Formazione Religiosa

Mercoledì, 25 Maggio 2005 00:29

La politica e la questione teologica (Enrico Chiavacci)

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Il punto di partenza per ogni tipo di riflessione teologica e spirituale in materia politica non può essere per il cristiano altro che la parola di Dio. Il grande tema del Regno, insieme a quello della pace, ad esso strettamente correlato, devono dominare la riflessione e le scelte del cristiano.

I.  I limiti dell’impostazione tradizionale del sociale

Il punto di partenza per ogni tipo di riflessione teologica e spirituale in materia politica non può essere per il cristiano altro che la parola di Dio. Il grande tema del Regno, insieme a quello della pace, ad esso strettamente correlato, devono dominare la riflessione e le scelte del cristiano. Con la Gaudium et spes si è compiuta una svolta radicale - e non indolore - nella teologia e nella spiritualità degli ultimi quattro secoli (1). Fino al Concilio (e in parte ancora oggi) il concetto di salvezza corrispondeva alla salvezza soprannaturale (donata da Cristo con la sua morte e resurrezione) della singola anima. Il sociale apparteneva invece alla sfera dell'ordine naturale. Si ricordi che nel Catechismo Romano, nel commento al primo comandamento, la liberazione dalla schiavitù egiziana era letta solo come simbolo della liberazione dell'anima dal peccato.

A partire dalla metà circa del XIX secolo il tema del sociale entra nella riflessione cattolica: si pensi al Zentrum tedesco e all'opera di W.E. Ketteler, vescovo di Magonza. Nella prima metà del secolo il dramma dell'Occidente e la preoccupazione cristiana erano costituiti dall'urgenza di alleviare le sofferenze dei miseri, derivanti dalla prima industrializzazione (2). Invece dalla metà del secolo il problema si sposta dall'alleviare le miserie al combattere la causa delle miserie. Dopo lunghe elaborazioni della base, nascono le prime encicliche sociali (3). Si tratta di un importante passo avanti, che però soffre di due limiti: limiti che saranno superati solo con la Gaudium et Spes. Il primo limite è costituito dall'impostazione tutta all'interno dell'ordine naturale. Non appare un punto di partenza biblico forte: la storia della famiglia umana non sembra far parte della salvezza soprannaturale annunciata da Cristo, non è oggetto di interesse teologico (4). Il secondo limite, storicamente quasi inevitabile, è porre il problema del sociale all'interno di ciascun singolo Stato: in tutti i manuali di filosofia o di dottrina sociale cattolica, fino al Concilio, il bene comune è visto come il bene comune del singolo Stato (5).


Una fondazione biblico-teologica

Con la Gaudium et Spes si aprono nuovi orizzonti per l'impegno cristiano nel sociale: Cristo è il fine della storia (6); il cammino del Regno è il cammino stesso della famiglia umana: essa. e non la Chiesa, è destinata a trasformarsi in famiglia di Dio (7); il traguardo di questo cammino è la convivenza nella carità a immagine della vita trinitaria (8). Compito della Chiesa è accompagnare, indirizzare, sostenere la famiglia umana come anima e lievito all'interno di essa (9). Vi è una “terrestris et caelestis civitatis compenetratio” che “mysterium manet historiae humanae” (10). Non vi sono dunque due storie separate, quella della famiglia umana e quella della salvezza: vi è un'unica storia di salvezza, e cioè il faticoso cammino della famiglia umana verso la pienezza del Regno, il traguardo che Cristo le ha dato con la sua morte in croce, “pacificando col sangue della sua croce tutti gli esseri” (Col 1,20). Un cammino che è una continua battaglia col potere delle tenebre, che Gaudium et Spes indica come un radicale egoismo tale da sovvertire il progetto di Dio (11). In questa battaglia il cristiano - e con lui tutta la comunità dei credenti - è e deve essere costantemente inserito: “in hanc pugnam insertus” il cristiano può ritrovare pienamente se stesso (12). Nessun cristiano è esonerato da questo compito: esso è parte essenziale della sua fede. Il cristiano dunque è sempre presenza attiva nella vita della polis: del suo Stato sicuramente, ma in primo luogo nella polis che è la famiglia umana. Non vi è guerra, non vi è oppressione, non vi è condizione di miseria sulla faccia della terra, di cui il cristiano possa disinteressarsi come di cosa che non lo riguarda da vicino o non riguarda la salvezza della sua anima. Questa è la base teologica vera e grandiosa del rapporto ineluttabile del cattolico in politica, “la matrice da cui proviene l'impegno dei cattolici nella politica” (13). Di tale visione teologico-biblica, però, nella Nota Dottrinale non vi è traccia.


