Omelia di Paolo Scquizzato
Prima lettura: Es 17, 3-7
Dal libro dell'Èsodo
In quei giorni, il popolo soffriva la sete per mancanza di acqua; il popolo mormorò contro Mosè e disse: «Perché ci hai fatto salire dall'Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?».
Allora Mosè gridò al Signore, dicendo: «Che cosa farò io per questo popolo? Ancora un poco e mi lapideranno!».
Il Signore disse a Mosè: «Passa davanti al popolo e prendi con te alcuni anziani d'Israele. Prendi in mano il bastone con cui hai percosso il Nilo, e va'! Ecco, io starò davanti a te là sulla roccia, sull'Oreb; tu batterai sulla roccia: ne uscirà acqua e il popolo berrà».
Mosè fece così, sotto gli occhi degli anziani d'Israele. E chiamò quel luogo Massa e Merìba, a causa della protesta degli Israeliti e perché misero alla prova il Signore, dicendo: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?».
Salmo: 94
Rit.: Ascoltate oggi la voce del Signore: non indurite il vostro cuore.
Alleluia, Alleluia, Alleluia.
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia. Rit.
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.Rit.
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere». Rit.
Seconda lettura: Rm 5, 1-2. 5-8
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani
Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l'accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
La speranza poi non delude, perché l'amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
Infatti, quando eravamo ancora deboli, nel tempo stabilito Cristo morì per gli empi. Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi.
Canto del Vangelo:
Alleluia, alleluia!
Signore, tu sei veramente il salvatore del mondo;
dammi dell'acqua viva, perché io non abbia più sete.
Alleluia!
Vangelo: Gv 4, 5-42
In quel tempo, Gesù giunse a una città della Samarìa chiamata Sicar, vicina al terreno che Giacobbe aveva dato a Giuseppe suo figlio: qui c'era un pozzo di Giacobbe. Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno. Giunge una donna samaritana ad attingere acqua. Le dice Gesù: «Dammi da bere». I suoi discepoli erano andati in città a fare provvista di cibi. Allora la donna samaritana gli dice: «Come mai tu, che sei giudeo, chiedi da bere a me, che sono una donna samaritana?». I Giudei infatti non hanno rapporti con i Samaritani.
Gesù le risponde: «Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu avresti chiesto a lui ed egli ti avrebbe dato acqua viva». Gli dice la donna: «Signore, non hai un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest'acqua viva? Sei tu forse più grande del nostro padre Giacobbe, che ci diede il pozzo e ne bevve lui con i suoi figli e il suo bestiame?».
Gesù le risponde: «Chiunque beve di quest'acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell'acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l'acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla per la vita eterna». «Signore - gli dice la donna –, dammi quest'acqua, perché io non abbia più sete e non continui a venire qui ad attingere acqua». Le dice: «Va' a chiamare tuo marito e ritorna qui». Gli risponde la donna: «Io non ho marito». Le dice Gesù: «Hai detto bene: "Io non ho marito". Infatti hai avuto cinque mariti e quello che hai ora non è tuo marito; in questo hai detto il vero».
Gli replica la donna: «Signore, vedo che tu sei un profeta! I nostri padri hanno adorato su questo monte; voi invece dite che è a Gerusalemme il luogo in cui bisogna adorare». Gesù le dice: «Credimi, donna, viene l'ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Voi adorate ciò che non conoscete, noi adoriamo ciò che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei. Ma viene l'ora - ed è questa - in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità: così infatti il Padre vuole che siano quelli che lo adorano. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità». Gli rispose la donna: «So che deve venire il Messia, chiamato Cristo: quando egli verrà, ci annuncerà ogni cosa». Le dice Gesù: «Sono io, che parlo con te».
In quel momento giunsero i suoi discepoli e si meravigliavano che parlasse con una donna. Nessuno tuttavia disse: «Che cosa cerchi?», o: «Di che cosa parli con lei?». La donna intanto lasciò la sua anfora, andò in città e disse alla gente: «Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia lui il Cristo?». Uscirono dalla città e andavano da lui.
