Ecumene

Venerdì, 01 Febbraio 2013 18:28

Il popolo-bambino o il vangelo «ex minimis istis» (Vladimir Zelinskij)

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In questa sede vorrei osare e scegliere una strada poco battuta, ancora pressoché inesplorata, cercando nei limiti del possibile di combinare due inclinazioni – quella interiore e quella proiettata verso l’esterno, – per muovere alla volta di quel popolo cui un tempo siamo appartenuti (e, forse, tutt’ora apparteniamo) e di cui, in prospettiva soteriologica, ognuno di noi è chiamato a far parte. 

Il Vangelo, o, più in generale, la Bibbia, gode di quella particolare caratteristica per cui da una qualsiasi pagina, o anche solo da un verso, può dischiudersi tutto un orizzonte la cui grandezza intensa richiama a sé e invita a indugiare. Ogni parabola, storia o dialogo che questo libro contiene ci conduce impercettibilmente ad una sorta di limite, oltre il quale sta – come dice l’Apostolo – la «profondità della ricchezza, della sapienza» (Rm 11, 33). Ma la profondità della Parola può svelarsi allo sguardo umano in forme diverse, in base a come La si cerchi di guardare: se dal punto di vista della tradizione ecclesiale oppure da quello dell’eredità culturale o ancora da quello dell’esperienza. Quando ci accostiamo ad essa dall’Oriente (in questo caso, purtroppo, è impossibile non usare schematizzazioni geografiche), già dai primi passi siamo accolti da quella ben nota sapienza che, attraverso gli insegnamenti di miriadi di maestri e le innumerevoli preghiere, ci dice come non esista impresa più importante per un cristiano della vittoria sul male, sul mondo degenere in noi contenuto, ossia del pentimento costante e della contrapposizione al maligno. Sta scritto, infatti: «Questa specie di demoni non si può scacciare in alcun modo, se non con la preghiera» (Mc 9, 29). Orbene, se decidiamo di farci coinvolgere seriamente, con tutta la nostra volontà e la nostra fortezza, in questa lotta, non abbiamo più né la forza né il tempo né l’interesse per le faccende terrene, buone o cattive che siano.

Solo in Oriente (inteso, ovviamente, in un senso spirituale) può capitare che una voce dall’alto dica al monaco: «o Arsenio, fuggi le persone e ti salverai»; ed ecco che Arsenio, cercando la salvezza, fugge (e dietro a lui migliaia di suoi discepoli, protesi verso la stessa voce), se non in un deserto infuocato o, al contrario, gelido, almeno in un solitario eremo, in una sorta di gabbia, per votarsi totalmente all’abnegazione, alla lotta contro il Male e alla tempra dello Spirito. In Occidente, invece (anche se, a modo suo, anche l’Occidente si preoccupa dell’invisibile), un giovane mosso dallo Spirito e dal zelo apostolico viene chiamato dalla sua voce interiore ad un altro tipo di lotta: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni» (Mt 28, 19). «Osa, o fratello, – gli sussurra in un orecchio l’Angelo – lavora, mostra attraverso le opere il tuo amore verso coloro che si sono smarriti affinché anche fino a quelli possa giungere la novella di Cristo; non sarai tu, infatti, a parlare con essi ma lo Spirito Santo». «Non si dà conversione senza missione né missione senza conversione» insegna oggi l’Arcivescovo di Parigi. La conversione, infatti, non è solo un fatto di gioia, ma è anche – e soprattutto – un imperativo, una sorta di obbligo, per il quale ci si può ritrovare in mezzo a genti che due o tre secoli fa non si sarebbero fatti scrupolo di spellare vivo qualche zelante predicatore o di sfamare con la carne del malcapitato la propria tribù; oppure ci si ritrova in luoghi dove il clima è perfino più spietato di un qualsivoglia cannibale. Eppure, è a te che viene detto: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20, 21). Il Padre si rivolge proprio a te: vai, predica, non badare al consumarsi delle scarpe, allo scorrere del tempo, agli sforzi… Altrimenti le lingue rimarranno prive della Parola di Vita e, in primis, sarai tu stesso ad essere tormentato da una coscienza graffiante, da un senso di inadempimento al dovere (cosa che è pari al tradimento) oltre che dall’indulgenza che inevitabilmente trasparirà nel sorriso dei tuoi confratelli. E se non hai le forze necessarie a predicare in terre lontane, il tuo Ordine, cui senza dubbio appartiene anche la tua conversione, ti manderà dal prossimo più vicino, quello che ti si trova di fianco. Qui dovrai organizzare per lui la catechesi, i campi di gioco, le colonie estive, affinché lo sport e il tempo libero si congiungano con la casa del Signore; predicherai per le strade, nelle discoteche, tenterai di strappare dalle fauci del vizio le donne che sono dedite al mestiere più antico del mondo (rimanendo nel contempo immune alle sue frecce rovinose), annuncerai a tutti quella buona novella che Gesù ti ha donato, che la Regola ti ha prescritto e che la ‹‹santa Madre Chiesa Universale›› ti ha affidato.

Sappiamo bene che anche l’Occidente ha avuto (ed ha tutt’ora) i suoi asceti e i suoi eremiti (la celebre riflessione sul «combattimento invisibile» [1] appartiene, del resto, ad un veneziano), mentre in Oriente non sono certo mancate personalità come Stefano di Perm’ [2] o Nicola del Giappone [3], i quali, incuranti dei pericoli e degli stenti, predicarono il Vangelo presso popoli lontani. Eppure, sia in Oriente sia in Occidente, da tempo si è ormai consolidata l’abitudine di rivolgere il proprio cuore solo ai richiami ad esso più affini, tralasciando un poco il resto. Poiché se per gli uni l’aspirazione più grande è quella di fuggire dal mondo e di «adornare l’interno del…cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace» (1Pt 3, 4), per gli altri è invece quella di prendere il bastone e la Bibbia, di dotarsi di un lasciapassare e di un breviario (da leggere costantemente durante il viaggio) e, «senza temere…come se [si] vedesse l’invisibile» (Eb 11, 27), di incamminarsi da Roma… per la Cina. Se, provvidenzialmente, l’asceta dell’Oriente e l’apostolo dell’Occidente dovessero incontrarsi e discutere, con ogni probabilità non riuscirebbero nemmeno a capirsi. «Ma come? Andare ai confini del mondo quando la lotta con le passioni dell’anima non è ancora conclusa?». «Rimanere? E le genti che non hanno udito la Parola di Dio sono dunque destinate alla dannazione eterna?».

