1. LA MORTE
Il silenzio dei morti pesa sui vivi. Tuttavia, da Cristo in poi la morte è cristiana, non è più un intruso, ma la grande iniziatrice. “Regina dei terrori”, secondo Giobbe, la morte ferma le profanazioni abituali e le dimenticanze, colpisce con il suo avvenimento irreversibile. Non ha un’esistenza in essa stessa, non è la vita che è un fenomeno della morte, ma è la morte che è un fenomeno provvisorio della vita. Come la negazione è posteriore alla dichiarazione, è un fenomeno secondario e principalmente parassitario. Dopo la rottura dell’equilibrio iniziale, la morte diventa il destino “naturale” dei “mortali” pur essendo contro natura, cosa che spiega l’angoscia dei morenti. L’ampiezza del male si misura dalla potenza dell’antidoto. La ferita è così profonda, il male è così virulento, che esigono una terapeutica propriamente divina ed è il tragico della morte di Dio e, al suo seguito, il nostro passaggio con la purificazione della morte. L’incarnazione del Verbo è già l’avviamento della Risurrezione. Il Verbo si unisce alla natura “morta” per vivificarla e curarla. “Prese un corpo capace di morire affinché, soffrendo per tutti in questo corpo in cui era venuto, riducesse a nulla il Maestro della morte”[1]. “Si è avvicinato alla morte fino a prendere contatto con lo stato di cadavere e fornire alla natura il punto di partenza della risurrezione”[2]. “Ha distrutto la potenza della mortalità”[3].
La Bibbia non insegna alcuna immortalità naturale. La risurrezione di cui parla l’Evangelo non è affatto la sopravvivenza dell’anima ma la penetrazione di tutto l’essere umano con le energie vivificanti dello Spirito Divino. Il Credo lo confessa: “Attendo la risurrezione dei morti”, e “Credo nella risurrezione della carne”. I santi vivono la morte con gioia, nella gioia di nascere al mondo di Dio. San Serafino di Sarov insegnava il “morire in allegria”. È per questo che indirizzava a tutti questo saluto pasquale: “Gioia mia, Cristo è risorto”, la morte è inesistente e la vita regna. La morte per san Gregorio di Nissa è cosa buona e san Paolo lo dice in una visione stupefacente: Tutte le cose son vostre, sia la vita, sia la morte (1Cor 3, 22), le due sono allo stesso titolo, i regali di Dio messi a disposizione dell’uomo.
Assumendola interamente, l’uomo è sacerdote della sua morte, egli è ciò che fa della sua morte. L’estrema unzione introduce in questo sacerdozio ultimo, offre “un olio di gioia”, suscita l’esaltazione del cuore sopra il corpo in agonia. Diadoco nota che le malattie prendono il posto del martirio. Quando, di fronte al boia che la morte sostituisce, l’uomo può chiamarla “nostra sorella la morte” e confessare il Credo, anticipa e vive quest’evidenza di essere passato dalla morte alla vita. I grandi spirituali dormivano nella loro bara come in un letto nuziale e manifestavano un’intimità fraterna con la morte che è soltanto un ultimo passaggio-Pasqua. Se la saggezza secondo Platone insegna l’arte di morire, solo la fede cristiana apprende come occorre morire nella risurrezione. Infatti, la morte è interamente nel tempo, dunque è dietro di noi; davanti, si trova ciò che è stato già vissuto nel battesimo: la “piccola risurrezione”, e nell’eucaristia: la vita eterna. Colui che mi ascolta ha la vita eterna, non viene in giudizio, è già passato dalla morte alla vita (Gv 5, 24, e Col 2, 12).
