Ecumene

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Martedì, 14 Giugno 2005 23:32

11 settembre 2001 (Faustino Ferrari)

I grandi imperi sono come le torri, come le antiche mura di una città o di un limen che fu eretto per sbarrare l'avanzare di nemici. Che durino millenni o anche solo il volgere di pochi grappoli di anni...

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Il sacerdozio "laico" di Cristo
e dei cristiani
di Severino Dianich


 



Per gli uomini del suo tempo Gesù era quello che noi diremmo un laico. In realtà con lui è mutata la concezione del sacerdozio, non più legato ai riti, ma all’esistenza, alla vita intesa come oblazione. Questo vale per tutti i credenti in Cristo. Lungo la storia, però, i cristiani laici sono stati privati del loro carattere sacerdotale. Ecco com’è possibile recuperarlo.

A chi non avesse molta confidenza con la lettera agli Ebrei o fosse stato indotto da una tradizione esegetica edulcorata a vedervi preannunciato il carattere sacerdotale dei ministri della Chiesa, vorrei consigliare di mettersi con animo spregiudicato di fronte a questo testo, solo a prima vista un po’ enigmatico: "Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un’altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all’altare. È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio" (Eb 7,12-14).

Una concezione mutata

Basterà un commento elementare per renderci conto di quale rivoluzione abbia operato il Nuovo Testamento sostenendo che Gesù è il grande unico sacerdote del mondo: nel dir questo, tutta la concezione del sacerdozio appare mutata ("Infatti, mutato il sacerdozio...") e di conseguenza c’è anche "un mutamento della legge" che governa il popolo di Dio. Era necessario, diceva il versetto precedente, "che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece alla maniera di Aronne". Gesù infatti è un sacerdote di tipo completamente nuovo, tanto che non viene dalla tribù sacerdotale di Aronne, ma discende dalla tribù di Giuda: egli infatti non si è mai rivestito dei paludamenti sacri, non è mai entrato nel santuario, mai ha compiuto i riti sacerdotali della legge.

Dal punto di vista socio-religioso e giuridico, in termini contemporanei potremmo dire: Gesù era un laico. Per l’autore della nostra lettera quest’idea era tanto importante che, lungo tutta la sua scrittura, egli neppure nomina l’unico gesto rituale di Gesù che si sarebbe potuto interpretare come un gesto sacerdotale: cioè il rito del pane e del vino della sua ultima cena. Egli ci vuol trasmettere l’impressione forte che l’antico ruolo sacerdotale della mediazione è tutto concentrato in Cristo e che il sacerdozio di Cristo è tutt’altra cosa rispetto al sacerdozio levitico.

Se nella tradizione cattolica il radicalismo della lettera agli Ebrei è stato attutito e la sua dottrina è stata filtrata dal quadro del sacerdozio gerarchico, ciò è accaduto perché i Riformatori avevano assunto il tema del sacerdozio dei fedeli come loro cavallo di battaglia e ne avevano impugnato l’imponenza per ridimensionare, quando non per demolire, il sacerdozio dei preti e dei vescovi.

Oggi però sentiamo il bisogno di valorizzare il carattere e le funzioni sacerdotali del popolo di Dio e di quella parte dei cristiani che ne costituisce la stragrande maggioranza, cioè i cristiani laici.

Il Nuovo Testamento

A questo proposito il Nuovo Testamento spazza via il falso problema che invece tante volte domina le nostre discussioni: non si tratta di attribuire ai laici un ruolo maggiore nella liturgia e nella vita interna della comunità. Si tratta, invece, di prendere sul serio il fatto che la concezione fondamentale del sacerdozio è mutata e che il primo campo del suo esercizio non è la liturgia: l’opera salvifica di Cristo non è consistita nell’invenzione di nuovi riti, bensì nella sua vita vissuta come oblazione totale al Padre al servizio degli uomini, dal suo concepimento nel grembo della Vergine alla sua sepoltura nel seno della terra. Con la sua risurrezione e con il suo ingresso nel "santuario celeste", egli ha portato la sua esperienza di dedizione, vissuta nella sua carne umana, in seno alla divinità. Il suo sacerdozio esistenziale, vissuto nei fatti della vita comune, è ora consegnato ai credenti per il solo fatto di essere credenti e quindi viventi in Cristo: questo è il sacerdozio cristiano fondamentale sia dei preti che dei laici.

Per comprenderne più a fondo la novità, oltre alla meditazione della lettera agli Ebrei, è necessario mettersi di fronte al celebre testo del vangelo di Giovanni (cap. 2), in cui Gesù, dopo aver contestato violentemente il mercato nel tempio, porta il suo discorso ben oltre il problema, un po’ scontato, della commistione fra denaro e preghiera. Interrogato sulla ragione che egli avrebbe potuto accampare per prendersi il diritto di protestare nel tempio, Gesù risponde lanciando una sfida: "Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere" (Gv 2,19). Era come dire che il tempio poteva anche essere distrutto per sempre; la sfida riguardava due realtà: il tempio di pietre che di fatto, dopo due decenni, sarebbe stato distrutto davvero, e quello della sua vita, di lui stesso, che poteva essere tolto di mezzo e ucciso. Dalle rovine di questi due "templi" egli avrebbe fatto sorgere, nuovo, il vero tempio eterno, il suo corpo risuscitato. L’evangelista chiarisce esplicitamente il suo pensiero: "Gli dissero allora i Giudei: "Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?". Ma egli parlava del tempio del suo corpo" (Gv 2,20-21).

All’immagine del tempio farà eco san Pietro: i cristiani sono come pietre poggiate su Gesù a formare il tempio "spirituale", cioè abitato dallo Spirito, nel quale si offrono a Dio vittime "spirituali", cioè azioni animate dallo Spirito (1Pt 2,4-10). All’immagine del corpo si riferirà san Paolo, esortando i cristiani a offrire i loro corpi a Dio, poiché questo solo è il culto ragionevole (logikè latreia, Rm 12,1). Se ne deduce che, come il corpo di Cristo, così i corpi dei cristiani sono il luogo della mediazione sacerdotale fra l’uomo e Dio. Dire "il corpo" significa indicare tutto ciò che l’uomo fa con il suo corpo (camminare, lavorare, parlare, relazionarsi con gli altri, amare, generare, costruire, ecc.) e anche, alla fine, morire. Ebbene, tutto questo nell’esistenza credente, vivente in Cristo, è opera sacerdotale, vera mediazione fra il mondo e Dio: è il sacerdozio laico di Cristo e dei cristiani.

