Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Camminare senza confini per donare la propria vita, affinché gli altri la tengano in abbondanza... «Niente per cui uccidere e niente per cui morire» è il modello di vita che ci propone una famosa canzone di John Lennon.

Elementi essenziali della vita contemplativa
 come mezzi di crescita personale
di M. Cristiana Piccardo o.c.s.o.


 



Per Benedetto gli elementi essenziali che costituiscono l'identità di un monaco cenobita sono solamente tre: la comunità stabile, la regola, l'abate. E - come dice Dom Armand Veilleux - è importante notare l'ordine con il quale Benedetto li presenta. Nella storia del monachesimo sempre più si è tentato di invertire l'ordine che ci trasmette San Benedetto, o si è dato un'importanza smisurata all'uno o all'altro di questi tre demeriti. La tradizione monastica e, in particolare quella benedettina si è deformata generando o un atteggiamento legalista (importanza smisurata alla Regola), o una forma di autocratismo (ruolo esagerato dell'abate), o una forma di democratismo (autorità preponderante del gruppo sopra l'individuo). Quello che conta per Benedetto è la koinonia fra i fratelli, affondando nel solco della Regola che ci purifica come oro nel crogiolo, e aderendo fedelmente all'autorità, fonte della nostra unità.

Ma io desidero parlare molto semplicemente della mia esperienza poiché non è strumento per una esplorazione culturale.

La domanda che uno si pone è: ci sono elementi nell'osservanza monastica che non sono essenziali per favorire la crescita della persona che si consegna alla vocazione contemplativa?

Quando io sono entrata alla Trappa 45 anni fa non avevo idee molto chiare: mi affascinava la struttura liturgica del monastero, con il tempo totalmente ritmato per la lode del Signore e mi affascinava l'idea che quelle monache si guadagnavano il diritto di vivere la propria vita con il lavoro delle proprie mani in una struttura pienamente comunitaria. Credo che la mia generazione era tutta un po’ socialista alla fine di una dittatura fascista e percepivamo come una esperienza di grande libertà incontrare gente che affermava liberamente la sua scelta di vita senza condizionamenti esterni di nessun tipo. In fondo - questo è certo - l'intuizione più profonda era il desiderio di offrire la vita al Signore senza diaframmi di interessi mondani, e, personalmente, la speranza di vincere la mia propria esasperata autonomia con una vita sigillata dalla continua obbedienza. Tuttavia la, forza dell'orazione liturgica e l'autonomia lavorativa della comunità esercitarono il suo peso significativo in quel momento iniziale.

In ogni modo, se consideriamo i mezzi di crescita che la vita monastica offre, devo confessare che, nel mio personale impatto iniziale con il monastero, non furono i valori tradizionali dell'orazione, la lectio, la solitudine, il silenzio, la clausura, che comunque avrebbero conformato la mia vita, quelli che .richiamarono la mia immediata attenzione e marcarono la mia esperienza iniziale, ma piuttosto l'impatto sperimentale con realtà molto semplici, come per esempio la ristrettezza e la nudità della cella in un grande dormitorio comune e la consolazione che mi riempiva il cuore, quando svegliandomi al suono delle Vigilie, dopo vari incubi notturni, potevo toccare i muri della cella e dire: «Sono ancora qua!». Mi invadeva un grande stupore perché mi pareva miracoloso che una comunità trappista potesse accertare e sopportare un tipo come me.... E mi marcò anche il lavoro dei campi di tutti i giorni, la lunga fila delle novizie, ciascuna con la sua zappa sotto il braccio, che seguiva la madre maestra che era a capo della fila. Ricordo che il primo lavoro che mi chiesero fu quello di mettere letame naturale su una coltivazione di carciofi e poiché le piante erano piccole era necessario mettere il letame con le mani. Io venivo da un ufficio editoriale di giornali e riviste e il contatto brutale con la terra e gli escrementi della stalla mi provocò delle risate tremende e molto poco... monastiche a causa dell'immediata e concreta visione della mia persona aldilà delle etichette... editoriali del passato.

Come potete vedere non erano mezzi di alta qualità monastica, ma mi dettero fin dal principio un sentimento tanto forte del realismo della vita benedettina e la piccolezza dell'uomo quando si confronta con la nudità del reale, che tale esperienza rimase viva in tutta la mia vita, insieme con un certo sentimento di umorismo nella considerazione di quello che siamo abituati a ritenere come importante e qualificato nel mondo e che si dissolve rapidamente di fronte a un...letame naturale.

Questo per dire che non ci sono mezzi più atti che altri per favorire la crescita di una persona nella vocazione monastica, ma che è tutto l'insieme di un'esperienza di vita quello che trasforma e fa crescere colei che entra nella vocazione contemplativa. In ogni modo analizzeremo alcuni degli elementi essenziali - non tutti, certamente - e non nella forma esauriente e profonda. Solo alcuni piccoli flash.

Una fonte di formazione - parlo sempre di una esperienza iniziale, la mia. - fu di incontrare modelli. Chiaro, provenendo da una società che aveva vissuto lo sfascio totale di ogni modello nella seconda guerra mondiale, i modelli avevano per la mia generazione un peso particolare. Senza dubbio credo che anche oggi questo peso vitale sia importante. Parlo di modelli nel senso di persone che trasmettono un esperienza.

I primi modelli furono la figura stessa delle mie superiore. Le mie prime due badesse non poterono portare a compimento il loro incarico sessennale di governo per motivi di salute, senza dubbio furono per me un modello ispiratore e stimolante. Madre Immacolata per la ricchezza della sua umanità, la meraviglia della sua libertà e della sua capacità di amicizia; Madre Armanda per la sua umiltà e la sua costante capacità di gratitudine. Anche la mia Madre Maestra per la sua abnegazione inesauribile e la sua regolarità esemplare nell'osservanza monastica marcò profondamente tutto il mio noviziato popolato da trentun persone.

A volte non lo sottolineiamo abbastanza, però la forza di un modello positivo ha un immenso valore nella crescita formativa delle giovani. Una vita si trasmette con la vita. I valori di un carisma si trasmettono con esempi vivi - più che con i libri e le chiacchiere. Senza dubbio la forza pedagogica dei modelli non sta nella sua perfezione, ma piuttosto nella perseveranza della loro risposta al Signore e alla vita.

Nella nostra società c’è una mancanza crudele e drammatica di esempi che costruiscano un modo di vita convincente e trasmettano una tradizione feconda. Questo ci interpella molto a livello dell'esercizio dell'autorità e del ruolo formativo della comunità. Il processo di maturazione, anche se non vogliamo ammetterlo, si muove - almeno all'inizio dell'esperienza monastica - su modelli. È la comunità la depositaria del carisma vocazionale al quale siamo stati chiamati e c'è una forma di trasmissione del carisma che passa di generazione in generazione attraverso i modelli di vita che troviamo nella concreta realtà della comunità. Per questo ho considerato sempre come una delle più preziose indicazioni pedagogiche quello che si soleva dire al mio tempo nelle nostre comunità: ogni generazione trasmette alle nuove la grazia della casa e il carisma dell'Ordine. Di generazione in generazione: è un elemento biblico, pedagogico e umano di primordiale importanza.

Chiaro, l'immagine del «modello» può essere ambigua se ci identifichiamo troppo con esso in modo sentimentale o ripetitivo e non conserviamo la serena distanza di una oggettività matura, però è ancora più ambiguo se non si ha un processo di filiazione nella crescita vocazionale: un sentirsi figli della comunità, generati dalla sua grazia, dalla sua storia., dalla sua realtà così come è. Sia come sia, viviamo di quelli che ci sono arrivati al cuore attraverso i canali vitali di chi ci ha preceduto. Nel contatto con le monache che sono uscite dalla nostra comunità fondatrice per le diverse fondazioni, sempre mi ha colpito profondamente la presenza del loro ricordo delle anziane della comunità di origine. Non era tanto il ricordo della compagna. di banco, o della badessa dell'epoca, quanto delle anziane che avevano lasciato solchi vitali nella trasmissione di un carisma e di una santità. L’importanza della tradizione e della trasmissione è vitale per qualsiasi crescita formativa e la comunità può trasmettere solo, nella misura che assume seriamente, il ruolo formatore che le compete, vive nella novità della fedeltà alla sua tradizione e si muove con grande apertura di cuore verso le nuove generazioni. Mai la trasmissione - se è vitale - è impositiva, però sempre offre la ricchezza di vita del passato che feconda la speranza del futuro. Normalmente solo chi dà valore al passato ha il senso del futuro, chi sa trarre dalla tradizione ha intuizione dell'avvenire e solo nella fedeltà a una trasmissione sviluppa una creatività audace ed esigente.

