Tutto è altrove. (Julien Green)
1) Esporre insieme – al fine di correlare tra loro – i termini culto ed età secolarizzata, sembra presupporre che abbiamo una chiara comprensione di entrambi, che conosciamo la realtà che essi indicano e che quindi lavoriamo su campi concreti ed esplorati a fondo. Ma è veramente così? Inizio la mia relazione soprattutto con una domanda perché sono convinto che, nonostante la generalizzata preoccupazione di oggi sulla “semantica”, vi è molta confusione circa l’esatto significato dei termini molto utilizzati in questa discussione.
Non solo tra i cristiani in generale, ma anche tra gli stessi ortodossi in realtà non esiste alcun consenso, nessuna struttura di riferimento comunemente accettata, sia riguardo al termine culto che al termine secolarismo e quindi a maggior ragione il problema della loro interrelazione. Quindi il mio lavoro è un tentativo non tanto di risolvere il problema quanto di chiarirlo e di fare questo, se possibile, in una prospettiva ortodossa coerente. A mio parere, gli ortodossi, quando discutono i problemi derivanti dalle nostre “situazioni” presenti, li accettano con troppa facilità nelle loro formulazioni occidentali. Non sembrano rendersi conto che la Tradizione Ortodossa fornisce anzitutto una possibilità, e quindi una necessità, di riformulare questi problemi, di collocarli in un contesto in cui l’assenza o la deformazione nella mente religiosa occidentale potrebbe essere stata la radice di tante delle nostre moderne “impasse”. E per come la vedo io, da nessuna parte questo compito è più urgente che nella gamma di problemi legati al secolarismo e propri della nostra cosiddetta età secolare.
Homo adorans
Negli ultimi anni la secolarizzazione è stata analizzata, descritta e definita in molti modi, ma, per quanto ne sappia, nessuna di queste descrizioni ha sottolineato un punto che ritengo sia essenziale e che rivela in effetti meglio di ogni altra cosa la vera natura della secolarizzazione e quindi può dare alla nostra discussione il suo corretto orientamento. La Secolarizzazione, a mio avviso, è innanzitutto una negazione del culto. Sottolineo: non una negazione dell’esistenza di Dio, o di un qualche tipo di trascendenza e quindi di una sorta di religione. Se il secolarismo in termini teologici è un’eresia, si tratta innanzitutto di un’eresia sull’uomo. È la negazione dell’uomo in quanto essere che adora, in quanto homo adorans: colui per il quale l’adorazione è l’atto fondamentale, che allo stesso tempo “colloca” la sua umanità e la compie. È il rifiuto “decisivo” ontologicamente ed epistemologicamente, delle parole, che “sempre, dovunque e per tutti” sono state la vera “epifania” del rapporto dell’uomo con Dio, con il mondo e con sé stesso: “è cosa buona e giusta cantarti, benedirti, lodarti, renderti grazie, e adorarti in ogni luogo della tua sovranità...”.
Questa definizione di secolarizzazione ha certamente bisogno di essere spiegata. E ovviamente non può essere accettata da coloro che, assai numerosi, oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, riducono il cristianesimo in categorie intellettuali (“credenza futura”) o in categorie etico-sociologiche (“servizio cristiano al mondo”), e che quindi pensano debba essere possibile trovare non solo un qualche tipo di adattamento, ma anche un’armonia profonda tra la nostra “età secolare”, da un lato e il culto, dall’altro. Se i fautori di ciò che fondamentalmente non è altro che l’accettazione Cristiana della secolarizzazione sono nel giusto, allora naturalmente tutto il nostro problema è solo quello di trovare o inventare un culto più accettabile, più “rilevante” per la moderna visione del mondo dell’uomo secolarizzato. E tale è, infatti, la direzione presa oggi dalla stragrande maggioranza dei riformatori liturgici. Quello che cercano è un culto cui le forme e i contenuti “riflettano” i bisogni e le aspirazioni dell’uomo secolarizzato, o ancor meglio della secolarizzazione stessa. Ripetiamo ancora una volta, la secolarizzazione non è affatto identica all’ateismo, e per quanto paradossale possa sembrare, può essere dimostrato che essa ha sempre avuto un desiderio particolare per l’espressione “liturgica”. Se, tuttavia, la mia definizione è corretta, allora tutta questa ricerca è uno scopo irrimediabilmente morto, se non addirittura senza senso. Quindi la formulazione stessa del nostro tema – “il culto in un’età secolarizzata” – rivela, prima di tutto, una contraddizione interna, in termini, una contraddizione che richiede una revisione radicale del problema e la sua drastica riformulazione.