Una concezione riduttiva

Paradossalmente lungo la storia i cristiani laici, almeno di fatto se non nella dottrina, sono stati spossessati del loro carattere sacerdotale e i ministri ordinati se ne sono fatti carico in maniera esclusiva, sacralizzandolo e ritualizzandolo. Si è parlato allora di sacerdozio dei fedeli in un senso spiritualistico, quasi che preti e vescovi fossero sacerdoti davvero, mentre il sacerdozio dei fedeli laici ne rappresenterebbe un riverbero presente nelle loro intenzioni più che nelle loro azioni. Di questa concezione riduttiva il concilio Vaticano II ha fatto giustizia, anche se LG, per una certa sua timidezza al proposito, accentua l’esercizio del sacerdozio da parte dei fedeli nelle celebrazioni sacramentali rispetto alle azioni della vita comune (LG 10s; 34). Pur preferendo la categoria di "apostolato", AA invece sottolinea con forza il carattere sacerdotale dell’impegno dei laici nel mondo: essi "sono deputati dal Signore stesso all’apostolato. Vengono consacrati per formare un sacerdozio regale e una nazione santa onde offrire sacrifici spirituali mediante ogni attività e testimoniare dappertutto il Cristo" (AA 3).

Il sacerdozio dei laici sarà, quindi, un sacerdozio a tutto campo. In maggioranza sposati, vengono consacrati alla vita coniugale e familiare con il sacramento del matrimonio. A differenza dei chierici e dei religiosi esercitano un mestiere o una professione che li inserisce nella vita sociale. Come cittadini assumono le loro responsabilità sociali e politiche dentro la società civile. Come membri del popolo di Dio hanno il carisma (derivato dal battesimo) e hanno il diritto e il dovere (sancito anche dal Codice di Diritto Canonico) di evangelizzare, comunicando la fede alle persone con le quali entrano in contatto: sono quindi il soggetto ecclesiale di base, attraverso il quale la Chiesa compie la sua missione nel mondo. La loro vita, vissuta nella fede alla sequela di Cristo, nella dedizione ai fratelli per amore di Dio e degli uomini, è il primo ed elementare servizio che la chiesa rende agli uomini per la gloria di Dio in vista del suo Regno (vedi AA 4).

Alcune conseguenze

Se il grande tema del sacerdozio comune è diventato lungo la storia un aggrovigliato problema, lo si deve al fatto che, quando si è ritenuto che ormai tutto il mondo (che poi era solo la parte di mondo che in questo o quel tempo era conosciuta) fosse diventato cristiano, è sembrato che la Chiesa non avesse più di fronte a sé un destinatario della sua azione. Si è quindi trasferita la dinamica della mediazione all’interno del corpo cristiano, sostituendo all’idea del popolo cristiano come mediatore fra Dio e il mondo la figura del clero come mediatore fra Dio e il popolo cristiano.

A questo si è aggiunto un processo di ritualizzazione del ministero cristiano, per il quale i sacramenti delle celebrazioni rituali hanno preso la prevalenza sul sacramento dell’esistenza, declassando le opere del cristiano (che pur sono segno e strumento della grazia di Dio) ad attività profana, da svolgere in obbedienza ai comandamenti, ma priva di valore salvifico per il mondo.

La soluzione, perciò, del problema del laicato non va cercata nell’attribuire ai laici nuove e ulteriori funzioni all’interno della comunità, bensì in una maturazione dell’autocoscienza ecclesiale, per cui la Chiesa senta e viva come suo tutto ciò che i laici operano nel mondo, tanto quanto sente e vive come suo ciò che fanno i ministri ordinati: questo è, infatti, il primo e fondamentale esercizio del suo sacerdozio.

A livello teorico bisogna superare l’idea che l’azione dei laici nel mondo non è azione della Chiesa: essa non ne resterebbe determinata né in alcun modo ne sarebbe responsabile. A livello pratico si tratta di far rifluire all’interno della comunità quanto i laici operano nel mondo: la vita di una comunità parrocchiale ha bisogno di lasciarsi determinare a fondo dalle esigenze della missione vissuta dai laici nel mondo.

Se i consigli pastorali fossero rappresentativi non solo delle attività interne alla comunità, ma anche delle professioni e delle posizioni tenute dai laici nel mondo, la Chiesa sarebbe molto più capace di integrarsi nella società e di servirla in ordine alla comunicazione della fede e cooperando al bene comune.

Lo stesso esercizio del magistero potrebbe e dovrebbe lasciarsi determinare, per esempio in materia di morale coniugale e in ordine alle responsabilità politiche della Chiesa, dall’esperienza di fede di coloro che, in forza dei sacramenti del matrimonio e del battesimo, sono dotati in questi ambiti di loro specifici carismi.

(in Vita Pastorale, dicembre 2003)

Pubblicato in Teologia
Martedì, 07 Giugno 2005 22:16

Giustino (Lorenzo Dattrino)

Giustino
di Lorenzo Dattrino






Nacque a Flavia Neapolis (oggi Nablus, in Giordania). Lasciata ancor giovane la Palestina, si trasferì ad Efeso. Era assetato della verità e tale aspirazione lo condusse a prendere contatto con le più celebri scuole dell’epoca: quella stoica, peripatetica, pitagorica, neoplatonica.

Nel platonismo credette di trovare la via giusta. Fu allora che si convertì al cristianesimo, all’epoca di Adriano, forse a Efeso. A Roma, dove si recò ben due volte, riuscì a radunare attorno a sé un certo numero di discepoli. Denunciato come cristiano (tra il 163 e il 167), fu messo a morte assieme ad alcuni suoi discepoli. Gli Atti del suo martirio sono considerati autentici.

Risulta di fondamentale importanza l’attività culturale di Giustino: in lui si deve vedere il primo dei Padri che tenta una conciliazione tra filosofia antica (greca e pagana) e cristianesimo. Egli vide nei grandi pensatori dei tempi precedenti degli iniziatori di quella filosofia che solo nel cristianesimo avrebbe raggiunto la sua piena perfezione. Nella Sacra Scrittura c’è la pienezza della Verità, nei filosofi i semina Verbi (frammenti di verità). Dunque, anche la filosofia è dono di Dio e può essere collaborazione con la Parola di Dio per una fede pensata. 

Giustino ci ha lasciato tre opere :
1. Dialogo con Trifone.  Il cristianesimo entra in dialogo con l’ebraismo anche questo è refrattario e ostile.