Ricordo un abate, ci diceva che la sua attuale esperienza di superiore era stata molto facilitata grazie all'esempio che aveva avuto sotto gli occhi durante 19 anni. Diceva: «Non voglio idealizzare il padre che ho avuto nella persona del mio abate, ma posso dire che in situazioni impreviste. scomode, difficili, il mio unico e primo riflesso è stato di fare come avrebbe. fatto lui».

Quello che affermiamo sui modelli ci permette di dire una parola in più sull'importanza della maternità e paternità nel servizio dell'autorità. È un altro elemento essenziale che modella profondamente il processo formativo. A volte abbiamo un'idea viscerale della maternità (o paternità) e questo non ci permette di vivere una filiazione autentica e sana. Facilmente ci sentiamo generati dall'affetto più che dalla parola che l'autorità ci dice. Molto spesso non cogliamo il valore di una parola, di un'indicazione, di una osservazione perché non ci è arrivata con tutti... i carismi che gratificano la nostra affettività, la nostra sensibilità e perdiamo l'occasione meravigliosa di lasciarci generare in una filiazione che riflette in noi l'eterna vocazione del Figlio di Dio. Diamo più importanza alla forma che al contenuto. Sicuramente la forma ha un imprescindibile valore, però oggigiorno si è dato un tale valore alla forma che la correzione diretta e l'indicazione senza guanti è considerata violenza e aggressione. La forma non è tutto. Quello che cambia una persona, che mobilita la sua crescita e la sua trasformazione è l'interiorizzazione della parola che riceve, al di là della forma con la quale la parola le giunge. Senza dubbio in questo ascolto si situa l'obbedienza monastica e sappiamo che l'obbedienza non è tale se è unicamente esecutiva. Ciò nonostante c’è qualcosa in più in questo lasciarci generare dalla Parola: c'è un incontro esistenziale con la presenza del Signore e la sua eterna volontà che ci relaziona direttamente con il mistero di Cristo e la sua eterna filiazione divina e umana. Mistero di un ascolto che, passando attraverso la Carne dell'uomo, si lascia portare fino all'obbedienza della croce.

Sicuramente l'esperienza più completa nel processo di crescita personale è la conoscenza e l'accettazione di se stesso. Incontrarsi con la propria verità, accettarla e assumerla responsabilmente non è un cammino facile per nessuno. Sicuramente le discipline psicologiche sono un aiuto grande e possiedono strumenti che facilitano una penetrazione cosciente del proprio mondo interiore, della propria storia personale, del normale traumatismo della vita, del processo di integrazione. Tuttavia l'analisi psicologica non è tutto, non dà tutto. C'è una purificazione, una morte dell'io che acquista il suo senso solo quando giungiamo a dire: Cristo è il mio unico io, la mia unica vita, il mio unico amore. L’accettazione della mia persona e la sua proiezione nel processo di conversione in definitiva è realmente possibile solo quando giungiamo a dire: «non vivo più io, vive in me Cristo». La conoscenza di sé e l'integrazione della propria realtà non è solo un processo di maturazione psicologica ma un processo di fede. È importante comprenderlo poiché la tentazione è chiedere all'analisi la soluzione di tutti i nostri problemi. Arriviamo ad essere competenti delle nostre storie e innalziamo grandi paraventi di difese carichi dei nostri traumi infantili. Ma se non facciamo un passo nella fede, se non abbracciamo la croce di Cristo rimaniamo fuori dalla verità e realtà della vita e non camminiamo verso l'autentico compimento delle nostre persone.

È chiaro: i giovani e i meno giovani devono essere accompagnati fino al limite del possibile (e dell'impossibile: la formazione è sempre un rischio), hanno bisogno di essere costantemente confermati (sottolineo la parola 'confermati') nella vita dei valori di un carisma e dei segni che lo esprimono, soprattutto quando la stanchezza, la monotonia della routine, il dubbio hanno il loro peso. Tuttavia ogni persona ha il suo pizzico di positivo ed è valorizzando il positivo che il negativo si trasforma e non disturba. Se ci preoccupiamo solo di prendere di mira il negativo tagliamo le ali e paralizziamo il cammino. Hanno anche bisogno di essere accompagnati con molta pazienza nella presa di coscienza delle realtà negative della vita comune (temperamenti difficili, cattivi comportamenti asprezza nelle relazioni, incoerenze, povertà umana e culturale...) per crescere in una dimensione di fede che assuma il Corpo del Signore, nostra piccola chiesa monastica, così come è, senza pretendere di modellarla con le nostre categorie di perfezione o vivere sognando una comunità ideale che non esiste e camminando fuori della realtà.

In questo processo di accompagnamento ci sono nella vita monastica osservanze insostituibili che sono particolarmente feconde e che tutti conosciamo molto bene.

La liturgia come fonte prima di crescita personale e comunitaria di fronte a ciò che gli studiosi notano come assenza di interesse per il mistero e la ricerca di gratificazione immediata che sembra caratterizzare la gioventù di oggi, la liturgia offre la celebrazione del mistero di Cristo e con la sua pregnanza salmica ci pone costantemente di fronte al mistero dell'uomo, della sua origine e del suo destino, del suo peccato e della sua morte e ci dà un senso del tempo che già sbocca fortemente nell'eterno. L'avvicinamento al mistero è pieno e quotidiano e ci situa al di là dell'immediato palpabile e ci apre a dimensioni che rivelano l'ampiezza della realtà dell'uomo e del suo destino.

Di fronte al problema della gratificazione immediata c'è nella liturgia una forza di ringraziamento che può introdurci in questo benedetto terreno della gratuità che sembra tanto lontano nell'esperienza di calcolo mondano che si muove unicamente su criteri di efficienza e successi.

Inoltre, se è vero che la qualità essenziale dell'io umano - e la sua capacità di relazione, la liturgia è un tessuto di relazione continua - non solamente con Dio - ma anche con i nostri fratelli, le nostre compagne di coro che cantano al nostro lato e con le quali dobbiamo sintonizzare la nostra voce, mentre l'esercizio della pazienza per sopportare con semplicità di cuore chi stona, chi sbaglia, chi arriva tardi, chi non apre i libri... ci fa entrare in una relazione molto diretta e forte con tutta la comunità, una relazione in cui si giocano tolleranza, misericordia., comprensione, compassione e corresponsabilità.

Soprattutto la liturgia sottolinea i sentimenti primordiali dell'uomo, così come i salmi ce li presentano in forma molto diretta, e ci aiuta ad assumere i nostri sentimenti in tutto il loro realismo. Sappiamo che oggi uno degli scogli per lo sviluppo della Formazione è il contatto con la realtà nella sua nudità, verità e concretezza. La ricchezza della Parola che la liturgia ci presenta può facilitare questo contatto con la verità dell'essere umano e con la realtà più profonda della vita.

L'immersione nella dimensione liturgica della preghiera monastica facilita quindi una conoscenza di sé, forse più profonda di ciò che possono darci altri mezzi e ci situa in una relazione radicale con la verità dell'uomo e la realtà della storia. Nello stesso tempo provoca quella integrazione comunitaria che è fondamentale del nostro cammino cenobitico. L'importante è che ci sia una iniziazione seria alla comprensione del senso liturgico della preghiera contemplativa, una penetrazione del mistero di Cristo, del tempo e dell'uomo.