Per dimostrare che la mia definizione di secolarizzazione (“negazione del culto”) è corretta, devo provare due punti. Uno riguardante il culto: deve essere dimostrato che la nozione stessa di culto implica una certa idea del rapporto dell’uomo non solo con Dio, ma anche con il mondo. E uno riguardante la secolarizzazione: deve essere dimostrato che è proprio questa idea di culto che la secolarizzazione esplicitamente o implicitamente rifiuta.
Il mondo come sacramento
In primo luogo consideriamo il culto. È ironico ma anche molto rivelatore, mi sembra, dello stato attuale della nostra teologia, che le principali “prove” qui non saranno fornite dai teologi, ma dalla “Religionswissenschaft” (1), quella storia e fenomenologia delle religioni di cui lo studio scientifico del culto, sia delle sue forme che dei contenuti, è stato di fatto praticamente ignorato dai teologi. Eppure, finanche nella sua fase formativa, quando aveva una forte componente pregiudiziale anti-cristiana, questa Religionswissenschaft sembra aver conosciuto meglio la natura e il significato del culto che i teologi che continuavano a ridurre i sacramenti alle categorie di “forma” e “materia”, “causalità”, e “validità”, e che di fatto escludevano la tradizione liturgica dalle loro speculazioni teologiche.
Non ci può essere alcun dubbio, tuttavia, che se, alla luce di questa, ormai metodologicamente matura fenomenologia della religione, consideriamo il culto in generale e la leitourgia cristiana in particolare, siamo costretti ad ammettere che il principio stesso su cui sono costruiti, e che ha determinato e plasmato il loro sviluppo, è quello del carattere sacramentale del mondo e del posto dell’uomo nel mondo.
Il termine “sacramentale” qui significa che l’intuizione di base e primordiale che non si esprime solo nel culto, ma di cui il culto intero è davvero il “fenomeno” – sia effetto che esperienza – è che il mondo sia nella sua totalità come cosmo, o nella sua vita e divenire come tempo e storia, è una epifania di Dio, un mezzo della sua rivelazione, presenza e potenza. In altre parole, non solo “pone” l’idea di Dio come causa razionalmente accettabile della sua esistenza, ma veramente “parla” di lui ed è di per sé uno strumento essenziale sia di conoscenza di Dio che della comunione con Lui, e questo è ciò che fa la sua vera natura e il suo destino ultimo. Ma allora il culto è un atto veramente essenziale, e l’uomo è essenzialmente culto, perché è solo nel culto che l’uomo ha la fonte e la possibilità di questa conoscenza che è comunione, e di quella comunione che si realizza in quanto vera conoscenza: conoscenza di Dio e quindi conoscenza del mondo – comunione con tutto ciò che esiste. Pertanto, la nozione stessa di culto si basa su un’intuizione e sull’esperienza del mondo come un’“epifania” di Dio, così il mondo – nel culto – si rivela nella sua vera natura e vocazione come “sacramento”.