Il tema della pace

Strettamente collegato ad essa è il grande tema biblico della pace. In nessun testo di teologia dogmatica o morale degli ultimi secoli vi è un solo capitolo dedicato al tema della pace. La Pacem in terris è la prima enciclica nella storia della Chiesa dedicata al tema della pace. La convivenza nell'attenzione, nella condivisione, nel dono di sé, è il traguardo della storia: la pace nella storia è dunque un cammino. All'interno della storia la pace è “figura et effectus pacis Christi” (14); la “vera et nobilissima pacis ratio” è rendere più umana la vita di ogni essere umano ovunque sulla terra (15). Ma questo traguardo di pace non è esclusivo del mondo cristiano: l'“evangelicum nuntium” è in armonia (congruens) “cum altioribus generis humani studiis atque optatis”, così che la Gaudium et Spes “christianos ferventer evocare intendit ut, auxiliante Christo auctore pacis, cum omnibus hominibus ad pacem...firmandam et ad instrumenta pacis apparanda cooperentur” (16). Questo tema, a cui la Pacem in terris dedica tutta l'ultima parte, è ripetutamente ripreso dalla Gaudium et Spes, ma praticamente ignorato, o citato in senso negativo, nella Nota Dottrinale. Vi torneremo sopra fra breve. Ma conviene subito notare che qui entra in scena il tema del pluralismo, cioè della convivenza, del dialogo, dell'arricchimento reciproco all'interno di una pluralità di visioni filosofiche e anche religiose, di culture, di tradizioni sociali e politiche. E il pluralismo nel senso ora definito è passaggio obbligato per indirizzare la storia al suo traguardo.


Relativismo e pluralismo: una necessaria distinzione

Nella Nota Dottrinale, a più riprese, pluralismo e relativismo vengono considerati insieme, sia nel senso che il pluralismo facilmente induce al relativismo, sia nel senso che il pluralismo è o può essere espressione di relativismo. Ora invece pluralismo e relativismo sono due concetti in sè completamente diversi. Una discussione approfondita esula dai modesti limiti di questo articolo. Il relativismo implica comunque sempre uno scetticismo: di fronte a tante opinioni filosofiche, ma anche convinzioni sulla religione, condizionamenti culturali o che altro, non vi è nulla che appare come assoluto, come possibilità di senso ultimo per la vita e la convivenza umana. Una convinzione o un'opinione vale l'altra. Nel campo specifico della morale, non esistono valori morali assoluti, e in specie proponibili come base di convivenza per la famiglia umana (17).

Il pluralismo è cosa del tutto diversa: è l'accettazione di una pluralità di visioni e di usi o comportamenti, una pluralità che è qualcosa di intrinseco alla specie umana essendo inevitabilmente connessa con la libertà dell'essere umano e con la sua originalità creativa come singolo e come gruppo - ma che non esclude affatto la possibilità di assunzione di valori comuni o, meglio, di un significato ultimo comune per l'esistenza e la convivenza umana. Tale assunzione si esprime e si traduce necessariamente in visioni e comportamenti diversi, visioni e comportamenti collegati e/o condizionati sia dalle diverse aree culturali - antropologiche come filosofiche - in cui il singolo nasce, cresce e viene educato, sia dal costante emergere della critica del singolo rispetto alle attese del gruppo.