Altro aspetto basilare della liturgia è la celebrazione. C'è un principio antropologico fondamentale: si esperimenta un valore nella misura che arriviamo ad esprimerlo. La celebrazione è un'alta forma di espressione. È celebrando come monaci che si giunge ad essere monaci. Il carisma monastico non è un'astrazione: si incarna e si concretizza, con azioni significative. I tempi di preparazione di una festa, la sua celebrazione, la sua espressione ci permettono di esperimentare qualcosa del mistero che celebriamo. Ricordo una giovane monaca che, dopo la celebrazione pasquale, venne a raccontarmi che nelle poche ore di riposo tra la conclusione della vigilia pasquale e il canto di Lodi non aveva potuto riposare a causa di un'esperienza, una tremenda oppressione fisica e morale in cui esperimentava la liberazione dopo la celebrazione del mistero pasquale e mi ripeteva piangendo: «Da quale tremendo peso ci ha liberato il Signore con la sua morte e risurrezione». E ricordo un'altra che mi portò nel boschetto vicino per dirmi mille volte quasi gridando: «Debbo dirti qualcosa di meraviglioso: è risuscitato, è risuscitato!» C'era in queste persone un'esperienza di rigenerazione che spingeva terribilmente la loro crescita umana e spirituale verso una pienezza esistenziale.

Accanto alla preghiera liturgica la lectio divina occupa un posto privilegiato. È il contatto diretto e amoroso con la Parola e con chi ci ha preceduto in un cammino di riflessione, di penetrazione, di contemplazione della Parola: i Padri. Il grande peccato dell'uomo è la dimenticanza: la smemoratezza, l'incapacità di fare memoria. Viviamo nella cultura dell'immagine - d'accordo - però vivere la memoria non è un fatto puramente intellettuale ma piuttosto ontologico. «Io mi ricorderò della mia alleanza con te e stabilirò un'alleanza eterna in tuo favore» ci dice Ezechiele (16,60). Questa «memoria» di Dio è sinonimo della sua incrollabile fedeltà come leggiamo in Osea: «Come posso lasciarti, Èfraim come abbandonarti, Israele? Il mio cuore è turbato, le mie viscere si agitano» (11,8). Dentro questa alleanza, questa fedeltà divina, respiriamo, viviamo e siamo. È un abbraccio che ci sostiene in ogni istante e ci avvolge di misericordia. Fare memoria è vivere l'esperienza di questo abbraccio al quale la lectio ci apre giorno dopo giorno.

Senza dubbio l'aspetto più alto della lectio è il contatto con la Parola ed è un'apertura del cuore che apprende poco a poco a riposare nella Parola e a lasciarsi modellare da essa. Tuttavia la mente non è assente: c’è un esercizio profondo dell'intelligenza che cerca di comprendere il senso di quello che legge, della memoria che cerca di ritenere quello che la mente penetra; c’è un lavoro di concetualizzazione e di sintesi che è proprio dell'intelligenza e crea una mentalità. È importante stimolare lo sforzo intellettuale: ci sono persone che incontrano difficoltà a esprimersi e comunicare e consideriamo a volte questa difficoltà unicamente come un problema psicologico. Senza dubbio, il problema può esistere a questo livello, però non sempre si tratta di cause psicologiche. A volte la difficoltà di comunicazione viene da un'assenza di contenuti interiori, una mancanza di sintesi personale. Le persone non sanno che cosa dire perché il vuoto interiore del pensiero è grande e il sintomo più grave di questo vuoto è l'assenza di domande.

Ricordo un'anziana di Vitorchiano, Madre Paolina, - non so bene se aveva terminato le scuole elementari o no - che aveva una fedeltà devozionale alla Lectio. Tutti i giorni - fino ai 92 anni - la si vedeva seduta al suo tavolino in un angolo dello scriptorium con il suo libro e i suoi grossi occhiali. Normalmente dopo la Bibbia leggeva la vita dei santi. Credo che sapesse a memoria tutti venti i volumi del Santorale ufficiale. E siccome normalmente la vita di un santo comunica, al di là della cronologia della vita, anche il suo pensiero e le sue opere, Madre Paolina risultava in comunità la persona meglio informata e competente, non solo sopra i santi, ma sopra lo sviluppo della teologia e della realtà ecclesiale che la vita dei santi inevitabilmente presentano. La fedeltà alla Lectio le aveva dato uno spessore culturale che - forse - nessuna università potrebbe dare. Ricordo anche una monaca molto giovane che amava il salterio in un modo molto speciale e che lo meditava costantemente. Non solo aveva appreso a memoria tutti i 150 salmi, ma il suo linguaggio era arrivato ad essere «salmico». Molto vivace, dialogava con scioltezza e intelligenza, però, alla fine - senza rendersene conto - tutti i suoi interventi erano, in un certo senso, una citazione salmica. Sotto certi aspetti provocava risate ma sotto altri aspetti ci faceva riflettere e incontrare la dimensione orante della sua vita e la sapienza biblica dei salmi applicata alla vita.

Possiamo anche parlare di solitudine e silenzio: sono i mezzi di crescita più normali in una vita contemplativa e sicura-mente costituiscono uno spazio intenso di maturazione della persona. Ci sono falsi silenzi e false solitudini ogni volta che l'orgoglio e il culto dell'apparenza ci spingono verso forme di chiusura, isolamento, rifiuto. C'è poi il silenzio buono dell'interiorità e la solitudine della pace interiore piena di bellezza, gratitudine e gusto della vita. Però sia il silenzio come la solitudine acquistano il loro vero senso quando toccano la corda del dolore. Nel mio noviziato, troppo numeroso, i superiori presero la decisione di mandarci in otto juniores alla nostra casa madre di Francia. Là nei tre anni del nostro monasticato vivemmo sicuramente l'esperienza di ciò che significa sentirsi stranieri, che è di fatto la più bella esperienza dato che siamo tutti pellegrini di passaggio sulla terra, tutti «semiti» come dice Giovanni Paolo II. Però non fu un'esperienza facile: gli italiani sono istintivi e diretti, i francesi molto controllati, osservanti, formali. Tuttavia fu un'esperienza preziosa per la forte solitudine affettiva che ci accompagnò rivelandoci il vero spessore della solitudine e del silenzio. La solitudine non è assenza di relazione, né il silenzio assenza di parola; tuttavia il vero silenzio e la vera solitudine cominciano quando - nel dolore della carne - scopriamo che l'unico appoggio, l'unica consolazione, l'unica forza, l'unica gioia della vita è il Signore. Allora il silenzio si fa carne della nostra carne e la solitudine si riempie della misteriosa presenza della misericordia che ci salva. E un'autocoscienza nuova della verità della persona, di uno spazio interiore che si amplifica attraverso il dolore assunto nella pazienza del tempo e nella speranza che già inserisce l'eterno nella temporalità.

Mi fermo qui per non stancarvi troppo, consapevole che tutto quello che ho detto è incompleto e frammentario. E torno a ripetere come al principio: tutto nella nostra vita e mezzo di crescita, tutto ci educa a una coscienza nuova del nostro destino, tutto stimola un processo di conversione che ci accompagna lungo tutta la vita se il cuore rimane costantemente aperto a lasciarsi interpellare...

Per Geltrude di Helfta, una monaca benedettina del secolo XIII (1256-1301) l'elemento essenziale della vita monastica era uno solo: «vedere e amare nel cuore di Cristo». E l'esperienza di Geltrude, a differenza dei mistici dei secoli posteriori che si centrano totalmente nelle sofferenze di Cristo e la riparazione dei peccati, si propone con una gioia esultante nello scambio amante dei cuori fra lei e Cristo. Qualcosa di semplice e definitivo che rende pleonastico tutto quello che ho detto fino ad ora.

Tuttavia rimane vero che tutto aiuta, tutto ci fa crescere e ci fa amare di più.

Termino con una testimonianza della nostra sorella Clara che sembra dirci che anche una... campana è mezzo di crescita umana e vocazionale. Ecco qui le sue parole che furono pubblicate in una rivista:

«Entrare alla Trappa è stata la decisione di riconoscere l'annuncio di Dio nella mia vita e seguirlo, implicando tutta la mia persona nella normalissima quotidianità della vita di clausura. Così il paziente, chiaro, intenso lavoro di trasformazione, rimanendo nella profondità dell'obbedienza alla campana, alle indicazioni della Regola di San Benedetto, al silenzio, al lavoro manuale semplice e attento, poco a poco, mi ha rivestito di gratitudine e di continua lode come modalità esistenziale della mia libertà, il respiro della mia vita. E più volgevo le spalle alla mia altezzosità e intolleranza, al male che porto dentro il mio io per porre radici nell'appartenenza alla Chiesa e alla sua storia, più mi sentivo amata e perdonata. Un’esperienza di rigenerazione impensabile che non mi ha mai abbandonata e mi provoca a permanere in uno stato di offerta perché il suo Volto arrivi ad essere esperienza di felicità per tutti gli uomini. Non ho altro desiderio che perdermi in questa fecondità nella quale trovo la mia pienezza di figlia e di donna. Nell'obbedienza a una campana una infinita fecondità».