2. Due Apologie per difendere la presenza cristiana in un contesto pagano e per gettare un ponte verso la cultura pagana e le istituzioni dell’impero.  
Giustino indirizza le due apologie all’imperatore Antonino Pio perché gli intellettuali e i responsabili dell’amministrazione statale possano conoscere la vera realtà del cristianesimo.  Siamo debitori di Giustino se possiamo conoscere la prassi ecclesiale relativa al battesimo, alla celebrazione e partecipazione all’Eucarestia nella liturgia domenicale.

Ecco un passo: "Tutti quanti insieme ci riuniamo nel giorno del sole [la domenica], poiché è il primo giorno, nel quale Dio creò il mondo, avendo trasformato la tenebra e la materia, e Gesù Cristo, nostro Salvatore, risuscitò nello stesso giorno dai morti: infatti  lo crocifissero prima del giorno di Saturno [il venerdì] e il giorno dopo quello di Saturno, cioè il giorno del sole, apparso ai suoi discepoli e ai suoi apostoli insegnò queste cose che ora mandiamo a voi [imperatore e intellettuali pagani] per un esame" (Apologia I , 67).

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Martedì, 07 Giugno 2005 22:00

Taziano (Lorenzo Dattrino)

Taziano
di Lorenzo Dattrino





Nato verso il 120 da famiglia pagana, ebbe un’educazione greca e fu sofista. Poi venne a Roma e qui si convertì al cristianesimo, ma assunse atteggiamenti intransigenti e di chiusura nei confronti della cultura ellenistica. Così dice di se stesso. “Io, Taziano, filosofo secondo la filosofia dei barbari, nato in terra assira, istruito prima nelle vostre dottrine, poi in quella che ora faccio professione di predicare” (Discorso ai Greci, XLII ). Si noti la contrapposizione: barbaro (cioè cristiano) e greco (cioè pagano) .

Il Discorso è un’opera in difesa del cristianesimo e un violento attacco alla cultura greca. Taziano esordisce tacciando i greci (pagani) di aver rubato ai barbari (giudei e cristiani): nessun’arte, nessuna disciplina sarebbe stata inventata dai "greci"! La sola filosofia è loro vanto, ma è ben minima cosa, come dimostrano le assurdità dei filosofi (cc. 1-3). Ben diverso è l’atteggiamento pratico e teorico dei cristiani: essi credono in un solo Dio e non ammettono l’idolatria (c. 4). Unità e solitudine di Dio non contrastano con l’esistenza di un altro principio, il Logos, il Verbo che era ab aeterno presso il Padre. Il Logos diede origine alla creazione (c. 5). Resurrezione dei corpi (c. 6), angelologia, demonologia (c. 7), caduta dell’uomo e azione dei demoni (cc. 8-11), psicologia e pneumatologia (cc. 12-13), rigenerazione dell’uomo, ma senza alcuna allusione concreta all’Incarnazione del Verbo (cc. 13-19).

Tutta questa dottrina è continuamente e ampiamente frammista a una polemica minuta contro la mitologia. In seguito, dopo un cenno (c. 21) alla credenza in un "Dio apparso in forma d’uomo", in cui i cristiani, il cui nome peraltro non è mai pronunciato, credono, inizia la polemica contro gli aspetti morali e pratici del paganesimo: le assemblee, le feste, gli spettacoli (c. 22) , i ludi gladiatori (c. 23), le rappresentazioni tragiche (c. 24), la vita dei filosofi (c. 25), la varietà di linguaggi e le preziosità dei grammati (cc. 26-27), le diverse legislazioni (c. 28).

 L’argomento cronologico abbraccia tutta l’ultima parte del Discorso (cc. 29-42), e pretende di dimostrare la priorità della legislazione giudeo-cristiana rispetto alla legislazione, alla storia, alla letteratura, alla sapienza greca.

Taziano conclude (c. 42) con un’affermazione di certezza nella bontà della causa da lui sostenuta, e si dice pronto, con l’aiuto di Dio, a sostenere  l’esame degli avversari.
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Domenica, 29 Maggio 2005 20:23

Maestri da non imitare Mc 7,1-23 (Karin Heller)

Maestri da non imitare
Mc 7,1-23
di Karin Heller





«Allora si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con le mani immonde, cioè non lavate - i fari sei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavate le mani fino al gomito, attenendosi alla tradizione degli antichi, e tornando dal mercato non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, stoviglie e oggetti di rame - quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani immonde?». Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto:
Questo popolo mi onora con le labbra,
ma il suo cuore è lontano da me.
Invano essi mi rendono culto,
insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». E aggiungeva: «Siete veramente abili nell'eludere il comandamento di Dio, per osservare la vostra tradizione. Mosè infatti disse: Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre e la madre sia messo a morte.  Voi invece dicendo: Se uno  dichiara al padre o alla madre: È Korban, cioè offerta sacra, quello che ti sarebbe dovuto da me, non gli permettete più di fare nulla per il padre e la madre,  annullando così la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte».

Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e intendete bene: non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando in lui, possa contaminarlo; sono invece le cose che escono dall'uomo a contaminarlo».

Quando entrò in una casa lontano dalla folla, i discepoli lo interrogarono sul significato di quella parabola. E disse loro: «Siete anche voi così privi di intelletto? Non capite che tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va a finire nella fogna?». Dichiarava così mondi tutti gli alimenti. Quindi soggiunse: «Ciò che esce dall'uomo, questo sì contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo». (Marco 7,1-23)


Per colui che non vive in un ambiente ebraico o che gli è estraneo, l'incontro di Gesù con i farisei conservato da Marco (cf anche Mt 15,1-9 e Lc 11,38) sembra emergere da un'altra epoca. Tutte queste controversie non sono superate? Perché riportare simili discussioni, quando la maggioranza dei cristiani è uscita dalle nazioni pagane alle quali non è stato imposto il giogo che ne i padri, ne coloro che sono nati ebrei sono stati in grado di portare (At 15,10)?

Ma per colui che crede, la Scrittura non è un cimelio del passato, un monumento ai morti davanti al quale ci si inchina periodicamente con rispetto: è una parola viva, la parola nella quale Dio vuole comunicarsi a noi lungo i secoli. Ciò significa che certi eventi, e più particolarmente i diversi incontri che si trovano a dovizia nella Bibbia, sono inseparabili dalla rivelazione cristiana. Questa rivelazione svanirebbe, se questi incontri non esistessero. Quindi, nell'evento dell'incontro di Gesù con i farisei accaduto duemila anni fa, c'è una rivelazione, una verità di Dio per l'uomo, per gli uomini di ogni epoca. Anche per noi, uomini alle soglie del duemila. Qual è questa verità?