Che vi sia un'esperienza morale comune, intesa come chiamata interiore a cui l'essere umano è in grado di rispondere, è da ritenersi un dato di fede (18) presente in tutta la tradizione. H. de Lubac ne ha offerto una ricchissima documentazione assai prima del concilio Vaticano II (19). La Gaudium et Spes - una Costituzione di un Concilio ecumenico - riprende il tema in due fasi. Tutto il n. 16 è dedicato al tema della coscienza come voce di Dio: “nam homo in corde suo legem inscriptam habet...Conscientia modo mirabili illa lex innotescit, quae in Dei et proximi dilectione adimpletur”. Già del resto tale principio era stato posto a fondamento di tutta la Pacem in terris nel proemio. Nel n. 92 il tema viene ripreso come base per una capacità e offerta di dialogo e cooperazione con tutti gli uomini, anche atei e - paradossalmente - persecutori della Chiesa: “neque illos qui praeclara animi bona colunt, eorum vero Auctorem nondum agnoscunt, neque illos qui Ecclesiae opponuntur eamque variis modis persequuntur”.

L'importante è che sappiano rispondere alla chiamata interiore, anche se non sanno ancora riconoscerla come chiamata di Dio: sono gli “uomini di buona volontà” di Giovanni XXIII. Con essi i cristiani sono chiamati da una stessa chiamata divina: “hac eadem humana et divina vocatione vocati”, e perciò con essi “cooperari possumus et debemus” per la costruzione del mondo nella vera pace. Ricordando la forza del termine pace in Gaudium et Spes, emerge lucidamente quale debba essere la prima preoccupazione del cristiano in materia politica. E quando un Concilio ecumenico ci dice che “possiamo e dobbiamo”, non ci lascia spazi di fuga.

Che vi sia poi un'esperienza morale comune in tutta la famiglia umana non è solo un principio di fede: vi è una verifica empirica. L'Onu nasce da una condivisione praticamente universale dell'idea dei diritti dell'uomo, come esigenza della “inherent dignity of every human being” o “of every member of the human family” (20). Il concetto di diritti dell'uomo non solo come diritti di libertà ma anche come diritti alla solidarietà è ampiamente espresso sia nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948) sia nei Covenants a essa collegati (1966). Che ben poco si sia attuato ha scarso rilievo ai nostri fini: rilevante è la presa di coscienza della necessità di una logica di convivenza nuova, condivisa da aree culturali, geografiche, religiose diverse. In Italia, negli stessi anni, si è avuta una straordinaria convergenza di cattolici, socialcomunisti, liberali, atei e credenti, nella formazione della Costituzione della repubblica italiana (1948), in cui si ritrovano frasi o concetti che sembrano ripresi di peso da testi di dottrina sociale cristiana.

La pluralità (di culture, religioni, filosofie, tradizioni) oggi deve essere assunta a principio di convivenza, cioè appunto deve divenire pluralismo di espressione, di concettualizzazione, di rispetto reciproco: “Tali ergo modo testes sumus novum humanismum nasci” (21). Non si confonda dunque pluralismo e relativismo. Né si confonda l'annuncio del vangelo e al suo interno l'annuncio morale cristiano con la sistemazione razionale teorica nata tutta all'interno di un'area culturale e geografica ben precisa. È perfettamente giusto parlare di una morale naturale nel senso sopra indicato di assunzione di valore e di significato per l'esistenza. Non lo è invece quando si ritiene assoluta e perenne l'elaborazione filosofica razionale di tali principi in singoli precetti particolari. Questo S. Tommaso lo sapeva benissimo: “in particularibus” la legge naturale non è immutabile, sia perché la ragione umana può sbagliare e correggersi, sia perché le condizioni oggettive in cui si deve scegliere possono suggerire una migliore espressione concreta dei principi generali. Del resto, S. Paolo in Rm 12,2 e Fil 1,9-10 richiede ai singoli la capacità di “discernere” (eis to dokimazein umas) ciò che è giusto e gradito a Dio.


