Ecumene

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Martedì, 23 Gennaio 2007 00:22

Scienza e religione (Albert Einstein)

Nel corso dell'ultimo secolo, e in parte del precedente, era opinione diffusa che esistesse un conflitto insanabile tra conoscenza e fede.

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti



Quarantaduesima parte

Sintesi su carisma e spiritualità

Lo spirito o spiritualità marista deriva dal carisma della Società e si concretizza in alcuni atteggiamenti interiori, che determinano l’impegno ascetico e il comportamento del religioso. Tali atteggiamenti sono dettati dalla divisa “ignoti et quasi occulti” come è stata vissuta da Maria.

  • La vita interiore si incarna nello spirito di orazione e nel “gusto di Dio”: essa riveste come un “habitus” il Marista anche nelle attività apostoliche e lo mantiene in uno stato di unione costante con Dio.
  • La povertà consiste nel distacco dai beni terreni, nella scelta di uno stile di vita effettivamente povero; ma, soprattutto, nel distacco dal successo, dall’affermazione di sé, dalla fama, dall’appoggio dei potenti. Il Marista ama restare ignoto e dedicarsi ai ministeri di supplenza e meno gratificanti.
  • La precarietà è la condizione scelta dal Marista, per esprimere in maniera efficace la sua fede in Dio e nei mezzi soprannaturali, senza fare affidamento sui mezzi e le capacità umane: egli è testimone del Regno e delle realtà future, sa che deve, in particolare, lavorare per situazioni di emergenza senza tendere ad installarsi in situazioni di comodo.
  • La comunione assimila la Società di Maria alla Chiesa apostolica, in cui tutti erano un cuor solo e un’anima sola. Alla completa unione dei cuori nell’ambito della Congregazione deve corrispondere una piena e gioiosa comunione ecclesiale con il Papa, i vescovi ed i parroci. In questo modo si renderà visibile oggi l’immagine che gli Atti attribuiscono alla Chiesa nascente.

Sviluppati i due concetti basilari di carisma e spirito, diamo adesso un rapidissimo sguardo. Per mezzo dei due schemi seguenti, alla missione e alle strutture della Società.

La nostra riflessione continuerà con l’approfondimento della “Spiritualità della Missione Marista”.

Spiritualità Marista

di Padre Franco Gioannetti


Quarantunesima parte

La comunione (3)

Nelle costituzioni del 1842 aveva prescritto che i religiosi maristi dovevano comportarsi ovunque con tanta prudenza e deferenza, da far in modo che i vescovi “diligant et teantur Societatem tamquam suam” (Ibid., del 1842, in Antiquiores textus, II, p. 34).

E, in qualche anno più tardi, commentava:

“Signori, queste parole tamquam suam non ci sono state messe per caso. Ma solo dopo molte riflessioni. Quando scrivevo la regola, allorché mi si presentarono queste parole, il mio spirito si calmò” ( Parole di un fondatore, op. cit., Doc. 119, n. 7).

Non si tratta, evidentemente, di opportunismo e di ingraziarsi le autorità che avrebbero dovuto dare i permessi e la missio canonica per la predicazione e gli altri ministeri, si desiderava instaurare un rapporto ad un livello più profondo di quello giuridico: i Maristi avrebbero dovuto guardare ai vescovi coma a “padri” e, costoro, ai Maristi come a figli. ( Ibid., Doc. 150, n. 2, p. 420).

Le ultime Costituzioni del P. Colin accentueranno questo aspetto, evidenziando le esigenze della comunione ecclesiale:

“A quo ( =Ordinario) in variis ministeriis quae dioecesis bonum respiciunt, consilia requirant, et cui rationem referant, quantum fieri potest, ad majorem harmoniam. Denique, tanta cum prudentia ac reverentia ubique se gerant, ut Societatem nostram Episcopi diligant, foveant, tueantur et quasi suam habeant” ( Constit., art. III, n. 13, p. 7)

Più frequentemente la predicazione missionaria mette a contatto i Maristi con i parroci. Anche con essi il lavoro pastorale deve essere volto in piena comunione e, quindi, rispettandone l’autorità. (Ibid., art. III, n. 14, p. 7; cap. VI, art. I, n. 258, p. 88).

In epoca di controversie politiche e in ambiente generalmente ancora geloso delle autonomie della Chiesa Gallicana ma già con spiccate tendenze ultramontaniste, il P. Colin ha difeso e inculcato con grande convinzione e fervore la totale sottomissione e la piena comunione con la Chiesa Romana, stabilendola come uno dei fii della Società di Maria (Parole di un fondatore, op. cit., Doc. 119, n. 10) contro il gallicanesimo tuttora forte. La difesa dell’autorità pontificia era uno degli argomenti capaci di far accaldare il P. Colin.

Le Costituzioni del 1872 menzionano la difesa della Chiesa Romana come terzo fine della Società (Constit., art. I, nn. 9-10, p. 5). L’obbedienza al Romano Pontefice deve essere prestata “in omnibus omnimo…, semper parati ad missiones quascumque, et in quavis mundi plaga, ad quas illos mittere voluerit” ( Ibid., art. III, n. 11. p. 6).

Le convinzioni del P. Colin su questo punto – espresse nelle Costituzioni , negli Entretiens e nella corrispondenza saranno sempre lineari. Il distacco della comunione gerarchica avrebbe inaridito la pianta della Società, rendendola sterile. La comunione e la fedeltà sono, invece, fonti di salvezza e di santificazione. (Parole di un fondatore, Doc. 147, nn. 7-8; Doc. 150, n. 8).

I compiti del vento sono pochi

Emily Dickinson

I compiti del vento sono pochi,
sospingere navi, in mare,
insediare marzo, scortare maree,
e accompagnare la libertà.

I piaceri del vento sono ampi,
risiedere nell’estensione,
restare, o vagare,
meditare o intrattenere i boschi.

I compagni del vento sono le vette –
Azof – l’equinozio –
anche con uccello e asteroide
si saluta passando.

I limiti del vento –
se esiste, o muoia,
sembra troppo saggio per assopirsi, –
di questi non so nulla.

Domenica, 14 Gennaio 2007 20:40

XII Chiesa Ortodossa Russa (John Nellykullen)

Le Chiese dell'oriente cristiano

XII. Chiesa ortodossa russa

di John Nellykullen

Verso la fine del decimo secolo, secondo la leggenda, il grande principe pagano Vladimir di Kiev inviò degli ambasciatori in diverse parti del mondo per esaminare le religioni locali e perché gli consigliassero quale di esse sarebbe stata la migliore per il suo regno. Quando gli ambasciatori fecero ritorno, suggerirono la religione dei Greci, raccontando che quando avevano assistito alla Divina Liturgia nella cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli: "non riuscivamo a capire se eravamo in cielo o sulla terra”. Dopo il battesimo del principe Vladimir, molti dei suoi sudditi vennero battezzati nelle acque del fiume Dniepr nel 988. Così il cristianesimo bizantino divenne il credo religioso dei tre popoli che fanno risalire le proprie origini alla Rus’ di Kiev: russi, ucraini, bielorussi.

La Kiev cristiana fiorì per un certo tempo, ma poi iniziò un periodo di declino, culminato nel 1240, quando la città venne distrutta durante le invasioni mongole. Come conseguenza della distruzione arrecata dai mongoli, tantissima gente si trasferì al nord. Nel quattordicesimo secolo, un nuovo centro si sviluppò intorno al principato di Mosca, e i metropoliti di Kiev si stabilirono in quel posto. Successivamente, Mosca fu dichiarata sede metropolita.

Quando Costantinopoli cadde in mano ai Turchi nel 1453, la Russia si stava sganciando dalla dominazione mongola per diventare uno stato indipendente. Poiché si diceva che la “prima” Roma fosse caduta nell’eresia, e che la Nuova Roma fosse caduta sotto il dominio dei turchi, alcuni Russi (di cui la prima espressione “chiara” fu il monaco Philotheos all’inizio del sedicesimo secolo) cominciarono a parlare di Mosca come della “terza” Roma", che avrebbe portato avanti le tradizioni dell’ortodossia e della civiltà romana (bizantina). Nel 1547, con l’incoronazione di Ivan IV come primo zar (l’equivalente slavo del termine Caesar), e con l’insediamento del metropolita Job come primo Patriarca di Mosca da parte del patriarca ecumenico Jeremia nel 1589, in Russia furono ricreate le due principali istituzioni bizantine. Gli zar arrivarono a considerarsi paladini e protettori della ortodossia, così come lo era stato una volta l’imperatore bizantino.

La chiesa russa sviluppò progressivamente un proprio stile nell’ambito dell’iconografia e dell’architettura religiosa, e proprie tradizioni teologiche e spirituali. A metà del diciassettesimo secolo, ci fu uno scisma nella chiesa russa quando il patriarca Nikon riformò un certo numero di riti religiosi per renderli conformi a quelli della chiesa greca.

Coloro che si rifiutarono di sottomettersi alla riforma, e che continuarono a coltivare le tradizioni tipicamente russe vennero in seguito chiamati “vecchi credenti”.

Il patriarcato russo venne abolito da Pietro il Grande nel 1721. Per i 196 anni successivi, la chiesa fu retta dal Santo Sinodo mediante regole che portarono la chiesa sotto la supervisione dello stato. Durante questo periodo, specialmente nel XIX secolo, ci fu una grande ripresa della teologia, della spiritualità e del monachesimo russo ortodosso. Ci fu inoltre un’intensa attività missionaria che si estese largamente attraverso i territori russi nella parte orientale, arrivando fino all’Alaska e alla costa della California del Nord.

