Verità della Bibbia
di Gaetano Castello
La morale cattolica ha conosciuto una dottrina della guerra giusta, codificata in tutti i manuali di teologia morale e in tutti gli interventi della S. Sede dalla fine del XVI sec. fino al concilio Vaticano II. Con il concilio tale dottrina viene dismessa, al più alto livello magisteriale.
La prova e l'obbedienza
a cura di Mario Maritano
Ambrogio, discendente di una nobile famiglia romana, nato a Treviri (337/339) diede ottima prova di sé come consularis Liguriae et Aemiliae, cioè come governatore dell'ltalia settentrionale con sede a Milano. Così, pur essendo ancora catecumeno, fu acclamato vescovo di Milano dal popolo, quando egli intervenne per sedare i tumulti alla morte del suo predecessore nel 374. Iniziando il suo ministero episcopale, egli distribuì i suoi beni ai poveri, si dedicò ad una vita ascetica e si applicò agli studi teologici. Svolse un'intensa attività pastorale, sociale, a favore dei più poveri. Si rivelò abile e deciso soprattutto nel difendere la religione cattolica contro i pagani e gli eretici; affermò l'indipendenza della Chiesa di fronte allo Stato. Scrisse molte opere esegetiche, dogmatiche, morali-ascetiche, discorsi, lettere e inni.
Nel suo libro De Abraham, Ambrogio presenta la figura del patriarca come un modello di vita cristiana (ricordo che il vescovo di Milano in quest'opera si rivolge ad adulti che dovranno ricevere il battesimo). Abramo, nel suo peregrinare e nel suo agire in piena fiducia e obbedienza a Dio, diviene il modello del cristiano che progredisce spiritualmente, abbandonando una vita frivola e peccaminosa, e nelle prove e nelle tentazioni si mantiene fedele a Dio.
La prova e l'obbedienza
1,2,4. Abramo è messo alla prova come un uomo forte, è incoraggiato come un uomo fedele, stimolato come un uomo giusto e quindi "partì, secondo la parola del Signore e con lui partì Lot" (Gen 12,4). È ciò che si proclama tra le sentenze dei sette sapienti: "épou Theô", cioè "segui Dio".
Abramo con i fatti anticipò le sentenze dei sapienti, e, seguendo il Signore, uscì dalla sua terra. Ma poiché la sua terra precedentemente era un'altra, cioè la regione dei Caldei, dalla quale uscì Terach, padre di Abramo, che migrò a Carran, e poiché Abramo condusse
via con se suo nipote, mentre gli era stato detto: "Esci dalla tua parentela", (Gen, 12,1) consideriamo se per caso "uscire dalla sua terra" non significhi uscire da questa terra, cioè dalla dimora del nostro corpo, da cui uscì Paolo, che disse: "La nostra patria è nei cieli" (FiI 3,20), e dalle attrattive e dai piaceri del corpo, che - disse - sono come congiunti della nostra anima, la quale necessariamente soffre insieme al corpo, finché rimane ad esso strettamente vincolata. Perciò dobbiamo uscire dal modo di vivere terreno, dai piaceri mondani, dalle abitudini e dalle azioni della vita passata, in modo che cambiamo non solo i luoghi, ma anche noi stessi. Se desideriamo unirci a Cristo, abbandoniamo le cose corruttibili (1,2,4).
1,8,66. Dio mise alla prova Abramo quando gli ordinò di uscire da Carran e lo trovò obbediente. Lo mise alla prova quando Abramo liberò il nipote confidando nella forza della fede, quando non prese nulla del bottino (di guerra), quando Dio promise a lui, ormai vecchio, un figlio - infatti avendo egli cento anni, sebbene considerasse ormai inariditi gli organi di riproduzione di Sara, tuttavia credette e non ebbe esitazioni grazie alla fede, sebbene potesse averne a causa della sterilità e della vecchiaia (della moglie) -, lo mise alla prova sollecitando la sua ospitalità. Dopo averlo così provato, Dio reputò Abramo più forte nel sopportare ordini più impegnativi e più pesanti.