E in effetti, devo ricordare di quelle realtà, così umili, così “scontate” che non sono quasi mai menzionate nelle nostre altamente sofisticate epistemologie teologiche e sono totalmente ignorate nel dibattito sull’“ermeneutica” e dalle quali, tuttavia, dipende semplicemente la nostra stessa esistenza come Chiesa, come nuova creazione, come popolo di Dio e tempio del Santo Spirito? Noi abbiamo bisogno di acqua e olio, pane e vino per essere in comunione con Dio e poterlo conoscere. Eppure, al contrario – e questo è l’insegnamento, se non dei nostri moderni manuali teologici, almeno della stessa liturgia – è questa comunione con Dio per mezzo della “materia”, ciò che rivela il vero significato di “materia”, cioè, del mondo stesso. Possiamo rendere culto solo nel tempo, ma è il culto che in ultima analisi, non solo rivela il senso del tempo, ma veramente “rinnova” il tempo stesso. Non c’è culto senza la partecipazione del corpo, senza parole e silenzio, luce e buio, movimento e quiete – ma è nel e attraverso il culto che tutte queste espressioni essenziali dell’uomo nel suo rapporto con il mondo ricevono il loro ultimo “termine” di riferimento, sono rivelate nel loro significato più alto e più profondo.
Così il termine “sacramentale” significa che per il mondo essere strumento di culto e strumento di grazia non è accidentale, ma la rivelazione del suo significato, il ripristino della sua essenza, il compimento del suo destino. È la “sacramentalità naturale” del mondo che trova la sua espressione nel culto e rende quest’ultimo l’essenziale ergon dell’uomo, il fondamento e la primavera della sua vita e attività, come uomo. Essendo l’epifania di Dio, il culto è quindi l’epifania del mondo; essendo comunione con Dio, è l’unica vera comunione con il mondo, essendo conoscenza di Dio, è il compimento definitivo di ogni conoscenza umana.
A questo punto e prima di arrivare al mio secondo punto – la secolarizzazione come negazione del culto – è necessaria un’osservazione. Se in precedenza ho citato la Religionwissenschaft, è perché questa disciplina stabilisce al proprio livello e secondo la propria metodologia, che tale è infatti la natura e il significato non solo di culto cristiano “in generale”, ma di culto come un fenomeno primordiale e universale. Un teologo Cristiano, tuttavia, dovrebbe ammettere, mi sembra, che questo è particolarmente vero per la leitourgia cristiana la cui unicità risiede nel suo derivare dalla fede nella Incarnazione, dal grande e onnicomprensivo mistero del “Logos fatto carne”. È infatti estremamente importante per noi ricordare che l’unicità, la novità del culto cristiano, non è che esso non ha continuità con il culto “in generale”, come alcuni apologeti eccessivamente zelanti hanno cercato di dimostrare, nel momento in cui la Religionswissenschaft ha semplicemente ridotto il cristianesimo ed il suo culto ai culti misterici dei pagani, ma che in Cristo questa continuità stessa è compiuta, riceve il suo significato ultimo e davvero nuovo in modo da portare veramente tutto il culto “naturale” alla fine. Cristo è il compimento del culto come adorazione e preghiera, ringraziamento e sacrificio, comunione e conoscenza, perché egli è l’ultima “epifania” dell’uomo come essere adorante, la pienezza della manifestazione di Dio e la sua presenza attraverso il mondo. Egli è la vera realizzazione e sacramento, perché Egli è il compimento dell’essenziale “sacramentalità” del mondo.
Se però, questa “continuità” della leitourgia cristiana con l’intero culto dell’uomo include in sé un principio altrettanto essenziale di discontinuità, se il culto Cristiano è il compimento e la fine di tutto il culto è al tempo stesso un inizio, un culto radicalmente nuovo, non è a causa di una impossibilità ontologica per il mondo essere un sacramento di Cristo. No, è perché il mondo ha respinto Cristo, uccidendolo, e così facendo, ha respinto il proprio destino e compimento. Pertanto, se la base di tutto il culto Cristiano è l’Incarnazione, il suo vero contenuto è sempre la Croce e la Risurrezione. Attraverso questi eventi la vera vita in Cristo, il Signore Incarnato, è “nascosta con Cristo in Dio” e trasformata in una vita “non di questo mondo”. Il mondo, che ha respinto Cristo, deve morire in sé stesso nell’uomo, se vuole ancora diventare strumento di comunione, strumento di partecipazione alla vita, che risplendeva dalla tomba, nel Regno che “non è di questo mondo”, e che nei termini di questo mondo è ancora a venire.
