Parafrasando il titolo di un'opera di Daniel Pennac potremmo dire che la testimonianza cristiana si snoda nei secoli "Come un racconto", a partire proprio dal racconto fondatore, quello della vita, morte e risurrezione di Gesù di Nazaret, detto il Cristo. È questa una verità antica, che tuttavia la teologia ha scoperto solo da una trentina d'anni, inaugurando il fecondo filone della "teologia narrativa".
Non si tratta dell'ennesima trovata per rendere attraente una materia ostica, bensì di un approccio che cerca di guardare con occhi nuovi il dipanarsi nella storia della vicenda della fede cristiana. E questo sguardo nuovo vuole tener conto di un dato primordiale: Gesù stesso è colui che "ha narrato Dio". La vita, la predicazione, le parabole, i miracoli, il processo fino alla condanna alla morte in croce di Gesù, così come il sepolcro vuoto nel mattino di Pasqua, hanno ridetto in forma inaudita quella vicenda di amore tra Dio e il suo popolo già narrata nei racconti della Genesi e dell'Esodo, nelle gesta dei patriarchi, nei mimi profetici, nelle visioni apocalittiche di cui è intessuto l'Antico Testamento. Convinto che "la fede cristiana si capisce veramente solo raccontando una storia", Brunetto Salvarani - tra le figure più significative del dialogo ecumenico e interreligioso in Italia - ha voluto ripercorrere nel suo "In principio ero il racconto" questi trent'anni di teologia narrativa, preoccupandosi però, come solo un autentico "narratore" sa fare, non tanto del passato, bensì del presente e del futuro. Infatti, come ci ricorda Moltmann, il passato è ricordato perché il futuro in esso nascosto deve risvegliare le speranze della generazione successiva".
L'autore delinea così i rischi, le prospettive e le sfide che attendono la chiesa nella nostra società: "un cristianesimo radicalmente evangelico" non potrà accontentarsi di un ruolo di supplenza, a mo' di religione civile "perché esso vive in funzione della sua capacità di raccontare la differenza". Una differenza che non significa senso di superiorità o sdegnosa sufficienza rispetto alle vicende umane ma, al contrario, piena solidarietà nella ricerca di un senso per la storia e i suoi eventi: un modo "altro" di pensare, di fare "teologia", cioè di "dire Dio". Potrà così nascere una teologia accogliente, disponibile all'ascolto e piena di calore umano, "dotata di coraggio, audacia e franchezza, di pazienza, speranza e perseveranza".
Dando voce a teologi, pensatori, poeti e narratori del secolo appena concluso, Salvarani ci svela come nel nostro mondo sempre più secolarizzato le chiese cristiane saranno sempre più obbligate - non per sopravvivere o "contare", ma per vivere del loro senso autentico ed essere segno leggibile - a riposizionarsi sull'essenziale: la parola di Dio contenuta nella Scrittura, sapiente raccolta di storie fondative, e il sacramento dell'eucaristia, racconto per eccellenza.
Raccontare e ascoltare racconti non è allora un simpatico diversivo, ma è nutrirsi di ciò che ci fa vivere in verità: il conformarsi al disegno di Dio sull'uomo, quell'uomo pienamente riuscito di cui Gesù è stato il racconto, e lo scoprire il volto autentico di Dio, di quel Dio che Gesù ci ha narrato.
Un midrash ebraico - una delle più antiche forme di racconto - osa dire che "Dio ha creato gli uomini perché Egli - benedetto sia - adora i racconti". Allora ha ragione quel grande narratore che è stato Elias Canetti quando afferma che "le voci degli uomini sono il pane di Dio". Si, non solo l'uomo, ma anche Dio si nutre di racconti.
Enzo Bianchi
(da Cem/mondialità, agosto/settembre 2004)