Da questo esempio impariamo che una persona è messa alla prova da difficoltà reali, è tentata invece da difficoltà create appositamente e fittizie. Dio infatti non voleva che il padre immolasse il figlio, ne che facesse questa offerta, dato che procurò una pecora da sacrificare invece del figlio, ma tentava Abramo nel suo affetto di padre (cf Gn 22,1-18), per vedere se anteponesse i comandi di Dio al figlio e diminuisse la forza della sua devozione, in considerazione del suo affetto paterno.
Ambrogio, Abramo 1,2,4 e 1,8,66
Immagini di Abramo
nel Nuovo Testamento
Citato 73 volte nel Nuovo Testamento contro le 80 di Mosè e le 59 di Davide, Abramo è una delle più importanti figure cristiane. Lo era già negli scritti ebraici della stessa epoca. Alcune tradizioni neotestamentarie non fanno che riprendere tratti del personaggio già chiari nel giudaismo antico, trasformandoli solo in parte. Tuttavia un autore come Paolo fa del patriarca una figura originale, poco compatibile con le letture ebraiche: Abramo è per lui il giusto per fede, quindi la persona che crede in Gesù Cristo.
Le tradizioni antiche che soggiacciono al Nuovo Testamento sono difficili da individuare, perché esse sono state rimaneggiate dai redattori. Indipendentemente dall’apporto dei redattori finali e delle loro accentuazioni teologiche, tuttavia possiamo ricostruirne alcune, le cui radici affondano nel giudaismo e senza troppi rischi farle risalire a Gesù. Per un ebreo, come per un cristiano del I secolo, Abramo è l’antenato, il padre del popolo di Israele, e la paternità è inoltre una qualità che egli condivide con Dio. Egli è citato per primo nella linea dei patriarchi, perché Dio si dichiara il "Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe", formula recepita da Mosè nel roveto ardente e spessissimo ripresa in seguito (Es 3,16, citato in Mt 22,32 e paralleli; At 3,13; 7,32). Se ha lasciato il suo paese di origine, è stato per fondare un popolo e radicarlo in una terra (Gn 12,1 citato in At 7,2; Eb 11,8); i figli di Abramo formano in realtà il popolo destinatario delle promesse divine. I due cantici del vangelo dell’infanzia secondo Luca, quello di Maria e quello di Zaccaria, immersi in un’atmosfera anticotestamentaria, ricordano l’impegno che Dio si assunse di fronte ad Abramo con il popolo che doveva nascere da lui (Lc 1,55.73).
Ne consegue che ogni ebreo è figlio di Abramo, e che ogni ebrea ne è la figlia, come la donna curva che Gesù guarisce in giorno di sabato (Lc 13,16). Nelle due genealogie di Gesù, pur diverse l’una dall’altra, Abramo è citato come antenato del bambino (Mt 1,1-17; Lc 3,34). Se Matteo sfrutta l’informazione per insistere sull’appartenenza di Gesù al mondo ebraico, Luca, che la utilizza poco in questa direzione, tuttavia la fornisce;. essa fa parte del dato tradizionale cristiano. Non bisognerebbe tuttavia pensare che la filiazione da Abramo si riduca ad una situazione di fatto. Un ebreo del I secolo sa che essa è anche un divenire, e che non ci si può dichiarare figli di Abramo se non si vive della Torâ. L’alleanza stipulata con i patriarchi produce i suoi effetti soltanto se l’ebreo accetta questi padri come modelli. In vari momenti della sua crescita, l’albero dell’alleanza che ha le sue radici in Abramo ha avuto rami secchi, tra cui quelli che sono nati da Ismaele e da Esaù (At 3,25; Rm 9,7). Il primo libro dei Maccabei può scrivere: "Ricordate le gesta compiute dai nostri padri ai loro tempi e ne trarrete gloria insigne e nome eterno. Abramo non fu forse trovato fedele nella tentazione e non gli fu ciò accreditato a giustizia?" (1 Mac 2,51-52).
I vangeli testimoniano le polemiche innescate a questo proposito con alcuni ebrei, sia da parte di Giovanni Battista che di Gesù (Mt 3,9 e parallelo; Gv 8,33-40). Non basta rivendicare per padre Abramo, bisogna vivere di conseguenza. Certi paria, come Zaccheo, si rivelano veramente "figli di Abramo", mentre questo titolo era loro negato da altri che, a torto, si consideravano più qualificati di lui a portarlo (Lc 19,9).
