precede e quel che segue. "Dopo questo "In conseguenza di ciò), Gesù, sapendo che tutto era compito, affinché si compisse la Scrittura, dice… (v. 28). Come si vede è un linguaggio particolarmente solenne, nel caratteristico stile giovanneo, che colloca il nostro episodio al culmine dell'ora stabilita dal Padre e come suggello dell'opera salvifica. Con il dono-rivelazione di Maria quale madre dei credenti e con la sua accoglienza da parte del discepolo si compie l'opera di Cristo.
Sono visioni splendide e grandiose, che emergono quali perle preziose dalla profondità del Vangelo di Giovanni. La aveva già intuite il grande genio di Origene, per il quale nessuno può attingere il senso del quarto vangelo se non si è chinato sul petto di Gesù e se non ha ricevuto da Gesù Maria par madre.
Alla luce dell'episodio di Maria presso la croce, si illumina anche il misterioso "segno" di Cana. Si comprende meglio il senso delle nozze e dell'"ora", e il compito di quella "donna", nella vita dei discepoli del Signore.
L’enfant terrible del cristianesimo
di Daniel Marguerat *
In un recente, illuminante libretto, Daniel Marguerat ritorna sulla modernità di Paolo, l’enfant terrible del cristianesimo. Spirito dottrinario, tono ruvido, antifemminismo… non avrebbe sviato il puro messaggio di amore di Gesù in una opprimente dottrina del peccato? Già durante la sua vita, questo rinnegamento del giudaismo irritava. Oggi, molti cristiani lo hanno accantonato, e credono senza Paolo o malgrado lui. Chi legge ancora la corrispondenza di questo apostolo poco amato? Chi coglie l’importanza della "giustificazione secondo fede" o della "salvezza al di fuori delle opere della Legge"? Tuttavia, senza di lui, senza il suo genio a formulare le verità essenziali del cristianesimo, la cristianità sarebbe rimasta un’oscure setta. Senza di lui, duemila anni fa, il messaggio di Cristo non avrebbe infiammato il mondo intero. Se si vuole comprendere la rivoluzione che ha rappresentato nel I secolo lo slancio della fede cristiana, non si può evitare di leggere, e di voler comprendere, questo gigante definito talora il "fondatore del cristianesimo". Non senza fondamento: egli fu, più di chiunque altro, fondatore di comunità.
* Professore di Nuovo Testamento
Facoltà di Teologia, Università di Losanna
Tra Saulo di Tarso (il suo nome aramaico) e Gesù di Nazareth vi è ben poco in comune. Come spiegare allora che l'uno è stato preso per l’altro? Gesù è un ebreo della campagna palestinese, di professione falegname, figlio del popolo e amico di peccatori. Il suo messaggio si rivolge agli uomini e alle donne di Israele. Il suo ministero si è limitato alla Galilea, con un breve sprazzo finale a Gerusalemme. Saulo è un intellettuale della diaspora, nato a Tarso vicino ad Antiochia. Uomo di città e di cultura. Il suo impegno netto nel movimento farisaico lo ha introdotto nell'èlite religiosa del giudaismo del tempo. Forse fu allievo del grande rabbi Gamaliele (At 22,3). Ad ogni modo, la sua formazione all'esegesi rabbinica fu quella di un allievo brillante, capace di maneggiare la Scrittura secondo le regole dei maestri. La pratica del gezera shava, consistente nell'accostare due citazioni per interpretare l'una grazie all'altra, non ha per lui segreti (esempio: Gal 3,l0 e 12). Anche sostenere una parola della Torà con una citazione dei profeti è altrettanto comune in lui come nei rabbini della miglior tradizione. D'altra parte, le più recenti ricerche sul suo modo di condurre l'argomentazione mostrano che l’apostolo delle Genti è esperto nella pratica della retorica greco-romana, alla pari di un Cicerone o di un Quintiliano. Nulla di sorprendente, se si sa che la città di Tarso ospitava un'apprezzata scuola stoica: il padre di Paolo si fece un punto d'onore di mandarvi il figlio. Attraverso l’apprendimento della retorica passava una cultura raffinata.