Non possiamo ignorare il fatto che la divisione delle Chiese non tocca solo i paesi e le confessioni, le vocazioni e le esperienze: essa raggiunge i moti più impercettibili del cuore. È come se, seguendo la Parola, non si potesse che procedere lungo le vie indicateci dall’Oriente o dall’Occidente. Ma davvero la Parola non conosce altri modi per raggiungere la profondità della sapienza?

In questa sede vorrei dunque osare e scegliere una strada poco battuta, ancora pressoché inesplorata, cercando nei limiti del possibile di combinare le due inclinazioni – quella interiore e quella proiettata verso l’esterno, – per muovere alla volta di quel popolo cui un tempo siamo appartenuti (e, forse, tutt’ora apparteniamo) e di cui, in prospettiva soteriologica, ognuno di noi è chiamato a far parte. Ma non si tratta qui di quella catechesi per i più piccoli, quando, indossati gli occhiali e imbastito un sorriso affettato, apriamo un libriccino dall’ipotetico titolo di Gesù Cristo e i bambini, pieno senz’altro di immagini colorate, scritto non ‹‹con inchiostro e penna›› (3Gv 13), ma con marmellata e leziosità: non di tali bambini si parla, non è questo il Cristo autentico. Gesù intendeva qualcosa di molto più sostanzioso della tenera benevolenza di un adulto nei confronti dei bambini solo per il fatto che questi gli hanno inumidito gli occhi. In ogni Sua parola o gesto, oltre al significato esteriore evidente, ne sussiste anche un altro, recondito e ancora indecifrato. E se provassimo a comprenderlo «il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere» (Gv 21, 25). Tra questi libri c’è quello sulla follia della Croce, quello sull’ascetismo e la soggiogazione della propria volontà; c’è quello missionario e volitivo, dove tutti i verbi sono volti all’imperativo e quell’altro che tratta di miracolosi incontri ed epifanici miracoli; c’è, poi, tutto un poema che è dedicato ai gigli che sono più belli del re Salomone (una sorta di manifesto per gli ecologisti di oggi); ebbene, tra tutti questi volumi c’è anche un piccolo libriccino sulla cui copertina sta scritto, con mano incerta: La prima infanzia. Tutti questi libri fanno parte di un’unica Rivelazione che viene tradotta nelle innumerevoli lingue in cui Dio ci parla. Molti sono gli argomenti che rimangono ancora incompresi; essi, secondo le parole di Gesù, si riveleranno completamente solo nel Suo Regno.

Tutti ricordano le Sue parole:

«In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo “Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?”. Allora Gesù chiamò a sé un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: “In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me”» (Mt 18, 1-5).

Il regno dei cieli è l’annuncio più importante del Salvatore: è lo scopo, la fonte, il segreto svelato della Sua predicazione. Tale annuncio assume sulle Sue labbra i tratti di una messianica promessa di un regno di Dio che si manifesterà non solo nella storia terrena del qui ed ora, ma anche in un tempo rinnovato, ancora sconosciuto: un tempo che ci è vicino e che nel contempo sta nascosto, che bussa alle nostre porte, ci chiama e attende sulla soglia. Esso muove verso di noi per mezzo di Cristo, il quale vive nell’oggi e verrà nel domani, e già ora tale sconvolgente vicinanza tra noi e Lui si palesa in quello che da sempre fu l’essenza di Cristo. Il regno, così come l’infanzia che ad esso è rivolta, è ormai «vicino, alle porte» (Mc 13, 29). Un tempo ne uscimmo e mai più vi rientrammo, non avendo ottenuto alcun permesso di soggiorno, sovraccarichi come siamo di maturità, di pesantezza, di pinguedine, insomma di tutto quello che dapprincipio ci era estraneo. Il regno dei cieli è come la nostra prima infanzia dimenticata; essa si trova sempre dalla parte opposta della via, è più piccola di un granello di senape, «è in mezzo a voi» (Lc 17, 21) anche se i suoi semi sono più visibili in coloro che hanno saputo farsi piccoli come quel granello. Essa non solo è nei bambini che oggi ci circondano ma è anche in quei bambini che una volta fummo noi stessi. Poiché ciò che è del bambino è anche del regno di Dio, ciò che si è fatto piccolo è anche di Cristo, ed è proprio a questo mistero, da Lui svelato e in Lui contenuto, che Gesù ci invita a ritornare.

Ritornare significa diventare piccoli ma anche accogliere il bambino. Ma qual’è il significato del verbo accogliere? Gesù non parlava una lingua complessa e polisemantica come quella europea e neppure una lingua simbolica, esoterica o ipersacrale. Dal suo linguaggio trasparivano la compattezza, la corporeità e la concretezza caratteristiche del testo biblico poiché «il Verbo si fece carne» (Gv 1, 14) e ciò vale anche per gli atomi, i muscoli e il respiro della parole aramaiche. Non dobbiamo forse accogliere il bambino come il sacro incarnato, appena uscito dalle mani del Signore, come la bontà divina della creazione che a noi è rivolta e che nella sua lingua ci parla di ciò che è cosa buona? Il bambino bisogna accoglierlo nella propria casa, nel cuore, nel nostro io adulto. Accogliere il bambino significa dunque diventare un rifugio per la Parola che giunge in forma anonima nel bambino e che abbisogna di una madre. La Madre, come anche il Corpo di Cristo, viene a costituirsi misticamente nella Chiesa.