Antenato, origine, il padre Abramo è anche naturalmente colui che accoglie i suoi figli al termine del loro cammino. Con Isacco e Giacobbe egli presiederà al banchetto escatologico cui non dà diritto la nascita (Mt 8,11; Lc 13,28). E il seno di Abramo è il luogo in cui si ritrova il povero Lazzaro della parabola (Lc 16,22-30) mentre il ricco indifferente alla sua povertà ne è escluso. Questi luoghi escatologici del vangelo legati ad Abramo sono attestati nel giudaismo rabbinico (Esodo Rabba 25; Pesiqta Gabbati 43, 108b; b. Qiddušîn 72ab). Essi corrispondono ad immagini forse comuni nel giudaismo del I secolo, benché nessun altro testo ebraico, al di fuori dei vangeli, le riecheggi direttamente.
La rivoluzione paolina:
Abramo senza Mosè
Se la figura paterna di Abramo presentata dagli evangelisti e dagli Atti degli Apostoli si inserisce, nel suo complesso, in continuità con le tradizioni ebraiche dell’epoca, non si può dire lo stesso del modo in cui Paolo tratta il patriarca. Il testo del primo libro dei Maccabei, citato prima, presenta in realtà Abramo come un modello di giustizia, ma questa giustizia gli è valsa perché è stato fedele nella prova. La prova di cui si parla è quella del sacrificio, detto anche l’Aqeda (la legatura) di Isacco riferita al capitolo 22 della Genesi. È accettando di offrire in sacrificio l’unico figlio che Abramo, nelle tradizioni ebraiche più attestate, si è rivelato giusto e fedele. Anche il Nuovo Testamento è un’eco di questo nella lettera di Giacomo e nella lettera agli Ebrei (Eb 11,17): se Abramo fu considerato giusto, non fu per la sua sola fede, ma anche per le sue opere. La lettera di Giacomo scrive: "Abramo, nostro padre, non fu forse giustificato per le opere, quando offrì Isacco, suo figlio, sull’altare?" (Gc 2,21). Per questo meritò il bel titolo di "amico di Dio" (Gc 2,23; Co-rano 4,125).
Quando scrive questo, Giacomo testimonia una consolidata tradizione ebraica. Il suo testo è tuttavia segnato dalla polemica che conduce contro Paolo, che aveva della giustizia di Abramo una visione del tutto diversa. Per l’apostolo delle genti, il versetto biblico su cui si fonda principalmente la giustizia di Abramo è al capitolo 15 della Genesi: "Egli credette al Signore, che glielo accreditò come giustizia" (Gn 15,6), ben prima nel racconto della scena dell’Aqeda.
L’apostolo dedica ad Abramo due lunghi sviluppi, uno nell’epistola ai Galati (3,6-29), dove, rivolgendosi ad un pubblico tentato di sommare i comandamenti della Tora alle esigenze della vita in Cristo, Paolo insiste sul fatto che Abramo è colui che riceve le promesse divine, che queste promesse riguardano "la sua discendenza", e che il termine "discendenza" designa direttamente Cristo. Il termine "discendenza" è in realtà al singolare nel testo ebraico di Gn 12,7, come nella Settanta (Ga13,16). Cristo è dunque l’erede delle promesse fatte ad Abramo. La legge di Mosè, venuta "quattrocentotrenta anni" dopo il patriarca (Gal 3,18), non può annullare queste promesse. Di conseguenza, i comandamenti della legge ebraica non hanno peso nel processo di giustificazione del credente.
Nell’epistola ai Romani (4,1-16), gli accenti sono leggermente diversi, benché il messaggio sia complessivamente lo stesso. Paolo ricorda che Abramo fu dichiarato giusto dalla Scrittura subito dopo che Dio gli ebbe annunciato una discendenza numerosa come le stelle del cielo, nel capitolo 15 della Genesi (Gn 15,5-6). La circoncisione, figura della legge che sarebbe venuta attraverso Mosè, fu imposta da Dio soltanto più tardi, nel capitolo 17 dello stesso libro (Gn 17,10-14); ed egli superò la prova di essere stato pronto a sacrificare il figlio ancora più tardi, in Genesi 22. In altre parole: Dio dichiarò che Abramo era giusto indipendentemente dalla legge e indipendentemente dalla sua obbedienza. Non circonciso, Abramo era ancora in un certo senso pagano quando Dio lo dichiarò giusto. Questi eventi sono il fondamento della convinzione paolina che la giustizia di Dio è destinata a tutti – ebrei e pagani – grazie alla loro fede, indipendentemente dalla legge ebraica.