Nell’agosto del 1917, sotto il governo provvisorio di Alexander Kerensky (dopo l'abdicazione dello zar, ma prima della rivoluzione bolscevica), a Mosca si tenne un Sinodo della chiesa ortodossa russa. Il Sinodo ristabilì il Patriarcato Russo, elesse a capo di esso il metropolita Tikon di Mosca e prese in considerazione un certo numero di riforme riguardanti la vita all’interno della chiesa. Ma prima che il sinodo avesse termine, si venne a sapere che il metropolita di Kiev era stato assassinato e che erano iniziate le persecuzioni. Il patriarca Tikon criticò esplicitamente i comunisti durante i primi anni del suo patriarcato, ma poi, dopo un anno di carcere, dovette moderare la sua posizione pubblica . Il patriarca Tikon e il suo successore, il patriarca Sergij, elaborarono un modus vivendi, con il governo, che regolò le relazioni tra la chiesa e lo stato durante il comunismo: la Chiesa russa ortodossa appoggiò pubblicamente il governo in tutte le questioni, e lo stato concesse alla chiesa una sfera di autonomia molto limitata, che si riduceva alle pratiche riguardanti il culto liturgico.

La persecuzione assunse forme differenti nei diversi periodi: quasi tutti i teologi e i capi della chiesa furono esiliati negli anni Venti, o vennero giustiziati nel corso degli anni Trenta. Solamente nel 1937 vennero arrestati 136mila religiosi, e ne furono uccisi 85mila. Nel periodo compreso tra il 1917 e il 1939, tra l’80% e l’85% del clero pre-rivoluzionario della Russia ortodossa fu tolto di mezzo. La situazione migliorò in qualche modo durante la seconda guerra mondiale, e negli ultimi anni di Stalin, finché Krushev non riprese ad intensificare le persecuzioni nel 1959.

Molte chiese vennero chiuse dopo la rivoluzione, e ci fu un’altra ondata di chiusura delle chiese sotto Krushev, tra il 1959 e il 1962. Mentre nel 1917, la chiesa ortodossa russa aveva 77.767 chiese (delle parrocchie e dei conventi), verso la fine degli anni 70 ne erano rimaste soltanto circa 6.800. Il numero di conventi attivi (1.498 nel 1914) scese a 12, e i 57 seminari teologici che funzionavano nel 1914 furono ridotti a tre a Mosca, Leningrado (San Pietroburgo) ed Odessa, con accademie teologiche per gli studi superiori nelle prime due città.

Dopo il 1990, tuttavia, grazie alle riforme attuate dal presidente Mikhail Gorbachev, la situazione della chiesa russa ortodossa ha cominciato a migliorare enormemente, riprendendosi dal periodo delle persecuzioni. Nel marzo del 2003, il patriarca Aleksij II ha dichiarato che la chiesa aveva 16.195 parrocchie, in cui svolgevano servizio 17.480 preti e diaconi. Aveva inoltre 131 diocesi con 155 vescovi, vi erano 614 conventi, di cui 295 per gli uomini e 319 per le donne. Inoltre, c’erano 160 “metochia” monastici e 38 eremi. La Chiesa Ortodossa Russa inoltre aveva 43 pre-seminari, 32 seminari, sei corsi preparatori per sacerdoti, cinque accademie teologiche, due università ortodosse, due pre-seminari diocesani femminili e un istituto teologico. C’erano inoltre molte scuole di iconografia e per la direzione dei coro, inoltre 135 scuole domenicali nella sola Mosca. Nell’ottobre del 1992, venne inaugurato l’istituto teologico San Tikon di Mosca per la formazione del laicato ortodosso. Gli allievi, divisi più o meno in modo uniforme tra donne ed uomini, raggiunsero il considerevole numero di 650 durante il primo anno. Il 24 febbraio 1993, la chiesa ortodossa russa istituì a Mosca l’università teologica ortodossa di San Giovanni per continuare la tradizione educativa umanista russa e per offrire uno studio approfondito delle discipline teologiche.

Nel dicembre del 1993 l'Università del Centro di Ricerca Nazionale di Chicago ha pubblicato i risultati di un’inchiesta che ha documentato lo sviluppo straordinario della fede religiosa in Russia. Ha mostrato che, in base a come veniva formulata la domanda, una percentuale variabile tra la metà e i tre quarti della popolazione russa credeva in Dio. Sebbene l’11% avesse detto di avere abbracciato la religione ortodossa solo divenuti adulti, il 28% si dichiarò ortodosso, indicando così che la chiesa russa ortodossa aveva più che raddoppiato i suoi seguaci. La tendenza alla religiosità era più marcata nei gruppi di età compresa tra i 17 e i 24 anni, dove il 30% era passato dall’ateismo al credere in Dio. Uno stupefacente 75% di coloro che sono stati sottoposti al sondaggio ha dichiarato di avere “una grande confidenza con la chiesa”. Ma un’indagine condotta dal Centro Russo degli Studi sull’Opinione Pubblica nell’agosto del 1994 ha rivelato che, del 52% di quelli sottoposti all’inchiesta che si consideravano credenti, solo il 2% partecipava ai riti religiosi almeno una volta alla settimana. In un altro sondaggio condotto dalla stessa organizzazione verso la fine del 1997, il 46% delle persone intervistate si è dichiarato non credente, e il 45% si è dichiarato cristiano ortodosso.

Inchieste più recenti indicano che circa metà della popolazione russa si considera ortodossa, anche se solo una piccola minoranza è effettivamente praticante. Ciò significherebbe che oggigiorno 75 milioni di persone si identificano nella chiesa ortodossa russa. Data la mancanza di dati attendibili in merito agli aderenti ortodossi nelle altre ex repubbliche sovietiche in cui le minoranze russe sono molto diffuse, e data la frammentazione della chiesa ortodossa in Ucraina, il totale dei membri del patriarcato di Mosca riportato qui sotto è solo approssimativo.

Nel campo della dottrina e dell’ordine canonico, oggi nella chiesa ortodossa russa il potere supremo è detenuto dal Consiglio Locale, che si riunisce periodicamente, e che è costituito da tutti i vescovi, da tutti i delegati eletti tra i sacerdoti, i monaci e i laici. Il Consiglio Locale inoltre elegge il patriarca di Mosca e di tutte le Russie. Il Consiglio dei vescovi, che raccoglie l’intero episcopato, i “capi” dei dipartimenti del Santo Sinodo, i rettori delle accademie teologiche e dei seminari, si deve riunire almeno ogni quattro anni e anche alla vigilia del Consiglio locale. La gestione ordinaria della chiesa è curata dal Santo Sinodo, composto dal patriarca e da sei vescovi diocesani, tre dei quali sono membri permanenti, mentre gli altri si avvicendano essendo temporanei.

Nell’autunno del 1994, il governo russo ha deciso di contribuire al finanziamento per la ricostruzione della cattedrale dello SPAS, Cristo Salvatore, una struttura imponente del XIX secolo che era stata fatta radere al suolo da Stalin nel 1931, e che un tempo dominava l’orizzonte di Mosca. Il patriarca Aleksij ha posto la nuova prima pietra il 7 Gennaio 1995, e le funzioni di Pasqua si sono tenute in quella struttura per la prima volta nel 1996. È stata ufficialmente consacrata il 19 agosto 2000.

Nella riunione del Consiglio Ortodosso Russo dei Vescovi tenutasi verso la fine del 1994 , il patriarca Aleksij ha dichiarato che la chiesa aveva attraversato un periodo difficile nel periodo successivo al precedente incontro del 1992. Essa aveva dovuto affrontare problemi relativi alla pratica liturgica, all’adeguata formazione teologica e pastorale, e al servizio ecclesiale nei riguardi della società. L’assemblea ha rifiutato la richiesta, fatta da alcuni membri conservatori del Patriarcato di Mosca, di ritirarsi da tutte le organizzazioni ecumeniche, ma ha condannato l'attività missionaria svolta in Russia da gruppi metodisti, evangelici e presbiteriani americani e da alcuni protestanti sud coreani. I vescovi hanno deciso l’inizio di un ingente sforzo per catechizzare ed evangelizzare la popolazione russa, e per istituire una commissione speciale che rivedesse la pratica e i testi liturgici, al fine di rendere la liturgia più comprensibile per i fedeli.

Il Consiglio dei vescovi si è riunito di nuovo nel febbraio del 1997 ed in tale occasione si è dichiarato contrario all’ipotesi di canonizzare lo zar Nicola II e la sua famiglia. I vescovi hanno rifiutato nuovamente i tentativi di provocare il ritiro della chiesa russa dal concilio mondiale delle chiese, e hanno richiesto di dibattere su un piano pan-ortodosso l’opportunità di una partecipazione al Concilio Mondiale delle Chiese. I vescovi hanno tenuto in considerazione il dialogo bilaterale con la chiesa cattolica, hanno affrontato in modo deciso ciò che percepivano come proselitismo cattolico tra gli ortodossi, e hanno chiesto alla commissione teologica sinodale di studiare il Documento di Balamand, un prodotto del dialogo cattolico-ortodosso internazionale. Delegazioni di alto livello del Vaticano e del Patriarcato di Mosca si riunivano infatti regolarmente due volte all’anno. I vescovi inoltre hanno riconosciuto ed apprezzato i progressi nelle relazioni con le chiese ortodosse orientali, e hanno richiesto maggiore chiarezza nelle formulazioni cristologiche prodotte dal dialogo.

La minaccia, seriamente sentita, derivante dall’azione dei gruppi religiosi stranieri è stata uno dei motivi che hanno spinto la chiesa ortodossa russa a fornire il suo potente appoggio a una nuova legge sulla religione, siglata dal presidente Eltsin il 26 settembre 1997. La legge riconosce l’Ortodossia, l’Islam, il Buddismo, l’Ebraismo e il Cristianesimo come religioni tradizionali, e pone restrizioni alle attività di alcuni gruppi, includendo in esse un periodo di attesa di 15 anni per essere “registrati”; limita l’agire dei gruppi non registrati a pratiche informali e private; pone severe restrizioni all’attività dei missionari stranieri. Le restrizioni apportate da questa legge hanno suscitato forti preoccupazioni nell’occidente, anche se sembra che all’interno della società russa abbiano ottenuto un ampio consenso. Alcuni documenti dimostrano che la nuova legge viene applicata, più o meno rigorosamente, in diverse aree del paese.