Il ricorso alla legge naturale

Tutta la morale cattolica è nata all'interno della tradizione filo-sofica (e sociale) sviluppatasi in Occidente. È ora il momento, per la Chiesa e per i singoli cattolici, di prendere in considerazione come, in altri ambiti culturali e filosofici, tanti uomini di buona volontà abbiano cercato e continuino a cercare modi diversi di esprimere, con la dottrina e con la prassi, gli stessi valori presenti nella loro coscienza. Noi Chiesa cattolica abbiamo molto da offrire, ma abbiamo anche molto da imparare dall'ascolto delle tante voci del nostro tempo: a questo sono dedicati interamente i nn. 43 e 44 di Gaudium et Spes, e tale ascolto è imposto come grave dovere, specialmente dei pastori e dei teologi (22). Deve in ogni caso restare fermo che i precetti particolari validi semper et pro semper che si possono trovare nella Scrittura, e in specie nel Nuovo Testamento (23) o da essa immediatamente derivabili, sono vincolanti per il cristiano; non invece necessariamente per gli altri uomini di buona volontà. E tuttavia alcuni precetti immediatamente biblici sono recepiti da molti non cristiani più che da molti cristiani: si pensi al “non uccidere” e al presidente Bush, che pure ha giurato sulla Bibbia e che sostiene la pena di morte e gestisce guerre insensate, con l'approvazione di governi e di singoli che pur si richiamano al cristianesimo; si pensi all'uccisione per legittima difesa di beni materiali o dell'onore, sostenuta nel passato da molti autori (ma già severamente criticata da B. Pascal nella XII lettera provinciale); si confronti in materia di sessualità il rifiuto occidentale del velo islamico delle donne e l'accettazione tranquilla del tanga o di altri mini-indumenti. Gli esempi potrebbero continuare a lungo.

Quando dunque si parla (24) della legittimità (e io direi meglio il dovere) di agire in politica coerentemente con le proprie convinzioni riguardanti il bene comune, occorre ricordare che è parte essenziale del bene comune la dignità della persona che esige sia il diritto alla vita, sia il diritto a vivere una vita umana con tutta la sua identità, ivi compresa la libertà di coscienza e la libertà religiosa. Nel campo dell'impegno nel sociale, doveroso per ogni cattolico e comprendente le scelte politiche dirette (la scelta del voto o del partito o la gestione della cosa pubblica) e indirette (l'espressione di simpatia o adesione a una visione politica globale) questo deve essere il criterio fondamentale di scelta. E vi è di più. Ai nostri giorni le condizioni di vita degli esseri umani sono in gran parte determinate da scelte politiche di governi o Stati più ricchi e - anche militarmente - più potenti. Le scelte politiche di uno Stato si ripercuotono su tutta la famiglia umana. Il bene comune della famiglia umana per il cattolico è identificabile come il cammino e la crescita del Regno: e pertanto esso deve prevalere sul bene comune considerato solo all'interno e nell'interesse del proprio singolo Stato. Si pensi alla produzione e al commercio di armi: possono essere di vantaggio per il singolo Stato, ma sicuramente non lo sono per il cammino della famiglia umana, e il cattolico deve opporsi a ogni facilitazione, legislativa o amministrativa, in tale materia.