Il lettore moderno può essere fuorviato da questo modo di ragionare che gioca su dei particolari del testo biblico; esso è tuttavia perfettamente in linea con i criteri esegetici ebraici applicati nel I secolo. Un rabbi contemporaneo di Paolo avrebbe potuto discutere con lui di questi risultati, ma non contestare questo metodo di lettura. In un certo senso, il modo di ragionare paolino è anche straordinariamente moderno perché, nella lettera ai Romani come in quella ai Galati, Paolo tiene conto della relazione cronologica tra gli eventi: la legge è venuta dopo la promessa (mentre varie correnti del giudaismo del I secolo ritenevano che già Abramo e perfino Adamo praticassero la Tora); la giustizia del patriarca fu dichiarata dal testo sacro prima che fosse prescritta la circoncisione e prima che si fosse verificata l’Aqeda di Isacco. Prime da un punto di vista cronologico, la promessa e la giustizia nate dalla fede hanno la precedenza sugli altri eventi della storia della salvezza.
Si comprenderà così come molti ebrei non possano seguire Paolo sul suo stesso terreno, perché questo li condurrebbe a svalutare l’osservanza della Torâ, tesoro donato da Dio al popolo d’Israele. In questo, Paolo è uno dei maggiori artefici della futura frattura fra giudaismo e cristianesimo.
Una figura complementare:
Abramo, l'ebreo, sottomesso a Gesù
Non si potrebbe chiudere questa carrellata senza presentare due altri lunghi passaggi del Nuovo Testamento che mettono in scena Abramo, entrambi successivi alle lettere di Paolo: uno si trova nella lettera agli Ebrei, l’altro nel vangelo di Giovanni. Oltre alla sezione sulla fede di Abramo in cui l’autore considera due momenti importanti della vita del patriarca, e cioè la sua partenza dalla terra d’origine e il suo sacrificio (Eb 11,8-19), la lettera agli Ebrei ne ricorda un altro: l’incontro con il re sacerdote Melchisedek (Eb 7,1-9). L’autore utilizza qui la tipologia. Melchisedek è typos di Cristo; il suo sacerdozio prefigura il sacerdozio della nuova alleanza. Quanto ad Abramo, egli è l’antenato di Levi, portatore lui stesso del sacerdozio ebraico. Ora il testo afferma che Abramo attribuì a Melchisedek "la decima di tutto", lo considerò cioè suo superiore e si sottomise a lui (Gn 14, 17-20). Trasferendo questo al rapporto tra Gesù e i sacerdoti ebrei, l’autore della lettera ne deduce la superiorità del sacerdozio di Cristo sul sacerdozio levitico, benché Gesù non fosse appartenuto, secondo la legge ebraica, ad una famiglia sacerdotale. Gesù corrisponde a Melchisedek, Abramo a Levi.
Di redazione ancora più tardiva, il vangelo di Giovanni dedica un lungo passaggio ad una polemica tra Gesù e coloro che l’evangelista chiama "i Giudei", nella quale interviene la figura di Abramo (Gv 8,33-58). Questi ultimi affermano all’inizio della discussione: "Il nostro padre è Abramo" (v. 39). Sino a questo punto, non è che una discussione diffusa, già richiamata, sul diritto di qualcuno di rivendicare Abramo per padre. La sfumatura propriamente giovannea si precisa tuttavia lungo lo svolgimento del racconto. Alcuni versetti più avanti, Gesù dichiara: "Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò" (v. 56); poi: "In verità in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io sono" (v. 58). Dichiarazione che i suoi interlocutori considerano blasfema e a conclusione della quale raccolgono pietre per scagliarle contro l’empio. Come appare da questo complesso sviluppo, il personaggio di Abramo cambia statuto: dalla figura paterna che è all’inizio della discussione, diventa una figura profetica la cui funzione è testimoniare la preesistenza del Figlio e di rallegrarsi della sua venuta.