Le sottigliezze di una doppia cultura
Queste due componenti della cultura di Paolo di Tarso spiegano la difficoltà di comprenderlo oggi; il suo stile, la sua logica, sono quelli di un uomo che suona costantemente su due tastiere: lo stile figurato, analogico del rabbi, e l'argomentazione lineare del retore romano (con introduzione, tesi, dimostrazione e perorazione). L'estrema difficoltà, per gli esegeti, consiste proprio nel tenere collegate le due modalità della sua riflessione, senza farle pendere completamente dal lato della sottigliezza rabbinica o dal lato del rigore dialettico. Ma il confronto con Gesù di Nazaret ripropone il problema: come capire che Paolo, l'intellettuale fariseo di alto livello, sia stato conquistato dal destino dell'uomo di Nazaret? La risposta va cercata nel folgorante sconvolgimento che è la "conversione" di Paolo sulla strada di Damasco. La si fa risalire all’incirca all'anno 32, cioè due anni dopo la morte di Gesù. La fede cristiana, Paolo non l'ha scoperta al suo tavolo di lavoro. Neppure nella profondità della meditazione. All'interno della sua pratica, all'interno della sua militanza, Paolo è stato fermato da Dio. Bloccato nel suo slancio. Ma che cosa è accaduto sulla via di Damasco perché Paolo ne esca stordito, demolito, smarrito? L'uomo si manterrà sempre riservato su questo punto. Quel che certo, è che, un giorno, le basi su cui aveva costruito la sua vita gli sono improvvisamente venute meno. Ne resta traccia in un passaggio autobiografico della lettera ai Filippesi. Paolo inizia elencando il suo impressionante albero genealogico-religioso: "circonciso l’ottavo giorno, della stirpe d'Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa: irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge (Fil 3,5-6). Non si potrebbe pretendere maggiore garanzia di appartenenza ebraica! L'eccellenza dell’uomo di Tarso in materia di pietà legale gli permetteva di definirsi, con fierezza, "irreprensibile". Questo forte radicamento nella Torà lo aveva condotto, con tutta la tradizione farisaica, a rifiutare qualunque credito alla fede cristiana in un Messia crocifisso. Che il Dio onnipotente avesse qualche cosa in comune con il corpo di Gesù appeso al legno della croce non poteva essere che una ridicola superstizione, pericolosa e sovversiva. "L'appeso è una maledizione di Dio": questa frase del Deuteronomio (21,23) era citata come un anatema contro questi eretici. Si può confondere la grandezza divina con la fine miserabile di un Galileo, giudicato e condannato come blasfemo? È questo il motivo per cui, nella sua logica estremistica (la sua personalità lo porta a questo), Paolo si era ripromesso di difendere l'onore di Dio punendo quelli che iniziavano ad essere chiamati "cristiani". (Gal 1,13).
Fallimento della religione
Damasco è la scoperta di un fallimento. Non lo scacco di un uomo che non sarebbe stato capace di adempiere ai precetti della Torà. Al contrario: "irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall'osservanza della legge" (Fil 3,6). È lo scacco della Legge o, più esattamente, lo scacco della fede nella Legge che si presenta a Paolo come una folgorazione. Ecco dove conduce la Torà: a mettere in croce il Messia. Damasco è questo volgersi dello sguardo di Paolo sulla croce, che lo porta a capire come, al culmine dell'impegno per Dio, al culmine della pietà, l'uomo costruisca una croce per il Figlio. Paolo non determina lo scacco del giudaismo, come se altre credenze potessero meglio cogliere il mistero di Dio. Riflettendo su questo problema all'inizio della lettera ai Romani (1,18-3,20), Paolo giunge alla conclusione che "l'ebreo come il greco" falliscono nel loro tentativo di conoscere Dio. Paolo segna lo scacco di ogni religione. Non, una volta di più, attraverso il raziocinio, ma per averlo vissuto nella sua personale esperienza di vita. Ogni religione fallisce nel momento in cui fa nascere nell'uomo l'illusione di poter costruire il proprio valore davanti a Dio. Che si tratti di ammansire Dio attraverso l'osservanza della Torà (l'indagine dell'ebreo) o che si tratti di avvicinarsi a Dio attraverso la ricerca della sapienza (l'indagine del greco), l'errore è lo stesso: in entrambi i casi la pietà diventa un modo di catturare il divino per accattivarselo (I Cor 1,18-25). È il motivo per cui, dirà Paolo ai Corinzi, Dio ha scelto di salvare gli uomini attraverso il messaggio insensato, risibile, della croce: "E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani" (1,22-23).