Un evento importante nella vita della chiesa ortodossa è stato la riunione del Consiglio di giubileo dei vescovi, svoltasi dal 13 al 16 agosto 2000 a Mosca. In quell’occasione, i vescovi hanno deciso di canonizzare 1.154 persone, tra cui 1.090 nuovi martiri e confessori morti nel XX secolo. I vescovi si sono inoltre pronunciati, questa volta a favore, sulla canonizzazione dello zar Nicola II e della sua famiglia, uccisi dai comunisti nel 1918. Sono stati canonizzati come “martiri”, non in riferimento al loro ruolo politico in Russia ma al modo con cui hanno sopportato le loro sofferenze finali in maniera cristiana. I vescovi hanno inoltre redatto un lungo documento, il Concetto di dottrina sociale della chiesa russa ortodossa, che definisce la posizione della chiesa in merito ad un’ampia gamma di questioni sociali. Inoltre, i vescovi hanno riveduto e adottato un nuovo Statuto della chiesa russa ortodossa, e hanno prodotto un importante documento ecumenico: Principi di base dell’atteggiamento nei confronti della non ortodossia da parte della chiesa ortodossa russa.

Con questo ultimo documento, la chiesa ortodossa russa si impegna a partecipare al movimento ecumenico, e questa sembra essere una vittoria su coloro che volevano promuovere il ritiro della chiesa dagli impegni ecumenici. Da quel momento, in risposta alle preoccupazioni della chiesa russa e delle altre chiese ortodosse, nel 2002 è stato raggiunto un accordo con il Consiglio Mondiale delle Chiese (CMC) per sostituire le procedure di voto di tipo parlamentare con un nuovo modello di consenso , per distinguere più nettamente tra il culto“confessionale” e quello “interconfessionale”, e per creare due categorie di partecipazione al CMC: membri e chiese in associazione. Questo accordo sembra assicurare la partecipazione continuativa della chiesa russa ortodossa nell’organizzazione. Tuttavia, le relazioni con la chiesa cattolica si sono ampiamente deteriorate. Il patriarcato di Mosca ha reagito con sdegno quando la Santa Sede ha stabilito quattro diocesi in Russia, nel febbraio 2002, ed ha, di conseguenza, interrotto le riunioni che si svolgevano periodicamente con i rappresentanti del Vaticano.


Dalla fine del comunismo, il Patriarcato di Mosca ha severamente vietato la partecipazione del clero alla vita politica, ma ha anche siglato numerosi accordi di collaborazione con governo. Un accordo firmato il 30 agosto 1996 con il Ministero degli Affari interni ha assicurato la presenza pastorale ortodossa nelle prigione del paese e anche nelle forze di polizia. Ha concluso un accordo di cooperazione con il ministero della difesa russa, il 30 aprile 1997, che impegnava entrambe le parti a “collaborare per ravvivare le tradizioni ortodosse dell’esercito e della marina russi”. Sono state costruite moltissime chiese nelle basi militari. Il 2 agosto 1999 è stato concluso un accordo di cooperazione col ministero dell’istruzione con cui entrambe le parti si sono impegnate alla cooperazione per educare/istruire i giovani “nello spirito degli alti valori morali”.

La disintegrazione del sistema comunista e dell’Unione Sovietica ha generato forze centrifughe che hanno minacciato l'unità del Patriarcato di Mosca. Nel gennaio del 1990, quando le circostanze stavano già cambiando, il Consiglio ortodosso russo dei vescovi si è riunito a Mosca e ha deciso di garantire una certa autonomia alle chiese ortodosse in Ucraina ed in Bielorussia. Ciascuna è divenuta un esarcato del patriarcato di Mosca, con i nomi di "chiesa ortodossa ucraina" e di “chiesa ortodossa bielorussa”. In seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, il 25 dicembre 1991,e all'indipendenza dei vari stati che ne sono derivati , il Patriarcato ha garantito simile status autonomo alle chiese ortodosse in Estonia, Lituania e Moldavia.

Venendo incontro alle richieste di maggiore autonomia fatte il 27 ottobre 1990, il Consiglio dei vescovi ha garantito “indipendenza e auto-governo” alla chiesa ortodossa ucraina e ne ha abolito l’esarcato. Ma la chiesa è rimasta legata a Mosca, e il Metropolita di Kiev è ancora membro del Santo Sinodo del Patriarcato di Mosca. Dopo che l'Ucraina ha dichiarato l’indipendenza il 24 agosto 1991, il Metropolita Filaret di Kiev ha ccrcato di ottenere la separazione completa della sua chiesa dal Patriarcato di Mosca. Il Consiglio dei vescovi russo ortodossi ha respinto questa richiesta nell’Aprile del 1992. Ma Filaret ha continuato a volere l’autonomia per la sua chiesa, alla fine la questione ha avuto termine nel mese di maggio 1992, quando il Patriarcato di Mosca ha deposto Filaret e ha nominato il Metropolita Volodymyr (Sabodan) di Rostov come nuovo Metropolita di Kiev. A giugno, il Patriarcato ha sospeso a divinis Filaret, riducendolo allo stato laicale. Successivamente, Filaret ha dato vita alla chiesa ucraina autocefala non-canonica, e il 20 febbraio 1997 ne è stato eletto patriarca . Il Consiglio ortodosso russo dei vescovi ha reagito scomunicando Filaret il 23 febbraio.

Un altro problema è nato nella repubblica da poco indipendente di Moldavia, che aveva fatto parte della Romania prima del 1812 e ancora dal 1918 al 1944. Nonostante il fatto che il Patriarcato di Mosca avesse riconosciuto lo status autonomo alla diocesi moldava, il Santo Sinodo della chiesa ortodossa rumena nel dicembre del 1992 ha deciso di stabilire un proprio metropolita, detto di Bessarabia, nello stesso territorio. In questo modo, gli ortodossi in Moldavia sono divisi fra le due giurisdizioni rivali. Il Patriarcato rumeno e quello russo hanno dibattuto a lungo per risolvere la disputa, ma ancora nel 2003 i tentativi erano risultati inutili. Il governo moldavo ha sostenuto la giurisdizione di Mosca e fino al 2002 non ha concesso la registrazione al Metropolita di Bessarabia, legato a Bucarest.

In Estonia era esistita una chiesa ortodossa autonoma sotto il Patriarcato di Costantinopoli dal 1923 fino al 1945, quando era stata assorbita dal Patriarcato di Mosca dopo che il paese era stato annesso all'Unione Sovietica. In seguito all’indipendenza dell’Estonia nel 1991, ci sono state richieste di ristabilire tale chiesa, che in esilio aveva mantenuto la propria sede centrale a Stoccolma. Il governo estone da poco indipendente l’ha riconosciuta ufficialmente come continuazione legale della Chiesa ortodossa dell’Estonia, che era esistita nel periodo tra le due guerre. Il 20 febbraio 1996, il Patriarcato Ecumenico ha ricostituito formalmente, sotto la propria giurisdizione, la Chiesa Ortodossa estone, provocando così una grande crisi nelle relazioni col Patriarcato di Mosca, che ha rifiutato di commemorare il Patriarca ecumenico nei dittici. La crisi è stata risolta il 16 maggio del 1996, quando i due Santi Sinodi hanno annunciato un accordo che sanciva l’esistenza di due giurisdizioni separate in Estonia. La maggior parte delle parrocchie ortodosse si è unita alla chiesa autonoma recentemente ristabilita sotto Costantinopoli, ma la maggior parte dei fedeli ha optato per la diocesi dipendente da Mosca. Tuttavia dopo la visita in Estonia del patriarca ecumenico Bartolomeo, svoltasi nell’ottobre del 2000, il Santo Sinodo della chiesa ortodossa russa ha reagito dichiarando inaccettabili alcuni commenti fatti dal Patriarca in Estonia, e ha deciso che il Patriarcato di Mosca non avrebbe più partecipato ad incontri in cui fossero presenti il patriarca Bartolomeo, l’Arcivescovo John della Finlandia o il metropolita Stephan (capo della giurisdizione del Patriarcato di Costantinopoli in Estonia).

Le 31 parrocchie degli Stati Uniti sotto il Patriarcato di Mosca sono amministrate dal Vescovo Mercurius di Zaraisk . Alla cura pastorale del vescovo Mark di Kashira sono affidate le 25 parrocchie canadesi (tutte ad Alberta e nel Saskatchewan). I 20 luoghi di culto del Patriarcato in Gran-Bretagna sono presieduti dal vescovo Basil di Sergievo . In Australia ci sono due parrocchie patriarcali, a Parkville (Melbourne) e a Blacktown (Sydney). Il pastore a Melbourne è padre Igor Filianovsky.


LUOGO: Russia, Ucraina, Bielorussia, Kazakstan, altre ex repubbliche sovietiche, diaspora

CAPO: Patriarca Aleksy II (nato nel 1929, eletto nel 1990)

TITOLO: Patriarca di Mosca e di tutte le Russie

RESIDENZA: Mosca, Russia

MEMBRI: 90.000.000

SITO WEB: http://www.mospat.ru

Domenica, 14 Gennaio 2007 20:09

Il principio speranza (Remo Bodei)

Il principio speranza

di Remo Bodei

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Il punto di partenza di Bloch è che tutti abitiamo questo continente della speranza, che è assai affollato, però è così inesplorato, dice lui, come l'Antartide, per questo "Il principio speranza" di Bloch è una grande mappa di tutti i territori della speranza; e la speranza Bloch la concepisce contro Heidegger, contro il principio della angoscia, se vogliamo chiamarlo così, in quanto, secondo Bloch, non bisogna prendere il mondo così com'è; la speranza ci mostra il mondo in movimento, in evoluzione. Quindi l'idea di Bloch è che la speranza non è semplicemente un premio di consolazione per le disgrazie necessarie della vita degli individui e della storia; la speranza è piuttosto uno sforzo per vedere come le cose stanno in movimento, come si evolvono, quindi la nostra mente non è simile a uno specchio che riflette una realtà ferma, la nostra mente è piuttosto qualche cosa che si inserisce nel mondo della speranza. Se vogliamo usare un'immagine classica della storia della filosofia, quella di Kant, Kant parlava della candida colomba della ragione che pensa che l'aria, che invece sostiene il suo volo, gli possa essere di ostacolo, si potrebbe dire con questa immagine che la speranza è in Bloch l'aria che sostiene la ragione, senza la speranza la ragione non potrebbe volare e senza la ragione però la speranza sarebbe cieca.