Queste due ultime figure, presentate rispettivamente dalla lettera agli Ebrei e dal vangelo di Giovanni, hanno in comune che Abramo è sottoposto a Cristo: sottoposto attraverso la sua riverenza verso Melchisedek (Eb), sottoposto grazie alla gioia che egli prova nel "vedere" colui il cui nome è "Io sono" (Gv).
Modello per il credente di ogni origine (ebreo o pagano) secondo Paolo, Abramo avrebbe potuto diventare nel pensiero cristiano una pura figura di universalismo. Testi posteriori alle lettere paoline, e in particolare i vangeli di Matteo e di Giovanni come pure la lettera agli Ebrei, lo reinseriscono tuttavia nel giudaismo, col rischio di ridurne in parte la statura. Questa diversità ristabilisce un felice equilibrio. Paolo sceglie Abramo piuttosto che Mosè, Matteo al contrario valorizza Mosè e la sua legge. Giovanni tratta il patriarca come un profeta.
Gli autori del Nuovo Testamento si impadroniscono delle figure dell’Antico con grande libertà, contribuendo tutte a delineare i tratti di colui in cui essi trovano la loro pienezza, cioè Gesù Cristo.
C'è da chiedersi: quali persone possono significativamente abitare questa stagione del "ritorno del sacro"? La risposta pare scontata: i "pellegrini dell'Assoluto".
Raccontare e ascoltare racconti non è allora un simpatico diversivo, ma è nutrirsi di ciò che ci fa vivere in verità: il conformarsi al disegno di Dio sull'uomo...
Ghislain Lafont è, specialmente in ambito italiano, uno dei teologi cattolici più noti del panorama attuale.
lo accolgo teIl nuovo Rito del matrimonio.La benedizione di Dio precede la scelta della coppiadi Andrea Grillo
L'occasione della traduzione e dell'adattamento del nuovo rito del matrimonio, presentato nel corso del convegno organizzato dalla Conferenza episcopale italiana (CEI) su "Celebrare il "mistero grande" dell'amore" (Grosseto, 4-6.11.2004), ha offerto alla Chiesa italiana l'opportunità di una rilettura complessiva dell' intera struttura rituale del sacramento, riconsiderando anche l'impatto ecclesiale e culturale che tale celebrazione determina sulla coscienza cristiana dei battezzati. Annotiamo anzitutto i contenuti fondamentali dell'importante Presentazione che la CEI ha premesso al testo, illustrandone i criteri d'adattamento.
Criteri di adattamento
Il significato specificamente cristiano del matrimonio. Il matrimonio sacramento, proprio con l'assumere un'esperienza umana elementare come l'unione di maschio e femmina, l'eleva a sacramento perché ne fa il simbolo reale che contiene e manifesta l'unione di Cristo con la Chiesa, ossia la nuova alleanza. Tale peculiarità è stata promossa dal nuovo rituale con una più ampia e specifica scelta di testi, nonché con una più attenta relazione con la celebrazione eucaristica (cf. n. 4).
La dimensione ecclesiale del sacramento del matrimonio. Nell'esperienza degli sposi e della famiglia il dono della salvezza viene accolto e trasmesso come mistero della Chiesa. Così la coppia nello stesso tempo si radica nella Chiesa e diventa luogo di nascita dell'esperienza ecclesiale. Per questo è giusto sottolineare che "il consenso degli sposi è la risposta a una parola d'amore che in quanto proveniente da Dio li precede" (cf. n. 5).
La presenza dello Spirito nel matrimonio cristiano. Un nuovo accento proviene dalla sottolineatura dell' opera dello Spirito Santo, che ora nella preghiera di benedizione nuziale può essere collocata immediatamente dopo il consenso, come riconoscimento dell' iniziativa di Dio, cui le parole degli sposi rispondono e corrispondono, quasi come in seconda battuta, perché consapevoli di lasciare al Dio di Gesù Cristo la prima parola, che la Chiesa ascolta e cui può solo rispondere (n. 6).
La gradualità nel cammino di fede e nell'esperienza di Chiesa. Se già l'edizione latina del nuovo rito prevedeva una differenziazione tra celebrazione nella messa e "senza la messa", per coppie che non hanno maturato un chiaro orientamento cristiano, affinché ciò non venisse percepito come una forma diminuita e debole, si è preferito costruire un rito "nella celebrazione della Parola" che non fosse semplicemente il frutto di una sottrazione. Si tratta invece di una sequenza rituale più semplice e dal linguaggio più immediato, che esplicita con maggior forza la memoria del battesimo e il desiderio dell'eucaristia (cf. n. 7).