Alla sconfitta della religione che tenta di catturare Dio, Paolo oppone la pura gratuità della grazia.
Dio di tutti e di ciascuno
Non si comprende nulla del pensiero di Paolo se non si coglie a quale punto la sua immagine di Dio si è trovata proiettata: lo scorge all’opera nella sua fragilità. Lo credeva tirannico, lo scopre solidale. Lo pensava lontano, ed eccolo presente in ogni sofferenza. Dio non si lascia scoprire che da parte di coloro che abbandonano l'immagine del dio tirannico e si lasciano "giustificare", cioè accogliere, sulla sola base della loro fede in Lui.
Con Paolo inizia questa scoperta, immensa nella storia dell'umanità, del valore di tutti e di ciascuno. Che ogni uomo riceva da Dio un valore insostituibile, nessuno l'aveva affermato con altrettanta forza. Che l'essere umano abbia un valore che non dipende né dalla sua età, né dal suo sesso, né dal suo denaro, né dalla sua pietà, né dal suo ruolo nella società. Che ogni essere sia apprezzato da Dio indipendentemente dalla sua morale o dalle sue (buone) intenzioni, ecco la convinzione che brucia nel centro della teologia di Paolo. E, nelle categorie farisaiche della retribuzione, Paolo dirà: Dio giustifica ognuno senza badare alla sua osservanza della Legge. Egli concede la vita all'uomo "senza le opere della Legge" (Rm 3,21-28).
Di questa idea si alimenterà un concetto che segnerà profondamente l'Occidente cristiano; il concetto di individuo. Sotto l'influsso del pensiero paolino, l’umanità accoglie questa idea che l'individuo, sono qualsiasi latitudine viva, ha lo stesso valore. La Rivoluzione francese aggiungerà: deve godere degli stessi diritti.
Un problema di libertà
La doppia cultura di Saulo di Tarso (greco-romana ed ebraica) gli permette sintesi folgoranti, di cui la cristianità si alimenterà per crescere. La sconfitta della religione è una prima sintesi. L’approccio paolino al problema della libertà ne è un'altra. Gli stoici (ad esempio Epitteto o Seneca) ponevano con insistenza la questione della libertà umana. L'uomo è libero nelle sue scelte? Governa la propria vita? Alla constatazione negativa, gli stoici aggiungevano una risposta: dominare le passioni permette all'uomo di avvicinarsi alla libertà. Paolo riprende la questione, ma la sua constatazione è più radicale: non solo l'uomo non è libero, ma non è in grado di riconquistare la sua libertà attraverso un progetto di autocontrollo. Il peccato - nessuno nel Nuovo Testamento penserà il peccato con maggiore profondità di Paolo - aliena l'uomo e lo scaglia contro Dio. La sola via d'uscita per l'essere umano è di essere liberato dal di fuori, dal momento che non può farlo da solo. Il cap. 8 della Lettera ai Romani descrive questo lavorio dello Spirito nel credente, che, liberandolo dalla costrizione di costruire la sua propria salvezza, lo libera dalla preoccupazione di sé e lo apre alla cura di un altro.
Distruttore della Legge?
Rifiutando la Legge come via di salvezza, Paolo si è attirato l'incomprensione e la collera dei suoi antichi correligionari. Malgrado i suoi dinieghi ("la Legge è santa e santo e giusto e buono è il comandamento", Rm 7,12), l'apostolo delle Genti non si libererà mai dal sospetto di essere un trasgressore della Legge. All'intento del nascente cristianesimo, questo punto costituisce una grande divergenza tra Paolo e il giudeo-cristianesimo di Gerusalemme dominato dalla figura di Giacomo, fratello del Signore. In realtà, se Paolo nega alla Torà la capacità di essere strumento di salvezza (ormai conta solo la fede), Paolo non rifiuta la Legge quando si tratta di segnalare la fedeltà di vita cui sono chiamati i credenti. Arriva anche a dire che "la giustizia della Legge si compie in noi, che non camminiamo secondo la carne, ma secondo lo Spirito" (Rm 8,4). In pratica, il credente, non più preoccupato per sé, può aprirsi all'amore dell'altro, cosa che costituisce - per Paolo come per Gesù - il centro della Legge.