La rivelazione di un male profondo

All'epoca di Gesù, i farisei erano maestri di tutti quelli che avevano scoperto nella Legge del Signore una lampada per i loro passi, una dolcezza più grande di quella del miele, un tesoro più desiderabile di quello dell'oro fino (Sal 118,105 e 19,11). San Paolo stesso era stato formato alla loro scuola, quella di Gamaliele, nelle più rigide norme della legge (At 22,3). Allora, dove sarebbe il «male» a voler vivere in tutto conformemente alla Legge del Signore in cui l'uomo si compiace meditandola giorno e notte (Sal 1,2)?

Nel passato di Marco che studiamo, la discussione tra Gesù e i fari sei scoppia a causa dei discepoli che prendono il cibo con «mani immonde», cioè non lavate fino al gomito secondo la tradizione degli antichi (Mc 7,1-3). A prima vista, il dibattito potrebbe sembrare una discussione tra genitori preoccupati di inculcare ai loro figli un «saper vivere» secondo lo stile degli antenati e i figli che non se ne curano o non ne vedono la necessità.

Invece l'incidente rivela un disagio più profondo di quello di un conflitto tra generazioni. Rivela, in effetti, che I 'unità del doppio comandamento dell' amore di Dio e del prossimo è
frantumata. E, cosa forse ancora più grave, i trasgressori coltivano l'illusione di essere a posto in coscienza.

Gesù denuncia l'incongruenza di tale comportamento con due citazioni bibliche. Comincia
citando Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7 ,6- 7). Questa citazione mette in rilievo un divario tra il culto a Dio, cioè il comandamento dell'amore di Dio, e l'insegnamento che si allontana dalla Parola di Dio, fino a sostituirla con la tradizione degli uomini. Così il popolo pratica un culto che ha tutte le apparenze di un «vero» servizio di Dio, mentre invece la sua vita quotidiana non è più regolata secondo i precetti del Signore, bensì secondo le convenienze di ciascuno. Il culto serve a tacitare la coscienza e il comandamento dell'amore di Dio è usato per dissimulare il disprezzo verso il prossimo. Poi Gesù cita Mosè, che insegna con l'autorità di Dio: «Onora tuo padre e tua madre, e chi maledice il padre o la madre sia messo a morte» (Mc 7,10). A questo punto, Gesù mette in rilievo l'ambiguità circa il comandamento dell'amore del prossimo che, nel caso presente, interessa il padre e la madre. I genitori sono esposti ad un'esistenza miserabile, se non alla morte, perché i figli hanno preso il pretesto di dichiarare «offerta sacra» (korbàn in aramaico) i beni destinati al sostentamento di padre e madre (Mc 7,11-13). Era una subdola scappatoia per evitare l'aiuto agli altri, con il pretesto di una causa religiosa. Quando l'uomo mette davanti «l'amore di Dio» senza curarsi del prossimo, produce una mostruosità. L'assurdità di questo gesto diventa ancora più evidente sapendo che i templi dell'epoca, e quindi anche il Tempio di Gerusalemme, avevano, oltre alla loro specifica funzione religiosa, anche quella di essere un centro finanziario; erano l'equivalente delle nostre banche. Quindi, in questo senso «l'offerta sacra» non era un obolo per realizzare una buona opera, ma costituiva ciò che chiameremmo oggi un investimento finanziario.

Una rivelazione dell'identità di Gesù

Dopo questa dimostrazione, Gesù ritorna al problema iniziale, quello che aveva causato la sua viva reazione: perché i suoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi e prendono il cibo con «mani immonde»? L'insegnamento di Gesù è comprensibile soltanto in considerazione di ciò che Dio ha creato e voluto all'origine, quando ha messo l'uomo e la donna all'interno di una creazione integralmente buona (Gn 1). Infatti, all'origine non ci sono elementi puri o impuri. Non c' è nulla che potrebbe insozzare l'uomo dal di fuori. L'esterno, cioè la creazione; e l'interno dell'uomo sono omogenei. Non c'è possibilità di conflitto tra loro quando l'uomo rimane unito a Dio mediante il comandamento divino, che insegna come comportarsi nel sistema complesso della creazione. Quando l'unità è spezzata dal peccato, il cuore dell'uomo è diviso, il suo interno non corrisponde più all'esterno: ciò si manifesta attraverso i perversi disegni prodotti dal cuore dell'uomo.

Quanto a Gesù, Lui è venuto nel mondo per riprendere il progetto originario che Dio creato
Ire aveva preparato per il primo Adamo. Ristabilisce in se stesso il rapporto frantumato tra interno ed esterno, tra il cuore dell'uomo e la creazione, affrontando il caos del deserto, vivendo con le fiere, sostenendo la tentazione di Satana (Mc 1,12-13). In se stesso, figlio dell'Uomo e Verbo eterno, realizza l'unione perfetta con il Padre. È da questa unità che vede il mondo; è ancora da questa prospettiva che giudica il comportamento dei fari sei e lo ritiene inaccettabile.

La verità dell'incontro

Come già notato, l'incontro tra Gesù e i farisei si colloca nella logica di una rivelazione. Questa rivelazione non «cade dal cielo» come un aerolito estraneo al nostro universo, ma si realizza attraverso parole ed azioni molto precise, quelle di Gesù e dei farisei. Parole ed azioni di entrambi sono l'espressione esteriore non dissociabile dal loro stato interiore.

Nel caso dei farisei c'è omogeneità tra il cuore e le azioni, entrambi ugualmente corrotti. E tale corruzione rende la guarigione difficile, se non impossibile. Sarà infatti molto improbabile trovare un punto di accordo con loro che si considerano giusti. Gesù ha dichiarato di essere venuto per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,17). Potrà verificarsi un incontro fruttuoso tra Gesù e i farisei ? Come potranno cambiare, educandosi alla logica del donare senza la pretesa del contraccambio? Nel presente caso, siamo di fronte a una parte che non vuole comunicare con Gesù.

In effetti, incontrare Gesù significa incontrare il Verbo eterno di Dio venuto nella carne; solo Lui può favorire il cambiamento e solo in Lui è data agli uomini la vita che esiste dall'eternità tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Quindi, incontrare Gesù significa per l'uomo la possibilità inaudita di accedere alla guarigione del cuore grazie al dono dello Spirito, di ritrovare l'unità originale tra interno ed esterno voluta dal Padre, di entrare nella vita beata della risurrezione. Viceversa, fallire quest'incontro significa fallire la VITA come Dio la promette, la dà e la realizza dall' eternità nel Figlio suo Gesù.