2. IL PASSAGGIO DI PURIFICAZIONE E L’ATTESA CELESTE
La morte è chiamata liturgicamente “dormizione”: c’è una parte dell’essere umano che si trova in stato di sonno, sono le facoltà psichiche attaccate al corpo, ed una parte che resta cosciente, sono le facoltà psichiche attaccate allo spirito. Molti passaggi del Nuovo Testamento mostrano sufficientemente che i morti possiedono una coscienza perfetta. La vita, passando per la morte, continua e giustifica la preghiera liturgica per i morti. Se l’esistenza tra la morte e l’ultimo giudizio può essere chiamata “il purgatorio”, quest’ultimo non è un luogo, ma uno stato intermedio.
L’Oriente insegna la purificazione dopo la morte, non come una condanna da scontare, ma come il destino assunto e vissuto fino alla fine, con la speranza di una guarigione progressiva al termine. L’attesa collegiale di tutti i morti è creatrice a causa della sua ricettività. La preghiera dei vivi, gli uffici della Chiesa, il ministero per intercessione degli angeli intervengono e continuano l’opera di salvezza del Signore. Non è tanto l’errore che si ripara quanto la natura che si ripara, che trova la sua integrità e la “salute” del Regno. Ciò che spiega l’immagine frequente del passaggio dei morti dalle “stazioni di pedaggio” (“telonia”), dove si lascia ai demoni ciò che appartiene loro e dove ci si libera conservando soltanto ciò che è del Signore. Non si tratta di torture né di fiamme, ma della maturazione mediante lo spogliamento di qualsiasi macchia che pesa sullo spirito.
La parola “eternità” in ebraico, è presa dal verbo alam, che vuol dire “nascondere”. Dio ha avvolto di oscurità il destino dell’oltretomba e non si tratta affatto di violare il segreto divino. Tuttavia, il pensiero patristico afferma chiaramente che il tempo tra la morte ed il giudizio non è vuoto e, come dice sant’Ireneo, le anime “maturano”[4]. Sant’Ambrogio parla del “luogo celeste” dove dimorano le anime. Secondo la tradizione, è “il terzo cielo” di cui parla san Paolo, il cielo delle parole ineffabili (2 Cor 12, 2-4). È ovvio che non si tratta affatto di nozioni spaziali. È un linguaggio simbolico, dunque misterioso per essenza. Gli approcci del Regno non designano dei luoghi ma degli stati e dei mondi spirituali. Secondo san Gregorio di Nissa, le anime accedono al mondo intelligibile, alla città delle gerarchie celesti sopra il cielo, il che significa al di sopra delle dimensioni conosciute. L’Eden è diventata il sagrato del Regno, chiamato anche “seno di Abramo”, “luogo di luce, di refrigerio e di riposo”[5].
Quest’ascensione spoglia dal peso del male e le anime purificate salgono da una dimora all’altra (le Mansiones di Ambrogio), da uno stato all’altro, si iniziano gradualmente al mistero dell’aldilà e si avvicinano al Tempio-Agnello. Le anime e gli angeli entrano nell’intercomunione preliminare ed al canto del Sanctus salgono insieme i gradini “della casa dell’Eterno”. È il santuario dove entra il Signore (Ebr 9, 24), dove “gli amici feriti dello Sposo”, i martiri ed i santi sono riuniti nella Communio sanctorum, attorno al cuore-agape del Teantropo. È ancora la vita degli spiriti disincarnati, avvolti come da un manto dalla presenza del Cristo la cui carne glorificata e radiante di luce compensa la nudità delle anime. I sensi diventati interni allo spirito captano il celeste.
È l’attesa attiva, in comunione di preghiera con la Chiesa che si veste di lino purpureo, delle opere dei santi che li seguono (Ap 14,13; 19,8). La parola: Dormo ma il mio cuore veglia (Ct 5,2) designa il sonno vigilante “della piccola risurrezione”. Pur superando i gradi, le anime attendono “il giorno del Signore”. È il mistero del Corpo tutto intero, “del covone legato dei grani raccolti”, poiché “c’è un solo corpo che attende la beatitudine perfetta”[6], ed è soltanto a questa totalità che l’abisso del Padre si apre. Lo sguardo di tutti si dirige verso la costituzione del Totus Christus, l’Avvento escatologico sfocia nel destino unico dell’Uomo ricostituito tutto intero in Cristo.