Intanto i discepoli lo pregavano: «Rabbì, mangia». Ma egli rispose loro: «Io ho da mangiare un cibo che voi non conoscete». E i discepoli si domandavano l'un l'altro: «Qualcuno gli ha forse portato da mangiare?». Gesù disse loro: «Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera. Voi non dite forse: ancora quattro mesi e poi viene la mietitura? Ecco, io vi dico: alzate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura. Chi miete riceve il salario e raccoglie frutto per la vita eterna, perché chi semina gioisca insieme a chi miete. In questo infatti si dimostra vero il proverbio: uno semina e l'altro miete. Io vi ho mandati a mietere ciò per cui non avete faticato; altri hanno faticato e voi siete subentrati nella loro fatica».
Molti Samaritani di quella città credettero in lui per la parola della donna, che testimoniava: «Mi ha detto tutto quello che ho fatto». E quando i Samaritani giunsero da lui, lo pregavano di rimanere da loro ed egli rimase là due giorni. Molti di più credettero per la sua parola e alla donna dicevano: «Non è più per i tuoi discorsi che noi crediamo, ma perché noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo».
Siamo tutti rabdomanti in cerca di una sorgente in grado di donare il senso del vivere e il modo di trattare gli anni che ci cadono addosso.
Questa donna, – in quanto samaritana nemica giurata dell’establishment religioso israelita – è in cerca di quell’acqua capace di compierle il cuore. E Gesù, rabdomante del desiderio del cuore dell’uomo, si siede ad attenderla, e dinanzi alla finitezza d’un pozzo, le mostra l’abisso d’una sorgente.
Facciamo spesso esperienza di pozzi e pozzanghere. Possiamo tutto, possediamo il superfluo, ‘abbiamo troppo pane, tanto che la sazietà non ci basta più’, ma rischiamo di non sapere per quale motivo stiamo su questa terra.
Entrambi sono convinti che esista un Dio capace di donare senso all’esistere, ma la questione è ‘quale Dio?’. Quello della religione legato a un tempio – di Gerusalemme o sul monte Garizim che sia – o quello Spirito che abita la creazione intera e che con amorevole cura la guida verso il compimento?
Gesù dà la sua risposta, affermando che del suo Dio – in grado di dissetare la vita – se ne può far esperienza ‘in spirito e verità’, e non ‘su questo monte o a Gerusalemme’. Ossia, non sarà mai una religione ad assicurarci la salvezza e la possibilità di esaurire l’incontro col divino. L’Assoluto(letteralmente ‘ciò che è slegato da’) sta sempre oltre ogni forma di religione storica. La questione è fare esperienza, ‘entrare dentro’ al divino che ci abita, nello spirito e verità più profonda che è in noi. Lo intuì già Paolo in Atti: “in lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (17, 28).
Le religioni passano, e con esse tutto il loro armamentario cultuale, rituale e dogmatico; ciò che rimarrà è lo Spirito, l’acqua viva (v. 10) che sgorga dalla nostra sorgente. Questa è la ‘verità’, che assume la forma di libertà, «la forma di una persona, ed è pronta a prendere per mano ciascuno di noi affinché diventi come Dio, una persona che vive in libertà, fondata nell’amore, dipendente in quanto creatura, ma chiamata all’infinità» (Drewermann).
CAMMINO DELLA SETTIMANA
Due spunti su cui meditare, a Voi cercarne altri:
Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera
Fare esperienza= ‘entrare dentro’ al divino che ci abita, nello spirito e verità più profonda che è in noi
Buon cammino!
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"Una guida sintetica per condurre la Liturgia della Parola”
Spunti per l'Omelia di Giorgio De Stefanis
Prima lettura: Gen 2,7-9;3,1-7
Allora il Signore Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente.
8Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male.
1Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto e disse alla donna: «È vero che Dio ha detto: «Non dovete mangiare di alcun albero del giardino»?». 2Rispose la donna al serpente: «Dei frutti degli alberi del giardino noi possiamo mangiare, 3ma del frutto dell'albero che sta in mezzo al giardino Dio ha detto: «Non dovete mangiarne e non lo dovete toccare, altrimenti morirete»». 4Ma il serpente disse alla donna: «Non morirete affatto! 5Anzi, Dio sa che il giorno in cui voi ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e sareste come Dio, conoscendo il bene e il male». 6Allora la donna vide che l'albero era buono da mangiare, gradevole agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza; prese del suo frutto e ne mangiò, poi ne diede anche al marito, che era con lei, e anch'egli ne mangiò. 7Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture.