(da Vita Nostra)
Mercoledì, 23 Marzo 2005 20:35

Religioni: strumenti di pace

Religioni:
strumento di pace
di A. La.





In un'epoca di profonda oscurità, di guerre e di ingiustizie globalmente diffuse e perpetrate dai potenti della terra a detrimento delle popolazioni, dei singoli e di chiunque rappresenti, in qualche modo, un «obiettivo sensibile» (perché ha la sfortuna di possedere importanti risorse naturali o di essere strategicamente interessante), la pace sembra una meta sempre più lontana e irraggiungibile.

Dittatori, imperatori vecchi e nuovi, terroristi, capi di stato neoliberisti, semplici fedeli, aggressori e aggrediti, ognuno si arroga il sacro diritto di parlare a nome del proprio Dio. Bush, con i vangeli in mano, massacra iracheni e afghani con i suoi aerei da guerra; Bin Laden addestra il suo esercito di terroristi salmodiando il corano; Sharon, in nome del Jahwé biblico,fa pulizia etnica tra i palestinesi...

Ma Dio che c'entra con tutto ciò? E i sacri testi?

Religioni e violenze, religioni e pace: da sempre le fedi religiose sono state strumentalizzate a fini politici, economici, militari.

Ma esse sono, nella loro essenza più assoluta, uno strumento di pace e di giustizia. Un mezzo di autoriforma e di miglioramento personale, sociale e politico. Un mezzo... e non un fine.

Come trasformare l'odio in compassione e tolleranza, il veleno in elisir? «Senza sottovalutare le reali distinzioni tra ciascuna tradizione, penso si possa comunque affermare che tutte le religioni hanno avuto origine da impulsi caratteristici dell'individuo - il desiderio di comprendere qual é il posto dell'essere umano nell'universo, affrontare i misteri della vita e della morte, il desiderio di sperimentare gioia e dare significato all'inevitabilità della sofferenza e della perdita. (...) Si creerà valore assoluto quando ognuna di queste (religioni) si cimenterà in una "corsa alla pace", impegnandosi ad alleviare la sofferenza e a essere portatrice di gioia. Oltre a rafforzare la pace, loro imperativo spirituale, le religioni possono contribuire al benessere umano in altri modi - attraverso la cultura, la ricerca della verità e le tradizioni di studio ed educazione di cui sono portatrici. Sono profondamente convinto che la religione esista per servire l'umanità; l'umanità non esiste per servire la religione» (1).

Con questo contributo inizieremo un viaggio alla scoperta della pace e della nonviolenza nelle più grandi religioni del mondo (...).


(1) Daisaku Ikeda, fondatore del Centro di Ricerche di Boston per il XXI secolo. Brano tratto da «Duemilauno», sett. Ottobre 2000.

(da Missioni Consolata, dicembre 2003)
Mercoledì, 23 Marzo 2005 00:07

Un ecumenismo da vivere (Giacomo Ruggeri)

Un ecumenismo da vivere
di Giacomo Ruggeri





«L'ecumenismo è uno dei rari punti luminosi nel 20° secolo, che è stato un secolo buio con due guerre mondiali: milioni di uccisi, fuggitivi, conseguenza di due sistemi totalitari e disumani. In questo secolo buio inizia il movimento ecumenico per impulso della grazia dello Spirito Santo. I cristiani di tutte le chiese e comunità cristiane separate sin da 1500 anni come le chiese antiche orientali, da 1000 anni come le chiese ortodosse, da 500 anni come le comunità protestanti, tutti quanti si sono accorti che questa divisione contraddice apertamente alla volontà di Cristo, è di scandalo al mondo e danneggia la santissima causa della predicazione del vangelo ad ogni creatura. Così il ristabilimento dell'unità era uno dei principali intenti del concilio Vaticano II». Con queste parole il card. W. Kasper ha aperto la relazione raccolta negli atti di un convegno svoltosi due anni or sono, ora divenuto un punto di riferimento dopo la promulgazione della Charta oecumenica a Strasburgo il 22 aprile 2001.

Nel momento in cui viene sancita la Carta Europea, è importante sottolineare che la credibilità del Vangelo è data dall'unità dei cristiani stessi. A partire dal documento della Charta oecumenica, le edizioni Banca del gratuito hanno raccolto in un unico volume i preziosi contributi che offrono uno spaccato tra memoria e profezia, in ordine alla causa ecumenica.

La ricerca della verità

Kasper tiene a precisare che «il problema ecumenico concerne la tesi dell'unicità della chiesa di Cristo che sussiste, cioè che è concretamente presente, nella chiesa cattolica e che le comunità che non hanno la successione apostolica nell'episcopato non sono chiese nel senso proprio. C'è una differenza nodale con le comunità protestanti. È del tutto naturale che, in una situazione di non ancora piena unità cristiana, sul cammino ecumenico ci siano delle pietre d'inciampo e a volte addirittura dei macigni. Tuttavia questo non deve scoraggiare e amareggiare, ma piuttosto spingere a proseguire sulla via del dialogo. Il nostro cammino non dovrà essere caratterizzato da uno spirito di indifferentismo, di relativismo o di falso irenismo poiché la verità dovrà essere ricercata in maniera autentica e senza compromessi fuorvianti. Novo millennio ineunte afferma con lucidità e realismo le tristi eredità del passato che seguono ancora oltre la soglia del loro millennio. La celebrazione giubilare ha registrato qualche segnale davvero profetico e commovente, ma ancora tanto cammino rimane da fare. Tuttavia, nonostante il cammino sia faticoso, esso è anche pieno di speranza e lo Spirito è capace di sorprese sempre nuove».

Verso quali prospettive e quale, dunque, lo scopo dell'impegno ecumenico? Il card. Kasper evidenzia che «il futuro ecumenico non è un viaggio nel buio, ma ha uno scopo chiaramente definito nel Vangelo secondo la preghiera del Signore alla vigilia della sua morte. Questo scopo è l'unità dei seguaci di Cristo. Più precisamente dobbiamo dire è l'unità visibile dei seguaci di Cristo perché la struttura della salvezza e della chiesa è "incarnatoria", perciò l'unità non può essere soltanto spirituale. In conformità alla dottrina cattolica esistono tre vincoli di questa unità:
1) La professione della stessa fede.
2) La celebrazione degli stessi sacramenti.
3) L'unità nello stesso ministero apostolico, particolarmente nell'episcopato nella successione apostolica e in comunione con il successore dell'apostolo Pietro principe degli apostoli e vescovo di Roma.
È quindi necessario imparare o continuare ad imparare dagli altri e con gli altri perché il dramma della divisione impedisce alla chiesa di attuare la pienezza della cattolicità nel suo essere e nel suo operare
».

«Qual è, dunque, lo scopo dell'impegno ecumenico?» si è chiesto il card. Kasper e ha proseguito:  «Il card. Ratzinger lo ha definito in modo molto breve e allo stesso tempo molto chiaro: le chiese devono rimanere chiese e tuttavia diventare una chiesa. Ciò vuol dire: sin dal concilio la nostra chiesa ha abbandonato il concetto di ecumenismo di mero ritorno e lo ha sostituito con il concetto di ecumenismo di viaggio, di pellegrinaggio a partire da una comunione imperfetta verso la piena comunione. Il concilio dichiara anche che l'unità non richiede affatto che si sacri fichi la ricca diversità di spiritualità, di disciplina, di riti liturgici e di elaborazione della verità rivelata a condizione che tale diversità rimanga fedele alla tradizione apostolica».
Impegnarsi per l'ecumenismo, è stato detto in modo chiaro ed evidente nel corso del tempo, non sta nel creare o dare vita all'unità delle chiese. «l'unità - prosegue Kasper - ha bisogno di essere accolta e sviluppata  in maniera  sempre più profonda, come scrive il Santo Padre. Inequivocabilmente questo imperativo è insieme forza che sostiene e salutare rimprovero per la nostra pigrizia e ristrettezza di cuore. Ma anche questa piena unità non possiamo né fare né costruire, solo lo Spirito di Cristo può rivelarci questa unità. Non possiamo fare l'unità, ma possiamo pregare per l'unità. Così il concilio, come l'enciclica Ut unum sint, ribadisce la priorità dell'ecumenismo spirituale e il primato della preghiera
».