I discepoli uniti per grazia di Gesù

Quanto ai discepoli di Gesù, devono ricevere una doppia rivelazione dall'incontro del loro Maestro con i farisei. Dapprima: possono prendere il cibo senza essersi lavate le mani, perché il loro Maestro lo autorizza. Infatti, in ragione della presenza di Gesù, anche loro sono già mondi per la Parola che egli ha annunciato, secondo l'espressione di san Giovanni (Gv 15,3). Dovranno però essere attenti e ricordare che anch'essi corrono sempre il rischio di diventare farisei, annullando il comandamento dell'amore di Dio e del prossimo e sostituendolo con precetti e tradizioni umane.

Se l' incontro tra Gesù e i fari sei prende molto spazio nei Vangeli, è giustamente perché anche noi siamo permanentemente esposti a diventare «vecchi» fari sei forti delle nostre tradizioni di 2000, 200, 50 o 3 anni. Come era già il caso al tempo di Gesù, siamo anche noi esposti ogni giorno al pericolo di annullare la Parola di Dio (Mc 7,9.13), il comandamento divino, per mettere al suo posto i nostri gusti, le nostre convenienze, i nostri desideri personali.

Grazie al Vangelo, che è Buona Notizia, sappiamo come dobbiamo comportarci per vivere correttamente il duplice comandamento dell' amore di Dio e dell'amore del prossimo. A loro modo, anche i farisei ci rendono un grande servizio, se non altro perché ci insegnano come non dobbiamo comportarci.

(da Parole di vita)
Pubblicato in Bibbia

Il punto di partenza per ogni tipo di riflessione teologica e spirituale in materia politica non può essere per il cristiano altro che la parola di Dio. Il grande tema del Regno, insieme a quello della pace, ad esso strettamente correlato, devono dominare la riflessione e le scelte del cristiano.

Pubblicato in Tematiche Etiche

Non sono pochi, quarant'anni, per percepire lo sviluppo di un processo storico: e non sono pochi i quarant'anni che ci separano dall'avvio della riforma liturgica che il Vaticano II ha intrapreso.

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I profeti biblici di fronte a Babilonia
di Jesus Asurmendi*


 




* Professore all’Institut Catholique di Parigi

È impossibile parlare di Babilonia in una prospettiva culturale ampia senza rifarsi ai testi biblici. Oltre che in Genesi 11 e nell’Apocalisse di Giovanni, testi a valenza mitica e simbolica, Babilonia appare nella Bibbia in un periodo ben determinato, quello dei profeti Geremia, Ezechiele e del Secondo Isaia, il periodo del Nuovo Impero Babilonese (605-539). Il regno di Giuda, che era in una posizione-cerniera tra la potenza babilonese e l’Egitto, si trovò preso in un’autentica tempesta. Con la caduta di Ninive nel 612, Babilonesi e medi avevano dato il colpo di grazia all’impero assiro. Nel 605, Nabucodonosor inflisse una cocente sconfitta al faraone. Per un certo tempo, Giuda oscilla tra questi due protagonisti, prima di cadere nell’orbita babilonese. La prima deportazione nel 597, poi la caduta di Gerusalemme nel 587 significano l’influenza totale di Babilonia. È in questo contesto che bisogna situare gli interventi profetici.


 



GEREMIA: LA SOTTOMISSIONE

A partire dal momento in cui gli  Egiziani sono sconfitti da Nabucodonosor a Karkemiš, nel 605, il nemico del Nord, di cui Geremia aveva  predetto la venuta quale castigo per Giuda, si precisa: sono i Babilonesi. Ma  curiosamente, il profeta va a chiedere la  sottomissione al re di Babilonia. Come  spiegare questa posizione che lo fece considerare un collaborazionista dai suoi  compatrioti?  
Questa pressi di posizione antinazionalista si manifesterà in circostanze diverse.  Prima di tutto la si scopre nel testo di Geremia 27,1-11. Siamo nel 594-593, sotto il  regno di Sedecia.  

«PROCURATI UN GIOGO E METTILO SUL TUO COLLO»  
Il cambiamento del sovrano in Egitto suscita in alcuni vassalli di Nabucodonosor  delle speranze di indipendenza. Una riunione di «ribelli» ha luogo a Gerusalemme: Edom, Moab, Ammon, Tiro e Sidone rispondono all’appello. È allora che Geremia riceve dal Signore uno strano ordine: procurarsi un giogo, metterselo sul capo e presentarsi così davanti agli inviati dei regni vicini.
Il messaggio è chiaro: il Dio del cielo e della terra ha sottomesso tutti i popoli a Nabucodonosor. Chi si sottomette vivrà. Altrimenti sarà la disfatta e la morte certa. Nel suo oracolo, il profeta attribuisce a Nabucodonosor uno dei titoli più prestigiosi della monarchia in Giuda: egli è il «servo del Signore». Per Geremia, il Dio dell'universo si preoccupa di tutti i popoli e, nel suo disegno, Nabucodonosor ha un posto essenziale. Adesso, gli ha dato ogni potere. Ribellarsi contro di lui equivale a ribellarsi contro il Dio di Israele.
Da quel momento, la posizione del profeta diventerà sempre più delicata. Egli infatti non si accontenta di trasmettere questo messaggio di sottomissione, ma moltiplica i suoi interventi per far «passare» il suo punto di vista. Così, in questo stesso capitolo 27, altri due oracoli riaffermano che bisogna sottomettersi e annunciano la totale rovina se la ribellione si concretizza.

UN MESSAGGIO OSTINATO IN FAVORE DELLA SOTTOMISSIONE
Molto chiaramente, egli si oppone agli altri profeti e ai responsabili del regno: mette in guardia i suoi ascoltatori contro coloro che predicano la ribellione, affronta il profeta Anania che, da parte sua, annuncia la liberazione dal giogo babilonese «entro due anni» (28,3). Scrivendo ai deportati di Babilonia, consiglia loro di prevedere un esilio lungo, di stabilirsi in terra straniera e di non ascoltare coloro che annunciano un rapido ritorno (c. 29).
Dopo la caduta di Gerusalemme e l'attentato contro Godolia, il governatore posto dai Babilonesi in Giuda, Geremia raccomanda ancora a un gruppo di Giudei atterriti dalle conseguenze di questo assassinio di rimanere nel paese e di «non temere il re di Babilonia» (42,10ss).