3. LA FINE DEL MONDO
La figura di questo mondo passa, ma colui che fa la volontà di Dio rimane in eterno (1Cor 7, 31; 1Gv 2, 17). Vi è ciò che scompare e vi è ciò che resta. L’immagine apocalittica parla del fuoco che rifonda e purifica la materia, ma questo passaggio è quello del limite. C’è uno iato. “L’ultimo giorno” non diventa un ieri e non avrà domani, non farà numero con gli altri giorni. La mano di Dio afferra il cerchio chiuso del tempo fenomenale e lo eleva ad uno orizzontale superiore[7]. Questo “giorno” chiude il tempo storico, ma esso stesso non appartiene al tempo; non si trova sui nostri calendari ed è per questo che non lo si può predire. “Dinanzi al Signore, un giorno è come mille anni” (Cf Sl 89, 4), si tratta qui di misure o di stati incomparabili. Questo carattere trascendente della fine è l’oggetto della Rivelazione e della fede.
4. LA PARUSIA E LA RISURREZIONE
La Parusia renderà evidente per tutti l’avvento folgorante del Cristo nella sua gloria. Ma non è nella storia che la Parusia sarà visibile ma oltre alla storia, cosa che presuppone il passaggio ad un altro eone: Tutti saranno trasformati (1Cor 15, 51) – I vivi che saranno ancora là saranno portati via su nuvole per incontrare il Signore nell’aria (1Tess 4, 17). Secondo san Paolo, c’è un’energia d’un granello di seme che Dio fa risorgere: è seminato un corpo naturale, risuscita un corpo spirituale (1Cor 15, 44) rivestito dell’immortalità e dell’immagine del celeste; Tutti usciranno al richiamo della voce. I testi escatologici presentano una densità simbolica che elimina ogni semplificazione e soprattutto ogni senso letterale. La parola impotente lascia posto alle immagini di una dimensione trascendente per il mondo. Il senso preciso ci sfugge completamente e ci invita ad “onorare in silenzio” la realtà di cui è stato detto: l’occhio non vide, l’orecchio non udì e non venne mai nel cuore dell’uomo ciò che il Signore ha preparato per quelli che lo amano (1Cor 2, 9).
La risurrezione è un’ultima soprelevazione. La mano di Dio afferra la sua preda e la solleva in una dimensione sconosciuta. Si può dire al massimo che lo spirito ritrova la totalità dell’essere umano, anime e corpi conservati perfettamente identici alla loro unicità. San Gregorio di Nissa parla del “sigillo”, dell’“impronta” che si rapporta alla forma del corpo (che è una delle funzioni dell’anima) e che permetterà di riconoscere il viso conosciuto. Il corpo sarà simile al corpo del Cristo risuscitato, cosa che vuol dire: di maggiore gravità e impenetrabilità. L’energia di repulsione che rende tutto opaco, impenetrabile, lascerà posto alla sola energia d’attrazione e di compenetrazione di tutti e di ciascuno.
5. LA NOZIONE PATRISTICA DELLA SALVEZZA-GUARIGIONE
Gesù sulla Croce diceva: Padre mio, perdona loro, non sanno quello che fanno (Lc 23, 34). Non sapere ciò che si fa è il proprio di un ammalato, il comportamento di un insensato reso sordo e cieco.