Dono indistruttibile


Ma la Charta oecumenica, che di certo ha un taglio nettamente pastorale, su quali punti insiste, soprattutto per le implicanze della nuova Europa di oggi? Mons. Aldo Giordano, così afferma: «Il secondo capitolo della Charta è intitolato In cammino verso l'unità visibile delle chiese in Europa, quindi vengono indicati i passi che le chiese devono fare per crescere nell'unità visibile. Anche questo punto è molto delicato; infatti la chiesa cattolica afferma che in essa l'unità visibile già sussiste, ma anche i fratelli di Mosca hanno scritto la stessa cosa. Essendo le prospettive diverse, bisogna trovare dei testi che accettati da tutti».

In questo secondo capitolo, che tratta i passi che devono essere fatti per crescere nell'unità visibile, è stato dato il primato all'evangelizzazione. La prima responsabilità è essere credibili in Europa nel testimoniare il Vangelo, ma le divisioni minano tale credibilità. In questo capitolo leggiamo: «Ci impegniamo a riconoscere che ogni essere umano può scegliere, liberamente e secondo coscienza, la propria appartenenza religiosa ed ecclesiale. Nessuno può essere indotto alla conversione attraverso pressioni morali o incentivi materiali. Al tempo stesso a nessuno può essere impedita una conversione che sia conseguenza di una libera scelta».

Qui viene affrontato il tema del proselitismo, anche se questo termine non appare nel testo in quanto è troppo carico di emotività e di un pluralismo ermeneutico di interpretazione. Il problema è dato dal fatto che, da una parte, bisogna arginare quelle costrizioni che possono esistere in certe forme di annuncio del vangelo: dall'altra vi è il dovere dell'evangelizzazione e la libertà di coscienza.

Il secondo titolo di questo capitolo è Andare l'uno incontro all'altro. In esso si sottolinea il voler superare l'autosufficienza per scoprire la ricchezza di stare con l'altro evitando i pregiudizi. Siamo nella società dei media, dove tutto è trasparente ma, in realtà, «ci sono molti pregiudizi che nascono dall'ignoranza». Ed è sull'ignoranza che spesso nascono e prendono vita ambigue visioni religiose, specie in Europa. A tal proposito Mons. Giordano mette in guardia: «Come chiese ci accorgiamo che in Europa si diffonde un religioso molto ambiguo (le sette, un certo tipo di buddismo che entra in Europa che non è quello classico delle grandi vie dell'Asia). Probabilmente il buddismo avrà in Europa un'influenza maggiore di quella che avrà l'islam e l'incontro con l'Asia sarà la grande sfida del futuro (i due terzi della popolazione mondiale abita in Asia). Da una parte, come chiese, vogliamo difendere la libertà di religione di tutti ma, dall'altra, ci sono esperienze molto pericolose».

L'unità è il frutto di un amore nel segno della croee, è l'agape di Dio fatta anche di riconciliazione e di perdono reciproco. Ed è su questa linea che Mons. Chiaretti, nel redigere le conclusioni per quanto concerne lo scenario italiano afferma: «Dalla Charta oecumenica ci giunge un ulteriore invito alla speranza sapendo che l'ecumenismo è una realtà complessa, in continua evoluzione e questo documento vuole essere l'inizio di questo ulteriore processo di avvicinamento. Tuttavia c'è un preciso impegno morale, quello della receptio del documento multilaterale da parte dei cattolici in Italia delle diverse diocesi ed entro tre anni si farà una verifica sia sul testo che sulla receptio».

Da straordinario a ordinario


Quali le piste obbligate affinché questo documento non cada nel vuoto? Mons. Chiaretti indica alcuni punti-base: «I contenuti di questa carta devono essere conosciuti, acquisiti, divulgati dai vescovi in primo luogo ma anche dai presbiteri nella pastorale ordinaria delle chiese locali. Fino ad oggi abbiamo pensato che l'ecumenismo appartenesse alla pastorale straordinaria della chiesa oggi dobbiamo considerarlo come parte della pastorale ordinaria. Non si può annunciare con fedeltà il vangelo se non si entra appieno dentro questa dimensione ecumenica. I contenuti della Charta devono essere approfonditi anche in giornate e incontri di studio e di riflessione sia a livello popolare che a livello accademico vale a dire negli istituti di scienze religiose e negli istituti teologici Oggi è presente anche una particolare preoccupazione che riguarda il riqualificare l'insegnamento della religione cattolica che ha una sua dimensione storico-culturale all'interno delle scuole laddove viene scelto. È molto importante che ci sia questa consapevolezza della dimensione ecumenica e del dialogo interreligioso soprattutto per le caratteristiche della nostra popolazione scolastica sempre più pluralista e bisognosa di una lettura intelligente di queste diverse realtà religiose, come è altrettanto importante una preparazione adeguata dei catechisti e dei ministri laici. Tali contenuti... devono essere tradotti in forme concrete nelle celebrazioni ecumeniche e affrontati in forum di chiese e comunità ecclesiali anche limitati ad un particolare territorio per trovare poi concretamente punti di incontro e di collaborazione, inculturazione e di servizio reciproco».


AA.VV., Charta oecumenica per l'Europa. Prospettive di riconciliazione all'inizio del terzo millennio, ed. Banca del gratuito, (per richieste del testo: 0721/865012/13).

Martedì, 22 Marzo 2005 23:13

La Chiesa Ortodossa Copta (Mervyn Duffy)

La fondazione della chiesa in Egitto è strettamente unita alla figura di S. Marco Evangelista che, secondo la tradizione, fu martirizzato ad Alessandria nel 63 d.C. L'Egitto divenne presto una nazione cristiana ed in Alessandria nacque un centro estremamente importante di riflessione teologica. Inoltre, i monaci del deserto egiziano fornirono i primi modelli per la tradizione monastica cristiana, e nutrirono molto presto la spiritualita’ con i detti dei “padri del deserto”.

5. LA COMUNITA' IN CAMMINO
VERSO IL REGNO
don Marino Qualizza


2. Il corpo mistico di Cristo: 1Cor 12, 12-27

«Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo…Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» vv.12 e 27.

È il testo classico in cui san Paolo ci descrive la realtà della Chiesa nel suo rapporto con il Cristo; considerazioni ed immagini simili si trovano anche in Rom 12, 4-8, però nel testo di Corinzi il tema è sviluppato con maggiore dovizia e soprattutto è inserito nel contesto dei carismi, dei ministeri e delle attività, che hanno come origine l’unico Dio Padre che si comunica a noi nel servizio del Figlio e nei doni dello Spirito. La molteplicità dei carismi non può essere a scapito della unità della Chiesa, perché essa porta il segno dell’unità di Dio nella Trinità. Unità dunque e ricchezza multiforme nello stesso tempo.



2.a. Noi siamo corpo di Cristo

L’affermazione più importante del testo è data dal v. 27, dove si dice appunto che ‘noi siamo corpo di Cristo e sue membra. Il che equivale a dire che l’identità della Chiesa è di tipo ‘mistico’, vale a dire di grazia, di iniziativa di Spirito Santo. Essa si comprende a partire da questa iniziativa gratuita di Dio, e si può cogliere solo nella luce della fede. È del tutto vero che in primo luogo, la Chiesa è realtà teologale, nel senso che è istituita, creata, formata e resa viva dalla iniziativa di Dio. Con ciò non si vuole dire che essa è una realtà eterea, inafferrabile, al limite invisibile; si vuole sottolineare che la sua verità grande e profonda è data proprio dal suo rapporto con il Cristo risorto, che vive nella comunione con il Padre e da lì ci invia lo Spirito Santo.