Una duplice osservazione

A questo riguardo sono necessarie almeno due osservazioni alla Nota (25). È certamente insufficiente che l'impegno politico dei cattolici si limiti a una trasformazione delle strutture (della convivenza umana sul pianeta), ma essa è al tempo stesso componente essenziale e necessaria dell'impegno politico dei cattolici: e tanto più necessaria, e al tempo stesso più difficile, man mano che avanza il processo di globalizzazione. È fuori dubbio che il diritto all'aborto volontario sia da rifiutarsi. Ma nell'Africa subsahariana il 10% dei neonati muore nel primo anno di vita, e in America Latina o nel Sud-Est asiatico gli indici sono di poco inferiori (fra 30 e 60 per mille). Nei Paesi ricchi - come l'Europa occidentale e l'Italia - la mortalità nel primo anno di vita è del 5-6 per mille. E ciò è dovuto quasi esclusivamente alle strutture politico-finanziarie di livello planetario. Come è pensabile un impegno politico giustamente antiabortista senza un contestuale impegno politico contro le radici della spaventosa mortalità neonatale che domina sulla maggior parte della famiglia umana? Eppure questo è ciò che avviene nelle scelte di molti cattolici. Ma più in generale: come è pensabile il diritto alla libertà di coscienza, e quindi a un coscienzioso impegno politico, quando i mezzi di informazione (i media) sono quasi interamente posseduti o controllati o ricattati da poche grandi centrali di potere economico che agiscono esclusivamente per interesse privato e sempre nell'ottica della cultura occidentale? O quando buona parte dell'umanità soffre di un analfabetismo pratico che rende impossibile la comprensione e la valutazione delle informazioni ricevute? Queste, e molte altre simili considerazioni, impongono oggi proprio un serio impegno politico nel campo delle strutture planetarie della convivenza umana sulla terra.

L'impegno politico non può certo limitarsi al campo delle strutture: potrà e dovrà richiedere o rifiutare alcune norme, sempre che siano socialmente rilevanti. Ma non tutte le norme della tradizione morale cattolica che si elencano sotto il termine morale naturale, non di diretta derivazione evangelica, potranno - né dovranno essere proposte (o imposte) ope legis. Ne ho già succintamente spiegato i motivi. Aggiungo qui solo un piccolo esempio marginale. In alcune aree culturali, specie in Africa, l'anziano che comprende di esser solo di peso al suo gruppo (villaggio, clan familiare o che altro) si ritira da solo nella foresta e là si lascia morire. Non si tratta di eutanasia attiva: egli non si uccide ma si lascia morire. Ma non si tratta neppure di rifiuto di accanimento terapeutico, dato che in genere le sole terapie possibili sono poco più di un'aspirina (e se ce ne fossero di migliori, le rifiuterebbe). Egli semplicemente rifiuta di prolungare la sua esistenza e ciò che a tale prolungamento è necessario, per amore del gruppo al cui interno egli percepisce il suo essere persona, e i relativi compiti morali (e del resto anche da noi il concetto di accanimento terapeutico è troppo vago, né può esser fonte di una normativa etica e giuridica precisa: troppe sono le variabili oggettive e soggettive che possono contribuire all'accettazione o al rifiuto di un trattamento).

È necessario accennare a un'ulteriore precisazione al n. 7 di Nota Dottrinale: “Sono da respingere quelle posizioni politiche e quei comportamenti che si ispirano a una visione utopistica...una specie di profetismo senza Dio, indirizzando la coscienza verso una speranza solo terrena che annulla o ridimensiona la tensione cristiana verso la vita eterna”. Certamente nessun cristiano indirizzerà la coscienza verso una speranza solo terrena. Ma l'uomo di buona volontà non credente difficilmente potrà indirizzare la sua coscienza verso una speranza ultraterrena: il suo impegno, se davvero ha il culto degli alti valori posti nel cuore dell'uomo e cerca di rispondere alla segreta chiamata di un Dio che non conosce, sarà rivolto nella stessa direzione. Non per nulla la Gaudium et Spes parla di un'unica vocazione - “eadem vocatione” - umana e divina insieme. Verificata nel dialogo la retta coscienza dell'interlocutore, con lui il cristiano può e deve collaborare. Scelte e posizioni politiche di questo genere non sono dunque da respingere, anche se su precisi punti concreti - ma non sulla linea politica di fondo - potranno esservi doverose distinzioni.