Alla luce della bibbia, la salvezza non ha nulla di giuridico, non è una sentenza di tribunale. In ebraico, salvezza (yéchà) significa la consegna totale, ed in greco l’aggettivo sôs corrisponde al sanus latino e vuole dire rendere la salute. L’espressione “la tua fede ti ha salvato” include il suo sinonimo: “La Tua fede ti ha guarito”. È per questo che il sacramento della confessione è concepito come “clinica medica” e l’eucaristia secondo sant’Ignazio di Antiochia è “rimedio di immortalità”. Il concilio Trullano (692) precisa: “Coloro che hanno ricevuto da Dio il potere di legare e sciogliere, si comporteranno come medici attenti a trovare il rimedio che richiedono ogni penitente ed il suo errore” poiché “il peccato è la malattia dello spirito”. Gesù-Salvatore, secondo i Padri, è “il Guaritore divino”, “Generatore della salute”, che dice: Non è la gente che sta bene che ha bisogno del medico, ma i malati (Lc 5, 31). Un peccatore è un malato che ignora la natura maligna del suo stato. La sua salvezza sarebbe l’eliminazione del germe della corruzione e la rivelazione della luce del Cristo, il ritorno verso lo stato normativo della natura, verso la sua salute ontologica.
6. IL GIUDIZIO
San Paolo parla della facoltà di vedere “il volto scoperto”, è già il pre-giudizio, ed il giudizio ultimo sarà la visione totale del tutto dell’uomo. Simone Weil dice profondamente: “Il Padre dei Cieli non giudica… attraverso lui gli esseri si giudicano”. Secondo i grandi spirituali, il giudizio è questa rivelazione alla luce non della minaccia della punizione ma dell’amore divino. Dio è eternamente identico a sé stesso, Egli è amore. “I peccatori nell’inferno non sono privati dell’amore divino”, dice sant’Isacco, ed è lo stesso amore che soggettivamente “diventa sofferenza nei reprobi e gioia nei beati”[8]. Dopo la rivelazione della fine dei tempi, non si potrà più non amare il Cristo; ma l’indigenza, il vuoto del cuore ci rendono incapaci di rispondere all’amore di Dio ed è la sofferenza indicibile dell’inferno.
L’Evangelo usa l’immagine della separazione delle pecore e dei capri. Ma non esistono affatto santi perfetti, come, in qualsiasi peccatore, ci sono almeno alcuni frammenti di bene. Secondo l’epistola ai Romani, la legge condanna il peccato ed insieme il peccatore, la sua sola vittoria sul male è la distruzione del peccatore. Ma, il Cristo sulla Croce ha separato il peccato dal peccatore, ha condannato e distrutto il potere del peccato ed ha salvato il peccatore. A questa luce, la nozione del giudizio s’interiorizza, non è una separazione tra gli uomini ma all’interno di qualsiasi uomo. In questo caso, anche “la seconda morte” si riferisce non agli esseri umani, ma agli elementi demoniaci che portano in loro. È il senso preciso dell’immagine del “fuoco”, che non è tortura e punizione ma purificazione e guarigione. La spada divina penetra nelle profondità umane e rivela che ciò che fu dato da Dio come dono non è stato ricevuto, essa rivela così il vuoto scavato dal rifiuto dell’amore e la diversità tragica tra l’immagine-appello e la somiglianza-risposta. Ma la complessità del miscuglio del bene e del male durante la vita terrestre, descritta nella parabola del frumento e del loglio (Mt 13, 24-30), rende ogni nozione giuridica inefficace e ci mette dinanzi al più grande mistero della Sapienza divina, convergenza della giustizia e della misericordia. “Alla sera della nostra vita saremo giudicati sull’amore”, su ciò che abbiamo amato sulla terra.
7. LA DISCESA AGL’INFERI
Il fiat umano, proclamato dalla Vergine Maria da parte di tutti, esige la stessa libertà del Fiat creatore di Dio. Ed è per questo che Dio accetta di essere rifiutato, misconosciuto e respinto dalla ribellione della sua creatura. Sulla Croce, Dio contro Dio ha preso la parte dell’uomo. L’umanità da Adamo è arrivata allo Sheòl, buio soggiorno dei morti. Nell’ufficio del sabato della passione si canta: “Sei sceso sulla terra per salvare Adamo, e non trovandolo, o Maestro, sei andato a cercarlo fino negli inferni”. È dunque lì che il Cristo andrà a cercarlo, caricato del peccato e dei segni dell’Amore crocifisso, della preoccupazione sacerdotale del Cristo-Sacerdote per il destino di quelli che sono agli inferi.