È quanto dire ‘Ecclesia de Trinitate’, come si esprime il concilio Vaticano II, in Lumen Gentium 2-4. Ricordiamo nuovamente che tutta la ricchezza della Chiesa consiste in questa comunione con la Trinità, da cui riceve energia e vita e forza di testimonianza. Ed è allora importante che la preoccupazione nell’educazione cristiana concentri tutta l’attenzione su questo aspetto fondamentale, per nulla scontato e non facilmente vivibile. Da qui anche l’autentica difficoltà di trovare cristiani che sappiano teologicamente e vivano concretamente la realtà della fede. Non fa meraviglia allora, che l’appartenenza alla Chiesa sia più di carattere emotivo e superficiale o addirittura, come avviene nei nostri tempi, si perda nel vago di una religiosità passeggera o addirittura scompaia dalla coscienza stessa dei battezzati.



2.b. Vita mistica nella grazia della Trinità

Vivere la dimensione mistica della Chiesa è l’impegno massimo della vita e non fa meraviglia che sia piuttosto merce rara. Infatti l’educazione, la catechesi sembrano imboccare strade più facili, ma senza uscita, con il risultato finale che i cristiani non sanno più che cosa sia la Chiesa. Gli stessi numeri costituiscono una difficoltà evidente. Laddove l’essere Chiesa è una realtà sociale pressoché indistinta, l’approfondimento e la coscienza di appartenenza sono vapori che si perdono nell’aria. Tutto ciò è documentato anche dal fatto che la fede nella Trinità è qualcosa di molto oscuro e forse insignificante, perché manca l’approfondimento specifico di questa verità salvifica. Sommando le due cose, abbiamo un unico risultato negativo.

Forse si comprende perché nella storia, la Chiesa sia stata compresa più nel confronto con realtà simili, quali le società statali, le monarchie e gli imperi, tanto da assommare nella persona del papa la somma di tutte le corone civili e religiose e tanto da immaginare la Chiesa come società perfetta, sul modello e nel superamento delle società civili. Qui il confronto era facile, immediato, talvolta perfino suggestivo, quando si presentava il papa come il vertice dei poteri conferiti agli uomini sulla terra. È vero che tutto questo avveniva e si consolidava con Gregorio VII nell’XI secolo e raggiungeva l’apice all’inizio del XIII con Innocenzo III, ma è anche vero che l’esigenza ovvia ed elementare di rendere ‘visibile’ la Chiesa portava a puntare l’attenzione su quanto questa visibilità rendeva ancora più forte e stabile: l’aspetto giuridico.




2.c. Un ordine giuridico ‘mistico’

Esso è certamente necessario e fa parte della normalità della vita ecclesiale, ma la sua accentuazione ha portato scompensi evidenti nella vita della Chiesa, come la storia ampiamente documenta, e non necessariamente per spirito polemico. La verità non è polemica. Il prevalere degli aspetti giuridici ha inciso notevolmente sulla concezione stessa del ministero ordinato dei vescovi, dove si separava la realtà sacramentale da quella giurisdizionale, con nocumento evidente della concezione stessa del ministero. Esso finiva fatalmente con l’essere equiparato con l’esercizio di un potere, che stranamente non veniva dato per via sacramentale, ma giuridica. A questo punto i problemi si complicano, almeno per un aspetto solo, che si riferisce alla giurisdizione del papa; ma lasciamo per ora questo argomento, anche perché nessun cattolico dubita dell’autorità del papa.

Ritorniamo allora al tema del corpo mistico, questa volta in riferimento diretto al Cristo stesso. Noi dunque siamo corpo di Cristo. L’affermazione dice sostanzialmente che noi siamo inseriti in Cristo e che da lui riceviamo vita. L’immagine del corpo dice che il nostro inserimento non è casuale, fortuito, ma costitutivo del nostro stesso essere cristiani. Questa verità è densa di significati e di conseguenze, perché ci costringe a confrontarci con il Cristo e con la sua vita reale. L’essere corpo di Cristo non è una verità statica ed astratta, ma un modo di vivere, per continuare nella storia d’oggi quanto il Cristo ha fatto nel suo tempo. Infatti siamo corpo di Cristo per realizzare in ogni tempo, quanto egli ha iniziato e anche compiuto, e che deve avere una continuazione nel nostro tempo, perché la storia non è finita con Cristo.



2.d. I cristiani sacramento della presenza e azione di Cristo

Dunque i cristiani sono l’attualità teologica e sacramentale di Cristo, nel duplice significato di una presenza e di una attività. Ai cristiani è affidato il Vangelo perché sia vissuto sul modello di Cristo, che non esige ripetizione, ma continuazione e novità di attuazione secondo il suggerimento dello Spirito Santo. Per fare ciò, è evidente che i cristiani devono conoscere Gesù Cristo e devono vivere la fede in lui. Da questo duplice impegno viene qualificata la loro presenza nella storia, che continua così ad essere storia di salvezza, non perché la rendono tale i cristiani, ma perché essi sono in comunione con il Cristo.

Tutto questo avviene in diversi modi, perché l’immagine del corpo dice che ci sono diverse membra e quindi diverse funzioni ed attività. La Chiesa non è un organismo monotono e spento, ma vivo e ricco, dove ognuno è chiamato a svolgere la sua parte. L’osservazione più evidente a questo riguardo è che l’immagine del corpo e della molteplicità delle membra supera di colpo le secche del clericalismo dove ci eravamo cacciati nel passato e da dove con fatica stiamo uscendo. Il clericalismo in verità è l’imbalsamazione del corpo ecclesiale, o la sua riduzione ad un movimento solo; non saprei dire quale per la precisione.



2.e. Ricchezza di ministeri nella realtà della storia

La molteplicità dei servizi, dei ministeri porta alla valorizzazione di tutti, nell’ordine che è garantito proprio dallo spirito di servizio e dalle disposizioni fondamentali che vengono dal Cristo stesso. Qui si ricupera il vero senso anche dell’ordinamento giuridico. Ma il servizio che ognuno è chiamato a svolgere nella Chiesa trova la sua motivazione e fondamento nel sacramento del battesimo e della confermazione. Ha dunque origine divina e perciò mistica. Da qui il suo valore inestimabile e la sua funzione insostituibile.

Domenica, 20 Marzo 2005 17:37

Ortodossi divisi da Mosca (Luigi Prezzi)

Ortodossi divisi da Mosca
di Luigi Prezzi




Cresce la tensione all'interno del mondo ortodosso in Francia e nell'Europa occidentale. La lettera di Alessio II in cui si formula l'invito alla riunificazione di tutte le Chiese di origine e tradizione russa in Europa sta provocando polarizzazioni crescenti.

Cirillo di Smolensk, responsabile del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca, ha confermato nell'ottobre scorso il senso definitivo dell'orientamento («Non ci torneremo sopra e non abbiamo l'intenzione di rinunciare alla posizione di principio espressa nella lettera»), lamentando la scarsa collaborazione dei responsabili dell'arcidiocesi di tradizione russa sotto giurisdizione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli.

Nel mirino anche il prestigioso Istituto San Sergio di Parigi. Fonti vicine all'archidiocesi (SOP, dicembre 2004) denunciano tentativi di limitare la libertà accademica sia sul versante della nomina dei professori (senza risultati), sia su quello delle sovvenzioni private. La riduzione dell'istituto (una tradizione teologica prestigiosa, 50 studenti da una ventina di paesi, una formazione teologica per corrispondenza, due filiali in Belgio e un presenza in Spagna) a semplice avamposto russo impoverirebbe l'intera Chiesa ortodossa e il dialogo ecumenico.

Un'ortodossia plurale

I circa 500.000 ortodossi di Francia (ma con le recenti immigrazioni il numero è destinato a crescere) sono divisi per appartenenze etnico-tradizionali: la diocesi legata al Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, quella del Patriarcato di Antiochia, quella serba e quella romena.

Per la tradizione russa operano tre diocesi: quella di obbedienza moscovita, quella dipendente dalla Chiesa ortodossa oltrefrontiera (con sede negli USA) e l'arcidiocesi di tradizione russa ma di obbedienza costantinopolitana, presieduta dal vescovo Gabriel di Vylder. Queste tre ultime sono le più interessate alla lettera di Alessio accanto alle diocesi del Patriarcato russo in Gran Bretagna e in Belgio. L'arcidiocesi presieduta da mons. Gabriel è la più vecchia (nasce con l'emigrazione russa dopo la Rivoluzione d'ottobre) e la più estesa: 60 parrocchie, un monastero, 70 preti, 14 diaconi, l'istituto San Sergio, presenze pastorali in Belgio, Olanda, Germania, Norvegia, Svezia, Danimarca, Spagna e Italia. Nel 1931 l'allora metropolita Evlogij, fondatore anche dell'istituto San Sergio, si sottrasse all'ultimatum delle autorità moscovite rifiutando di firmare il giuramento di fedeltà alle autorità sovietiche e trovando ospitalità presso il Patriarcato di Costantinopoli. Quest'ultimo ha riconosciuto alla diocesi uno specifico statuto la cui autonomia è stata ulteriormente allargata nel 1999.

