Uno sguardo storico su questo passato mi pare particolarmente istruttivo perché dice parecchie cose, talora sorprendenti, sul concilio, sulla liturgia e anche sulla chiesa.
1. Qualche sorpresa
La prima sorpresa è proprio la distanza e il nesso che separano la riforma liturgica dalle intenzioni dei padri conciliari: il De liturgia nacque e andò avanti grazie al credito 'restauratore' che il Movimento liturgico aveva guadagnato. In una chiesa arroccata l'idea che si potesse riformare arretrando nel passato - in parte vera, in parte strumentale - era una delle poche vie rimaste sgombre dalle ottuse censure del Sant'Uffizio. Il Movimento liturgico crea consenso attorno a questa metodo e con la sua stessa esistenza punta a riaffermare il valore della dimensione celebrativa. Pone inoltre un principio che relativizza le architetture istituzionali dei trionfalismo cattolico della prima metà del secolo. Quando il concilio approva la riforma, dunque, consacra un metodo, approva una intuizione: ma non sa dove si andrà a parare. Qualcuno si affanna per cercare di trovare nell'evento conciliare frammenti di prova che dicano che i padri del Vaticano II avevano in mente 'altro', ma è uno sforzo vano. Il concilio non ha disegnato una lucida meccanica della riforma, nè ha inteso offrire alla chiesa una finta riforma nella quale tutto restava - nella sostanza - fedele a quei metodi che ancora oggi, per chi ha più di cinquant' anni, profumano di giovinezza e sacralità. Il Vaticano II ha semplicemente disincagliato la comunità celebrante da un fissismo e da un immobilismo dovuti a contingenze storico-teologiche ormai superate e ha indicato alla chiesa una dipendenza dall'atto del celebrare di cui nessuno - né allora e neppure oggi - è in grado di pronosticare tutte le conseguenze, perché in quell'atto la chiesa si scopre celebrata dal suo Sposo e incontrata nel suo desiderio di vita. Questi quarant'anni, dunque, svelano che il coraggio del concilio non è consistito nel consacrare la posizione dottrinale più avanzata e anticonformista del panorama teologico, ma nel professare una fede nella chiesa così come essa è.
La seconda sorpresa che viene dalle analisi storiche sul quarantennio di riforma, riguarda proprio la liturgia: personaggi non secondari non credevano, all'avvio del Vaticano II, che la liturgia avesse tutta la forza che ha dimostrato e pochissimi alla fine del concilio erano in grado di cogliere in Sacrosanctum concilium la formulazione più lucida della ecclesiologia di comunione. Eppure è stato proprio così: la riflessione iniziata in quell'atto e in quel breve torno d'anni ha sbriciolato quella visione funzionalistica della liturgia che faceva tutt'uno con l'identità della latinità cattolica. In quella cultura teologica (ma anche politica e spirituale) la liturgia serviva alla «vera chiesa» per adempiere ad un dovere obbligante e questa immagine era così profondamente introiettata dal clero e dai fedeli che ogni accenno al mistero o alla comunità suonava sospetto. La pietà e la devozione avevano raccolto in modo collaterale secoli di sottovalutazione della liturgia, ma non avevano potuto rovesciare la situazione. Con il Vaticano II la liturgia riprende la sua centralità plasmatrice di tutta la vita della chiesa, avvalora o denuncia atteggiamenti senza far altro che essere celebrata.
Infine il quarantennio di riforma dà un ritratto sorprendente della chiesa cattolica. Certo per molti anni - e ancora oggi - c'è stata e c'è una retorica della liturgia che si esprime in atti disciplinari, in norme severe, in considerazioni neo-immobiliste su ciò che nella comunità che celebra deve esistere; poi c'è una realtà liturgica concreta, che non è semplicemente 'pluralistica' ma è 'viva'. Sono migliaia le comunità nelle quali si esprime - ora con gioiosa allegria, ora con colori tetri - la realtà delle comunità, dei presbiteri, dei vescovi: in questo la liturgia esprime il suo compito che è quello di descrivere continuamente la chiesa non nel suo dover-essere, spesso così distante da tutto, ma nella sua realtà, che viene coltivata o curata con la carità e non con le grida. Perfino la cappella papale, per secoli simbolo del theatrum della rigidità romana, è ormai continuamente attraversata da spezzoni rituali e spirituali del tutto locali, tutt' altro che 'universali', se universale vuol dire riproducibile all'infinito senza dichiarare nessuna variazione di rilievo.
2. Un grande percorso, non ancora compiuto
Certo rimangono molti problemi aperti: basta pensare alla procedura (tecnicamente si direbbe cassazione per desuetudine) con la quale la penitenza auricolare è stata messa da parte, senza che nessuno si curasse di offrire valide alternative al bisogno di riconoscersi peccatori e perdonati che gli uomini e le donne di oggi hanno non meno di ieri; oppure all'anomala dinamica che si è ormai ingenerata fra comunione e scomunica, in base alla quale individui - individui che però hanno legami famigliari e amicali, storie e percorsi - colpevoli di condotte incongrue con la morale devono scegliere fra una dissimulata disobbedienza alla disciplina che li scomunica e la accettazione di norme nelle quali è difficilissimo riconoscere l'esempio di Gesù; o ancora al rapporto che si è generato fra liturgia e movimenti, portatori di nuovi 'riti' che diffondono nel mondo nuove uniformità, senza che i vescovi possano rispondere o esercitare il loro ufficio di discernimento
Eppure il quarantennio trascorso appare all'occhio dello storico - sempre desideroso di trovare le continuità e gli stacchi - come un grande processo innovativo che deve ancora trovare il suo compimento. Questo processo non sarà certo fermato dal piagnucolare tradizionalista - che va guardato col rispetto che merita chi soffre nel veder allontanarsi la propria giovinezza, con i suoi gusti e i suoi vezzi - o tanto meno la sua strumentalizzazione compiuta talora per affermare il diritto delle Congregazioni a vigilare sull'«unità del rito romano». Ormai certe parole della liturgia, pronunciate e comprese da tutti, sono poste come un seme nel passato e nel futuro del cattolicesimo: ciò che sta ancora fermentando nella chiesa era inimmaginabile alla razionalità previsionale dei padri conciliari, ma non c'è dubbio che ciò che essi volevano era una chiesa nel quale il vino nuovo della fraternità fermentasse in otri nuovi, com'è giusto che sia.
Alberto Melloni
«Perché il popolo cristiano ottenga più sicuramente le grazie abbondanti che la sacra liturgia racchiude, la santa madre chiesa desidera fare un'accurata riforma generale della liturgia. Questa infatti consta di una parte immutabile, perché di istituzione divina, e di parti suscettibili di cambiamento, che nel corso dei tempi possono o addirittura devono variare, qualora si siano introdotti in esse elementi meno rispondenti alla intima natura della liturgia stessa. In tale riforma l'ordinamento dei testi e dei riti deve essere condotto in modo che le sante realtà che essi significano, siano espresse più chiaramente e il popolo cristiano possa capirne più facilmente il senso e possa parteciparvi con una celebrazione piena, attiva e comunitaria».
(Sacrosanctum concilium 21)