Se “il Regno di Dio è in mezzo a voi”, l’inferno vi è presente anch’esso. Tutta una parte del mondo moderno da cui Dio è escluso lo è già. Secondo san Giovanni Crisostomo, il battesimo non è soltanto morire e risuscitare con il Cristo, ma anche scendere agli inferi seguendo il Cristo. A differenza di Dante che Péguy rimproverava di scendere agli inferi “da turista”, ogni battezzato vi incontra il Cristo ed è la missione della Chiesa. Dio ha creato l’uomo come un’“altra libertà” ed il rischio che Dio ha assunto annuncia già “l’uomo dei dolori”, profila l’ombra della Croce, poiché secondo i Padri, “Dio può tutto, eccetto forzare l’uomo ad amarlo”. Nella sua attesa, Dio rinuncia alla sua onnipotenza, anche alla sua onniscienza, ed assume interamente la sua kènosis sotto la figura dell’Agnello immolato. Il suo destino fra gli uomini è sospeso al loro fiat. Prevede il peggio ed il suo amore è tanto più vigile, poiché l’uomo può rifiutare Dio e costruire la sua vita sul suo rifiuto, sulla sua ribellione. Chi lo trascina, l’amore o la libertà? Entrambi sono infiniti e l’inferno porta questa questione nella sua carne bruciante.
8. L’INFERNO
La corrente concezione delle sofferenze eterne è soltanto un’opinione scolastica, una teologia semplicistica di natura “penitenziale” e che trascura la profondità di testi come Giovanni 3, 17 e 12, 47. Ciò che è inconcepibile, è di immaginare che accanto all’eternità del Regno, Dio prepari quella dell’inferno, cosa che sarebbe, in un certo senso, un fallimento di Dio ed una vittoria parziale del male.
Se un tempo sant’Agostino condannò i “misericordiosi”, sostenitori della concezione della salvezza universale uscita da Origene, fu per allontanare il libertinismo ed il sentimentalismo fuori luogo; ma oggi, l’argomentazione pedagogica del timore è completamente inefficace. Invece, il sacro tremito dinanzi alle cose sante salva il mondo dalla sua banalità e l’amore perfetto bandisce il timore (1Gv 4, 18). All’opinione personale dell’imperatore Giustiniano (che si collega ai “giusti” della storia di Giona) si oppone la dottrina di san Gregorio di Nissa[9] che non è stato mai condannato. Parla della redenzione anche del diavolo; san Gregorio di Nazianzo[10] menziona l’apocatastasis; san Massimo il Confessore[11] invita l’uomo “ad onorarla in silenzio” poiché lo spirito della folla non è idoneo a comprendere la profondità delle parole e non è saggio aprire agli imprudenti delle considerazioni sull’abisso della misericordia. Secondo sant’Antonio, l’apocatastasis non è una dottrina, né il tema di un discorso, ma la preghiera per la salvezza di tutti. Gesù-Salvatore in ebraico significa “Liberatore” e, come dice magnificamente san Clemente di Alessandria: “Come la volontà di Dio è un atto e si chiama il mondo, così, la sua intenzione è la salvezza e si chiama la Chiesa”[12]. Si tratta di una malattia da curare, anche se il rimedio è il sangue di Dio.