Su questi due punti la Nota Dottrinale è quanto meno ambigua, e non sembra proprio che si muova nella prospettiva del concilio Vaticano II; e tanto più lo appare, in quanto manca - come ho notato - di quella fondazione biblica e teologica che è alla base di tutta la Gaudium et spes.

Enrico Chiavacci

Note

1. Almeno: io parto dalla teologia e dalla spiritualità dominanti dalla nascita dello Stato sovrano sul piano del sociale e dall'introduzione dell'idea di ordine naturale sul piano teologico.

2. Così nacquero le Conferenze di S. Vincenzo; ma il pensiero va anche al I volume del Capitale di K. Marx e ai tanti romanzi sociali di Ch. Dickens. Va ricordato che nella Centesimus annus viene citato K Marx per aver posto una domanda giusta, anche se la risposta era sbagliata.

3. Prima della Rerum novarum è soprattutto importante ai nostri scopi la Immortale Dei, 1885, dedicata alla costituzione e alla stessa ragion d'essere degli Stati.

4. Nel Seminario teologico - ai miei tempi, nel 1948-50 - il sociale non esisteva. Quando cominciai a insegnare, nel 1961, la dottrina sociale della Chiesa si insegnava con la filosofia morale nei corsi preteologici.

5. E ciò corrisponde alla concezione lockiana dei diritti dell'uomo: ma qui non è possibile discutere il tema. Cf. E. CHIAVACCI, Teologia morale, Cittadella, Assisi (PG) 1990, in particolare il cap. 4 del volume 3/2.

6. Cf. GS 45: EV 1/1464.

7. Cf. GS 40: EV 1/1443.

8. Cf. GS 24: EV 1/1395.

9. Cf. GS 40: EV 1/1443.

10. GS 40: EV 1/1444, ma l'idea era già in S. Agostino.

11. Cf. GS 37: EV 1/1433.

12. GS 37: EV 1/1434.

13. CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica 3.

14. GS 78: EV 1/1589.

15. GS 77: EV 1/1586.

16. Ibid.

17. Si noti la parentela col communitarianism: se un gruppo condivide gli stessi valori. allora all'interno di quel gruppo essi possono valere come assoluti regolatori. In realtà non vi è verità assoluta, ma in quell’interno essi valgono come se fossero assoluti. A parte il latente relativismo etico, è ovvio il rischio di contrapposizioni rigide, fonte di perpetua conflittualità fra gruppi.

18. Si ricordi il Vangelo per tutte le genti, il buon samaritano, e soprattutto il testo esplicito di Rm 2.

19. H. DE LUBAC, Sur les chemins de Dieu, Aubier, Paris 1956. È una ripresentazione con bibliografia sconfinata, 100 pagine su 250 di testo, di due opuscoli del 1945 e 1948 che erano stati criticati da molti. Non mi risulta che vi siano state ulteriori critiche.

20. L’espressione famiglia umana in un documento di diritto internazionale è una novità da sottolineare.

21. GS 55: EV 1/1496 (ma tutta la sezione 53-56: EV 1/1492-1503 va riletta).

22. Si può vedere al proposito la presentazione delle ricchezze morali di altre culture in E. BURGOS, Mi chiamo Rigoberta Menchu, Giunti, Firenze 1987 per la cultura india centroamericana, e in B. BUJO, Wider den Universalansprunch westlicher Moral: Grundlagen afrikanischer Ethik, Verlag Herder, Freiburg 2000 per le culture centroafricane.

23. Ma sono ben pochi: vedi H. SCHÜRMANN, “Die Frage nach der Verbindlichkeit de neutestamentlichen Wertungen und Weisungen”, in J. RATZINGER, Prinzipien chrislicher Moral, Johannes Verlag, Eisiedeln 1975.

24. Cf. Nota Dottrinale 6.

25. Cf. Nota Dottrinale 7.

(da Rivista di Teologia Morale n. 140, pp. 475-484)
 

Letto 2786 volte Ultima modifica il Lunedì, 02 Febbraio 2015 09:21
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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