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Nel 1933, poco prima dell'avvento del national-socialismo, ci fu una discussione nel palazzetto dello sport a Berlino tra un rappresentante del partito comunista tedesco e un rappresentante nazista, il comunista entra e comincia a spiegare la caduta tendenziale del saggio di profitto secondo Marx, la gente non capisce niente, magari, aggiunge Bloch, ha detto delle cose vere, soltanto che queste verità non fanno presa, arriva invece il nazista che comincia a parlare in termini mitici della pugnalata alle spalle che gli ebrei e i demoplutocrati hanno dato al popolo tedesco, fa dei discorsi che hanno una grande presa emotiva, usa quei termini come patria, casa, quelle forme cioè di richiamo all'identità delle persone ed esce tra le ovazioni di tutti.
Ora, per Bloch il punto, e forse anche per noi, è quello di capire che non si può staccare la razionalità dagli affetti, ma che non si può avere una pura razionalità, un socratismo, per cui basti enunciare il vero perché il vero si raggiunga, né si può avere, come nel caso del national-socialismo, una pura mobilitazione basata su problematiche irrazionali. Quindi il tentativo di Bloch rispetto alla storia del marxismo va controcorrente. Diventando scientifico e cioè per lui dogmatico, si è creduto che il marxismo avesse più successo, ma in questo modo ha dimenticato e lasciato per così dire in mezzo ai rovi, quelle che sono le tendenze degli uomini verso una vita migliore, quello che Marx stesso chiamava il sogno di una cosa. Per questo la rivendicazione della speranza in Bloch non è la rivendicazione di una mobilitazione cieca degli uomini verso una vita migliore che non sanno dove stia, ma è il tentativo di innervare un progetto che ha una base razionale, analitica, di innervare il progetto di queste energie umane che altrimenti si disperdono e si dissipano.

3

Paradossalmente l'utopia di Bloch, o la speranza di Bloch, non riguarda tanto il futuro quanto il presente, nel senso che per Bloch ogni istante può diventare significativo, noi dobbiamo imparare a vivere ogni momento come se fosse eterno: "Cogli l'eternità nell'istante" è un principio fondamentale di Bloch. Naturalmente per eternità non si intende un tempo lungo, gonfiato oltre ogni dimensione finita, per eternità si intende la pienezza dell'esistere, l'eternità riguarda quei momenti d'essere in cui a me sembra di scoprire il senso delle cose, e questo senso delle cose io lo scopro andando al di là dell'oscurità dell'attimo vissuto. Il principio che Bloch ritiene più originale di tutta la sua filosofia è quello di aver scoperto che la nostra coscienza del presente, che a noi sembra così cristallina, così trasparente, è in realtà opaca, e che quindi il presente in effetti è oscuro, o, usando un proverbio cinese che usava Bloch, "alla base del faro non c'è luce"; questo significa allora che noi dobbiamo non proiettarci nel futuro in quanto tale, ma illuminare, attraverso la conoscenza e attraverso la conoscenza della speranza, quello che è il centro del nostro essere, cioè dobbiamo buttare luce, dare senso a ogni momento della nostra esistenza. Questo accade ad esempio attraverso l'arte, attraverso la musica in particolare, dove si ha il massimo di esattezza matematica e il massimo di pathos: questa è una bella illustrazione del principio speranza, la speranza non è soltanto pathos ma è anche misura e quindi la speranza è una forma che mobilita gli animi, come la musica ci può dare questo senso di esaltazione, di tristezza, ma nello stesso tempo questo senso di esaltazione o di tristezza è retto da una struttura matematica rigorosa.

4

In Bloch non c'è il gusto, per così dire, illuministico di rendere tutto chiaro e trasparente. Bloch sa appunto che il nucleo di oscurità che è interno a noi stessi non si potrà mai dissipare; nello stesso tempo però Bloch non cade nel ricatto dell'oscuro, dell'enigma per l'enigma. In Bloch c'è il tentativo di sviluppare, per dirla con Montale "cercano la chiarità le cose oscure", cioè Bloch cerca di passare dall'oscuro al chiaro senza cancellare gli elementi di oscurità.
Se volessimo usare una formula, si potrebbe dire che Bloch col suo insegnamento vuole ridurre queste intermittenze dell'intelletto e del cuore, questa opacità a noi stessi, e moltiplicare questi attimi in cui invece noi incontriamo noi stessi. Infatti il principio speranza ruota attorno a quello che Bloch chiama "incontro con noi stessi", "Selbstbegegnung", perché la cosa più strana è che noi siamo in compagnia di noi stessi, ma in realtà è come se non ci incontrassimo mai, siamo sottoposti a tutti questi messaggi, che vengono dall'inconscio ad esempio, del mondo dei sogni e dei desideri, ma questi messaggi non sono chiari nella nostra coscienza. Scopo del principio speranza è quello di cercare di dare un senso a questo nostro vivere a distanza da noi stessi, quindi l'ideale utopico per eccellenza è di ritrovare noi stessi, di ritrovare il senso di noi stessi in una collettività, non un senso solitario. Noi viviamo assieme agli altri e quindi è anche attraverso gli altri che conosciamo parte di noi stessi, il noi diciamo è più ospitale dell'io, l'io però è più proprio a noi stessi, quindi quando noi incontriamo l'io incontriamo anche il noi, e quando incontriamo il noi incontriamo l'io, cioè è soltanto vivendo in questa comunità di tutti gli uomini che l'opera d'arte ad esempio ci mette in contatto con ciò che è più proprio: se io sento una musica di Mozart o di Bach, se guardo un quadro di Raffaello o di Michelangelo, se vedo l'architettura del Partenone, ecco in questo momento ciò che è diventato proprietà comune del noi, del genere umano, mi parla e mi fa incontrare me stesso.

5

Bloch ha una sorta di fiducia, che vorrei definire congetturale, una fiducia appena accennata, che si può spiegare attraverso un passo del grande scrittore svizzero Gottfried Keller, che lui cita: Gottfried Keller, l'argomento non è molto allegro ma il testo è bellissimo, vede una volta un obitorio in cui sono stesi i cadaveri di gente di tutte le età, di tutte le condizioni sociali, di entrambi i sessi, e gli sembrano degli emigranti, dice, che dormono nel porto vicino alle loro misere cose in attesa che sorga l'alba. E' questa speranza di un sorgere di un'alba che guida il pensiero di Bloch, e quindi la possibilità di una vittoria sulla "lampada funebre", come la chiama lui. Questa sarebbe per Bloch la speranza più piena, ma Bloch è anche abbastanza realistico da sapere che questa speranza resta speranza, però è altrettanto realistico quando pensa che in fondo l'evoluzione dell'umanità, del passaggio dalla scimmia all'uomo darwinianamente, è andata verso il meglio, guidata in fondo da forze invisibili che noi non controlliamo, la tradizione le ha chiamate Dio. Ora Bloch non crede nel Dio personale, anzi ha una tesi, in un libro che si chiama "L'ateismo nel cristianesimo" che è molto radicale: "il miglior cristiano è l'ateo", perché l'ateo alla religione toglie questo aspetto esteriore di tipo immaginifico, legato a delle persone e a dei fatti, a Gesù e ai miracoli, a Buddha ecc.. , e lascia nella religione il nucleo più potente, lascia nella religione quello che è l'aspetto determinante e cioè che la religione contiene in sé i desideri più profondi degli uomini.

Per certi aspetti la religione è più importante della filosofia, o per dirla in termini marxiani quando parlava di Hegel e dicendo che bisognava trovare il nucleo razionale dentro il guscio mistico, si può dire che per Bloch è molto più succoso, è molto più importante questo guscio mistico delle religioni, questo riferirsi a desideri e ad aspettative, dello stesso nucleo razionale, anche perché il nucleo razionale vive soltanto se c'è la spinta della speranza. Perché la speranza di Bloch non è la speranza di un singolo popolo o di un singolo individuo, in Bloch c'è questo elemento corale e collettivo per cui la speranza lui la paragona a una fuga musicale, cioè la paragona alla ripresa di un tema che ogni individuo e ogni popolo ripropongono attraverso variazioni nel tempo e in cui, come in certi corali di Bach, tutti gli individui e tutti i popoli entrano alternativamente o insieme a cantare questa polifonia, questo accordo che cerca l'unisono; queste voci che cercano di trovare l'unità sono per Bloch la rappresentazione stessa della storia umana e del processo della speranza nella storia umana.

(Tratto dall'intervista: Bloch e il principio speranza - Napoli, Vivarium, 30 giugno 1994)


Domenica, 14 Gennaio 2007 20:00

I dieci punti di Seelisberg

I dieci punti di Seelisberg

Nell’estate del 1947 si tenne a Seelisberg, in Svizzera, una conferenza internazionale alla quale parteciparono un centinaio di delegati cristiani (di diverse confessioni) ed ebrei, provenienti da una ventina di Paesi. Jules Isaac aveva preparato uno schema in diciotto punti, che vennero discussi, e infine venne approvata una dichiarazione conosciuta come I dieci punti di Seelisberg.


1.

Ricordare che è lo stesso Dio vivente che parla a tutti noi nell’Antico come nel Nuovo Testamento.

2.

Ricordare che Gesù è nato da una madre ebrea, della stirpe di Davide e del popolo d’Israele, e che il suo amore ed il suo perdono abbracciano il suo popolo ed il mondo intero.

3.

Ricordare che i primi discepoli, gli apostoli, ed i primi martiri, erano ebrei.

4.

Ricordare che il precetto fondamentale del cristianesimo, quello dell’amore di Dio e del prossimo, promulgato già nell’Antico Testamento e confermato da Gesù, obbliga cristiani ed ebrei in ogni relazione umana senza eccezione alcuna.

5.

Evitare di sminuire l’ebraismo biblico nell’intento di esaltare il cristianesimo.

6.

Evitare di usare il termine “giudei” nel senso esclusivo di “nemici di Gesù” o la locuzione “nemici di Gesù” per designare il popolo ebraico nel suo insieme.

7.