Salmo: 50
Rit.: Dio solo è rifugio e salvezza
Alleluia, Alleluia, Alleluia.
3 Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
4 Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro. Rit.
5 Sì, le mie iniquità io le riconosco,
il mio peccato mi sta sempre dinanzi.
6 Contro di te, contro te solo ho peccato,
quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto: Rit.
12 Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
13 Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito. Rit.
14 Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
17 Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode. Rit.
Seconda lettura: Rm 5,12-19
12Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato... 13Fino alla Legge infatti c'era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, 14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. 16E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. 17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l'abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo.
18Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. 19Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Canto del Vangelo: Mt 4,4b
Alleluia, alleluia!
Non di solo pane vivrà l'uomo,
ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Alleluia!
Vangelo: Mt 4,1-11
1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di' che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto:
Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti:
Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo
ed essi ti porteranno sulle loro mani
perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche:
Non metterai alla prova il Signore Dio tuo».
8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti:
Il Signore, Dio tuo, adorerai:
a lui solo renderai culto».
11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.
Dio, usando come protagonista la figura del Figlio, ci propone una esperienza di vita che è molto comune all'uomo.
Questa scelta dimostra l'amore che Dio ha per noi, suoi figli. Egli ci propone l'esperienza fatta da Gesù nel “deserto” posto difronte alle tentazioni.
Vediamole ed attualizziamole:
Gesù non era in fin di vita per il digiuno, aveva fame!. A questo bisogno il “tentatore” risponde proponendo non le radici amare o un tozzo di pane, ma tutte le pietre del deserto trasformate in pani. Ossia il superfluo nel disprezzo del creato.
Da questa necessità naturale …. snaturalizzata passa agli effetti speciali per esaltare la persona: buttati dall'alto del Tempio … gli angeli ti salveranno! Così tu verrai ammirato, osannato, invidiato da tutti.
Il “tentatore” promette il massimo: onore, gloria, potere, ricchezza; in cambio una piccola ed insignificante cosa: mi adorerai. Farai tutto quello che io ti propongo! E tu potrai dedicare la tua vita a mantenere e aumentare potere e ricchezza.
Ma quali le risposte di Gesù:
Non di solo pane vivrà l'uomo,ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio
Non metterai alla prova il Signore Dio tuo
Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto
CAMMINO DELLA SETTIMANA
Due spunti su cui meditare, a Voi cercarne altri:
Non di solo pane vivrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio».
Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo.
Buon cammino!
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"Commento ai Vangeli della domenica"
38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu pórgigli anche l'altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da' a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle.
43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio» (v. 38). E’ il massimo di giustizia cui si era giunti nella riflessione morale dell’Antico Testamento: si risponde al male con un male “proporzionato” e non eccessivo; insomma, ognuno paga secondo il danno commesso. Un argine alla vendetta, ma non ancora capace di guarire il male perpetrato. Il male subìto, anche se in modo proporzionato, viene comunque restituito, non vinto. Il Vangelo fa compiere un passo ulteriore: il male non si vince con altro male, ma solo col bene (1Pt 3, 9; Rm 12, 21; 1Ts 5, 15). E nel nostro brano Gesù dà delle indicazioni ben precise per vivere questo:
«Io vi dico di non opporvi al malvagio» (v. 39). Non dice di non opporsi al male, perché questo va sempre combattuto, ma a chi fa il male. Questi è la prima vittima del male compiuto, e in quanto tale va amato ancora di più, perché vittima del suo stesso male. Gesù ama il peccatore proprio perché odia il male. Dinanzi a colui che gli fa il male, egli si fa carico di questo male non restituendoglielo, perché tornerebbe a questi moltiplicato. Il male, come il bene, si moltiplica compiendolo. In ultima analisi, l’Amore dichiarerà sempre guerra al male, salvando però sempre chi l’ha fatto.
«Se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra porgigli anche l’altra » (v. 39). L’amore sopporta, nel senso di ‘portare su di sé’ il doppio del male, cioè non restituendolo, impedendo così che questo torni moltiplicato sull’altro. Questa è la tolleranza nel suo significato più profondo, termine che deriva da tŏllere = portare, sopportare. Essere tolleranti col male necessita di molta più forza che restituirlo in un atto di violenza. È forte solo chi resiste al bisogno di vendetta.
