La crisi della cultura tedesca
Il nostro tempo ha dovuto, a più riprese, fare i conti con i miti della cultura tedesca e la sua pretesa incontestata di primeggiare su tutti i campi del sapere. Anche per quanto riguarda la teologia non si poteva dire altrimenti e parlare di eccezioni alla regola. In Germania si dava rilievo ai problemi essenziali del nostro tempo, si affrontavano i temi di avanguardia in tutte le scienze e si portavano avanti le ricerche fino ai confini impensabili delle ultime conseguenze. Essere aggiornati significava, dunque, avere un occhio aperto sul fermento delle idee e sullo sviluppo della cultura tedesca. Se non sul piano delle armi, almeno su quello del pensiero il noto slogan: «la Germania sopra tutti» aveva convinto, sedotto, umiliato ed avvilito ogni altra cultura. Di questo mito abbiamo oggi ancora degli assertori convinti, soprattutto a livello delle assemblee ecclesiastiche e lo spirito asservito di coloro che si son lasciati convincere non tarda a farsi sentire. Eppure, uomini come Karl Barth erano giunti alla conclusione che tutta la cultura dei loro maestri era profondamente sbagliata, fin dalle sue radici più vitali: un abbaglio fatale per l'Europa.
La chiesa confessante tedesca rivive questa stessa esperienza sotto il nazismo. Tra essi v'è Paul Tillich, esule negli Stati Uniti, fin dal 1933. Oggi ancora è Rudolph Bultmann a ricordare gli errori tedeschi, sul piano della storiografia. Hanno dimenticato Giambattista Vico e Benedetto Croce: un errore imperdonabile! La storiografia è dunque costretta a riformulare il suo metodo, attingendo ad altre fonti, quelle anglosassoni per esempio, ma non più a quelle tedesche. È facile capire che gli esempi possono continuare. È comunque un fatto che il mito della superiorità tedesca continua a serpeggiare negli animi della nostra epoca nonostante che ripetutamente, nel nostro secolo, sia stato denunciato e condannato. Vi sono sempre clienti pronti a trasformarsi in vittime di una nuova illusione e decisi ad inforcare i paraocchi necessari per raggiungere tale scopo. Paul Tillich raggiunse l'America con l'animo pieno di amarezza. Aveva conosciuto la demonia della cultura tedesca. Ma se dentro di sé scopri il vuoto e le ceneri di una civiltà distrutta, v'era pure la ferma volontà di riprendere il lavoro su basi radicalmente diverse. Guardando al passato non potrà non parlare della maledizione della storia europea, ma il suo non è il lamento rivendicativo di chi è stato colpito, è invece il segno del maturare di una situazione nuova. Sul continente nord-americano conosce nuovi orizzonti, l'incontro fecondo di tutte le culture viventi. Il meglio di ogni tradizione nazionale diventa il patrimonio della riflessione del nuovo mondo. Di fronte all'uomo colto del Nord o del Sud, dell'Est o dell'Ovest, la sicurezza e l’oltracotanza del mito tedesco assumono le dimensioni di una mera grettezza, da lasciar sedimentare al più presto sul fondo morto delle proprie eredità. L'ampio respiro, l'apporto veramente universale di tante e diverse civiltà, sottolineava a grandi linee la storia europea come maledizione, come una servitù demoniaca capace di asservire ai suoi idoli anche gli uomini più avvertiti del XX secolo.
La lotta contro il provincialismo
Chi aveva sofferto all'interno delle suddette strettoie mentali era ora in grado di dare un nome alla malattia, al fine di isolarla e di richiamare su di essa l'attenzione di quanti sarebbero stati ancora pronti ad accogliere il suo avvertimento. La diagnosi fatta portò alla denuncia del provincialismo: l'unità di misura coltivata a casa nostra, con la quale andiamo misurando il mondo intero ed ogni singola manifestazione di pensiero, per giudicarli mancanti. Ogni protestante sa cosa significa autogiustificazione, sul piano teologico. Ebbene, il provincialismo esprime lo stesso concetto sul piano secolarizzato della cultura e dà un'idea assai precisa del contenuto della nostra sicurezza di giudizio rispetto agli altri. Verso la fine della sua attività universitaria, Tillich sentì, ancora una volta, la necessità di verificare la sua libertà dinanzi al provincialismo. In altre parole, si chiedeva se l'America non si ritrovasse a ricalcare gli stessi sentieri nonostante l'alto livello di universalità raggiunto nei suoi incontri culturali. Scelse allora come posto di verifica il Giappone. Non era una stranezza perché Emil Brunner passò per quella via ed oggi non solo la teologia, ma l'elettronica, l'economia e la pedagogia sentono il fascino di un confronto culturale con i popoli dell'Estremo Oriente. Ne risultò chiara la convinzione che la battaglia contro il provincialismo non può mai dirsi vinta. Solo chi ne è vittima e servo non si rende conto di questa minaccia costante e di tutta la sua gravità.