Nella Chiesa noi ritroviamo il Cristo per mezzo della preghiera e dell’Eucarestia ed anche per mezzo della nostra personalità la cui radice è posta nel suo invisibile principio. La vita nella Chiesa è in sostanza un lungo cammino di ritorno verso se stessi. «Torna da te stesso, – dice sant’Agostino, – poiché, smarrita la via, ti sei diventato estraneo. Torna nel tuo cuore». «Diventa quello che davvero sei», – fa eco ai Padri il metropolita Kallistos Ware [4]. «Ma tu chi sei?», – ci continuiamo a chiedere. Che cosa siamo nella nostra essenza più intima? Non sta forse proprio qui il nucleo fondamentale della via orientale, ossia nella volontà di scovare il nostro io autentico e ancora incorrotto dal mondo, di riconoscerlo in Dio, e poi di purificarlo dall’altro io, quello mondano, oppresso da infinite preoccupazioni, quello in cui oggi viviamo e che, sbagliando, riteniamo la nostra unica vera dimora? Ma per parlare del nostro io autentico prima di tutto si deve riconoscere il fatto che esso un tempo fu creato e che per mezzo della Parola, attraverso cui ogni cosa iniziò ad essere, esso entrò nel mondo. Il Signore disse di noi: «si crei», e ad ognuno di noi disse: «sii». Egli ci donò qualcosa che solo Lui poteva vedere: «un nome eterno, – come dice il profeta Isaia, – che non sarà mai cancellato» (Is 56, 5). «Tu ci hai fatto per te stesso, – afferma sant’Agostino all’inizio delle Confessioni, – ed irrequieto è il nostro cuore fino al giorno in cui in Te non s’acquieta». Sì, è vero: il nostro cuore spesso si ribella e si sconvolge, ebbro di sé, come se si trovasse in una gabbia da cui vuole fuggire alla volta della libertà in Dio. Il cuore di un bambino, invece, finché è piccolo, contiene paradossalmente più spazio: la sua essenza si trova ancora nelle Sue mani («Le tue mani mi hanno fatto e plasmato», Sal 118, 73), nella pienezza della Sua regale e ancora non dissipata presenza. I versi del Salmo da noi qui ricordati vengono continuamente pronunciati in coloro che sono minimi, ancor prima che essi abbiano acquisito l’uso della parola.

Vengono pronunciati attraverso lo stupore.

Il Signore ci crea e ci manda al mondo, e noi vi entriamo attraverso le porte di una gratitudine piena di stupore, ma una gratitudine che ancora non ha la consapevolezza di se stessa. «Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza…» (Sal 8, 3). Il bimbo non afferma la potenza come farebbe un adulto, non si meraviglia delle cose perché le vede per la prima volta ma concepisce la realtà come un tutt’uno, rimanendo in unità con essa. Egli prova stupore per ciò che percepisce, lo assimila attraverso gli organi sensoriali, eppure non lo penetra, non congela la spontaneità di un tale senso di stupore in una riflessione razionale. Accogliere il bambino significa rispondere a questo suo senso di gratitudine, accogliere quella Parola che lo ha chiamato alla vita: provare stupore dinnanzi al miracolo del manifestarsi della volontà divina, in modo da «carpire dalla grandezza e dalla bellezza delle creature la giusta comprensione di Colui che ci ha creati», come dice San Basilio il Grande [5] (Omelie sull’Esamerone). Lo stupore è dunque un oltre-passare la mente, l’allontanamento di tutto ciò che riempie l’intelletto e quindi dell’idea inamovibile che di questo mondo, decaduto ma per noi già abituale, ci siamo fatti. È il portare noi stessi in dono all’oggetto che a noi si rivela, la compartecipazione alle cose del Signore. In quel breve attimo in cui l’anima di un essere umano inizia appena a risvegliarsi, essa scopre in se stessa il tu celato delle cose e instaura con queste una sorta di conversazione. Si tratta di un dialogo tra creature.

La Parola di Dio che ci ha creati si manifesta infatti nel dialogo.

Tu lo hai creato ed edificato.

Durante la creazione il Signore era riconoscibile ovunque, in ogni «opera delle Sue mani [di cui] annunzia il firmamento» (Sal 18, 2) e di cui parlano tutte le cose della terra; il bambino ancora non si è allontanato da questo iniziale disegno divino dove le creature sono accomunate dal loro essere rivolte al Signore. Diventare bambini vuol dire, dunque, ritornare ad essere ciò che già siamo, ciò che siamo stati in un tempo ancora pre-razionale e pre-logico, e ciò che, in fondo, nell’essenza, nella radice, in potenza, continuiamo ad essere. Insomma, sii quello che sei (e questo sei non si riferisce tanto al presente quanto all’eterno), sii colui che sei stato, quando il peccato con la sua legge del conflitto e il mondo con il suo isolamento ancora non ti avevano imprigionato, non erano penetrati nel tuo io o, perlomeno, non lo avevano riempito del tutto, quando, in sostanza, quella creatura che dapprincipio venne creata per il Regno ancora non si fu completamente abbandonata al nostro tempo terreno.

Ecco perché il Signore ci dice: «se non vi convertirete» (Mt 18, 3)… La vita in Cristo è, tra le altre cose, un ritorno a quella fonte da cui ogni cosa ebbe inizio. È la comunione al disegno divino che riguarda tutte le vite umane.