TRADITORE DELLA PATRIA O SEMPLICEMENTE PRAGMATICO
Ma è soprattutto al momento della caduta di Gerusalemme, nel 587, che il profeta appare ai suoi concittadini come un traditore. Durante un'interruzione dell'assedio,Geremia esce dalla città per raggiungere il suo villaggio. Anatot, dove deve sistemare una questione di eredità. Nel momento in cui attraversa la porta, una guardia ferma Geremia e gli dice: «Tu passi ai Caldei!» (37,11ss). Poco più tardi, alcuni ministri chiedono al re la testa del profeta: «Si metta a morte questo uomo perché egli scoraggia i guerrieri che sono rimasti in città»; e, afferratolo, lo gettano in una cisterna (38, 1-6). Dopo averlo liberato, Sedecia lo fa però guardare a vista. In breve, anche se non è stato il solo a prendere questa posizione, Geremia è apparso agli occhi dei Giudei conte il traditore per eccellenza.
La sua posizione era certo ben nota ai Babilonesi, come rivela il loro atteggiamento dopo la caduta di Gerusalemme: lo lasciano libero di circolare e Geremia resta nel paese con coloro che, come Godolia, avevano sostenuto la sottomissione a Nabucodonosor. Sfortunatamente, dopo l'assassinio di Godolia, le cose si metteranno male per lui, e sarà così costretto a fuggire in Egitto, oggetto di ogni critica (43,4-7).
L'atteggiamento di Geremia di fronte a Babilonia può sorprendere. Esso riflette la fedeltà del profeta alla fede d'Israele. Dio, padrone del mondo e della storia, ha un progetto per tutti i popoli: le loro relazioni, spesso tumultuose, devono servire a guidare Israele, il suo popolo eletto, verso il destino che Dio gli prepara. Il suo atteggiamento rivela ancora un’intelligenza politica improntata al pragmatismo, di fronte a un tentativo di ribellione completamente irrealistico.

EVOLUZIONE ULTERIORE DEL LIBRO DI GEREMIA
Gli avvenimenti storici hanno dato ragione a Geremia, squalificando le posizioni dei suoi avversari. Da allora, i suoi oracoli e i suoi interventi politici sono stati accuratamente tenuti in considerazione, come prova della legittimità religiosa della sua parola profetica. Ma nel libro di Geremia non si trovano solo le parole e le prese di posizione del profeta. Il suo libro ha continuato a vivere. I suoi discepoli ed epigoni, sempre messi a confronto con Babilonia, si sono trovati davanti ad altri problemi. Il popolo di Israele - i deportati, come gli altri rimasti nel paese - subì con forza la pressione del dominatore del momento.
L'atteggiamento verso Babilonia cambierà radicalmente. Non è del resto escluso che Geremia stesso abbia previsto un ulteriore castigo di questa grande potenza (cf 27,7: 25,26). Nel grande blocco degli oracoli contro le nazioni (Ger 46-51), gli ultimi due capitoli sono dedicati a questo. Al lamento che Israele rivolge al Signore sul comportamento di Babilonia, il Signore risponde: «Ecco, io difendo la tua causa, compio la tua vendetta» (51,36). L'idea di vendetta implica che Babilonia ha avuto torto in un certo momento: «Ha peccato contro il Signore!». Questo peccato dei popoli contro il Signore è un motivo classico: si tratta dell'orgoglio: «Eccomi a te, o arrogante» (50,31). Babilonia a sua volta dovrà dunque essere punita: «Ripagherò Babilonia di tutto il male che hanno fatto a Sion» (51,24). Così, le sorti di Sion e di Babilonia saranno sempre opposte, ma la loro posizione si ribalta. «Babilonia non è guarita... poiché la sua punizione giunge fino al cielo... il Signore ha fatto trionfare la nostra giusta causa: venite, raccontiamo in Sion l'opera del Signore, nostro Dio» (51,9-10).
IL tema del castigo di Babilonia ritorna più volte nei capitoli 50-51. In un primo momento sorprende il contrasto con le posizioni di Geremia. Questo paradosso riflette il radicamento della parola profetica nella realtà storica: gli avvenimenti hanno spostato i ruoli dei protagonisti, ma le due letture della storia partono dalla stessa fede in un Dio che si prende cura del suo popolo attraverso la mediazione degli attori della storia.

 



EZECHIELE: L’ESILIO E LA SPERANZA

Ezechiele, sacerdote del tempio di Gerusalemme, fa parte degli esiliati della prima deportazione nel 597. Non c'è motivo di mettere in dubbio le notizie del suo libro secondo le quali egli è vissuto in Babilonia, a Tel Abib, presso il fiume Kebar, vicino a Nippur.
Il suo libro contiene un buon numero di date o di allusioni che permettono di situarlo nel tempo. Così, non solamente egli ha atteso e annunciato la caduta di Gerusalemme, ma ha seguito le peripezie della lotta di Nabucodonosor per l'egemonia politica nel Vicino Oriente. Quanto all'ultimo oracolo datato del suo libro, è stato pronunciato il 26 aprile 571 e tratta delle controversie del re babilonese con Tiro e l'Egitto (29, 17-21). Ezechiele ha 52 anni. È sempre a Babilonia. Poi, se ne perdono le tracce.

EGIZIANI E CALDEI DI FRONTE ALLA PROSTITUTA GERUSALEMME  
Ezechiele ama gli affreschi storici in cui  Giuda e Israele sono gli attori principali.  La storia del suo popolo gli appare come  una sequenza di infedeltà al Signore, che  si manifesta con la ricerca di legami politici e religiosi con le grandi potenze  dell'epoca. L'Egitto non appare come «l'amante» più ricercato? Anche gli Assiri sono ricordati, ma il loro potere è scomparso da tempo. Sono dunque i Caldei di Babilonia che si contendono, insieme all'Egitto, la prostituta Gerusalemme. Con questa chiave giuridico-politica il profeta esprime i rapporti tra Giuda e il potere babilonese (Ez 16,29; 23,14-18).