Pratica e teoria
Una delle sue esperienze più significative, al momento di scuotersi di dosso il male tedesco, avvenne con l'incontro degli studenti americani. Al termine delle sue ricche e dottissime disquisizioni culturali si sentì interrogato dal suo uditorio sul valore pratico del suo dire, sulla portata quotidiana e l'utilità immediata, per l'uomo della strada, delle affermazioni fatte sul piano teorico. Quanto era facile sorridere al pensiero che l'America pragmatista e del Social Gospel non poteva reagire altrimenti! È il sorriso classico del provincialismo, di quelli che hanno nelle proprie mani l'unità di misura. Per Tillich fu un'esperienza liberante! Se, da un lato, senti impellente la necessità di recuperare i suoi uditori all'importanza della teoria, è altresì vero che, dall'altro lato, la domanda: «A che serve?» pose in ridicolo certe montature della cultura europea e svuotò i fantasmi di un mondo di super-uomini, riducendoli alle loro dimensioni fasulle. La domanda stessa si trasformava in un talismano sorprendente, capace di rompere l'incantesimo di chi era stato stregato. Per un tedesco, del tipo descritto, essa aveva una funzione esorcizzatrice di portata impressionante.
Paul Tillich ha dovuto rifare un'altra volta la stessa esperienza. Giungendo negli Stati Uniti si era fatto, per istinto, difensore della teoria, ma aveva saputo apprezzare e valutare positivamente la forza viva della reazione ivi incontrata. Alla fine della sua vita doveva constatare che l'Europa degli anni sessanta stava ricalcando le stesse vie, forse con meno saggezza, dei suoi primi studenti del nuovo continente. Gli universitari tedeschi erano diventati sostenitori ad oltranza del prevalere della pratica. Il suo giudizio si faceva nuovamente severo: non avevano conosciuto cosa volesse dire lottare e soffrire per la libertà e perciò non potevano rendersi conto di lottare, oggi, per una nuova forma di schiavitù. Forse rimettendo l'accento sulla teoria sarebbe stato possibile esorcizzare ancora una volta i fantasmi della mente europea. Quello di Tillich è stato un discorso senza animosità, ma concepito nella chiara coscienza che nessun kairos previsto dalla cultura tedesca si era mai realizzato.
Il concetto di angoscia
Non c'è dunque da stupirsi se il momento della crisi dei valori o dei significati fosse d'importanza capitale per Paul Tillich. La scoperta della maledizione della storia europea e del provincialismo, lo scontro tra teoria e pratica marcavano a forti tratti il vuoto che veniva formandosi e la varia gamma di interrogativi che ne risultavano. Come non leggere questa situazione in chiave esistenziale? Kierkegaard aveva già da tempo sollecitato l'idea di mettere l'uomo con le spalle al muro affinché, nella crisi totale di tutti i valori, di tutti gli idoli e di tutti i tabù, cogliesse il significato e la portata dell'annuncio della fede cristiana. Anche Emil Brunner si trovava a difendere le stesse tesi. Seguendo queste orme, Tillich si propose come missione di mediare le categorie del pensiero esistenzialista al continente americano. Non gli sfuggiva, infatti, l'importanza decisiva del momento della crisi, sempre presente, per l'annuncio della fede cristiana. Ma era proprio indispensabile caricarsi addosso tutte le bardature della riflessione esistenziale per giungere alla comunicazione e alla comprensione dell'Evangelo? Per Tillich ciò rimase incomprensibilmente un punto obbligato, una specie di vendetta dei fantasmi della cultura tedesca, l'influenza di un ultimo demone sfuggito inavvertitamente al processo di esorcizzazione avviato con rigore su tutti i fronti.