Convertirsi significa dunque voltarsi, volgere indietro. Ci voltiamo ad un richiamo. Eppure la conversione autentica avviene solo quando noi ricordiamo – presupponendo ovviamente la limitatezza, o addirittura l’impossibilità, di tale reminiscenza – noi stessi nel Regno, quando ritroviamo il Regno nel nostro essere creature ossia nella consapevolezza di essere stati fatti per mezzo dell’amore di Dio, un amore che tutt’ora in noi vive (pur essendo da noi spesso schiacciato o devastato). Questo amore ci ha chiamati alla vita ancor prima che il nostro io di oggi ci appesantisse; l’amore traspare e segretamente illumina solo attraverso il bambino. Ed è proprio là, nel bambino, che Cristo ha deciso di incontrarci.

Di questo parla, appunto, il Vangelo di Marco:

«E, preso un bambino, lo pose in mezzo e abbracciandolo disse loro: “Chi accoglie uno di questo bambini nel mio nome, accoglie me; chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9, 36-37).

Chi accoglie questo bambino nel mio nome… Le esegesi di queste parole sono spesso povere e poco comprensibili. «Può essere che il termine bambini venga qui utilizzato in senso metaforico», – annota distrattamente la V. N. Kuznecova [6] nel suo commentario al Vangelo di Marco. Ma può anche essere vero il contrario; ne sono certo, anzi: il termine non può avere qui altro significato se non quello diretto, semplice, categorico, letterale. A sostegno della mia tesi vorrei avvalermi dell’aiuto di Sergej Averincev [7] e di quel suo poema che è dedicato all’Annunciazione, dove l’autore sottolinea l’onestà e la materialità degli oggetti che circondano Maria. («Ove la pietra è realmente una pietra, e nella conca sta l’acqua, una vera acqua…»). Quando Gesù parla dei bambini, non gioca allo sdoppiamento dei sensi. Là dove Dio diventa vero uomo, il mondo che Gli sta intorno assume senza dubbio una veridicità prima inaudita. Il bambino, dunque, non è affatto il simbolo di un qualcosa di ulteriore o di indistinto, ma molto semplicemente è un essere umano comparso da poco, privo dei merletti di una qualsivoglia metafora. Chi accoglie questo bambino nel mio nome… Proprio come nell’Eucarestia: questo è il pane autentico, ma è anche il corpo di Cristo. E questo bambino è semplicemente un bambino, nato, come tutti noi, dal «volere di carne» (Gv 1, 13); eppure, chi lo accoglie, accoglie anche il Figlio di Dio.

«Infatti, nell’Eucarestia noi riceviamo Dio in ogni luogo: e nei flutti tremendi, e in un fiore minuscolo» (p. Aleksandr Šmeman [8]). Ergo, un uomo che è minimo, piccolo, diventa il mistero della presenza reale per coloro che sono deboli di vista.

Un bambino, nel suo essere piccolo nonché libero dalle denominazioni apportate dall’uomo, racchiude un nome particolare della Parola divina, il quale viene pronunciato come una testimonianza della creazione. Tutto s’appressa al mondo attraverso la Parola ossia attraverso l’enunciazione che la Parola fa della sostanza delle cose. All’origine di ogni uomo sta dunque la Parola ed è proprio Essa che gli intima di farsi uomo.

Accogliere il bambino significa udire il nome del Signore che nel bambino è deposto, scorgere in quella piccola creatura l’icona, fatta non da mani d’uomo, del Figlio di Dio. In ciò sta, sostanzialmente, la vocazione spirituale di ogni famiglia, sia di quella ridotta che di quella umano-universale: accogliere il bambino non come un giocattolo prezioso, simpatico e talvolta irrequieto, ma come la possibilità benedetta del Regno che a noi si avvicina e che ora è in me e in te, in quel bambino che vediamo ma anche in quello che, per grazia divina, continua a vivere segretamente in noi. Per scorgere la sua piccolezza, anche noi dobbiamo farci piccoli, riuscire a somigliargli nello spirito. In tale entrata del bambino nel Regno, quando i genitori diventano, in senso evangelico, come i loro piccoli, credo sia racchiusa la sapienza dell’educazione cristiana. Il farsi piccoli apre la porta allo Spirito Santo, il Quale viene e trova dimora là dove scorge spazio libero. Lo Spirito può dunque aiutarci a ritrovare quel bambino che il Signore invita tutti noi a diventare. Ma tale conversione viene raggiunta solo attraverso grandi sforzi.

È Lui stesso che paragona la conversione ad un parto..

«La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell’afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nella tristezza; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16, 21-23).

In bocca a Gesù le cose ultime del Regno promesso si congiungono alle prime: alla nascita, e l’afflizione fisica di una donna partoriente viene abbinata alla tristezza del corpo, da cui poi sboccia la gioia. La tristezza si lega qui allo sforzo, alla fatica dolorosa del nostro spirito, alla sofferenza del Regno (vedi Mt 11, 12). L’afflizione del parto si corona della gioia della gratitudine. E se provassimo a capovolgere l’analogia e a discendere dalle altezze dabbasso, al sudore e al dolore di un parto, al taglio del cordone ombelicale, quella sofferenza del Regno non è forse l’immagine della manifestazione nel mondo del bambino-uomo interiore.

Convertirsi, diventare bambini significa scoprire in se stessi il sigillo o il ricordo metafisico del disegno divino. «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto» esclama Davide (Sal 138, 15). Mi sembra di vederlo, Davide, nell’atto di recitare questo salmo sussurrandolo con stupore all’orecchio di Dio e al nostro cuore. Il sigillo dello sguardo divino talvolta si rende visibile – quando ci scrolliamo di dosso la cecità – negli occhi di un neonato; esso cerca uno sguardo di risposta e di gratitudine. La gratitudine sta infatti alla radice della fede mentre la fede è il ritrovamento di se stessi dinnanzi a Dio. Ed è proprio la gratitudine che risveglia in noi la necessità di purificazione di fronte al Signore.