«A chi ti vuol togliere la tunica, lascia anche il mantello» (v. 40). Anche se sei ‘nel giusto’, pur di rimanere in pace con tuo fratello, lasciagli tutto: la nudità di Gesù sulla croce è stata la nostra pace, la nostra salvezza. Siamo stati rivestiti dalla sua spogliazione.
Letteralmente sarebbe: «Se uno ti angarierà ad accompagnarlo» (v. 41). In ambito romano, l’angarius è il messo del re che aveva il potere di obbligare i cittadini a portare i suoi pesi. Ogni fratello che mi si fa incontro è ‘figlio del re’, messo regale. Per cui diviene per me un dovere fraterno portare i suoi pesi: «Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la legge di Cristo» (Gal 6, 2).
A chi ti chiede dà… Il dare è sempre una vittoria sul prendere, e quindi sull’egoismo.
Gesù invita ad una ‘giustizia superiore’, ossia non solo ad amare, ma amare i nemici (v. 44), ossia l’altro riconosciuto nella sua totale alterità. La forza vincente del cristianesimo, sin dalle origini, è stato proprio quell’amore che non fa differenze di persone. L’amore non ‘sceglie’ chi si merita d’essere amato. Dio, l’Amore, è solo amore in-condizionato, senza condizioni.
Dio ama ‘a pioggia’, disinteressandosi su chi possa cadere il suo amore; scalda tutti, indipendentemente dal merito di ciascuno.
Chi entra in questa logica, chi vive il medesimo stile di Dio, si trasforma sempre più in se stesso, ovvero si compie come figlio del Padre.
Diventare perfetti (v. 48), vuol dire semplicemente maturare sino alla pienezza di sé. Il perfetto è semplicemente l’uomo maturo, completo.
Figli lo siamo per vocazione, ma occorre diventarlo in pienezza, come un seme è chiamato a divenire frutto. E si diviene pienamente figli facendosi fratelli nell’amore, vivendo come il Padre.
Il v. 48 che andrebbe quindi tradotto così: «Voi dunque [se vivete da figli facendovi fratelli] diverrete compiuti come è compiuto il Padre vostro celeste».
44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano,
Non fanno così anche i pagani? 48Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste.
È questione di ‘cambiare punto di vista’ sul mondo.
Balducci si domanda come vedevano il mondo i deportati di Auschwitz e Mauthausen, loro che erano nella verità. Perché solo chi porta su di sé fino all’estremo, fino al limite dell’annientamento, il peso della storia ha il privilegio – seppur incenerito – di conoscere immediatamente il significato del mondo.
Ora la medesima domanda potremmo farcela riguardo i nuovi deportati della storia contemporanea: come vedranno il nostro mondo i poveri costretti a dormire all’addiaccio, i profughi forzati a lasciare la loro terra, chi vive al limite della sopravvivenza, tutti coloro che non fanno parte della società che conta?
Questo nostro mondo culturalmente elevato, di scoperte tecnologiche impressionanti, di ricchezze ammassate; questa nostra civiltà paladina della giustizia, dell’equità sociale, della fratellanza universale … come verrà letto dagli occhi di chi sta lentamente scivolando verso la disperazione?
Il messaggio delle cosiddette beatitudini, questo discorso rivoluzionario e di rottura di Gesù di Nazareth, non è rivolto a quei cristiani che edificano la loro sicurezza sul potere, l’avere e il successo, fondamento proprio di ogni sistema mondano, ma alla massa indistinta di donne e uomini che fanno fatica a vivere, affamati di giustizia e perseguitati, umiliati e offesi.
Le ‘beatitudini’, non sono però mera consolazione. Questa ‘Magna Carta’ del cristiano è piuttosto norma di vita, scelta di campo, ferma decisione da che parte stare.
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1, 28s.).
Saremo dalla parte di Dio solo nella misura in cui saremo dalla parte dei disprezzati e degli ignobili di questo mondo e di coloro che il mondo ha contribuito a ridurre a nulla.
Dio sarà dalla nostra parte nella misura in cui saremo dalla parte di coloro che portano il peso, come immani cariatidi, delle nostre ingiustizie, e subiscono la violenza per assicurare la nostra pace menzognera.