Gli americani non mancarono di fargli notare che l'esistenzialismo non trovava adeguate corrispondenze nelle culture extra-europee. Per loro, come per i popoli dell'Asia e dell'Africa, esso sarebbe stato una corazza ingombrante da indossare se non addirittura un travestimento illecito. Purtroppo da quest'orecchio Tillich non ci sentiva. Un giorno, discutendo con un russo, rimase pieno di stupore e di meraviglia nel constatare l'assenza di sensibilità al momento della crisi esistenziale: «Strano, lei non conosce l'angoscia!» Cosi stando le cose, non si può pensare al nostro teologo senza tener presente questa caratteristica del suo pensiero. Con le spalle al muro l'uomo, dunque, conosce il «brivido del non-essere» ed è pervaso dall'angoscia che ne consegue. La medicina e la scienza non sono in grado di curare questo tipo di afflizioni perché non si tratta di depressioni fisiche, ma di un fenomeno di altra natura. L'angoscia infatti ha la sua origine in una problematica metafisica, oppure nella mancanza di significati, o ancora nella colpa. Non è pane per il medico, ma per il predicatore dell'Evangelo. Di qui i sermoni di Tillich sullo scuotimento delle fondamenta, sul coraggio di essere e sul Nuovo Essere.
La situazione dell'uomo
L'Iddio di Tillich non è estraneo alla situazione dell'uomo. In questo egli sa di dissentire dalla teologia di Karl Barth e da ogni enfasi messa sul totalmente altro. Vedeva nel pensiero del suo collega di Basilea un pericolo grave nella misura in cui se ne poteva dedurre che Dio avesse abbandonato il mondo e gli avvenimenti terreni al loro destino fatale, in attesa che venisse calata dal cielo la nuova Gerusalemme. Se nulla dev'essere recuperato di questo vecchio mondo, a nulla serve il governo di Dio. La teologia di Barth è troppo distaccata dal mondo: un super-naturalismo ingiustificato.
A Tillich non interessano tuttavia le teorie e le proposte umaniste che intendono costruire sull'angoscia degli uomini entro i meri limiti dell'esistenzialismo europeo. L'uomo non può essere ridotto ad un interrogativo senza alcuna risposta.
Infine Tillich non vuole che gli sia attribuito un interesse per la teologia naturale. Egli non cerca una rivelazione nella natura e non legge la traiettoria, che idealmente mette l'uomo in relazione con Dio, dal basso verso l'alto, ma dall'alto verso il basso. Ma allora a che serve quest'angoscia che si trova nell'uomo? Essa non rappresenta altro che un punto interrogativo sui temi del nostro essere e del nostro esistere. In altre parole, si tratta di segni che hanno bisogno di essere interpretati e giudicati in altra sede. Nel mondo governato da Dio non c'è da stupirsi se maturino delle domande, sarebbe piuttosto vero il contrario. L'uomo e il filosofo, tuttavia, sbagliano quando cercano di darsi una risposta. Così facendo non usciranno mai dai confini dell'idolatria. La sola risposta adeguata è quella di Dio. A questo punto Tillich rovescia le tesi di Croce, Gentile e Collingwood, i quali vedevano nella religione un momento d'immaturità razionale ed auspicavano il suo evolversi nella filosofia. Non è sufficiente, infatti, che l'uomo reagisca all'angoscia con il coraggio che lo porta ad affermarsi. Occorre ancora essere garantiti contro il crollo di ogni forma di coraggio umano e qui Dio solo può intervenire con la risposta adeguata: il dono della fede. Pertanto il cristiano avrà ragione di rivolgersi a chi lotta contro l'angoscia e la crisi dei valori, per dirgli che il suo sforzo non è ancora adeguato e che nutre ancora delle false sicurezze. Il cristianesimo non ha paura di sottoporsi alla stessa prova, perché sa che anche quando ogni sua forma cadrà, il suo contenuto tornerà a risorgere e ad affermarsi. Che le cose stiano cosi è chiaramente indicato dalla morte e dalla risurrezione del Cristo, cioè dal simbolo per eccellenza che determina il contenuto del principio protestante valido per tutte le religioni, per tutte le filosofie e per tutti i tempi. La fede cristiana ha in questo simbolo, in questo principio, il criterio valido anche contro se stessa, al confronto del quale ogni altro fenomeno filosofico o religioso non può che cedere il passo.