«State sempre lieti, pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie» (1Ts, 5, 16-18): in sostanza, è questa la triplice formula dell’ortodossia che riesce a farsi piccola e a diventare infanzia in Cristo.

Alcuni Padri interpretavano il Salmo 138 in senso cristologico: l’embrione, formato nel segreto, ci rimanda al mistero dell’Incarnazione. Gesù si fa in ogni uomo, imprime su di esso la propria immagine ancor prima della sua nascita. La fede ci aiuta a riconoscerLo, anche se spesso Egli rimane ignoto fino alla fine; Egli si forma nell’uomo (vedi Gal 4, 19), ma viene coperto di sporcizia e ricrocifisso. Eppure Egli si dona all’uomo, lo richiama per mezzo dell’infanzia.

Mi viene in mente una credenza giudaica secondo cui un bambino, mentre è ancora nel grembo materno, apprende la Torah riconoscendo in essa Dio e la Sua Legge. Una volta nato, un Angelo scende dal cielo e cancella nel bambino il ricordo della Legge. Anche noi possiamo percepire nei neonati una traccia di quella saggezza iniziale, ancora non del tutto cancellata o dimenticata, una traccia che sta da qualche parte al di là della ragione e che fugacemente può essere illuminata da una luce gioiosa.

Anche Platone ha un’opinione simile:

«E dal momento che in natura tutto è imparentato, e l’anima ha conosciuto ogni cosa, nulla si oppone al fatto che colui che ha ricordato qualcosa – gli uomini lo chiamano conoscenza – possa ritrovare anche il resto, se solo si dimostrerà coraggioso e instancabile nella ricerca; infatti cercare e conoscere significa appunto ricordare» (Menone).

Il seme della Parola di Dio è deposto, secondo la tradizione dei Padri, in ogni saggezza umana e in ogni vita. Con Cristo possiamo legittimamente dire che il bambino, durante la formazione nel segreto, apprende la Parola nel grembo materno. Mentre un adulto la impara nel ricordo. Ma cosa può apprendere un embrione, un feto? Con l’anima e il corpo egli si empie della conoscenza di Cristo, la assorbe in se stesso, ne respira, la conserva all’interno del proprio essere che è in crescita continua. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi… Mirabile è per me la Tua conoscenza. Dio attraverso l’autore dei Salmi dischiude per noi il segreto del Suo operato. Egli ci annuncia di come il Suo disegno si realizzi nelle profondità della terra, di come la conoscenza si faccia carne e la Provvidenza si colmi di giorni di vita, la Stessa in cui sta racchiuso il futuro del bambino, il suo divenire adulto, la sua conversione ed anche l’avvenire dei suoi discendenti. La conoscenza divina non lo abbandona neanche per un istante. E se un tempo, dunque, la conoscenza divina entrò a far parte di noi, quasi fisicamente, carnalmente, nelle ossa e nelle vene, è davvero possibile che essa scompaia senza lasciare traccia, una volta che non esisteranno più né corpo né ossa né vene?

«Questo è il ricordo di ciò che un tempo la nostra anima ha visto, quando era con Dio. Essa guardava dall’alto in basso ciò che ora noi definiamo essere, e si innalzava all’essere autentico» (Platone, Fedro).

Dice il profeta:

«Porrò la mia legge nel loro animo, la scriverò sul loro cuore» (Ger 31, 33). È come se ci fossimo messi d’accordo nel dimenticare, tutti insieme, che queste parole, oltre ad un senso alto e metaforico, ne presentano anche uno letterale e corporeo. L’animo, nel contesto del realismo biblico, non è solo la pura anima, ma è anche il corpo, la sostanza dell’uomo, il quale serba e compie in sé la legge, la volontà, il pensiero e l’amore di Dio. Tutte queste cose si svelano nell’uomo. La legge penetra in noi come il seme della Buona Novella: esso è deposto nell’uomo e anela a germogliare. In questo, tra l’altro, consiste anche il fine di una buona educazione, ossia nel far riconoscere e far accettare la legge di Dio che a suo tempo fu trasmessa alle nostra ossa e alle vene, al nostro io vivo. Crescendo, infatti, l’io si separa progressivamente dalla legge che contiene per mezzo del seme della Parola, fino a contrapporvisi.

«Secondo la teologia ortodossa, la Grazia è presente nella natura degli esseri viventi a cominciare dalla fonte, dal momento che tale Grazia è sottintesa all’atto stesso della creazione…» (Pavel Evdokimov [9], La donna e la salvezza del mondo). «Più alto e più bello è il loro livello, – dice Efrem il Siro [10] dei bambini, – essi sono infatti i figli di Dio, i pupilli dello Spirito Santo» (La beatitudine di coloro che sono morti neonati).

Cristo svela per noi il Padre anche per mezzo della maternità divina. «“Rachamim” significa misericordia divina ed è il plurale enfatico della parola “rechem” (utero); il Dio vivo sente le Sue creature allo stesso modo di una madre che sente il proprio bambino: tramite l’intera pienezza della sua sostanza carnale» (Olivier Clément [11], Sillons de lumière).

«I cieli narrano la gloria di Dio…» (Sal 18, 2). Tale narrazione è come «la Tua parola [che] nel rivelarsi illumina, [che] dona saggezza ai semplici» (Sal 118, 130). In slavo ecclesiastico questo passo suona diversamente: «la Tua parola nel rivelarsi illumina e dona saggezza ai più piccoli».