Se il rimprovero di distruggere la Legge non è giustificato per quanto riguarda Paolo, il suo discorso sul fallimento della religione (compresa quella ebraica) poneva l'apostolo davanti ad una via senza uscita: Dio, dando già da millenni, la Legge ad Israele, avrebbe sbagliato?
Perché il giudaismo?
La storia del popolo eletto sarebbe stata una storia inutile? Nei capp. 9-11 della Lettera ai Romani di Paolo, costretto ad affrontare la questione, propone una riflessione fondamentale sul destino di Israele. Essa rimane essenziale su quello che noi potremmo (e dovremmo) pensare oggi delle relazioni tra cristianesimo e giudaismo. La formula della salvezza offerta a "chiunque crede" fonda in realtà l'universalità della grazia, ma, contemporaneamente, sottrae ogni consistenza alla particolarità di Israele. Se il cristianesimo è la religione del Dio universale, perché il giudaismo? Seguiamo da vicino le argomentazioni di Rm 9-11. Paolo comincia col constatare il rifiuto opposto da Israele al Messia: gli ebrei non vogliono il Cristo (Rm 9), La parola di Dio è sconfitta? No, Dio indurisce chi vuole, dice Paolo, ed apre il cuore a chi vuole. Questo non impedisce, continua Paolo (Rm 10), che la maggioranza degli ebrei si sia chiusa alla parola del Vangelo. Essi hanno sentito la notizia, ma non vi hanno creduto. Dio avrebbe dunque rifiutato il suo popolo? Il semplice enunciato della questione fa sobbalzare Paolo (Rm 11): assolutamente no! In realtà, la storia di questo popolo ha sempre conosciuto l’indurimento della maggioranza e la fedeltà di un piccolo resto. I cristiani non ebrei corrispondono oggi a questa logica del piccolo resto: essi credono, mentre la maggior parte di Israele rifiuta.
L'enunciato di un mistero
Giunto a questo punto, Paolo sfiora la contraddizione: da un lato Israele è colpevole di chiudersi al Vangelo; dall'altra, fede e indurimento del cuore sono opera di Dio. A quale conclusione arrivare? Da questa scomoda posizione, l'apostolo fa la professione di un mistero: "Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l'indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che non saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato" (Rm 11,25-26).
Conclusione sbalorditiva! Al pericolo di cadere in contraddizione, Paolo sfugge enunciando un mistero teologico, cioè di una verità che non è data come la conclusione di un ragionamento, ma come una rivelazione. Il suo contenuto è chiaro: alla fine dei tempi, Israele sarà salvato. In altri termini Paolo ammette Israele ai beneficio della giustificazione per fede (quello stesso messaggio che Israele rifiuta). Se è vero che Dio salva per grazia, e senza tenere una contabilità degli sforzi dell'uomo per soddisfarlo, allora non terrà conto del rifiuto che Israele oppone al Messia. La grazia vale anche per il popolo eletto. Attraverso questo mistero, Paolo perviene a rendere giustizia da un lato alla scelta della maggioranza degli ebrei, che rompe col Cristianesimo e non vuole questo Messia. Egli prende dall'altro in considerazione la fedeltà di Dio alle sue promesse: Dio non rinnega la sua parola, nè i suoi. L'apostolo lascia così aperto l'avvenire di Israele, come una storia che deve compiersi tra Dio e il suo popolo eletto, e non riguarda che loro due. Se i cristiani hanno ragione di considerarsi beneficiari della grazia, il destino del popolo ebraico non li riguarda. Questo destino appartiene, giustamente, ad un mistero che si è già avviato tra Abramo e Dio. A questa inviolabile tenerezza di Dio per Israele, nessuno potrebbe attentare. Ma questo dovuto annullamento davanti alla grazia sovrana di Dio non significa per Paolo essere ridotto al silenzio: nel corso della sua intera corrispondenza, egli non cesserà di testimoniare che un dialogo esigente e serrato con il giudaismo è indispensabile alla ricerca della propria identità da parte del cristianesimo.
(da Il mondo della Bibbia n. 53)
L’ambito "spirituale" non si sottrae all’influsso dell’immenso mercato consumistico che offre, senza sosta, sempre nuovi prodotti. Le proposte, gli approcci e i metodi si moltiplicano rivendicando efficacia e successo.