La ministerialità degli sposi nella celebrazione. Gli sposi, in quanto ministri del sacramento, sia pure in correlazione con colui che presiede la celebrazione, partecipano in modo attivo a tutta quanta la celebrazione. È previsto, perciò, che in diversi momenti di essa (processione al fonte battesimale, venerazione del Vangelo, formule del consenso e della benedizione, presentazione delle offerte) gli sposi assumano un ruolo attivo in particolari sequenze della celebrazione sacramentale (cf. n. 8).
Tutto ciò costituisce quasi l' orizzonte generale di una serie di interventi che hanno introdotto alcuni elementi di novità assai importanti nella celebrazione del sacramento del matrimonio. Divideremo le nostre osservazioni sul piano delle sequenze rituali e sul piano dei testi eucologici, cogliendo solo alcune delle potenzialità pastorali di queste novità testuali, sempre collocandole nella luce dei cinque criteri di cui sopra.
I riti
Memoria del battesimo e processione al fonte battesimale. Bisogna notare che anche il rito del matrimonio in senso stretto comincia da una "ripresa": è come se la coppia, sul punto di accingersi a pronunciare il proprio sì, si disponesse a far memoria di quell'altro "sì", che ognuno dei coniugi ha già sentito pronunciare su di sé, e cui ha già cominciato a rispondere, trovandosi così collocato nella relazione ecclesiale con Cristo e, per Cristo, con il Padre, nello Spirito. Anche il fatto che, quando possibile, si possa svolgere una "processione al fonte" battesimale costituisce un rafforzamento, di carattere spaziale e corporeo, di questo dislocamento verso un prima che fonda e promuove il "qui e ora" del nuovo rito (cf. nn. 51-60).
Rapporto di intimità tra consenso e benedizione. Con significato ancora più intenso, risuona la breve annotazione della rubrica n. 79. La formulazione deve essere compresa leggendo la in parallelo a quanto stabilito dalla Presentazione CEI al n. 6. Ossia, anche quando si celebra l' eucaristia, è possibile che consenso e benedizione si succedano in stretta continuità, proprio per far apparire, in modo ancora più chiaro, la relazione stretta tra il sì degli sposi e il preveniente sì di Dio per Cristo nello Spirito. Questo piccolo dettaglio può contribuire non poco alla ricomprensione del rapporto tra sacramento del matrimonio, battesimo e vita della Chiesa nello Spirito, orientando a tale orizzonte la preparazione da parte della comunità e l'esperienza di vita da parte dei coniugi.
Preghiera dei fedeli e litanie dei santi. Di grande rilievo deve essere poi considerato il ruolo dell'invocazione dei santi (preghiera litanica), che può essere inclusa nella preghiera dei fedeli. Il ruolo del matrimonio come "luogo ecclesiale originario" non può mancare di un forte richiamo alla comunione dei santi. Per la nuova famiglia non si tratta soltanto di inserirsi nella preghiera che la Chiesa fa per tutti, ma di vivere la comunione con i santi che intercedono per la Chiesa e per la coppia (cf. n. 81).
Le preghiere
Diversificazione delle formule del consenso. Bisogna osservare che la logica dell'iniziazione cristiana ha portato il nuovo rito alla necessità di alcune esplicitazioni, come la sostituzione del verbo "prendo" con il verbo "accolgo" e l'introduzione, prima dell'espressione delle promesse matrimoniali, della locuzione teologica "con la grazia di Cristo" (o "con la grazia di Dio" per la seconda formula). Anche tale seconda novità costituisce un chiaro segno della crescita di coscienza ecclesiale circa il primato della grazia di Cristo sul senso sacramentale del consenso matrimoniale, che verrà poi ribadito con ancor maggior forza dalla contestuale preghiera di benedizione.