La Russia e Parigi

Per sostenere le ragioni di Mosca è nato un movimento laicale (OLTR) che ha promosso due assemblee: la prima in febbraio e la seconda in aprile 2004. Le motivazioni a favore, espresse dai presidente S. Rehbinder, sono la fine delle ragioni politiche della separazione da Mosca, la scarsità di linfa spirituale proveniente dalla curia di Cotantinopoli e l'ampia autonomia promessa da Mosca. Di contro si sottolinea l'assoluto rispetto da parte di Costantinopoli, l'evoluzione storica propria dell'arcidiocesi, la già piena comunione con Mosca, la situazione plurilinguistica e plurietnica delle comunità.

Ma il problema interessa tutte le diocesi ortodosse perché in Francia è attiva l'Assemblea dei vescovi ortodossi (dal 1997), prolungamento dei Comitato interepiscopale ortodosso. Essa esprime un'ecclesiologia che prefigura un'unica Chiesa ortodossa sul territorio pur composta da molte etnie e da differenti giurisdizioni. L'ipotesi sostenuta dal Patriarcato di Mosca è invece quella più tradizionale della dipendenza dalla Chiesa madre, maggiormente esposta ai nazionalismo. I vescovi responsabili dell'Assemblea sono già stati a Costantinopoli (novembre 2004) e saranno presto ad Antiochia (poi a Mosca, Belgrado e Bucarest) per un confronto con le grandi sedi patriarcali.

(da Il Regno-attualità, 2/2005)

Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli

Domenica, 20 Marzo 2005 17:20

Oltre il testo (Marcelo Barros)

Oltre il testo
di Marcelo Barros


Più di 30 anni or sono, in America Latina in particolare nelle comunità cristiane più povere, si è dato vita ad un nuovo modo di leggere la Parola di Dio Compiuta in seno alla comunità, in un contesto di preghiera e con gli occhi rivolti alla trasformazione del mondo, questa lettura della Bibbia ha aiutato le comunità a partecipare attivamente al processo di liberazione dei popoli indios, dei gruppi di origine africana e dei senza-terra.

Le lotte popolari dei popoli latinoamericani non avrebbero conseguito le molte loro significative vittorie senza l'operosa partecipazione dei cristiani, che sono entrati in questo cammino di liberazione forti della luce che veniva loro dalla Bibbia letta in questo nuovo modo comunitario.

Da quando, negli anni 1970, Carlos Mesters in Brasile, Javier Saravia in Messico, José Luis Caravias in Paraguay e molti altri hanno dato inizio a gruppi biblici, la realtà latinoamericana ha conosciuto profonde trasformazioni. Oggi, i problemi sociali e politici si sono aggravati e - ahimè! - tutto sembra suggerire che i cristiani abbiano in parte rinunciato ad essere presenti con la loro usuale determinazione ad affrontare ogni nuova sfida. Se è vero che la credibilità di una religione dipende dalla sua capacità di aiutare gli uomini e le donne a vivere nella pace e nelle giustizia, allora ci si deve chiedere dove sia finita quella capacità profetica che caratterizzò in passato le comunità cristiane di base. Un cristianesimo senza profezia è un corpo senza anima.

La Bibbia continua ad essere il libro più venduto nel mondo. La lettura che se ne fa, però, non può più essere "patriarcale" e connivente con l'esclusione delle donne. Le chiese dovrebbero essere portatrici della rivelazione che tutti siamo uguali, al di là delle differenze di sesso e nella complementarietà delle funzioni, e non complici di una alienazione più di quanto non lo siano le società civili.

Per troppo tempo, inoltre, la nostra lettura della Parola di Dio ha voluto vedere quasi una spaccatura tra creazione e storia. Oggi non è più lecito fare ciò. Il Dio che si è rivelato nella storia di salvezza è lo stesso Dio che ha creato il mondo. E se è vero che l'Esodo è stato la rivelazione della capacità che gli occhi di Dio hanno di vedere le sofferenze umane, è altrettanto vero che «i cieli narrano la gloria di Dio, e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento» (Salmo 19). Molti sono giunti ad accusare la Bibbia - e l'etica giudaico-cristiana che ne è derivata - di un antropocentrismo che ha sminuito il valore della natura e si è reso responsabile dell'odierno degrado ecologico. La verità è che l'autore sacro, scrivendo che Dio diede all'essere umano l'ordine di moltiplicarsi, di riempire la terra e di dominarla (Gen 1,28), mai avrebbe immaginato che le sue parole sarebbero servite a legittimane una cultura priva di rispetto per la natura e distruttrice del pianeta.

Infine, non è più possibile leggere la Bibbia convinti che Dio si sia rivelato solo agli ebrei ed ai cristiani, e considerando le altre culture e religioni come idolatre, se non addirittura demoniache. I grandi flussi emigratori della storia hanno portato l'umanità a mescolarsi e le grandi culture ad incontrarsi. Ne è nato un pluralismo culturale e religioso che va visto oggi come un aspetto della realtà che ci interpella e ci obbliga a scoprire nuovi modi di movimento popolare e chiesa. In questo periodo, mi sto interessando in particolare delle relazioni tra teologia latinoamericana della liberazione e la teologia del pluralismo religioso, ed ho scoperto che una delle sfide che attendono le comunità cristiane di base è proprio l'urgenza di leggere la Bibbia in un contesto di pluralismo culturale e religioso.

Vorrei condividere con voi questa mia ricerca. (...) Pertanto, mi soffermerò su questo o quell'altro aspetto di una lettura della Bibbia che definirei "macro-ecumenica", pur utilizzando sempre il metodo latinoamericano e partendo dalle realtà e dalle culture indie e afro.
Si tratterà di una lettura meditativa, basata cioè sulla fede e sulla preghiera, mirante ad una continua conversione personale. Costante sarà anche il dialogo con l'esperienza dei vari gruppi che cercano nella Parola di Dio luci che possano illuminare le nuove realtà in cui vivono.

Nelle sue Letture Talmudiche, il filosofo ebreo Emmanuel Lévinas ritiene che ogni versetto del Libro sacro urli al lettore il seguente ordine: «Interpretami!». Da solo, il versetto è incapace di significato. Leggeremo la Parola con la nostra attenzione puntata sui fratelli e le sorelle che ci vivono accanto, e questo ci aiuterà a scoprire sempre nuovi appelli che Dio ci rivolge. Cercheremo di non lasciar cadere tali appelli nel vuoto. Lo diceva già Sant'Agostino: «Se ascolti o leggi la Parola senza lasciarti impregnare da essa, non arriverai mai ad accoglierla».


(da Nigrizia, gennaio 2004)

Dupuis
dire Cristo all’Asia
di Gianni Colzani



Dice un proverbio
della Sierra Leone: «Quando uno stormo di uccelli si leva in volo, vuol dire che uno è partito per primo». Padre Jacques Dupuis, scomparso il 28 dicembre 2004, era uno di questi scomodi personaggi: ha avuto un ruolo di primo piano nella elaborazione di una teologia delle religioni ed è stato uno dei primi ad avviarsi sulla strada del pluralismo religioso, ad indagare cioè in termini teologici il valore che le altre tradizioni religiose hanno nel disegno salvifico di Dio. La teologia delle religioni è oggi un capitolo cruciale non solo della teologia ma della stessa storia del mondo. L'11 settembre ha rappresentato un trauma nella coscienza mondiale e, da allora, molti leader politici e religiosi hanno insistito sul fatto che l'islam non può essere identificato con il terrorismo. Resta il fatto che un uso ideologico delle religioni è sempre possibile e che molte guerre hanno utilizzato il nome di Dio e provocato, nel suo nome, migliaia di vittime innocenti.