Il neonato cela e porta in sé quella lingua che Dio usa per manifestare la Sua invisibile gloria e per comunicare con noi. Potrei esprimermi in modo anche più ardito: il bambino è la rivelazione della Sua Parola, è quella lingua che è rivolta all’uomo e che gli parla della gloria e di quel Suo amore che traspare nei volti e nelle cose. Naturalmente, siamo ancora ben lungi dal conoscere la grammatica di una lingua siffatta. Ebbene, se non riesci a credere ai testi, ai riti, ai dogmi, agli incontri o agli indizi che ti vengono forniti, prova ad affidarti alla rivelazione della Parola ossia a te stesso, al tuo essere creatura. Da neonati ovviamente non ci rendiamo conto di essere una Sua creazione: ciò è in noi custodito ma ad un certo punto, e improvvisamente, la nostra mente si illumina nel ricordo.

Anche la memoria perenne, ciò che solitamente si augura al defunto, non indica forse il ritorno a quella mirabile conoscenza che ci ha creati e mandati al mondo e che tutt’ora continua a viverci appresso? Non è forse dall’incontro (avvenuto tanto tempo fa ma che vive in noi) con la mirabile conoscenza del Salmo che la fede viene concepita? La prima infanzia ci rammenta del rapporto, mai chiaro fino in fondo, tra il prima e il dopo in merito alla vita umana.

Non è un caso, infatti, che su tre resurrezioni dai morti, compiute da Gesù, due furono a beneficio di genitori (il capo della sinagoga e la vedova), cui Egli ridonò i figli, mentre la terza, quella di Lazzaro, fu il simbolo profetico della Pasqua e la restituzione di un fratello alle sue sorelle.

Ogni uomo entra in questa vita dalla bocca del Signore, per mezzo della mirabile creazione che si compie nel prima della nostra vita. Ma la creazione non è forse una sorta di patto personale che Dio stipola con l’essere cui dona la vita? Noi non partecipiamo alla nostra creazione, ma molto più tardi possiamo sempre riconoscere la condivisione con la conoscenza che in noi è deposta. Possiamo rispondere ad essa, renderla manifesta, riconoscerla nelle persone e nelle cose che ci circondano. Accedere al mistero dell’infanzia significa innanzitutto riconoscere Dio nel nostro essere Sue creature, ritrovare la Parola nel vivere quotidiano e scorgere l’Amore in ogni respiro che dona la vita.

«Ciò che ai bambini è dato per natura, noi lo dobbiamo trovare attraverso il timore di Dio… se non diventiamo puri come i bambini, non potremo avvicinarci al Salvatore» (Epifanio il Latino) [12].

«Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli. Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te» (Mt 11, 25-26; Lc 10, 21). Se si presta orecchio a questa lode di Gesù si capisce subito che in essa è contenuta l’intera teologia dell’infanzia, ancora tutta da scoprire. Tale teologia si risolve sostanzialmente in tre precetti: accogliere il bambino, farsi bambino e convertirsi nel bambino. L’ordine delle parole non riveste qui alcuna importanza particolare. Gesù invoca il bambino che è in noi e fa di lui un criterio (invisibile) di valutazione della nostra esistenza adulta. Gesù ne fa un mistero evangelico ed ecclesiastico, ma non parla (e non si tratta certo di una dimenticanza) del peccato originale di Adamo: Egli annuncia, o meglio, mostra con i fatti la santità dell’infanzia.

«Allora Gli furono portati dei bambini perché imponesse loro le mani e pregasse; ma i discepoli li sgridavano. Gesù però disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me, perché di questi è il regno dei cieli”. E dopo avere imposto loro le mani, se ne partì» (Mt 19, 13-15).

«Quelle qualità che il bambino possiede per natura, noi le dobbiamo acquisire per scelta personale… Gesù impone loro le mani, perché l’imposizione delle mani rappresenta l’amore di Dio» (Apollinare di Laodicea [13]).

Ma, dopotutto, perché proprio i bambini? In cosa è poi tanto diverso l’uomo-bozzolo dall’uomo che si è formato, rinsaldato e auto-costruito? Vladimir Solov’ev [14], ne La Giustificazione del Bene “giustifica”, tra le altre cose, anche l’atto della procreazione che diventa così il miracoloso compimento del disegno divino riguardo all’uomo. «Tutti siamo d’accordo sul fatto – scrive Solov’ev, – che il fascino particolare dei bambini sta nel loro essere innocenti, ma tale, effettiva innocenza non desterebbe in noi alcuna gioia o ammirazione se non fossimo certi che essa, prima o poi, verrà senz’altro perduta. Il pensiero che quei piccoli angeli possano scrutare direttamente il volto del Padre Celeste non avrebbe alcunché di confortante o di edificante, se non fosse associato alla convinzione che presto diventeranno ciechi».

Una tale giustificazione dell’infanzia presenta, a parer mio, una sorta di consapevole ingenuità. Pur essendo razionale a prima vista, grazie alla forma e al linguaggio, essa è tuttavia arrischiata da un punto di vista filosofico poiché opta, in modo illogico e quasi infantile, per l’eventualità, assai probabile, di un miracolo, in barba alla rigida dottrina di Tertulliano e di Agostino secondo la quale ogni uomo entra nel mondo già segnato dalla ferita mortale del peccato. Così sia, certo! Ma prima di venire contagiato o di scoprire in se stesso questa malattia grave e congenita, non può essere che l’uomo entri nel mondo anche come attesa di Dio? E non sta forse in questo la sua salute o la salvezza? È così impossibile immaginare che il Creatore speri sempre che il mondo si compia in ogni nuova persona che viene alla vita, che ridiventi cioè quel mondo che un tempo venne creato e a noi donato? Certo, l’esperienza ci mostra come questa Sua speranza sia ogni volta malriposta. Eppure, ogni neonato è una possibilità invisibile, una promessa, oltre che una sfida che viene lanciata a tutti gli adulti, parenti ed estranei: a tutti coloro, insomma, cui questa promessa è rivolta. A tutte le madri e a tutti padri viene affidato un pegno di santità, scaturito da quello che inizialmente fu solo il desiderio della carne, il frutto di un amplesso. Quella promessa si compie nei santi, ossia in coloro che sono ridiventati bambini.