Il sistema teologico
Il discorso di Tillich sull'angoscia manifesta in modo esemplare la problematica di base del suo sistema teologico. Gli interrogativi posti dalla nostra esistenza vanno attentamente considerati in parallelo alle risposte che Dio ci dà. V'è cioè una correlazione tra la filosofia che interroga, sollecitata dall'angoscia, dalle ambiguità, dall'alienazione e la teologia che risponde proclamando la vittoria del Cristo, il Nuovo Essere, nel quale noi siamo. Ma parlare di correlazione significa accennare ad un terzo elemento che lega significativamente i due piani di confronto e li mantiene costantemente paralleli. Per Tillich il mistero che abbraccia contemporaneamente la domanda e la risposta è il logos che, per il filosofo, si limita ad essere una struttura razionale dell'universo, e che, per il teologo, è il Logos del Nuovo Testamento, il Cristo stesso, creatore e ragione profonda dell'esistenza di ogni logos strutturale dell'universo. V'è dunque una profondità della ragione, del logos che sfugge al filosofo, di fronte alla quale ogni tentativo d'individuazione da parte dell'uomo, resterà sempre inadeguato, non abbastanza maturo e in fondo idolatra.
Il sistema di Tillich si divide in cinque parti articolate in altrettanti binomi correlativi: 1) Ragione e Rivelazione; 2) l'Essere e Dio; 3) l'Esistenza e il Cristo; 4) Vita e Spirito; 5) la Storia e il Regno di Dio. In ognuno di essi si ritrova la tragedia dell'avventura umana continuamente minacciata tra tensioni e polarità in cui ogni significato rischia di perdersi. È tuttavia un'avventura vissuta all'interno di strutture buone in quanto determinate e volute da Dio anche se mal orientate a causa del peccato degli uomini. Barth parlerebbe a questo punto della grazia della creazione, della praeparatio evangelica.
L'Iddio di Tillich è l'Iddio che vince tutte le distorsioni e ristabilisce il solo equilibrio valido, adeguato e possibile tra tutte le tensioni. Non si tratta certo di un equilibrio statico, ma piuttosto di una continua vittoria che ha il suo segreto in Dio stesso. Facciamo un esempio attuale. La nostra società vive in tensione tra la reazione di chi pensa di ritenere ancora valide le soluzioni adottate in altri tempi e la rivoluzione di chi sente la necessità di una rottura chiara con il passato, per liberare le energie nuove del nostro tempo. Le due tendenze affrontandosi lasciano, con il vuoto, distruzioni enormi ed anni di mera vita vegetativa nel tentativo di sopravvivere. L'incidenza del Regno di Dio si manifesta nel perenne rinnovamento dell'equilibrio tra i due momenti, trasmettendo ciò che è ancora valido ed aprendosi all'affermazione del nuovo.
Sulla linea di confine
Partendo dalla nozione di angoscia, Tillich delinea il suo sistema teologico e viene a trovarsi, non solo nelle sue esperienze culturali ma anche nella sua produzione dogmatica, su di una linea di confine che divide due momenti in tensione tra di loro. Si sente filosofo con i filosofi e teologo con i teologi. È sempre libero di insegnare ora l'una ora l'altra materia, movendosi a suo agio all'interno di un settore o di un altro. Il mondo in cui si trova è il mondo di Dio. Non v'è dunque posto per atteggiamenti manichei. Non si ritrova invece con coloro che escludono l'altro dal loro interesse e che si propongono come unità di misura per il sapere umano. Non vuole con ciò semplicemente assumere un atteggiamento generoso con chi dissente. Occorre che l'altro non sia estraneo, o meglio diventare straniero con gli stranieri. Bisogna dunque vivere sul confine! Ma nessuno è più sospettato di chi vive sul confine. È infatti sempre difficile offrirgli una chiara cittadinanza, anche se nessuno ha amore più grande per il proprio paese di chi vive e subisce il quotidiano confronto con l'altro. L'esule Paul Tillich diventa anche un esule culturale e teologico, imprimendo nel proprio pensiero il marchio delle sue avventure in patria e all'estero.