Andrà da sé che chi farà proprio l’ideale di giustizia che dà onore ai poveri e aprirà la strada ai miseri, non troverà udienza e spazio nel mondo che conta. Ma questa solitudine, frutto di una scelta finalmente cristiana, dirà che siamo dalla parte giusta. Ma in fondo soli non lo si sarà mai, perché il prendersi cura dei senza volto, ridarà a noi il nostro volto autentico, grazie al quale saremo riconosciuti dall’Amore stesso perché in ultimo, gli rassomiglieremo.
12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
Saremo dalla parte di Dio solo nella misura in cui saremo dalla parte dei disprezzati e degli ignobili di questo mondo e di coloro che il mondo ha contribuito a ridurre a nulla.
Gesù inizia ‘ufficialmente’ la sua attività pubblica dopo trent’anni di vita nascosta. L’amore comincia ad uscire, a vivere di incontri, di misericordia, di abbracci, di guarigioni, di lacrime e di gioia. Matteo ci ricorda che quando l’Amore comincia ad agire, le circostanze storiche, l’ambiente sociale, il ‘mondo’ non sono certamente nelle condizioni ottimali. Siamo in un periodo di forti persecuzioni, di sofferenza, di oppressioni. Nessuna illusione, non vi è un tempo migliore dell’altro per cominciare a vivere. Nessun tempo è propizio per cominciare ad amare, o se vogliamo ogni tempo, ogni istante è quello giusto. L’adesso è l’unico momento favorevole all’amore, con tutte le sue contraddizioni, le pesantezze e le insensatezze.
Il testo ci dice che Gesù lascia Nàzaret (v. 13) dove ha trascorso appunto quei trent’anni di nascondimento, nella quotidianità più semplice. A far cosa? Ad imparare il mestiere più duro che esista: vivere. Ci vuole molto tempo per imparare a crescere e ad amare, perché il bene ha bisogno di tempi lunghissimi per affermarsi.
A compiere il male ci vuole un attimo.
Lascia Nàzaret e si reca a Cafarnao. Una cittadina posta accanto all’importante via maris, strada che congiungeva grandi imperi del nord con quelli del sud, crocevia di popoli, culture, religioni. Dio decide di entrare dentro la storia degli uomini, tutti gli uomini, soprattutto quelli lontani, i malati e gli ingiusti. L’Amore entra dentro la non credenza, il dubbio, la lontananza; raggiunge sempre l’uomo là dove questo sta morendo. “Son venuto a chiamare i peccatori, gli ingiusti, i malati…” è il refrain presente di continuo nei Vangeli. Questa è la bella notizia evangelica.
Gesù comincia la sua attività dentro di me, per compiervi una ri-creazione. Tutto per me può ora ricominciare: non sono più schiavo di logiche maligne, quelle proprie di ogni re di turno, fatte di potere, ricchezza, possesso, violenza. La sua luce mi fa vedere la realtà com’è veramente, perché è una rivelazione, toglie il velo sulla storia. La sua parola, le sue azioni mi mostrano che la vita non è un gioco di potere, la realtà è ben altra: possibilità di prendersi cura, giocarsi relazioni nell’amore, nel perdono, nel ridonare luce a chi vive solo più nelle tenebre.
Gesù compie in me la ri-creazione dicendomi: Convertiti! (v. 17). Ovvero, cambia direzione alla strada di morte che hai intrapreso e che ti sta portando verso il nulla. Cambia mentalità, logica di esistenza, modo di pensare (questo è il più profondo significato di conversione = cambiamento di mentalità), di vedere la realtà, di giocarti le relazioni, le scelte che fai… E questo puoi farlo «perché il regno dei cieli è arrivato (v. 17)». Ora è qui accanto a te, anzi: è dentro di te!
E cos’è questo ‘regno dei cieli’, questo ‘regno di Dio?’. È ciò che corrisponde al tuo cuore, ciò che hai sempre desiderato nel profondo: la pace, la benevolenza, la luce, un senso, la giustizia. Ebbene, ora tutto questo è arrivato, è qui! L’amore si è fatto presenza.
«Se percorrerai terre e mari e scavalcherai colline e monti, troverai tracce del divino, se scendi nel profondo del tuo cuore, vi troverai Dio stesso» (Madeleine Delbrêl).
«Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino»
Gesù comincia la sua attività dentro di me, per compiervi
una ri-creazione.
“Vergine Madre, figlia del tuo figlio, in cui il suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura” (Dante).