«Voi siete una lettera di Cristo» (2Cor 3, 3) si rivolge l’apostolo Paolo alla Chiesa di Corinto. Ma anche ogni neonato è una lettera che Cristo invia alla chiesa che è racchiusa in ogni famiglia. Per essere in grado di leggerla bisogna diventare quella chiesa e imparare la lingua in cui la lettera è redatta. La scienza delle lettere di Cristo è perciò rivolta soprattutto ai genitori: volontari, ma più spesso involontari collaboratori del Signore. Il Creatore si serve della loro unione per formare il proprio bambino; nei lineamenti di questo bambino si può scorgere il volto di Dio poiché ogni opera che è dell’uomo è prima di tutto opera del Padre che agisce nel Figlio.

La nostra infanzia, dopotutto, non può essere misurata in anni. Non si può dire: ecco, ieri è finita, è uscita a fare una passeggiata ed è sparita. E forse, neanche è iniziata ancora. Nel momento in cui ne siamo consapevoli, quando riusciamo a raggiungerla con il pensiero, l’infanzia già non c’è più. Essa scompare in modo impercettibile, si disperde goccia dopo goccia. «Chi non raccoglie con me, disperde» (Mt 12, 30) dice Gesù. L’infanzia termina quando il nostro io consegue consapevolezza e si afferma, appunto, come io! E si colma di epiteti, rancori, convinzioni, piaceri, progetti, desideri… Si tumefa, insomma, il bubbone dell’io-centrismo, riempito com’è di mondo decaduto: l’io vuole diventare, senza saperlo, come Dio.

I falsi dei si infiltrano nell’uomo subito dopo l’infanzia. Si intende qui più che altro la prima infanzia, ossia il periodo in cui si è neonati, poiché con il termine semplice di infanzia ci si riferisce spesso anche all’adolescenza. Ma si tratta di due cose assai diverse, dal momento che l’adolescenza, che comunque continua a portare in sé l’immagine del bambino, è tuttavia, e in molte cose, già in netta contrapposizione rispetto a quell’infanzia di cui Cristo ci parla. Un ragazzo è in un periodo di totale inebriamento per la propria personalità, una personalità che lui ha da poco acquisito ma che già riempie di sé tutto il suo orizzonte interiore. La mirabile conoscenza viene progressivamente scalzata dall’esperienza egocentrica e debordante della soggettività, con le sue passioni, gli istinti, i complessi, la piena dei sensi, ma anche con il suo intelletto, fattosi improvvisamente grande e per nulla proporzionato all’evoluzione dello spirito che a quel intelletto corrisponde. È un momento di crisi e di grande turbamento, di scossa profonda, di tensione a vivere secondo la propria stolta volontà (si ricordino le rinunce giovanili di Solov’ev, di Bulgakov [15], di Berdjaev [16] e di molti altri). Ma nello stesso tempo, è anche un momento di grande fragilità. Una fragilità che è nascosta da qualche parte nel profondo.

A partire dall’adolescenza, il nostro io continuerà solo a crescere e a rinsaldarsi. «Non ricordare i peccati della mia giovinezza» (Sal 24, 7) è l’invocazione di un salmo. L’adolescenza, che è sostanzialmente il nostro diventare adulti, corrisponde infatti al momento in cui l’anima dell’uomo moltiplica in sé e per sé i capitali di questo mondo, quando s’inebria per l’improvvisa ricchezza che le capita, una ricchezza che non proviene però da Dio, Che spesso tende a dimenticare, ma solo da se stessa, quando acquisisce l’intelletto, il quale può affermare, comandare sugli altri o anche solo servirsene mentalmente, giudicare, valutare, disprezzare ed innalzarsi, proprio come il corpo che ora non solo vuole, ma anche può peccare.

Ecco perché il Signore ci parla della saggezza del farsi piccoli come di una condizione per poter entrare nel Regno dello Spirito. Farsi piccolo significa piegarsi, limitare la propria estensione nello spazio che si occupa nell’universo; significa innanzitutto rimpicciolire il nostro io. Il Regno di Dio è simile ad un granello di senape… Il granello cela in sé l’immagine del nostro io che ancora non è venuto a contatto con la coscienza. Perché la ragione, purtroppo, è sì la via della salvezza ma è anche lo specchio del nostro essere prigionieri di questo mondo.

Diventano più chiare, in questo modo, le inquietanti, quasi funeste parole del Vangelo: «Chi vorrà salvare la propria anima (in latino: vita), la perderà, ma chi perderà la propria anima per me, la salverà» (Lc 9, 24). Questo monito di Gesù si svela solo nella piccolezza benedetta dell’infanzia. Un bambino non perde la sua anima, ma la trova, la scopre in sé e la coltiva. Solo successivamente, nella volontà di rifarsi piccolo, da adulto e con il sapore della mela di Adamo ancora sulle labbra, egli, se lo desidera fortemente, può tornare ad essere un neonato in modo da perdere l’anima in Dio. L’infanzia restituita rifiuta così tutta la pesantezza dell’esperienza spirituale, il dominio delle passioni, le ricchezze accumulate sulla terra. Solo colui che ha perduto la propria anima è in grado di accogliere ciò che è estraneo come qualcosa di suo. Ed è per questa ragione che in Oriente la santità viene concepita, appunto, come la guarigione dall’io in nome di un ritorno alla primigenia povertà dello spirito. Anche il fine di un’educazione cristiana, se ben si ricorda, è proprio il trattenimento della santità originaria. Infatti, se ogni anima, per sua natura intrinseca, è cristiana, la si deve comunque ritrovare, questa natura, ci si deve convertire, si deve riuscire a comprenderla, e questo partendo da quel dono che a noi fu dato con la creazione.