Introduzione della formula dialogica. Di grande interesse appare poi la forma dialogata con cui il consenso viene scambiato tra i due sposi, senza mai perdere di vista, anche in questo caso, che il semplice scambio tra i coniugi non sarebbe mai capace di costituire il consenso sacramentale, se non vi fosse, in esso e al di sopra di esso, il riconoscimento di un "Signore che ha creato e redento" e la volontà non fosse espressa non da sé, ma "per grazia di Dio". Allora è chiaro che il "dialogo tra i coniugi" è anticipato e attraversato dal dialogo tra Dio e i coniugi. Proprio questa è la logica del matrimonio sacramento: attraverso il patto coniugale si fa visibile e presente il patto dell'alleanza tra Cristo e la Chiesa. Non è difficile ritenere che intorno a questa formula nuova possano muoversi interessanti itinerari di catechesi, di preparazione e di una più complessiva valorizzazione pastorale del matrimonio celebrato.
Le prospettive pastorali
Il consenso si colloca tra memoria del battesimo e benedizione degli sposi. Il sì degli sposi trova il suo inizio e il suo sostegno prima di sé, trovandosi quasi iniziato dal sì di Dio, che precede il consenso nella forma della memoria del battesimo, e che segue il consenso nella forma della benedizione nuziale. Da un lato dunque il sì di Dio precede e fonda il consenso dei coniugi, nella loro dignità sacerdotale di battezzati, che come tali sono ministri del sacramento; dall'altro il sì dei coniugi sporge e poggia sul sì di Dio che rilancia la sua iniziativa originaria nel qui e ora della vita di questa coppia concreta. Il rapporto con la celebrazione diventa così principio insuperabile di raccordo tra fede e vita.
L'edificazione della Chiesa mediante il sacramento del matrimonio. La celebrazione del sacramento del matrimonio, nell'accoglienza dell'assemblea che partecipa attivamente - anche mediante i più espliciti riferimenti all'iniziazione cristiana manifestati nella memoria del battesimo, nelle esplicitazioni delle parole del consenso e nella prossimità della benedizione nuziale - viene non soltanto a confermare, ma diremmo quasi a istituire un'esperienza ecclesiale originale, con una consacrazione dei coniugi a una ministerialità ecclesiale specifica e preziosa.
La ministerialità complessa del sacramento della coppia. Proprio alla luce dei due punti precedenti, è evidente che l'assetto del nuovo rito del matrimonio, nel suo equilibrio tra sequenze ed eucologia, induce a un ripensamento della ministerialità del sacramento, che dovrebbe essere riletta in modo non antitetico (i coniugi e non il prete; il prete e non i coniugi): anzi, proprio una "ministerialità complessa" è in grado di mantenere insieme tutti i lati di questo organismo sacramentale che è rappresentato da una coppia di battezzati che si sposa nel Signore.
Una forma rituale per esprimere il "desiderio dell'eucaristia". Infine merita una parola significativa la scelta di trasformare un elemento negativo in elemento positivo, legando più strettamente l'ipotesi di celebrazione "senza la messa" a una positiva strutturazione del sacramento "nella celebrazione della Parola". Anche questa opzione del nuovo rito deve essere letta alla luce del primato dell'iniziazione cristiana. Ciò significa, in altre parole, che dove è opportuno che l'eucaristia - per ragioni di gradualità nel cammino di fede - non venga celebrata il contesto non viene definito da una mera sottrazione, ma il testo stesso contribuisce ad alimentare una relazione con il battesimo che possa far scaturire un più intenso desiderio dell'eucaristia. Tutto il capo II è stato strutturato in vista di un tale recupero, e per questo è dotato di maggiore essenzialità e immediatezza rispetto al cap. I. La pastorale potrà trovare qui un aiuto non piccolo per risolvere molte di quelle situazioni in cui il rapporto della coppia con l' iniziazione cristiana - quando pure formalmente si sia compiuto - manifesti nei fatti e nelle coscienze difficoltà, dubbi, imbarazzi o riserve di sorta.
Si teme, e con buone ragioni, che la globalizzazione, in corso di irreversibile attuazione, meriti lo stesso giudizio che, a suo tempo, ha avuto il fenomeno dell'industrializzazione. Questa è stata di certo un fattore di progresso e di innalzamento del livello di vita delle masse, ma con costi e danni enormi e sproporzionati per persone, famiglie e gruppi umani.
L'espressione italiana: “La Bibbia”, viene da un plurale greco tà Biblía, “i libri”, passando attraverso il latino medievale Bíblia.