Senza nulla “pregiudicare”, la Chiesa si abbandona “alla filantropia” del Padre e intensifica la sua preghiera per i vivi e per i morti. I più grandi fra i santi trovano l’audacia ed il carisma di pregare anche per i demoni. Forse l’arma più temibile contro il Maligno è proprio la preghiera di un santo, ed il destino dell’inferno dipende dalla volontà trascendente di Dio, ma anche dalla carità dei santi. Qualsiasi fedele ortodosso, avvicinandosi alla santa tavola, confessa: “Sono il primo dei peccatori”, cosa che vuole dire il più grande, “l’unico peccatore”. Sant’Isacco nota: “Colui che vede il suo peccato è più grande di colui che risuscita i morti”. Una simile visione della sua nuda realtà insegna che si può parlare dell’inferno soltanto quando ci riguarda personalmente. Il mio atteggiamento è di lottare contro il mio inferno che mi minaccia se non amo gli altri per salvarli. Un uomo molto semplice confessa a sant’Antonio: “Osservando i passanti, mi dico: ‘Tutti saranno salvati, io solo sarò dannato’”, e sant’Antonio per concludere “L’inferno esiste realmente, ma per me solo…”. Riprendendo la formula di sant’Ambrogio: “Lo stesso uomo è allo stesso tempo condannato e salvato”, si può dire che il mondo nella sua totalità è così “allo stesso tempo condannato e salvato”. Allora, forse è nella sua condanna che l’inferno trova la sua trascendenza. Sembra che sia lì il senso della parola che il Cristo avrebbe detto ad un starets contemporaneo, Silvano dell’Athos: “Tieni il tuo spirito all’inferno, ma non disperare…”.
L’Oriente non mette limite né alla misericordia di Dio né alla libertà dell’uomo di rifiutare questa grazia. Ma soprattutto non mette limite all’arte di essere testimone, alla carità inventiva di fronte alla dimensione infernale del mondo. Ogni battezzato è un essere invisibilmente “stigmatizzato”, “Gesù è una ferita dalla quale non c’è cura”, ha detto Ibn Arabi. È questa ferita per il destino degli altri che aggiunge qualcosa alla sofferenza del Cristo “entrato in agonia fino alla fine del mondo”. Imitare il Cristo, è configurarsi al Cristo totale, è scendere al suo seguito nel fondo del baratro del nostro mondo. L’inferno non è altro che l’autonomia dell’uomo ribelle che lo esclude dal luogo dove Dio è presente. La potenza di rifiutare Dio è il punto più avanzato della libertà umana; è voluta tale da Dio, cioè senza limiti. Dio non può forzare alcun ateo ad amarLo ed è, si oserebbe appena dirlo, l’inferno del proprio amore divino, la visione dell’uomo immerso nella notte delle solitudini.
Se Giuda fugge nella notte (Gv 13, 2-30), è perché Satana è in lui. Ma Giuda porta via nella sua mano un mistero terribile, il pezzo di pane della Cena del Signore[13]. Così l’inferno conserva nel suo seno una particella di luce, che risponde alla parola: “La Luce splende nelle tenebre”. Il gesto di Gesù designa l’ultimo mistero della Chiesa: è la mano di Gesù che offre la sua carne ed il suo sangue; l’appello è per tutti, poiché tutti sono in potere del principe di questo mondo. La luce non dissipa ancora le tenebre, ma le tenebre tuttavia non hanno alcuna influenza sulla luce invincibile. Siamo nella tensione estrema dell’amore divino. Dio non è “impassibile”. Il libro di Daniele (3, 25) parla dei tre giovani gettati nella fornace. Il re scorge la presenza misteriosa del quarto: Vedo quattro uomini che camminano in mezzo al fuoco senza che loro arrivi alcun male, ed il quarto ha il volto del Figlio di Dio…
È a questo livello che troviamo l’esigenza dell’inferno che testimonia la nostra libertà di amare Dio. È essa che genera l’inferno poiché può sempre dire con tutti i ribelli: “Che la tua volontà non sia fatta” e Dio stesso non ha alcuna influenza su questa parola. Con le ragioni del nostro cuore, sentiamo che la nostra visione di Dio diventa inquietante se Dio non ama la sua creatura fino a rinunciare a punirla con una separazione crudele; è anche inquietante se Dio non salva l’amato senza toccare né distruggere la sua libertà… Il Padre che manda suo Figlio sa sempre che anche l’inferno è suo dominio e che “la porta della morte” è cambiata “in porta della vita”. L’uomo non deve mai cadere nella disperazione, può cadere soltanto in Dio ed è Dio che non dispera mai.