Evitare di presentare la passione in modo che l’odiosità per la morte inflitta a Gesù ricada su tutti gli ebrei o solo sugli ebrei. In effetti non sono tutti gli ebrei che chiesero la morte di Gesù. Né sono solo gli ebrei che ne sono responsabili, perché la croce, che ci salva tutti, rivela che Cristo è morto a causa dei peccati di tutti noi.

Ricordare a tutti i genitori e educatori cristiani la grave responsibilità in cui essi incorrono nel presentare il vangelo e sopratutto il racconto della passione in un modo semplicista. In effetti, essi rischiano in questo modo di ispirare, lo vogliano o no, avversione nella coscienza o nel subcosciente dei loro bambini o uditori. Psicologicamente parlando, negli animi semplici, mossi da un ardente amore e da una viva compassione per il Salvatore crocifisso, l’orrore che si prova in modo così naturale verso i persecutori di Gesù, si cambierà facilmente in odio generalizzato per gli ebrei di tutti i tempi, compresi quelli di oggi.

8.

Evitare di riferire le maledizioni della Scrittura ed il grido della folla eccitata: “che il suo sangue ricada su noi e sui nostri figli”, senza ricordare che quel grido non potrebbe prevalere sulla preghiera infinitamente più potente di Gesù: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.”

9.

Evitare di dare credito all’empia opinione che il popolo ebraico è riprovato, maledetto, riservato a un destino di sofferenza.

10.

 Evitare di parlare degli ebrei come se essi non fossero stati i primi ad appartenere alla chiesa.

Domenica, 14 Gennaio 2007 19:49

Sukkoth

Nella lingua ebraica, Sukkoth significa "capanne" e sono appunto le capanne a caratterizzare questa festa che ricorda la permanenza degli ebrei nel deserto dopo la liberazione dalla schiavitù dall’Egitto.

Domenica, 14 Gennaio 2007 19:42

Pace e guerra XXI Secolo (Carlo Maria Martini)

Pace e guerra XXI Secolo

di Carlo Maria Martini

INTRODUZIONE

Sono lieto di partecipare a questo momento di studio e di riflessione promosso dal Forum di Relazioni internazionali, allo scopo di individuare i contenuti che i concetti di pace e di guerra vanno assumendo oggi, all'alba del XXI secolo.

Saluto e ringrazio tutte le autorità politiche, militari ed ecclesiali qui presenti, come pure i rappresentanti delle Organizzazioni internazionali, del mondo accademico e delle organizzazioni umanitarie, i relatori e tutti i partecipanti a questo incontro.

La riflessione da voi promossa nasce dalla consapevolezza che le gravi instabilità e ingiustizie del nostro tempo provocano interventi militari, interventi tesi in teoria a garantire, ristabilire o imporre il rispetto dei diritti fondamentali di persone e collettività e che tuttavia suscitano gravi interrogativi di ordine morale, politico e anche militare in chi ha la responsabilità della decisione e dell'esecuzione di tali interventi.
Tale riflessione, inoltre, si impone all'alba del nuovo millennio, dopo un secolo - il XX - che, per un verso, è stato uno dei periodi più tragici dell'intera storia umana e, per un altro verso è stato il secolo in cui si sono levati i più alti appelli alla pace.

L'ultimo secolo, infatti, "è stato un secolo segnato da odio e da profondo disprezzo nei confronti dell'umanità, odio e disprezzo che non rinunciavano a nessun mezzo e metodo per annientare e sterminare l'altro" . È stato un secolo di guerre, intervallate da periodi più o meno lunghi, non di pace, ma di tregua: oltre alle due guerre mondiali, molti altri, circa centoottanta, sono stati i conflitti armati interni a singoli Stati o a livello internazionale, i quali - secondo attendibili stime internazionali - tra il 1950 e il 1990 hanno provocato circa quindici milioni di morti nel mondo. Né si possono dimenticare le incalcolabili sofferenze che queste innumerevoli guerre hanno inflitto all'umanità: hanno causato milioni e milioni di morti e di feriti, distrutto famiglie, gettato nella miseria popoli interi, creato maree di profughi, condannato al sottosviluppo interi continenti. Lungo lo stesso secolo, si è pure instaurata una corsa agli armamenti più distruttivi e più sofisticati che non ha nemmeno lontanissimi paragoni nei secoli precedenti: se tutto questo non ha portato all'olocausto nucleare, pur avendolo sfiorato varie volte, non è stato - come alcuni hanno giustamente osservato - per rinsavimento o per saggezza, ma per timore, perché ci si è resi conto che in una guerra atomico-nucleare, combattuta su tutto il pianeta con l'uso di armi nucleari strategiche, non ci sarebbero stati né vinti né vincitori, ma la fine della storia umana .

Il secolo XX, nel contempo, è stato il secolo nel quale l'idea e l'azione per la pace hanno indubbiamente conosciuto una significativa accelerazione. È stato, infatti, il secolo della proclamazione dei Diritti dell'uomo, dell'affermazione della democrazia e della sconfitta dei totalitarismi, della fine del colonialismo, delle creazione di grandi organismi internazionali e, in particolare, dei primi tentativi - con la Società delle Nazioni e con l'ONU - di realizzazione di una sorta di governo mondiale, con lo scopo di mantenere la pace e di "preservare le nazioni future dal flagello della guerra" . È stato anche il secolo nel quale ha preso avvio una cultura della pace, che si è espressa con personalità come Leone Tolstoj, Gandhi e, in Italia, nel "Movimento non-violento per la pace" di Capitini. In campo cattolico, infine, oltre all'affermazione, specialmente nella seconda metà del secolo, di un forte movimento pacifista, va indubbiamente ricordato il ricchissimo magistero soprattutto pontificio da Benedetto XV a oggi e la presa di posizione del Concilio Vaticano II.

Siamo posti di fronte così a uno dei temi - quello della guerra-pace - tra i più ardui e complessi della convivenza umana e della morale sociale, che ha accompagnato la riflessione della coscienza umana e cristiana lungo tutta la storia e che oggi, con lo straordinario mutamento dovuto all'avvento delle armi atomiche e nucleari, si pone con caratteristiche significativamente diverse dal passato. E' per tutti questi motivi che anch'io mi sento profondamente interpellato da questo tema, pur non avendo di esso competenza specifica. Vi rifletto a voce alta di fronte a voi con la mia coscienza di cristiano e di vescovo, alla ricerca di parametri etici e alla luce del messaggio evangelico, pur consapevole della complessità dei problemi che altri potranno approfondire in maniera più precisa e concreta. Le mie fonti di ispirazione sono naturalmente anzitutto le Sacre Scritture e la dottrina sociale della Chiesa. Risento dunque anzitutto in me la parola di Gesù "Beati gli operatori di pace,perché saranno chiamati figli di Dio" (Mt 5,9), il suo invito provocatorio "Ma io vi dico, amate i vostri nemici" ( Mt 5,44) e guardo al futuro con la speranza del profeta Isaia "Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci" (Is 2,4), tenendo conto nello stesso tempo del lungo cammino storico dei popoli e delle coscienze per interiorizzare e attuare un tale messaggio, in costante conflitto con le infedeltà e gli egoismi umani.

In questo contesto intendo proporre alcuni spunti di riflessione generale su quattro punti:

1. La coscienza cristiana di fronte alla guerra;
2. L'edificazione della pace nella giustizia e nella solidarietà;
3. In questa luce, qualche riflessione sulla cosiddetta ingerenza umanitaria;
4. Principi per una riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale.

1. LA COSCIENZA CRISTIANA DI FRONTE ALLA GUERRA

Quella della Chiesa e dei cristiani verso la guerra è una storia e una riflessione che ha accompagnato i due millenni di cristianesimo fin qui trascorsi. Essa - come è stato giustamente notato - "sembra avere subito numerosi mutamenti lungo i 20 secoli che stanno concludendosi. Infatti è passata da un atteggiamento più o meno pacifista nei primi quattro secoli alla formulazione della teoria della guerra giusta, poi al sostegno di politiche destinate a costruire la pace" .

In ogni caso, a partire dal dato storico e dalla dottrina recepita, sembra affiori progressivamente entro la tradizione cristiana una linea convergente nel tentativo di ridurre sempre di più dimensioni e conseguenze di ogni intervento bellico.

In questo senso va letta anche la dottrina della "guerra giusta", sostenuta per molti secoli dalla teologia, senza essere mai sancita in modo "ufficiale" dal Magistero della Chiesa. Tale dottrina, infatti, - nell'accezione condivisa dalla morale cattolica e diversamente da quella deviazione interpretativa che se ne è data a partire dal Rinascimento, allorché venne utilizzata per arrecare una parvenza di legittimazione morale alle diverse ambizioni nazionali - "non è animata dall'intenzione di "giustificare" nel senso di promuovere o incoraggiare il ricorso alla guerra. Al contrario, essa mira a ridurre il più possibile tale ricorso. "Il più possibile", in quanto non esclude a priori che - in particolari situazioni - l'astensione da interventi militari avrebbe effetti controproducenti proprio rispetto al fine che sempre deve essere perseguito: quello di assicurare le condizioni per una convivenza umana "pacifica", libera, cioè, dal dominio della violenza incontrollata e del "potere" arbitrario" . Il presupposto di tale teoria consisteva nella convinzione che la guerra, che in ogni caso costituisce una disgrazia e comporta mali grandi e orrendi, in alcune circostanze potrebbe apparire come in qualche modo "inevitabile" o "necessaria". In ogni caso l'intento di tale teoria, intento di stampo prettamente pedagogico, era quello di fare appello alla coscienza perché rinunciasse alla violenza - aiutandola a liberarsi dai condizionamenti della passione, del desiderio di vendetta, e di ogni sorta di sopraffazione - e decidesse se, in quel momento preciso e concreto, il ricorso alla violenza fosse in qualche maniera ammissibile e giustificabile. Per raggiungere tali scopi, questa teoria individuava condizioni e regole molto precise e severe - anche se spesso concretamente inattuabili, considerata la logica stessa della guerra, che mira a infliggere al nemico danni gravissimi, assai superiori a quelli probabilmente indispensabili per conseguire il pur giusto fine per cui si fa la guerra - perché una guerra potesse dirsi "giusta" .