E quindi il pane e il vino – il cibo, la materia, il simbolo stesso di questo mondo e, pertanto, il contenuto stesso della nostra prosphora a Dio, per essere cambiato nel Corpo e Sangue di Cristo e diventare la comunione al suo Regno – deve nell’anaphora essere “innalzato”, assunto fuori di “questo mondo”. Ed è solo quando la Chiesa nell’Eucaristia lascia questo mondo e ascende alla tavola di Cristo al Suo Regno, che vede veramente e proclama il cielo e la terra essere pieni della sua gloria e Dio come Colui che ha “riempito tutte le cose di se stesso”. Eppure, ancora una volta questa “discontinuità”, questa visione di tutte le cose come nuove, è possibile solo perché in un primo momento vi è continuità e non negazione, perché il Santo Spirito fa “nuove tutte le cose” e non “cose nuove”. È perché tutto il culto cristiano è memoria di Cristo “nella carne” che può anche essere memoria, vale a dire, attesa e anticipazione, del suo Regno. È solo perché la leitourgia della Chiesa è sempre cosmica, cioè, assume in Cristo tutti i tempi, che può quindi essere sempre escatologica, cioè, ci fa realmente partecipi del Regno a venire.
Questo è quindi il rapporto dell’uomo con il mondo implicito nella nozione stessa di culto. Rendere culto è, per definizione e azione una realtà di dimensioni cosmica, storica ed escatologica, l’espressione in tal modo non solo di “pietà”, ma di una totalizzante “visione del mondo”. E quei pochi che si sono presi la pena di studiare il culto in generale e il culto cristiano, in particolare, sarebbero certamente d’accordo che sui livelli della storia e della fenomenologia, almeno, questa nozione di culto è oggettivamente verificabile. Quindi se oggi quello che la gente chiama culto sono le attività, i progetti e le imprese che non hanno in realtà nulla a che fare con questo concetto di culto, la responsabilità di ciò si trova nella profonda confusione semantica tipica dei nostri tempi confusi.
Il secolarismo: una negazione del culto
2) Possiamo ora venire al secondo punto. Il Secolarismo, ho detto, è soprattutto una negazione del culto. E, in effetti, se quello che abbiamo detto circa il culto è vero, non è altrettanto vero che il secolarismo consiste nel rifiuto, esplicito o implicito, precisamente di quella concezione di uomo e di mondo che proprio il culto ha lo scopo di esprimere e comunicare?
Questo rifiuto, inoltre, è alla base stessa del secolarismo e ne costituisce il criterio interiore, ma, come ho già detto, il secolarismo non è affatto identico all’ateismo. Un laicista moderno molto spesso accetta l’idea di Dio. Ciò che, però, nega con forza è proprio la sacramentalità dell’uomo e del mondo. Un laicista osserva il mondo come contenente in sé il suo significato e i principi di conoscenza e azione. Egli può desumere significato da Dio e attribuire a Dio l’origine del mondo e le leggi che lo governano. Può anche ammettere senza difficoltà la possibilità dell’intervento di Dio nella vita del mondo. Può credere nella sopravvivenza dopo la morte e nell’immortalità dell’anima. Può riferire a Dio le sue aspirazioni fondamentali, come ad esempio una società giusta e la libertà e l’uguaglianza di tutti gli uomini. In altre parole si può “riferire” il suo secolarismo a Dio e renderlo “religioso” – oggetto di programmi ecclesiastici e di progetti ecumenici, il tema delle assemblee ecclesiali e l’oggetto della “teologia”. Tutto questo non cambia niente nella fondamentale “secolarità” della sua visione dell’uomo e del mondo, nel mondo che è compreso, sperimentato e messo in atto nei suoi stessi termini immanenti e per i propri interessi immanenti. Tutto questo non cambia niente nel suo rifiuto fondamentale di “epifania”: l’intuizione primordiale che tutto in questo mondo e il mondo stesso non solo hanno altrove la causa e il principio della loro esistenza, ma sono essi stessi la manifestazione e la presenza di questo altrove e che esso è davvero la vita della loro vita, così che disconnesso da questa “epifania” tutto è solo oscurità, assurdità e morte.