Durante il Mattutino della notte di Pasqua, nel silenzio della fine del Grande sabato, il sacerdote ed il popolo lasciano la chiesa. La processione si ferma all’esterno dinanzi alla porta chiusa del tempio. Per un breve momento, questa porta chiusa simbolizza la tomba del Signore, la morte, l’inferno. Il sacerdote fa il segno della croce sulla porta, e sotto la sua forza irresistibile, la porta, come la porta dell’inferno, si spalanca e tutti entrano nella chiesa inondata di luce e cantano: “Cristo è risuscitato dai morti, con la morte ha vinto la morte, a quelli che sono nelle tombe egli ha dato la vita!”. La porta dell’inferno è ridiventata la porta della Chiesa, del Regno. Non si può andare più lontano nel simbolismo della festa. In verità, il mondo nella sua totalità è allo stesso tempo condannato e salvato, è allo stesso tempo l’inferno ed il Regno di Dio. “Ecco, fratello mio, un comandamento che ti do, dice sant’Isacco, che la misericordia prevalga sempre sulla tua bilancia, fino al momento in cui sentirai, in te stesso, la misericordia che Dio prova verso il mondo”[14].
I grandi vespri che seguono la liturgia della Pentecoste comprendono tre preghiere di san Basilio. Nella terza si prega per tutti i morti dalla creazione del mondo. Una volta l’anno, la Chiesa prega anche per i suicidi… La carità della Chiesa non conosce limiti, porta e rimette il destino dei ribelli tra le mani del Padre e queste mani sono il Cristo ed il Santo Spirito. Il Padre ha consegnato ogni giudizio al Figlio dell’uomo ed è “il giudizio del giudizio”, il giudizio crocifisso. “Il Padre è l’amore che crocifigge, il Figlio è l’amore crocifisso, ed il Santo Spirito è la potenza invincibile della Croce”. Questa potenza esplode nei soffi e nelle effusioni del Paraclito, di Colui che è “presso di noi” e che ci difende e ci consola. È la gioia di Dio e dell’uomo. Il Cristo non ci chiede che di rimetterci completamente a questa gioia: Me ne vado per prepararvi un posto… Ritornerò a prendervi con me affinché, dove sarò, voi siate con me (Gv 14, 2-3). Dio ha pazienza verso noi tutti, non vuole che alcuno perisca… quali non devono essere la vostra santità e la vostra preghiera, che attende e che accelera l’arrivo del giorno di Dio (2Pt 3, 9 e 11). Poiché questo giorno non è solo un obiettivo, né il termine della storia, questo Giorno è il mistero di Dio in pienezza.
Pavel Evdomikov
(da L’amore folle di Dio, Edizioni Paoline, 1981).
[1] Sant’Atanasio, De Incarn., 20.
[2] San Gregorio di Nissa, Catech., 32, 3.
[3] San Cirillo d’Alessandria, In Luc., 5, 19.
[4] Adv. haer., PG 7, col. 806.
[5] Preghiera per i defunti.
[6] Origene, In Lev., 7, 2.
[7] San Gregorio di Nissa, PG 44, 504 D.
[8] Omelie spirituali, 11, 1, PG 34, 5440.
[9] PG 46, 609C e 610A.
[10] PG 36, 412A e B.
[11] PG 90, 412A e 1172D.
[12] Il Pedagogo, 1, 6.
[13] È il parere di Sant’Efrem, San Giovanni Crisostomo, S. Ambrogio, S. Agostino, S. Girolamo.
[14] Sant’Isacco il Siro, Sentences, 48.