La guerra - come appare anche dalla teoria appena ricordata della "guerra giusta" - è sempre un male e, come tale, va evitata o almeno - quando essa apparisse come inevitabile - va limitata il più possibile nelle sue dimensioni e nelle sue conseguenze. Ciò è ancora più evidente e urgente a mano a mano che si passa alla guerra moderna, a una guerra, cioè, che per sua natura comporta armi e distruzione di massa, che sfuggono al controllo dell'uomo e che, seppure in misura diversa, si qualifica pressoché sempre come "guerra totale", anche quando non si usassero armi chimiche o termonucleari, ma armi cosiddette convenzionali . Come sottolinea, infatti, anche Giovanni Paolo II, oggi "non è difficile affermare che la potenza terrificante dei mezzi di distruzione, accessibili perfino alle medie e piccole potenze, e la sempre più stretta connessione, esistente tra i popoli di tutta la terra, rendono assai arduo o praticamente impossibile limitare le conseguenze di un conflitto" .

Alla luce di questi radicali cambiamenti intervenuti nel modo di fare la guerra e nel concetto stesso di guerra, si comprende come, nel secolo XX, con gli interventi del magistero, da Benedetto XV a Giovanni Paolo II, si sia passati dalla considerazione delle condizioni classiche per l'affermazione di una "guerra giusta" all'affermazione della impossibilità di dichiarare "giusta" una guerra totale, o condotta con armamenti strategici ultimamente incontrollabili, fino all'affermazione della necessità di evitare, fin dove possibile, ogni guerra, in un contesto come l'attuale, nel quale un conflitto appare non facilmente delimitabile una volta avviato, nel quale, civili vengono di solito ad essere molto più coinvolti dei militari stessi e dove le conseguenze creano facilmente effetti negativi destinati a perdurare ben oltre la durata delle operazioni belliche. Come, infatti, già si esprimeva Giovanni XXIII nella Pacem in terris, superando così il concetto di "guerra giusta", "Nell'era atomica è irrazionale [alienum est a ratione] pensare che la guerra possa essere utilizzata come strumento di riparazione dei diritti violati" . E il Concilio, che per lo più non ha voluto pronunciare anatémi, su questo punto ha avuto una parola ferma e dura: "Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato" .
Secondo questi interventi, si deve, quindi, concludere che la guerra moderna è di fatto quasi sempre immorale . Essa, inoltre, è anche inutile, dannosa e irrazionale, perché non solo non risolve, se non apparentemente e momentaneamente, i problemi che l'hanno scatenata, ma li aggrava e ne crea di nuovi ancora più gravi. Come ha scritto Giovanni Paolo II, "il secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre, perché alimentano odi profondi, creano situazioni di ingiustizia e calpestano la dignità e i diritti delle persone. Esse, in genere, non risolvono i problemi per i quali vengono combattute e pertanto, oltre ad essere spaventosamente dannose, risultano anche inutili. Con la guerra, è l'umanità a perdere" . Ne segue l'accorato appello risuonato già sulle labbra di Paolo VI prima, nel suo intervento all'ONU , e poi ripreso solennemente anche da Giovanni Paolo II nella Centesimus annus: "Mai più la guerra!". No, mai più la guerra, che distrugge la vita degli innocenti, che insegna a uccidere e sconvolge egualmente la vita degli uccisori, che lascia dietro di sé uno strascico di rancori e di odi, rendendo più difficile la giusta soluzione degli stessi problemi che l'hanno provocata!".

In questo quadro, che concorre ad affermare che oggi non esistono "guerre giuste" e non esiste un "diritto di 'fare' la guerra", l'unico spiraglio che rimane praticamente aperto in ordine alla "legittimità" - e non tanto e ancora alla "doverosità" - di un intervento bellico è quello che riguarda la cosiddetta guerra difensiva, in presenza di un'aggressione ingiusta in atto . È, per altro, uno spiraglio molto piccolo, se si considera soprattutto il tema della "proporzionalità" tra il bene che ci si aspetta di conseguire e i danni da infliggere e i costi da sostenere. Come dice, infatti, il Concilio, "fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità d'un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto d'una legittima difesa" . È un diritto, questo ribadito anche recentemente nel Catechismo della Chiesa Cattolica, che precisa anche gli attuali rigorosi criteri di legittimità morale, la cui "valutazione morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune" . In forza di tali criteri, "occorre contemporaneamente: - che il danno causato dall'aggressione alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; - che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; - che ci siano fondate condizioni di successo; - che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione" .
Ne segue che, anche in questo caso, - come ho ricordato fin dall'inizio - la logica e l'intento di fondo è di ridurre sempre più dimensioni e conseguenze dell'intervento bellico e, positivamente, di sollecitare un'azione articolata e convergente che porti a superare le cause di un possibile conflitto. Si tratta, tra l'altro, di proseguire non soltanto nella linea di una delimitazione degli effetti negativi degli armamenti, ma in quella della accurata reinterpretazione del concetto stesso di "difesa". Per un verso, superata la prospettiva tradizionale della "difesa del territorio nazionale e della popolazione ad esso inerente", si potrebbe accedere a sempre nuove identificazioni dei "mali sociali" o "strutture di peccato" cui una o più nazioni, anche solidalmente, sono chiamate a rispondere, con la conseguente predisposizione di tattiche e mezzi idonei allo scopo. Per un altro verso, si tratterebbe di dare spazio a diversificate e convergenti azioni di difesa, non esclusa anche la difesa non-violenta. Occorre, infatti, - come ricordavo in occasione della Giornata Mondiale della Pace del 1984 - "avere il coraggio di esigere che i responsabili programmino forme di difesa militari e civili non offensive, che non sono la rassegnazione totale, ma non sono neppure la deterrenza e la dissuasione offensiva che è al centro del dibattito morale oggi. Bisogna osare la via realistica della dissuasione puramente difensiva, che è poi la versione moderna della "legittima difesa", la quale ultima è troppo spesso confusa con la legittima offesa. Gli scienziati e i tecnici vanno mobilitati non per scoprire armi più vulneranti (anche se si dice che rimarranno solo a scopo di minaccia e di monito), ma modi di neutralizzare l'offesa così da scoraggiarla perché priva di risultati adeguati. È così che gli Stati moderni intendono la legittima difesa all'interno delle loro strutture civiche. Perché non deve essere lo stesso anche tra gli Stati, in attesa di un'autorità definitiva che regoli i conflitti con i soli mezzi del dialogo?"

Con la condanna del ricorso alla guerra, infine, la coscienza cristiana è andata progressivamente condannando la corsa agli armamenti e superando la logica della deterrenza, intesa come accumulo di armi - a livello quantitativo e, oggi soprattutto, a livello qualitativo e di tecnologie avanzate - allo scopo di dissuadere qualsiasi avversario dal compiere atti di guerra. "Riguardo a tale mezzo di dissuasione - come si legge nel Catechismo della Chiesa Cattolica - vanno fatte severe riserve morali" . Esso infatti - come afferma il Concilio e gli fa eco lo stesso Catechismo - "non è la via sicura per conservare saldamente la pace né il cosiddetto equilibrio che ne risulta può essere considerato pace vera e stabile. Le cause di guerre, anziché venire eliminate da tale corsa, minacciano piuttosto di aggravarsi gradatamente. E mentre si spendono enormi ricchezze per procurarsi sempre nuove armi, diventa poi impossibile arrecare sufficiente rimedio alle miserie così grandi del mondo presente" . In altri termini - come ha detto il Papa il 23 agosto 1982 - "la logica della deterrenza nucleare non può essere considerata come uno scopo finale o un mezzo appropriato e sicuro per salvaguardare la pace internazionale". Ancora più precisamente - come ha affermato lo stesso Giovanni Paolo II nel suo Messaggio all'ONU dell'11 giugno 1982 - "Nelle condizioni attuali, una "deterrenza" fondata sull'equilibrio, non certo come un fine in se stesso ma come una tappa sulla via di un disarmo progressivo, può ancora essere giudicata moralmente accettabile. Tuttavia, per assicurare la pace, è indispensabile non essere soddisfatti di questo minimun che è sempre esposto al reale pericolo dello scoppio di una guerra".

A dire, cioè, che la politica della deterrenza può essere moralmente accettabile solo se, nello stesso tempo, si fa sinceramente e concretamente ogni sforzo per imboccare la via del negoziato, allo scopo di giungere al disarmo e se si lavora per mutare il clima di sfiducia e di paura nei rapporti internazionali. Ne segue che essa non è, invece, moralmente accettabile quando non fosse controbilanciata da una politica di riduzione o limitazione degli armamenti e di disarmo progressivo e multilaterale . Ne segue pure che, tale politica va tanto più superata quanto più crescono il negoziato, il disarmo, la fiducia tra gli Stati. Come sottolineavo nella già citata mia omelia per la Giornata Mondiale della Pace del 1984, "la sicurezza non deve essere intesa solo come sicurezza militare, ma deve consolidarsi attraverso un potenziamento del dialogo, dei sistemi democratici, degli organismi di controllo internazionali. La stessa dissuasione deve farsi forte non solo di quell'atteggiamento così disumano che è la forza violenta, ma anche e soprattutto di quelle risorse più degne dell'uomo che sono la solidarietà internazionale, le sanzioni giuridiche, l'isolamento di chi usa prepotenza, ecc." . E aggiungevo: "Occorre anche sviluppare tecniche e addestramenti di difesa civile non violenta, e investire per questo in programmi adeguati. L'insieme di questi mezzi costituirebbe una reale alternativa alla deterrenza offensiva. Sarebbe una efficace dissuasione difensiva che ci permetterebbe di affrontare tutti con cuore più disponibile il tema del disarmo, in parte anche di un disarmo unilaterale. […] Non ci vengano dunque a dire che non c'è alternativa realistica alla deterrenza offensiva. C'è, e bisogna trovarla con tutte le forze, se non si vuole che la dissuasione aggressiva che è poi la garanzia del mutuo annientamento, tollerata ora come male minore e come ripiego provvisorio e solo alla condizione di trovare vie di uscita più umane e pacifiche, diventi un'abitudine, una pratica accettazione della spirale degli armamenti, e infine una trappola di morte per l'umanità".