Il “culto secolare”
E questa essenza del secolarismo da nessuna parte è meglio rivelata come negazione che nel laicista che si occupa del culto. Per quanto paradossale possa sembrare, il laicista è in un certo senso, veramente ossessionato dal culto. L’“acme” del secolarismo religioso in Occidente – la Massoneria – è composta quasi interamente di cerimonie molto elaborate saturate di “simbolismo”. Il profeta recente della “città secolare”, Harvey Cox, ha sentito il bisogno di seguitare il suo primo best-seller, con un libro sulla “festa”. La celebrazione è, in effetti, molto di moda oggi. Le ragioni di questo fenomeno apparentemente peculiare sono in realtà abbastanza semplici. Esse non solo non invalidano, ma, al contrario, confermano il mio punto. Da un lato, questo fenomeno dimostra che qualunque sia il grado della sua laicità o addirittura di ateismo, l’uomo rimane essenzialmente un “essere che rende culto”, sempre nostalgico di riti e rituali non importa quanto vuoto e artificiale sia il surrogato a lui offerto. E d’altra parte, dimostrando l’incapacità del secolarismo di creare il culto genuino, questo fenomeno rivela l’ultima e tragica incompatibilità del secolarismo con l’essenziale visione Cristiana del mondo.
Tale incapacità può essere vista in primo luogo, nello stesso approccio secolarista al culto, nella sua ingenua convinzione che il culto, come tutto il resto del mondo può essere una costruzione razionale, il risultato di una pianificazione, “scambio di opinioni” e discussioni. Abbastanza tipico di ciò sono le stesse discussioni alla moda sui nuovi simboli, come se i simboli potessero essere, per così dire, “fabbricati”, portati all’esistenza attraverso deliberazioni di commissioni. Ma il punto è tutto qui che il laicista è costituzionalmente incapace di vedere nei simboli qualcosa, eccetto “aiuti audio-visivi” per comunicare idee. L’anno scorso un gruppo di studenti e insegnanti di un ben noto seminario hanno trascorso un semestre “lavorando” su una “liturgia”, centrata sui seguenti “temi”: l’S.S.T. (2), l’ecologia e l’alluvione in Pakistan. Senza dubbio “con buone intenzioni”. Sono i loro presupposti ad essere sbagliati: che il culto tradizionale non può avere alcuna “pertinenza” con questi temi e non ha niente da rivelare su di essi e che, se un “tema” non è in qualche modo chiaramente enunciato nella liturgia, o prodotto nel suo “focus”, è ovviamente al di fuori della portata spirituale dell’esperienza liturgica. Il laicista oggi è molto affezionato a termini come “simbolismo”, “sacramento”, “trasformazione”, “celebrazione” e a tutta la panoplia della terminologia cultuale. Ciò di cui non si rende conto, è, tuttavia, che l’uso che fa di essi rivela, in realtà, la morte dei simboli e la decomposizione del sacramento. E non si rende conto perché nel suo rifiuto della sacramentalità del mondo e dell’uomo egli è ridotto a visualizzare i simboli come semplici mere illustrazioni di idee e concetti, cosa che decisamente non sono. Non ci può essere nessuna celebrazione di idee e concetti, sia che si tratti di “pace”, “giustizia”, o anche “Dio”. L’Eucaristia non è un simbolo di amicizia o solidarietà, o qualsiasi altro stato di attività comunque auspicabile. Una veglia o un digiuno sono, certamente, “simbolici”: essi esprimono, manifestano, realizzano sempre la Chiesa come attesa e preparazione. Renderli simboli di protesta politica o di affermazione ideologica, usarli come mezzi per ciò che non è il loro “fine”, pensare che i simboli liturgici possano essere usati in modo arbitrario – è voler dire la morte del culto e questo nonostante l’evidente successo e popolarità di tutti questi “esperimenti”.