Si richiede una forza grande e consapevole per poter perdere l’anima. Il ritorno al mondo dell’infanzia diventa possibile solo quando siamo in grado di misurare con i nostri occhi l’enorme distanza che da esso ci separa. Siate come bambini, dice Gesù, ma la via che un tempo avete percorso per giungere dal non-essere, dal pre-essere all’infanzia, e poi all’adolescenza, ora è da tempo coperta di rovi ed ortiche. Quella via non è indicata in nessuna cartina e nessuna bussola magica vi condurrà da essa. Un bambino non conosce la vergogna, ma voi che siete adulti, e che la vergogna l’avete ben sperimentata, non potete sbarazzarvene con un decreto rivoluzionario del tipo: al bando la vergogna! Il bambino pensa diversamente rispetto a noi, e con una nostra ipotetica demenza infantile non torneremo certamente a pensare come lui. Il bambino sta in prossimità del Regno di Dio, ma anche se lo volessimo, mai potremmo derubare Dio del divino e mai potremmo portare il divino sulla terra tramite qualche scienza munita di artigli, la quale diventerebbe subito una prigione per il corpo e una tentazione per lo spirito, come successe nel “paradiso” inventato da Marx-Lenin-Mao. Diventare bambini è possibile solo nel momento in cui ci rendiamo conto che, irrimediabilmente, e non senza colpa, dell’infanzia siamo ormai privi. Essa può tornare solo per mezzo di un’infanzia in Cristo e deve essere accolta come la santità.

La santità è, in sostanza, la realizzazione di ciò che ci fu dato all’inizio dei tempi e di ciò che è riuscito a sconfiggere in se stesso quell’infido come Dio. Se non diventerete come bambini: Gesù parla non ai bambini ma a coloro che non lo sono più. Il ritorno al bambino interiore è il cammino del peccatore che ha lanciato una sfida alla propria decadenza e che si prepara ad entrare nel Popolo di Dio eletto dal Signore. Con questo popolo il Signore stipula un patto per mezzo dei genitori, edificandolo nel grembo della madre. Ogni adulto è quindi chiamato a diventare colui che è stato un tempo, a riconoscersi in quel patto che personalmente ha stipolato col Signore, a ricordare se stesso e a rendere manifesto ciò che è nascosto già nella sua esistenza terrena.

Senza temere di incappare nello gnosticismo o in una qualche altra eresia, affidandomi semplicemente alle parole del Salvatore, credo di poter affermare che nel Vangelo, oltre a tutti i livelli di senso, conosciuti e sconosciuti, oltre alla grande quantità di messaggi che sono indirizzati ad orecchi differenti, esiste anche un Vangelo ex minimis istis che è intrecciato organicamente con gli altri ma che possiede anche un qualcosa di proprio, di particolare, che ha, insomma, una sua coerenza interiore. Il protagonista di tal Vangelo è un Popolo di Dio inconsueto, il Popolo-Bambino: un Popolo benedetto, eletto, di cui tutti noi siamo chiamati a far parte. «Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor 1, 27). La scelta continua: Dio è saldo nella Sua Parola, in Essa è fedele a Se Stesso.

Questo popolo non è visibile; allo stesso modo nulla di solenne o di santo si vede in quelle persone che, appesantite dal proprio io e sparse per le varie chiese, baciano le icone, continuano a peccare ma che, per una sorta di ardimento della fede, sono accolte nel Popolo di Dio. Ché tale popolo, il Popolo-Bambino, non è soltanto, – o meglio, – non è tanto la folla degli oranti quanto piuttosto il bambino evangelico, ormai dimenticato, che noi dobbiamo rammentare e ritrovare.

Quando accogliamo il bambino in noi,
lo riconosciamo negli altri,
diventiamo come bambini.

Vladimir Zelinskij

Note

[1] È il fine della vita ascetica e significa la lotta interiore contro il tentatore e la forza delle passioni.

[2] Santo Stefano di Perm’ (circa 1340—96), missionario ortodosso russo, traduttore della Bibbia nella lingua del popolo komi, per il quale ha elaborato anche l’alfabeto.

[3] Nicola del Giappone (nato Ivan Dmitrievič Kasatkin, 1836-1912) portò il Cristianesimo ortodosso in Giappone nel XIX secolo.

[4] Kallistos (nato Timothy) Ware (1934), metropolita di Diokleia, è un teologo ortodosso inglese.

[5] San Basilio, il Grande(330-379) è uno dei più grandi dottori Orientali della Chiesa.

[6] Valentina Kuznecova (1948), biblista russa.

[7] Sergej Averincev (1937-2004), pensatore, filologo e poeta russo.

[8] Aleksandr Šmeman (1921-1983), teologo ortodosso russo-americano.

[9] Pavel Evdokimov (1901-1970), teologo ortodosso russo-francese.

[10] Efrem il Siro (306-373), teologo siriano, autore dei moltissimi inni, molto venerato nella Chiesa Ortodossa.

[11] Olivier Clément, (1921-2009), teologo ortodosso francese

[12] Epifanio Scolastico (VI secolo), traduttore di opere greche in latino.

[13] Apollinare di Laodicea (315-390ca) vescovo.

[14] Vladimir Solov’ev (1853-1900), filosofo, teologo e poeta russo.

[15] P. Sergij Bulgakov (1970-1944), teologo e filosofo russo.

[16] Nikolaj Berdjaev (1874-1948), filosofo religioso russo.

(tratto da Vladimir Zelinskij, Il bambino alle soglie del Regno. Teofania dell'infanzia, Cantalupa Effatà, 2012, pp. 5-27, testo a cui si rimanda).

 

Letto 2859 volte Ultima modifica il Venerdì, 01 Febbraio 2013 19:49
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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