2. L'EDIFICAZIONE DELLA PACE NELLA GIUSTIZIA E NELLA SOLIDARIETÀ

Da quanto detto fin qui risulta che non bastano la ribellione morale alla guerra e alla corsa agli armamenti e il rifiuto della politica della deterrenza. Occorre, insieme e positivamente, impegnarsi per costruire la pace, la quale - come insegna la Pacem in terris - è fondata sulla verità, sulla giustizia, sull'amore, sulla libertà . Ne seguono - quale sfida urgente e improcrastinabile anche per il XXI secolo - la necessità e il dovere di impegnarsi per eliminare dal nostro mondo le disuguaglianze sociali e gli squilibri economici tra i popoli, le condizioni di oppressione e lesione dei diritti umani più essenziali, le minacce per l'umanità connesse con ogni tipo di totalitarismo politico o ideologico.

"Il mobilissimo e impegnativo compito della pace, insito nella vocazione dell'umanità ad essere e a riconoscersi come famiglia" - ha scritto Giovanni Paolo II nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace introducendo la questione della solidarietà come condizione ineliminabile per la pace - "ha un suo punto di forza nel principio della destinazione universale dei beni della terra". E aggiungeva: "Nessuno si illuda che la semplice assenza di guerra, pur così auspicabile, sia sinonimo di pace duratura. Non c'è pace vera se ad essa non si accompagnano equità, verità, giustizia e solidarietà. Resta destinato al fallimento qualsiasi progetto che ritenga separati due diritti indivisibili e interdipendenti: quello alla pace e quello ad uno sviluppo integrale e solidale".

A questo proposito, l'edificazione della pace, soprattutto in un contesto di globalizzazione come l'attuale, richiede che si abbia a far maturare un'autentica cultura della solidarietà. Nel fare ciò va superata ogni concezione "assistenzialistico-sentimentale" della solidarietà stessa, vedendola piuttosto come responsabilità per il bene comune. Si deve pure riconoscere il nesso che intercorre tra efficienza e solidarietà, convinti che quest'ultima, proprio in quanto risponde a un principio etico superiore di fraternità verso chi si trova in condizioni di bisogno, può essere considerata anche una "convenienza" per lo stesso funzionamento complessivo della società. Essa, inoltre, può essere realizzata mediante una pluralità di "reti di sostegno", capaci di attuarsi in ordine a una molteplicità di situazioni, che di per sé non riguardano soltanto i "poveri". Infine, va attuata riconoscendo anche il "vincolo" e il "debito" che ci lega a tutto il patrimonio ambientale, economico, culturale, sociale lasciatoci in dono dalle generazioni che ci hanno preceduto: ciò esige - proprio in nome della solidarietà - che ci si assuma la responsabilità di consegnarlo "migliorato" alle generazioni future. In altre parole, la sfida che ci attende è quella di assicurare "una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazione".

Va pure sottolineato, in particolare, - come ha sottolineato Giovanni Paolo II nell'enciclica Sollicitudo rei socialis - che "il traguardo della pace, tanto desiderata da tutti, sarà certamente raggiunto con l'attuazione della giustizia sociale e internazionale, ma anche con la pratica delle virtù che favoriscono la convivenza e ci insegnano a vivere uniti, per costruire uniti, dando e ricevendo, una società nuova e un mondo migliore" . Il riferimento a queste "virtù" mi suggerisce una parola di richiamo al ruolo fondamentale e irrinunciabile dell'educazione per l'edificazione della pace. Si tratta, infatti, di far crescere le persone nella libertà, purificandola da ogni falsificazione o riduzione e rispettandola e promovendola con saggezza e prudenza. Si tratta di condurre un'opera paziente e coraggiosa di responsabilizzazione che aiuti ogni persona a crescere in quella solidarietà che - per riprendere ancora alcune espressioni del Papa - è "la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti" . Si tratta, in ogni ambito educativo e nella concretezza dell'esperienza quotidiana, di comunicare alcuni valori fondamentali - quali il rispetto dell'altro, il senso della giustizia, la sincerità, l'onestà, l'accoglienza cordiale, il dialogo, la disponibilità disinteressata, il servizio generoso - che soli possono concorrere a far crescere uomini veri, giusti, generosi, forti e buoni, quegli uomini cioè che possono contribuire positivamente all'edificazione di una convivenza umana più pacifica. Tutto questo nasce dalla convinzione che - come si legge in un documento della Commissione "Giustizia e pace" della Conferenza episcopale italiana - la pace chiama certamente in causa le istituzioni, "ma è sempre il cuore dell'uomo che è chiamato a scegliere tra la forza e il dialogo, la competizione e la solidarietà" . Ne segue che il pur necessario cambiamento delle istituzioni resta impresa vana e impossibile se non cambia il cuore dell'uomo e se, quindi, attraverso l'opera educativa, l'uomo non viene aiutato ad essere pienamente se stesso, nel riconoscimento dell'altro e in un rapporto di prossimità e di fratellanza con tutti.

È, infine, un'azione, quella dell'edificazione della pace, che invita l'intera umanità a impegnarsi su vie nuove e a sviluppare la collaborazione fattiva di tutte le forze ideali che, riconoscendo il valore superiore dell'ideale della pace, partecipano alla sua costruzione. Ne segue la necessità di un dialogo, non ingenuo e cieco, ma lucido, tra le parti sociali delle diverse civiltà: un dialogo che orienti e induca a guardare alla pace non soltanto come a un'assenza di guerra, imposta con la forza, ma come a un'opera di giustizia inscritta nella realtà. In altri termini, oggi si chiede a tutti di costruire la pace, guardando agli interessi globali dell'intera umanità e adoperandosi per uno sviluppo solidale nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno. E proprio in riferimento a queste esigenze di solidarietà e di difesa dei diritti possono essere ripresi e reinterpretati i criteri individuati nel passato per la problematica della "guerra giusta" . Ciò significa che autorità competente, giusta causa, retta intenzione, preoccupazione per le popolazioni civili, considerazione e rispetto delle proporzioni possono essere aspetti di una "griglia di lettura" che permette ai popoli di giudicare se l'agire quotidiano dei loro governi rafforzi o metta in pericolo la pace. E tale "griglia di lettura" può costituire il nucleo di una "teologia della pace", che teologi, politici e militari devono elaborare insieme.

3. QUALCHE RIFLESSIONE SULLA COSIDDETTA INGERENZA UMANITARIA

Un'altra questione - da distinguere opportunamente da quelli fin qui affrontati della guerra e dell'intervento armato a scopo difensivo - è quella che riguarda un intervento armato, o comunque supportato dall'uso di armi, orientato a finalità di carattere umanitario, attuato sia nel tentativo di comporre i rapporti tra differenti Paesi o di prevenire un conflitto, sia per ristabilire livelli accettabili di convivenza all'interno di un singolo Stato, i cui poteri pubblici non sono o non sarebbero più in grado di provvedervi in modo autonomo .
Il presupposto che fonda e spiega la possibilità di questa cosiddetta "ingerenza umanitaria" è dato dalla convinzione, che i diritti umani, da un lato, in quanto strettamente connessi con la dignità della persona umana, sono anteriori e preminenti a qualsiasi differenziazione o specificazione e, dall'altro lato, proprio per questo non hanno frontiere, perché sono universali e indivisibili. Ne segue - come ha scritto il Papa nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno - sia che "chi offende i diritti umani offende la coscienza umana in quanto tale, offende l'umanità stessa", sia che "il dovere di tutelare tali diritti trascende i confini geografici e politici entro cui essi sono conculcati", per cui "i crimini contro l'umanità non si possono considerare affari interni di una nazione" . Ne segue che, soprattutto in un tempo di interdipendenza come il nostro, il principio di non-ingerenza tra gli Stati, se inteso in modo assoluto, si rivela anacronistico e antistorico, oltre che non rispettoso della posta in gioco allorquando vengono conculcati i diritti degli uomini e dei popoli.

A partire da tutto ciò, contro ogni presunta "ragione" della guerra, va anzitutto affermato "il valore preminente del diritto umanitario e pertanto il dovere di garantire il diritto all'assistenza umanitaria delle popolazioni sofferenti e dei rifugiati" e, nello stesso tempo, "il dovere di individuare tutti quei modi, istituzionali e non, che possono concretizzare al meglio le finalità umanitarie" . Si apre qui un capitolo molto vasto e interessante, che non è possibile ora sviluppare, circa il senso, le condizioni e i limiti degli interventi delle diverse organizzazioni umanitarie e, in particolare, di quelle di ispirazione cristiana.

Dalle medesime considerazioni e quando i soli interventi umanitari non fossero sufficienti, deriva anche la legittimità-doverosità della più diretta "ingerenza umanitaria" che preveda anche l'eventuale uso delle armi. Così si esprime il proposito il Papa nel più volte citato Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace di quest'anno: "Evidentemente, quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l'aggressore" . Una legittimità-doverosità che deve rispondere a precise e rigorose condizioni, così espresse: "Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un'autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi".

Si tratta di un principio di carattere etico-giuridico prima che politico e militare, che sancisce il diritto-dovere della comunità internazionale di intervenire anche con la forza, se necessario, negli affari interni di uno Stato, quando sono in gioco i diritti fondamentali dei cittadini. Come tale esso sembrerebbe da considerare - più che nella linea della difesa da un male - nella logica degli interventi di ristabilimento dell'ordine pubblico. Si tratta, quindi, di interventi che possono anche arrivare a prevedere l'uso delle armi, ma come "extrema ratio" e dopo avere utilizzato tutta una serie di altri mezzi, oltre a quelli dovuti alla prevenzione e alla diplomazia. Siamo di fronte, in altre parole, a un intervento armato di tipo sussidiario, sia come "affiancamento" o "protezione" di operazioni umanitarie in corso, sia come modalità di "ristabilimento" dell'ordine pubblico.