A chiunque abbia avuto, sia pure una sola volta, la vera esperienza del culto, tutto questo si rivela subito come il surrogato che esso è. Egli sa che il culto secolarista d’attinenza è semplicemente incompatibile con la vera attinenza del culto. Ed è qui, in questo miserabile fallimento liturgico, i cui risultati terribili stiamo solo cominciando a vedere, che il secolarismo rivela il suo ultimo vuoto religioso e, non esiterò a dire, la sua essenza del tutto anti-cristiana.
Conclusioni
Tutto ciò significa un semplice congedo del nostro tema: “il culto in età secolare”? Significa che non c’è nulla che noi, come Ortodossi possiamo fare in questa età secolare eccetto effettuare alla Domenica i nostri “antichi e pittoreschi” riti e vivere dal Lunedì al Sabato una vita perfettamente “secolarizzata”, partecipando a una visione del mondo che non è in alcun modo collegata a questi riti?
A questa domanda la mia risposta è un enfatico No. Sono convinto che accettare questa “coesistenza” (3), come sostenuto oggi da molti apparentemente ben intenzionati Cristiani, non significa soltanto un tradimento della nostra fede, ma che prima o poi, porterebbe alla disintegrazione proprio di ciò che vogliamo conservare e perpetuare. Sono convinto, inoltre, che tale disintegrazione è già iniziata ed è nascosta solo dalle pareti a prova di grazia dei nostri “establishments” ecclesiastici (occupati come sono a difendere i loro antichi diritti e privilegi e primati e condannandosi l’un l’altro come “non canonici”), dalle quiete prebende e dalle farisaiche devozioni. Su quest’ultima dovremo ritornare più avanti.
Ciò che dobbiamo capire prima di tutto, è che il problema in discussione è complicato da qualcosa che i nostri ben intenzionati “conservatori” non comprendono, a dispetto di tutte le loro denunce e condanne del secolarismo – la sua origine e il suo sviluppo – e del Cristianesimo. Il Secolarismo – e dobbiamo nuovamente sottolinearlo – è un “figliastro” del cristianesimo, come lo sono, in ultima analisi, tutte le ideologie secolari che oggi dominano il mondo – non, come è sostenuto dagli Occidentali apostoli di un’accettazione Cristiana del secolarismo, un figlio legittimo, ma un’eresia. L’eresia, comunque, è sempre la distorsione, l’esagerazione e quindi la mutilazione di qualcosa di vero, l’affermazione di una “scelta” (hairesis possibilità di scelta, in Greco), un elemento a scapito di altri, la rottura della cattolicità della Verità. Ma conseguentemente l’eresia è sempre una interrogazione rivolta alla Chiesa, che richiede per essere risolta, uno sforzo di pensiero e di coscienza Cristiani.
protopresbitero Alexander Schmemann
Relazione letta all’ottava Assemblea Generale di Syndesmos, Boston, USA, 20 luglio 1971.
Note
* Il testo della relazione si trova anche in: A. Schmemann, For the Life of the World, 117-127, dove l’autore ne propone una versione più estesa.
1) Scienza delle religioni.
2) Spread spectrum technology.
3) Niente di meglio visto che nel classico argomento dei partigiani del “vecchio calendario”: il 25 dicembre si può pienamente condividere il “secolarizzato” Natale occidentale con i suoi alberi di Natale, le riunioni di famiglia e lo scambio di doni e poi al 7 di gennaio abbiamo il “vero” – religioso – Natale. Gli inquilini di questa visione non si rendono conto, naturalmente, che se la Chiesa antica avesse condiviso una simile comprensione della sua relazione col mondo, non avrebbe mai istituito il Natale, il cui scopo era proprio quello di “esorcizzare”, trasformare e cristianizzare una festa pagana esistente.