Maria viene oggi celebrata come Madre di Dio.
Ma non è l’essere divenuta Madre di Dio a rendere grande Maria – (questa è opera dell’Amore) – ma il suo sì, la sua disponibilità all’azione di un Altro in sé. Ciò che rende grande la creatura è riconoscersi tale, ‘opera di un altro’.
Maria, la ‘benedetta tra tutte le donne’, sconosciuta perfino a se stessa, fa ora della sua vita un oblio di sé, spazio vuoto per l’accadere di Dio.
Laddove non c’è più l’io, c’è Dio.
Maria, Madre di Dio, è solo terra feconda. Semplice campo arato, perché il seme vi possa cadere e sbocciare. Poi sarà il seme a fare il suo corso: «dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso [il contadino] non lo sa» (Mc 4, 27); l’energia, la potenzialità sta tutta racchiusa nel seme, chiede solo un terreno in cui poter portare frutto.
Maria è madre paziente. Ha atteso nove mesi come tutte le madri, poi prende tra le braccia la carne della sua carne, perché Dio non scavalca mai l’umano, non avendo strade preferenziali.
Con Gesù impariamo che i tempi di Dio son quelli dell’uomo, della natura, della maturazione, dell’attesa. L’amore sa aspettare.
Maria è madre della fatica del capire. Con la calma propria degli amanti è divenuta discepola del suo figlio. L’assurdo, il dubbio, la domanda non l’hanno risparmiata se un giorno s’è recata da Gesù con l’intento di riportarselo a casa ritenendolo impazzito (cfr. Mc 3, 21).
Maria la madre, non è stata preservata nemmeno dal dolore.
L’amore non toglie l’amato dalla sofferenza, ma accompagna, sta accanto e con-patisce. Dopo una vita passata a maturare alla luce del figlio, non è divenuta Madonna, ma discepola, aggrappata al patibolo infame, scoprendo lentamente che a compiere una vita, non è l’essere integerrimi di fronte alla Legge divina (cfr. Lc 2, 22.23.39) ma un amore capace di andare sino alla fine.
i pastori andarono, senza indugio, …… e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino,
non è l’essere divenuta Madre di Dio a rendere grande Maria – (questa è opera dell’Amore) – ma il suo sì, la sua disponibilità all’azione di un Altro in sé.
Nel brano di Vangelo di oggi, Giuseppe è definito ‘uomo giusto’ (v. 19). Egli rifiuta di prendere con sé Maria e il bambino, non perché ritiene sua moglie un’adultera, ma proprio in quanto ‘giusto’.
Nell’ottica dell’Antico Testamento, l’uomo giusto (non si dà notizia di donne giuste!) è colui che riceve il dovuto per la sua giusta opera. Giuseppe qui è come se dicesse: questo bimbo non è opera del mio sangue. Io non posso ricevere questo dono immenso da parte di Dio, semplicemente perché non me lo sono meritato, non ho fatto nulla per poterlo ricevere in dono.
Ecco, il Vangelo capovolge questa mentalità tipica dell’uomo religioso di sempre: considerare il dono di Dio come premio, come qualcosa che vada meritato in virtù d’una prestazione. Invece occorre credere che possiamo essere oggetto dei doni di Dio, in ultima analisi della misericordia, al di là della nostra giustizia, al di là di ciò che pensiamo possiamo meritare, di ciò che abbiamo fatto e non fatto nella nostra vita. L’amore non potrà mai essere premio!
In fondo, anche noi cristiani, soffriamo della medesima malattia di Giuseppe, quella di considerare il rapporto con Dio in forza di una giustizia retributiva, immaginando di essere oggetto di bene in base al nostro comportamento morale.
Giuseppe è dunque l’uomo giusto chiamato ad essere sovra-giusto. E in fondo, la sovra-giustizia richiesta qui a Giuseppe coincide con la verginità di Maria: disponibilità a ricevere ciò che non dipende dalle proprie capacità fisiche, morali e tanto meno religiose. Maria non ha detto “non posso ricevere perché non me lo merito”, ma “proprio perché non ho in me nulla da far valere, nulla su cui poter contare, sono nella condizione di ricevere tutto”.
Il povero aprirà il suo desiderio all’infinito, l’orgoglioso si aprirà solo a quella possibilità di compimento che corrisponde a ciò che è in grado di compiere lui.