È evidente che tale principio richiede una vera riconsiderazione dell'attuale assetto internazionale, in cui la sovranità dei singoli Stati è piena ed indiscussa, così da mettere in atto e portare a ulteriore sviluppo processi virtuosi di autolimitazione di essa da parte di ogni singolo Paese e da creare effettivamente spazi e condizioni per un'azione efficace, accolta e riconosciuta di organismi internazionali, come l'ONU, a loro volta riformati almeno quanto a poteri e a capacità rappresentativa. Si apre qui, tra l'altro, anche il grosso capitolo della giustizia internazionale e del suo ristabilimento: un ambito vastissimo e comprendente tutto quanto attiene al problema dello sviluppo e che va ben oltre il campo degli interventi estremi di carattere armato. Questi ultimi, comunque, andranno presi in considerazione là dove non ci fosse altra possibilità realistica, sempre però secondo quella logica sussidiaria a cui ho già accennato e che, come tale, è complementare ad altri interventi, anche di carattere punitivo o restrittivo della "libertà statuale", se così si può dire, in linea con la logica della "giustizia penale" che si applica all'interno degli Stati.

4. PRINCIPI PER UNA RICONSIDERAZIONE DELL'ATTUALE ASSETTO INTERNAZIONALE

Da tutto quanto siamo venuti dicendo fin qui, appare con sufficiente chiarezza la sempre più urgente necessità di dare vita ed efficienza ad istituzioni sovrastatali per il trattamento dei diversi conflitti. Lo richiedono sia la crescente interdipendenza a livello mondiale, sia il potere incredibilmente devastante degli armamenti, sia il già richiamato principio dell'ingerenza umanitaria. Tutto ciò rende, infatti, "impensabile che si possa provvedere a un giusto "ordine internazionale" - e, forse, alla stessa sopravvivenza dell'umanità - senza mettere in discussione il consueto modo d'intendere la "sovranità statale"" . La pace, in questo senso, richiede strutture politiche sovranazionali davvero efficaci nell'arginare le possibili sopraffazioni. Era già questo l'auspicio di Paolo VI nel suo discorso alle Nazioni Unite: egli, infatti, - partendo dalla convinzione che il bene comune universale pone oggi problemi a dimensioni mondiali che non possono essere adeguatamente affrontati e risolti che ad opera di Poteri pubblici aventi ampiezza, strutture e mezzi delle stesse proporzioni, di Poteri pubblici cioè, che siano in grado di operare in modo efficiente sul piano mondiale - così si esprimeva: "Chi non vede il bisogno di giungere così, progressivamente, a instaurare un'autorità mondiale, capace di agire con efficacia sul piano giuridico e politico?"

"Si apre qui" - come ha sottolineato Giovanni Paolo II anche nell'ultimo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace - "un campo di riflessione e di deliberazione nuovo sia per la politica che per il diritto, un campo che tutti auspichiamo venga coltivato con passione e con saggezza". E aggiungeva: "È necessario e non più procrastinabile un rinnovamento del diritto internazionale e delle istituzioni internazionali che abbia nella preminenza del bene dell'umanità e della persona umana su ogni altra cosa il punto di partenza e il criterio fondamentale di organizzazione".

Nel cercare di assolvere a questo compito importante e sempre più urgente, è necessario ripensare l'idea stessa di nazione. È necessario, infatti, superare ogni forma di nazionalismo e aprirsi ad una convivenza più accogliente e solidale. Si tratta di distinguere adeguatamente tra nazionalismo e patriottismo; di discernere tra sentimenti nazionali positivi e negativi; di riconoscere e difendere i diritti delle minoranze contro la tendenza all'uniformità; di rispettare e promuovere il diritto di ogni nazione di preservare la propria sovranità nazionale; di ricercare formule che, superando l'immediata identificazione tra "Stato" e "nazione", consentano a popoli diversi di vivere in un'unica entità statale vedendo ampiamente salvaguardati i propri diritti e la propria identità. L'ottica per realizzare questo necessario e urgente ripensamento dovrebbe essere quella della "cultura della nazione", vista come luogo nel quale si manifesta la sovranità fondamentale della società, quella sovranità per la quale l'uomo è supremamente sovrano: è proprio mediante tale cultura che la nazione esiste ed è in forza del diritto a tale cultura che la nazione ha diritto ad esistere . E, tuttavia, tutto ciò non si può né si deve identificare con nessuna sorta di nazionalismo. Le differenze nazionali non devono scomparire, ma piuttosto devono essere mantenute e coltivate come fondamento di solidarietà. Nello stesso tempo, però, non si può dimenticare che la stessa identità nazionale non si realizza se non nell'apertura verso gli altri popoli e attraverso la solidarietà con essi. Ne segue che la stessa nozione e realtà della nazione va mantenuta e interpretata entro la tensione vitale tra universalità e particolarità che caratterizza la condizione umana. In questa ottica, l'autonomia nazionale è sì un valore importante, ma non assoluto: prima degli interessi nazionali, infatti, ci sono gli uomini con la loro inalienabile dignità e, al di sopra delle tradizioni particolari dei singoli gruppi umani, si pone la comunità universale, da costruire nella giustizia, nella solidarietà e nella pace. In ogni caso, la nazione non si identifica a priori e necessariamente con lo Stato. Si danno e si devono dare, quindi, diverse possibili forme di configurazione giuridica della singole nazioni e di aggregazione tra di esse e ciò dovrebbe sempre avvenire, oltre che nel rispetto dei diritti delle minoranze, in un clima di vera libertà, garantito dall'esercizio dell'autodeterminazione dei popoli.

C'è pure bisogno - oggi più che mai in un contesto segnato da interdipendenza, globalizzazione, mondializzazione dei fenomeni economici, sociali e politici - di dare vita a un nuovo diritto internazionale. Le diverse iniziative politiche interne dei diversi Paesi non bastano più; occorrono la concertazione fra i Paesi e il consolidamento di un ordine democratico internazionale, tendenzialmente planetario, con istituzioni nelle quali siano equamente rappresentati gli interessi legittimi di tutti i popoli. Si tratta, quindi di mirare a un "governo mondiale", di cui quelli "regionali", compreso quello europeo, sono da vedere come tappa e, in qualche modo, prefigurazione.

Perché ciò possa avvenire occorre puntare al superamento della sovranità assoluta degli Stati. Questa è la Strada maestra per dare al mondo un ordine più giusto e una sicurezza stabile, arrivando ad una forma democratica e partecipata di governo mondiale, ossia a quella "autorità pubblica universale [...] dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli la sicurezza, l'osservanza della giustizia e il rispetto dei diritti", come si esprime il Concilio Vaticano II . Si deve, quindi, pervenire a una sempre più reale e corretta limitazione del principio di sovranità degli Stati. Questa idea mette in discussione le forme tradizionali della collaborazione internazionale, che si fonda ancora su relazioni pattizie tra gli Stati ed è diretta a contemperare i loro interessi particolari. È una strada da percorrere con saggezza e con decisione, nella certezza che, se la sovranità degli Stati - così come storicamente si è andata realizzando - ha rappresentato uno strumento di gestione particolaristica ed egoistica degli interessi nazionali, la sua limitazione non può che significare l'avvio concreto di un processo istituzionale capace di sfociare in un assetto di governo che serva un'autentica cultura di solidarietà internazionale. Si tratta, in altri termini, di porre in atto quei mutamenti anche istituzionali capaci di "elevare i rapporti tra le nazioni dal livello "organizzativo" a quello, per così dire, "organico", dalla semplice "esistenza con" alla "esistenza per" gli altri, in un fecondo scambio di doni, vantaggioso innanzitutto per le nazioni più deboli, ma in definitiva foriero di benessere per tutti. Solo a questa condizione si avrà il superamento non soltanto delle "guerre guerreggiate", ma anche delle "guerre fredde"; non solo l'eguaglianza di diritto tra tutti i popoli, ma anche la loro attiva partecipazione alla costruzione di un futuro migliore; non solo il rispetto delle singole identità culturali, ma la loro piena valorizzazione, come ricchezza comune del patrimonio culturale dell'umanità" .
Da un punto di vista più propriamente etico-culturale, occorre lasciarsi ispirare e guidare da quel concetto di "famiglia delle nazioni", lanciato nello stesso discorso tenuto dal Papa all'ONU. Giovanni Paolo II sottolineava allora che "il concetto di "famiglia" evoca immediatamente qualcosa che va al di là dei semplici rapporti funzionali o della sola convergenza di interessi. La famiglia è, per sua natura, una comunità fondata sulla fiducia reciproca, sul sostegno vicendevole, sul rispetto sincero. In un'autentica famiglia non c'è il dominio dei forti; al contrario, i membri più deboli sono, proprio per la loro debolezza, doppiamente accolti e serviti. Sono questi, trasposti al livello della "famiglia delle nazioni", i sentimenti che devono intessere, prima ancora del semplice diritto, le relazioni fra i popoli".

CONCLUSIONE

Concludendo questo mio intervento, vorrei partire da una considerazione di ordine pratico, che ci dice come, ancora oggi, purtroppo, in qualche caso, la guerra appare come inevitabile: quando non vi è un diverso modo di difendere un popolo che appare destinato all'annientamento, non c'è altra scelta.
A tale "inevitabilità", però, non ci si può arrendere. Dobbiamo continuamente porci la domanda circa quale possa essere l'alternativa all'uso delle armi. Tale alternativa va pensata, cercata, anche quando sembra impossibile. In questo senso, dobbiamo augurarci che la coscienza critica dei cristiani e di ogni uomo faccia ancora dei passi ulteriori.

Nel frattempo, occorre che la mobilitazione contro il male sia accompagnata da un'opera progettuale, che dia nuova consistenza alla pace, alla sicurezza, alla stessa dissuasione. Non ci si può rassegnare alla logica della guerra o della dissuasione armata: vorrebbe dire finire in una trappola mortale per l'umanità.
Come ho avuto modo di sottolineare in altre occasioni, si tratta di "disarmare gli animi, armando la ragione". È un invito e un appello che tutti ci coinvolge e che mi auspico possa essere accolto, così da dare un volto più bello e più umano - perché più pacifico - al secolo XXI.

(Relazione tenuta a Roma il 12.07.2000 durante il convegno a Palazzo Rospigliosi promosso dal Forum di Relazioni internazionali)

Il diverso può configurarsi come il nemico quando si accosta – o lo si accosta – e non c’è da meravigliarsi se l’interagire di forme di vita tra loro distanti desti reciproci sospetti.

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