Critiche
Quegli uomini che entusiasticamente si schierano dietro una bandiera e che hanno l'intuito pronto per etichettare i loro simili, hanno avuto gioco facile nel trovare speditamente un'incasellatura adatta al nostro teologo. Come si può parlare oggi, dopo Hegel, di un sistema così perfetto nelle sue articolazioni? Per molti infatti, nonostante le proteste dell'autore, il sistema propostoci è da giudicarsi all'interno dell'idealismo in un'epoca in cui, a parte poche eccezioni, esso sembra ormai aver fatto il suo tempo. Il sospetto rendeva necessariamente fragile anche la prospettiva esistenzialistica così poco congeniale all'idealismo. È facile altresì immaginare cosa doveva succedere quando Tillich si dichiarava sul confine con il marxismo e prendeva atto del suo contributo all'indagine dei mali della nostra società industriale. Chi è amico di tutti non è amico di nessuno!
Quanto accadeva sul terreno filosofico si ripeteva in altri termini nel campo della teologia. Da quando Kierkegaard aveva definito l'apologetica un nuovo tradimento del Cristo, un bacio di Giuda, era diventato estremamente pericoloso presentarsi sulla scena teologica come un difensore della fede cristiana. Eppure Emil Brunner non aveva escluso questa possibilità, anzi l'aveva caldeggiata ed anche difesa. Inoltre tutto il programma di Rudolph Bultmann, in vista della demitizzazione del Nuovo Testamento, non si comprenderebbe se non come un deciso sforzo in questo senso. Secondo teologi della scuola barthiana, il pensiero di Tillich avrebbe ceduto proprio a questo punto nel suo tentativo di una verifica in Estremo Oriente. La cultura giapponese avrebbe accolto le sue tesi con riserbo e sospetto. Perché non esprimere chiaramente il proprio pensiero e la propria fede come lo aveva fatto la teologia della crisi? Perché mettere il vino nuovo in otri vecchi? È forse umanamente possibile convincere l'uomo ad uscire dalle sue illusioni e dai suoi miti? Era molto difficile cercar di capire innanzi tutto il discorso di Tillich ed evitare di archiviarlo affrettatamente secondo formule facilmente reperibili.
La scena che si svolgeva su questo confine ideale non era certo piacevole e per Tillich era necessaria una buona dose di perseveranza e di coraggio. Forse nel suo cielo gli avvoltoi si sono messi a girare intorno di frequente, pensando ad una rapida soluzione dei problemi da lui sollevati. L'opposizione degli uomini, che quaggiù hanno scelto una bandiera, non è sorprendente e la si intuisce ad ogni pagina dei suoi scritti man mano che il teologo del confine avanza i suoi suggerimenti ed offre nuove prospettive. Chi possiede l'unità di misura trova sempre l'altro mancante!
Apprezzamenti
Bisogna notare che attraverso la predicazione di Tillich — non è cosi con Bultmann — si rimane fortemente impressionati dall'annuncio dell'Evangelo e si è costantemente posti di fronte ad un Signore attivo e vittorioso, in mezzo alle ambiguità del nostro vivere quotidiano. Basta questo solo fatto a ricordarci che, in fondo, era valido anche per la sua opera quanto egli aveva detto per il principio protestante. Nonostante le riserve e le critiche non si poteva non riconoscere in lui il credente in Cristo che vive la sua epoca, rischiando giorno dopo giorno. Paul Tillich ci lascia l'impressione netta di un uomo libero per il suo Dio e per il prossimo e capace di purificare continuamente questa sua libertà nel crogiuolo delle sue esperienze sulla linea di confine. Guardando alle strutture della nostra vita, aveva osato dire agli uomini che erano buone anche se mal orientate e pervertite nell'uso fattone dalla nostra società in tutti i tempi. Aveva invitato i suoi contemporanei a porvi mente ad un livello più radicale e più profondo del nostro solito ragionare umano e questo perché era in atto una vittoria di Dio su tutte le storture e le deviazioni, una vittoria che avrebbe dato pieno senso e resa giustizia alla bontà strutturale che Dio ha voluta per il nostro mondo. Chi è capace di scendere a tali profondità, è nelle mani di Dio ed allora tutto diventa trasparente e si scorge il pulsare del Regno dietro la facciata della nostra storia individuale e collettiva. Tutto diventa segno, sia pure discutibile e frainteso ma pur sempre segno, per chi ha orecchi da udire ed occhi da vedere, di un mondo diverso in cui ogni fatto ha il suo giusto posto e il suo giusto valore.
In questa prospettiva v'è in Tillich una parola per tutti, per il poeta e per il politico, ma soprattutto v'è ampio spazio per la speranza e la fede cristiana raccolte solidamente intorno all'Iddio che vince ogni angoscia ed ogni ambiguità.
Renzo Bertalot
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