Lo stesso Giovanni Paolo II, nella Novo millennio ineunte, scriveva che nelle condizioni di spiccato pluralismo che si vanno prospettando «tale dialogo è importante anche per mettere un sicuro presupposto di pace e allontanare lo spettro funesto delle guerre di religione che hanno deve diventare sempre di più, qual’è, un nome di pace e un imperativo di pace» (n. 55).
In termini più teologici, la Redemptoris missio aveva insegnato che «il dialogo non nasce da tattica o da interesse ma è un'attività che ha proprie motivazioni, esigenze, dignità: è richiesto dal profondo rispetto per tutto ciò che nell'uomo ha operato lo Spirito che soffia dove vuole» (n. 56). Una costruttiva teologia delle religioni, mentre approfondisce la coscienza della propria identità, è impegnata a riconoscere i segni della presenza di Cristo e dell'opera dello Spirito; senza intolleranza e senza irenismi, deve saper esprimere coerenza con sé e rispetto per l'altro, verità e umiltà. È questo il dialogo di cui abbiamo bisogno. A questo scopo è certo indispensabile la purificazione delle memorie storiche ma, in un contesto spesso conflittuale come il nostro, è decisiva la capacità di elaborare una vera e propria teologia delle religioni.

Le religioni cercano Dio e proclamano la salvezza. Per i credenti la salvezza è una interpretazione della vita, è qualcosa che attraversa tutta l'esistenza e che, oltrepassandola, presenta la comunione con Dio come il supremo valore della persona, come ciò attorno a cui unificare l'esperienza umana dandole significato e valore. Con il tempo sono nati molti modi di conciliare la verità di un Dio universale con la realtà di religioni nazionali e particolari: la conquista di un territorio e l'imposizione forzata di una religione e la diffusione attraverso la predicazione e la conversione sono state, forse, le modalità più frequenti.

Queste modalità hanno generato delle scuole teologiche che oggi, in un tempo radicalmente diverso dal passato, si possono raccogliere secondo tre modalità: esclusivismo, inclusivismo e pluralismo.

L'esclusivismo sostiene che l'unico, esclusivo luogo di salvezza è la Chiesa. Fuori di essa vi sono solo pagani, false divinità, forze maligne e magie; solo nella Chiesa, con la fede nel Vangelo di Gesù e con il battesimo si è salvi. I non-cristiani non hanno che una possibilità: convertirsi ed entrare nella Chiesa. Diversa è la posizione dell'inclusivismo: questa teoria sostiene che, in Cristo, sono incluse tutte le persone e tutte le culture e le religioni. Poiché Cristo non è venuto per abolire ma per portare a compimento, allora la Chiesa è chiamata ad assumere tutte le capacità e le tradizioni dei popoli ricapitolando così - con un lavoro di purificazione e di elevazione - tutta l’umanità sotto Cristo ed il suo Spirito. In una Chiesa cattolica, le singole parti offrono alle altre i propri doni e tutte le parti traggono vantaggio da questa vicendevole comunicazione. Il pluralismo infine, nella sua forma più rigida, sostiene che tutte le religioni sono interpretazioni culturali, diverse per storia e dogmi, di un'unica esperienza religiosa e che, per questo, le religioni sono sostanzialmente identiche e sono tutte quante legittime «vie di salvezza». Nella sua infinita grandezza, che supera ogni schema culturale, Dio si serve di tutte le religioni per salvare l'umanità e condurla a lui.

Nel caso di Dupuis, a queste prospettive di ricerca teologica si è aggiunta la sua personale passione su come si debba annunciare Cristo all'Asia, su quale sia il volto asiatico di Gesù. In un continente che raccoglie due terzi dell'umanità e nel quale i cristiani si aggirano attorno allo 1,5-2 per cento o poco più, questo problema è decisivo. Da una parte nell'Asia sono nate e sono radicate le più antiche e diffuse religioni del mondo, dall'islam all'induismo, dal buddhismo al taoismo, dal confucianesimo allo shintoismo: dall'altra, per quel mondo, prima che un insieme di dogmi e di riti, le religioni sono una esperienza e una vita lungo la quale inoltrarsi con un coinvolgimento personale profondo. Insieme all'inculturazione della fede, la teologia delle religioni esige una trasformazione profonda nel modo di intendere la missione: senza ridursi alla plantatio ecelesiae, la missione deve seguire sempre di più l'evangelizzazione del regno alla maniera di Gesù, mentre la Chiesa deve mostrarsi sempre di più come sacramento del regno nella storia. Per Dupuis tutta questa problematica teologica si concentra attorno a Gesù Cristo, cuore di ogni fede cristiana: sviluppando due opzioni, da una parte riconduce la persona e l'opera di Gesù all'annuncio del Regno e dall'altra la colloca in rapporto alle persone trinitarie. Il Regno è il contenuto della missione di Gesù ed il rapporto eterno del Verbo con il Padre e con lo Spirito è il segreto profondo della sua persona storica.

Risalendo a quel Verbo che illumina ogni uomo e che, nel corso della storia, ha parlato molte volte e in diversi modi, Dupuis pensa a diverse manifestazioni di Dio - documentabili nella azione divina che sorregge le altre religioni - e vede in Gesù Cristo il vertice di questa storia salvifica. Per quanto sia veramente e costitutivamente unito al Verbo, così da condividerne la divinità, Gesù però - in quanto uomo - gli rimane inferiore. Per questo la concezione della storia di salvezza, propria di Dupuis, è una sorta di teocentrismo che, pur mantenendo la divinità di Gesù, riconosce che tutte le religioni appartengono all'opera salvifica di Dio. Il risultato del suo pensiero è allora una presentazione di Gesù come salvatore universale e come unico mediatore; al tempo stesso, attraverso mediazioni che sono una forma di partecipazione all'agire del Verbo eterno, presenta le religioni come in grado di svolgere un vero e proprio ruolo salvifico. In questo modo Gesù è il volto umano di Dio mentre lo Spirito è la forza universale presente nelle diverse religioni; l'uno e l'altro - Gesù e lo Spirito - fanno riferimento alle persone trinitarie e trovano in quell'ambito la loro verità ultima. Da una simile visione scaturisce una prospettiva pluralista che riconosce la presenza dell’azione salvifica di Dio anche al di là dei confini visibili della Chiesa; questa azione divina non riguarda qui la salvezza dei singoli individui, ma il ruolo che le religioni che professano possono giocare in questa salvezza e davanti agli occhi dei cristiani. Su questa base teologica, a prescindere dalla reciprocità, nasce un atteggiamento nuovo nelle relazioni tra credenti di fedi diverse.

Questo atteggiamento nuovo è il dialogo, che appare così non già una scelta di comodo che nasconde interessi diversi, ma una scelta di fondo e ben fondata. Il dialogo nasce dalla consapevolezza di una profonda unità, fondata sul mistero della creazione e della redenzione; a questa unità va aggiunta l'opera dello Spirito che, presente nei cuori e nelle Coscienze, è presente anche nelle culture e nelle religioni a cui gli individui hanno dato origine. I semina Verbi sono i segni di questa sua misteriosa ma salvifica presenza. Non è quindi possibile risolvere la missione nel solo dialogo sopprimendo l'annuncio: mentre permette la scoperta di nuovi spazi di verità, il dialogo non cancella la fede e quindi, in qualche modo, è pur sempre una forma di annuncio. Per questo da una parte il dialogo deve esprimere la reciprocità del cammino delle religioni e dall'altra deve rispettare la loro asimmetria che riconosce la singolarità di Gesù.

Nonostante queste precisazioni, la Congregazione per la dottrina della fede riterrà inadeguata questa presentazione: vi scorgerà ambiguità e difficoltà che possono condurre in errore il comune lettore. Non vedrà sufficientemente riconosciuta la verità della divinità di Gesù e nella Dominus Iesus, senza fare cenno a Dupuis e alle sue tesi, parlerà del pericolo del relativismo ed enuncerà quelle verità che devono rappresentare come il quadro criteriologico di ogni corretto lavoro su questo tema. Questo dibattito oggi appena iniziato, nelle conclusioni a cui nel futuro giungerà, rappresenterà l’ossatura del cristianesimo venturo.


(da Mondo e Missione, febbraio 2005)

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