Il testo procede dicendo che Giuseppe pensò (v. 19), stava considerando (v. 20). Le sue elucubrazioni però sono includenti: «L’uomo comincia a vivere nella misura in cui smette di sognarsi» (Pablo d’Ors).
Il nome Giuseppe significa: Dio-aggiunge. È questo, in fondo, il nome segreto di ogni creatura: l’uomo, essere ‘finito’, è fatto per una continua aggiunta proveniente d’altrove, a patto che crei in sé lo spazio in cui l’Infinito possa accadere.
Nessuno basta a se stesso. Giuseppe è qui simbolo dell’uomo che, troppo grande da bastare a se stesso, finalmente s’abbandona all’opera di un Altro, diventando padre senza alcun merito e facendo della propria vita dono gratuito.
24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore
Il nome Giuseppe significa: Dio-aggiunge. l’uomo, essere ‘finito’, è fatto per una continua aggiunta proveniente d’altrove, a patto che crei in sé lo spazio in cui l’Infinito possa accadere.
Il Vangelo di questa seconda domenica di Avvento, è un testo molto complesso e delicato. Ci viene presentata la figura di Giovanni il Battista, l’uomo del passaggio tra Antico e Nuovo Testamento, tra la religione e la fede.
Giovanni invita all’accoglienza dell’amore che s’è fatto presenza, che s’è fatto vicino, accanto (v. 2), perché l’amore, per definizione, si può solo ricevere. Non è da capire, da studiare, da imparare. È presenza personale da accogliere nella gratuità, non da meritarsi vantando un’affettata religiosità, come credono i sadducei e i farisei, pii religiosi del tempo di Gesù, e in fondo, di ogni epoca. Essi credono di essere con la squadra vincente solo perché indossano quella casacca: «Non crediate di poter dire: ‘Abbiamo Abramo per padre’ (v. 9).
Dirsi cristiani non vuol dire ancora nulla, come l’essere battezzati, il partecipare alla Messa, recitare preghiere o ricevere i sacramenti. Il ‘dirsi’ di Cristo non vuol dire appartenergli, non funge da talismano contro le tempeste della vita, e neppure polizza assicurativa nei sinistri del quotidiano.
Non è entrare nelle fila di una religione a dire qualcosa del nostro vero essere, ma è il nostro essere fecondi ad affermare e testimoniare un’appartenenza al Dio della vita: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16).
Occorre portare frutto dunque (v. 8), anzi ‘buon frutto’ dice il Battista (v. 10b). E il frutto è sempre consequenziale all’essere, come il frutto scaturisce sempre da un albero ben radicato con le radici nel terreno da cui si traggono tutte le energie necessarie. La questione dunque è accogliere, entrare in contatto con la Vita, la sorgente interiore che dimora in noi, per sperimentare così l’essere trasformati, fecondi e in grado di dare buoni frutti.
Il Battista ci ricorda inoltre che la vita può anche conoscere il fallimento. È il fallimento di una vita infruttuosa, sterile, inconcludente perché sempre giocatasi ‘altrove’, distratta, in perenne evasione, non radicata nel terreno. Quella vita che non ha edificato sulla roccia (cfr. Mt, 7, 24), producendo non frutti ma solo paglia e detriti.
Ma il Vangelo di Gesù (ed è qui che si gioca la radicale differenza tra Antico e Nuovo Testamento, la bella notizia), afferma con forza che alla fine – non ‘dei tempi’ perché il tempo è già compiuto (cfr. Mc 1, 14), ma di ogni istante – il fuoco dell’Amore brucerà, dissolverà tutto ciò che non è stato edificato attraverso l’amore. Verrà estinta cioè in noi la conseguenza malata dell’inconsistenza, tutta la paglia prodotta dalle nostre illusioni, dai nostri inganni e il nostro male (v. 12a). E al contempo, il medesimo Amore raccoglierà la parte buona di noi, ciò che è stato edificato nell’amore, secondo la capacità di ciascuno, ossia quel qualcosa di talmente forte da resistere anche alla prova della morte (v. 12b; cfr. 1Cor 3, 10bss.).
“Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore,raddrizzate i suoi sentieri! “
il nostro essere fecondi ad affermare e testimoniare un’appartenenza al Dio della vita: «Dai loro frutti li riconoscerete» (Mt 7, 16).