L'INFEDELTÀ Dl GIUDA AL GIURAMENTO DATO
Aldilà dello sfavillio delle immagini più o meno scabrose, il fondo del problema è politico e religioso. Il capitolo 17 di Ezechiele è un modello di questo genere. All'inizio è il simbolo dell'albero piantato dalla grande aquila per mostrare la situazione di vassallaggio di Giuda nei confronti dei Babilonesi dopo la prima deportazione e i tentativi di rivolta del re di Gerusalemme che volge all'Egitto.
Giuda ha prestato, di buono o cattivo grado, un giuramento di fedeltà al re di Babilonia, facendo Dio testimone e garante della sua fedeltà. I suoi tentativi di ribellione manifestano la sua infedeltà alla parola data al re di Babilonia, ma anche al Signore, suo testimone e garante. Così, è il Signore stesso che è messo allo scoperto. Gli tocca punire l'infedele: «Lo porterò a Babilonia [= il re di Gerusalemme] e là lo giudicherò per l'infedeltà commessa contro di me» (17-20b). Inutile dire clic Nabucodonosor, di fronte all'infedeltà del suo vassallo, ha anche lui voluto dare un castigo!
Questo testo non è datato. Ma si sa che gli inviati dei paesi vicini a Giuda si sono riuniti a Gerusalemme nel 593, per liberarsi dal giogo babilonese. Ora, è proprio nel 593 che Ezechiele pone l'inizio del suo ministero profetico (1,2). È dunque in un momento di grave crisi che il Signore manda il suo profeta per fare un estremo tentativo di evitare la catastrofe.

BABILONIA, STRUMENTO DELLA COLLERA DI YHWH
Ezechiele, biasimando le scelte dei responsabili di Gerusalemme e l'infedeltà di Giuda, giustifica in qualche modo la reazione di Nabucodonosor. Ma la visione del profeta non può ridursi a questo aspetto.
Tutta la prima parte della sua predicazione (fino al momento della caduta di Gerusalemme) è consacrata a denunciare le colpe del suo popolo. I capitoli 8-11 ne sono il quadro più avvincente. L'idolatria è dipinta con una forza e una fantasia sorprendente. Poi, al capitolo 22, è tutta la società gerosolimitana ad essere denunciata per la sua ingiustizia: la città è corrotta, senza prospettive.
Il castigo è inevitabile: «Il Signore disse: Seguitelo attraverso la città e colpite. Il vostro occhio non perdoni, non abbiate misericordia! (...) Neppure il mio occhio avrà compassione e non userò misericordia: farò ricadere sul loro capo le loro opere» (9,5ss). Il legame tra il castigo meritato da Giuda e l'azione di guerra di Nabucodonosor diventa ben presto più esplicita: «Nella sua [del re] destra è uscito il responso: Gerusalemme, per far udire l'ordine del massacro, echeggiare grida di guerra... Perciò dice il Signore: Poiché voi avete fatto ricordare le vostre iniquità, rendendo manifeste le vostre trasgressioni e palesi i vostri peccati in tutto il vostro modo di agire, voi resterete presi al laccio» (21,27-29). E più avanti: «I figli di Babilonia e di tutti i Caldei... verranno contro di te (...). Deporteranno i tuoi figli e te tue figlie e ciò che rimarrà di te sarà preda del fuoco» (23,23.25).

LA RICOMPENSA DEL RE DI BABILONIA
Che il re di Babilonia sia lo strumento della collera del Signore, o che egli abbia il diritto di punire Giuda per la sua infedeltà, questo a rigore lo si può capire. Ma Ezechiele va oltre. Nel suo ultimo intervento datato, il profeta presenta un oracolo sconcertante. Promette l'Egitto al re di Babilonia: «Per l'impresa compiuta io gli consegno l'Egitto, perché l'ha compiuta per me. Oracolo del Signore» (29,20). Inutile dire che i Giudei deportati hanno dovuto far fatica ad accettare una simile visione delle cose!

LA GLORIA DI DIO HA SEGUITO IL SUO POPOLO IN ESILIO
Ma il Signore non abbandona i deportati. Essendosi manifestata a lui la Gloria di Dio, è a Babilonia che Ezechiele ha saputo di essere stato chiamato al ministero profetico (Ez 1,1-3,15). La Gloria di Dio è a Babilonia: Ezechiele l'ha vista, in una visione grandiosa, lasciare la sua casa, il Tempio di Gerusalemme (8.11), e questo è avvenuto ancora prima che Gerusalemme cadesse, tra le due deportazioni. Coloro che sono rimasti in Giuda sono certi che Dio è con loro, nel suo Tempio, mentre gli esiliati soffrono duramente la loro lontananza dal Signore. Ora, Ezechiele, con le sue visioni come con il racconto della sua vocazione, mostra che è una concezione falsa: «Se li ho dispersi in terre straniere, sarò per loro un santuario per poco tempo nelle terre dove sono emigrati» (11,16).
Tuttavia, l'orizzonte non si chiude, per il profeta, nel paese della deportazione. Le prospettive di ritorno sono spesso enunciate. Ma soprattutto, a partire dalla caduta di Gerusalemme, tutto cambia. Ezechiele diventerà il cantore della speranza. Con lo stesso vigore con cui aveva annunciato il castigo, predicherà la salvezza per Israele. La vita del popolo è assicurata nella affascinante visione delle ossa aride che riprendono vita (Ez 37), il ritorno della Gloria di Dio è annunciato.

UN'IMMAGINE POSITIVA CHE NIENTE INTACCHERÀ
Babilonia ha incontestabilmente un ruolo positivo nel pensiero di Ezechiele: come potenza politica, ma soprattutto come il paese da cui uscirà Israele, in un nuovo ed autentico esodo. Questa visione è così forte che, diversamente che in Geremia, non si trova un oracolo contro Babilonia nel blocco «oracoli contro le nazioni» del libro di Ezechiele. E niente nemmeno nel suo libro che, venendo dalla sua scuola, dai suoi successori, abbia attenuato il ritratto positivo di Babilonia che egli aveva tracciato. Sui questo tema, non ci sono state, da parte dei discepoli, aggiunte o sviluppi in funzione delle nuove circostanze. Questo è tanto più notevole in quanto il libro testimonia molte riletture e aggiunte, che talvolta deformano il testo fino a dare del Profeta un'immagine patologica. Ma l'immagine Positiva di Babilonia rimane intatta.

