XXVI Domenica del tempo ordinario - Anno C
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Am 6,1a.4-7
Dal libro del profeta Amos
Guai agli spensierati di Sion
e a quelli che si considerano sicuri
sulla montagna di Samaria!
Distesi su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani
mangiano gli agnelli del gregge
e i vitelli cresciuti nella stalla.
Canterellano al suono dell’arpa,
come Davide improvvisano su strumenti musicali;
bevono il vino in larghe coppe
e si ungono con gli unguenti più raffinati,
ma della rovina di Giuseppe non si preoccupano.
Perciò ora andranno in esilio in testa ai deportati
e cesserà l’orgia dei dissoluti.
Salmo Responsoriale Sal 145 (146)
Loda il Signore, anima mia.
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.
Seconda Lettura 1Tm 6,11-16
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo
Tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza. Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.
Davanti a Dio, che dà vita a tutte le cose, e a Gesù Cristo, che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato, ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi mostrata da Dio,
il beato e unico Sovrano,
il Re dei re e Signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità
e abita una luce inaccessibile:
nessuno fra gli uomini lo ha mai visto né può vederlo.
A lui onore e potenza per sempre. Amen.
Canto al Vangelo (2Cor 8,9)
Alleluia, Alleluia
Gesù Cristo da ricco che era, si è fatto povero per voi,
perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà.
Alleluia, Alleluia
Vangelo Lc Lc 16,19-31
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei:
«C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma".
Ma Abramo rispose: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi".
E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».
OMELIA
«Si hanno due vite. La seconda comincia il giorno in cui ci si rende conto che non se ne ha che una» (Confucio).
La vita ci è data ora. Non domani e non altrove. Ed è qui che possiamo trasformarla in paradiso o in inferno. Dipende solo da noi. Infatti, paradiso e inferno non sono luoghi futuri, ma modi di abitare il presente, la storia e le relazioni.
La parabola evangelica di oggi, detta del ‘ricco epulone’, ce lo ricorda con forza. Questo personaggio è descritto come ricco e solo, talmente solo da non avere neppure un nome. Solo in seguito verrà chiamato “epulone”, ma non è un nome proprio: è la definizione di ciò che possiede e ostenta, non di chi egli è. Mangia, veste, gode… ma resta anonimo, sconosciuto persino a sé stesso. Come a dire che son le cose a definirlo.
Lazzaro invece ha un nome proprio di persona. Certo, è povero, mendicante, piagato, eppure ha un nome e con questo nome è ‘chiamato’. Accanto a lui compaiono persino dei cani, che gli lambiscono le ferite: più compassionevoli degli uomini, custodi silenziosi di un briciolo di paradiso.
Il ricco, oltre a non possedere un nome, ad essere anonimo è anche cieco. Non vede infatti chi giace alla sua porta. Ha occhi solo per “la sua roba”, direbbe Verga. E proprio la sua roba l’ha ingannato, convincendolo che fosse l’assoluto, il tutto per cui meritasse giocarsi la vita. Ma alla sua porta c’è sempre stato un altro “assoluto”: un altro sé, che chiede solo d’essere visto, accolto, e sfamato.
La roba acceca, ottunde il cuore ci suggerisce oggi il maestro di Nazareth. Ci illude che la vita sia solo ciò che si consuma, ciò che si difende coi denti. E così ingrassiamo i nostri idoli, coccoliamo illusioni, custodiamo inganni. Ma a ben vedere, di vite ne abbiamo due. La seconda è quella che scartiamo, che resta affamata e ferita ai margini, e chiede solo di essere riconosciuta. È il nostro vero Sé, la matrice da cui siamo generati. Ciò che verrebbe alla luce se l’ego si dissolvesse. È il divino che palpita dentro la nostra fragile carne.
Oggi siamo chiamati a prenderci cura anzitutto di quel povero Lazzaro che abita in noi, sorgente interiore dimenticata. Non domani. Domani sarebbe già troppo tardi. Oggi va nutrito l’essere spirituale, lasciato morire di fame mentre ci preoccupavamo solo della “roba” che passa.
C.G. Jung nel Libro rosso scrive parole che ci trafiggono:
«Per quale ragione il mio Sé è un deserto? Ho forse vissuto troppo al di fuori di me, nelle persone e nelle cose? Perché ho evitato il mio Sé? Non ero forse caro a me stesso? Eppure ho evitato il luogo della mia anima. Dopo che non ero più le cose e le altre persone, ero i miei pensieri. Non ero però il mio Sé, che si contrappone ai miei pensieri. Dovrei dunque elevarmi anche al di sopra dei miei pensieri per raggiungere il mio proprio Sé. Lì conduce il mio viaggio. Esso conduce dunque lontano da persone e cose, nella solitudine. Ma è solitudine restare con sé stessi? Solitudine probabilmente solo se il Sé è un deserto» (Libro rosso).
Ecco il cammino: ritrovare quel Lazzaro interiore, ridargli nome, nutrimento, dignità. Altrimenti il Sé resta deserto, e la vita scivola via anonima, come quella dell’epulone.
Paolo Scquizzato