 



IL SECONDO ISAIA: L’ANNUNCIO DELLA LIBERAZIONE

Non c'è più praticamente nessuna discussione circa la paternità dei capitoli 40-55 del libro di Isaia comunemente chiamato Secondo Isaia o Deutero-Isaia. Non è il profeta conosciuto sotto questo nome, autore dei capitoli precedenti, che era vissuto nell'VIII secolo. Il Secondo Isaia, anonimo, ha esercitato il suo ministero profetico tra il 550 e il 520. Come dire che è stato il testimone degli ultimi anni dell'impero babilonese e della speranza suscitata in tutto il Vicino Oriente dall'arrivo al potere del persiano Ciro. In tale contesto si deve situare Babilonia nei suoi oracoli.
Gli oracoli su Babilonia sono poco numerosi. Le menzioni esplicite si trovano nella prima parte (40-48) il cui asse essenziale è costituito dall'annuncio della liberazione degli esiliati e del ritorno nel paese. La seconda parte (49-55) tratta principalmente della restaurazione di Gerusalemme.

«COSÌ DICE IL SIGNORE,  VOSTRO REDENTORE»  
L'annuncio della caduta di Gerusalemme  si trova in un breve oracolo in 43, 14-15:  «Così dice il Signore, vostro redentore, il  Santo di Israele: per amor vostro, l'ho  mandato contro Babilonia e farò scendere tutte le loro spranghe e quanto ai Caldei muterò i loro clamori in lutti». Si può  accostare a questo testo un altro versetto, anche se Babilonia non vi appare direttamente: «A terra è Bēl (uno dei nomi di  Marduk), rovesciato è Nebo... ed essi se ne vanno in schiavitù» (46,1-2). Così il  movimento della storia provocherà la caduta di Babilonia: una lieta notizia per gli  esiliati!  
Questa caduta, i capitoli 40-80 l'annunciavano già: era come instancabile invito alla fede e alla speranza. Non era evidente per i deportati credere che Dio volesse fare ancora qualcosa per loro, che aveva punito così pesantemente. Il Deutero-Isaia si adopererà per convincerli. Da una parte ricorderà le meraviglie che il Signore ha compiuto nel passato a favore di Israele, e in modo particolare l'esodo. Colui che ha fatto, farà. Farà addirittura delle azioni ancora più sorprendenti in favore di Israele, suo servo. Dall'altra, l'argomento cosmologico avrà un ruolo importante: il Creatore dell'universo continua ad agire nella storia. È il Dio di Israele. Egli è il padrone degli avvenimenti, li conduce secondo il suo disegno. E il profeta insiste a più riprese sulla volontà di questo Dio onnipotente.

BABILONIA PUNITA PER IL SUO ORGOGLIO E LA SUA MAGIA
In questo contesto, ancora una volta in modo indiretto, il posto che Ciro assume nel libretto è molto significativo. Il percorso di questo conquistatore fu tanto straordinario quanto folgorante. Geremia aveva, a nome del Signore. chiamato Nabucodonosor «mio servo». Ezechiele aveva annunciato la ricompensa data a questo stesso re pagano dal Signore per i servizi resi. Il Secondo Isaia si volge verso un altro personaggio. Il servo del Signore è ora Ciro, il Persiano. È lui che realizzerà la liberazione del suo popolo.
Il posto che Ciro occupa nel libretto dei Deutero-Isaia è tanto più interessante in quanto i testi del conquistatore attribuiscono le sue vittorie a Marduk, il dio babilonese. La lettura della storia non è univoca.
Il profeta arriverà fino al punto di pronunciare una sorta di lamento su Babilonia vinta. Ma egli non si dilunga sulla sua caduta. Strumento della collera del Signore contro il suo popolo, Babilonia ha superato i limiti della sua missione: la sua mano fu troppo dura e il suo orgoglio smisurato: «Tu pensavi: Sempre io sarò signora, sempre... Eppure dicevi nel tuo cuore: Io e nessuno fuori di me» (14,7-8,10). Fatale errore: ella, la sovrana, lavorerà come una schiava: ella che aveva lasciato tante donne vedove e senza figli, eccola improvvisamente vedova e senza figli.
A questi motivi classici si aggiunge un capo d'accusa poco frequente negli oracoli contro le nazioni. Babilonia è accusata di avere una forte propensione per i sortilegi e la magia, il che aggrava considerevolmente la sua situazione.

«USCITE DA BABILONIA, FUGGITE DAI CALDEI»
Il ruolo di Babilonia nei confronti del popolo del Signore è esaurito. Dopo aver annunciato il castigo che ha meritato per i suoi eccessi, il profeta può cantare il ritorno, l'uscita, l'esodo: «Ecco, faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa... per dissetare il mio popolo, il mio eletto» (43,16-21). E dopo questi preparativi: «Uscite da Babilonia, fuggite dai Caldei, annunziatelo con voce di gioia... Il Signore ha riscattato il suo servo Giacobbe» (48,20). Il cammino di Israele è così compiuto.
La politica di Ciro fu generosa e abile. Il suo editto del 538 permette ai Giudei che lo desideravano di ritornare a Gerusalemme. Da quel momento, Babilonia sparisce dall'orizzonte del Secondo Isaia. Gerusalemme ritorna ad essere «la Città della Santità»: «... perché più numerosi sono i figli dell'abbandonata» (54.1)

DALLA REALTÀ STORICA AL SIMBOLO
I profeti sono gli interpreti del presente alla luce della fede di Israele. Le loro posizioni sono ispirate da un principio teologico di base: Dio è presente nella storia, Egli la guida. Ma l'interpretazione di questa storia richiede un grande discernimento: in caso contrario, questo principio applicato in modo troppo meccanico porrebbe togliere all'uomo le sue responsabilità o far identificare troppo rapidamente ogni avvenimento con l'intervento di Dio. Al contrario, interpreti del presente, Geremia, Ezechiele e il Secondo Isaia sono con discernimento e intelligenza politica. Vedendo in Babilonia lo strumento della collera di Dio contro il suo popolo, vanno contro ogni rigido nazionalismo. Tuttavia, quando le circostanze cambiano, anche le loro posizioni si evolvono: il libro di Geremia è il testimone esemplare di questi contrasti.
A partire da questo vissuto storico, Babilonia diventerà a poco a poco il simbolo dell'oppressione che Israele ha subito nella storia. Una serie di oracoli contro Babilonia si troveranno inseriti posteriormente anche nella prima parte del libro di Isaia, integrata in un insieme di «oracoli contro le nazioni» (13-14, 23; 21, 1-10).
Ma è sopratutto nel libro di Daniele che Babilonia diventa, nei racconti come nelle visioni, il simbolo della potenza politica ostile al popolo eletto. Siamo così preparati a comprendere come mai, nell’immaginario cristiano, Babilonia venga ad essere il simbolo del male, come si vede nel libro dell'Apocalisse, fino agli Esercizi di Ignazio di Loyola...


(da Il mondo della Bibbia n. 20)

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