Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura 1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23
Salmo Responsoriale Sal 103
Il Signore è buono e grande nell’amore.
Benedici il Signore, anima mia,
quanto è in me benedica il suo santo nome.
Benedici il Signore, anima mia,
non dimenticare tutti i suoi benefici.
Egli perdona tutte le tue colpe,
guarisce tutte le tue infermità,
salva dalla fossa la tua vita,
ti circonda di bontà e misericordia.
Misericordioso e pietoso è il Signore,
lento all’ira e grande nell’amore.
Non ci tratta secondo i nostri peccati
e non ci ripaga secondo le nostre colpe.
Quanto dista l’oriente dall’occidente,
così egli allontana da noi le nostre colpe.
Come è tenero un padre verso i figli,
così il Signore è tenero verso quelli che lo temono.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Alleluia, alleluia.
Vi do un comandamento nuovo, dice il Signore:
come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri.
Alleluia.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
«A voi che ascoltate, io dico: amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano, benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi trattano male. A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra; a chi ti strappa il mantello, non rifiutare neanche la tunica. Da’ a chiunque ti chiede, e a chi prende le cose tue, non chiederle indietro.
E come volete che gli uomini facciano a voi, così anche voi fate a loro.
Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi.
Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso.
Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato: una misura buona, pigiata, colma e traboccante vi sarà versata nel grembo, perché con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio».
OMELIA
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Ger 17, 5-8
Salmo Responsoriale Sal 1
Beato l'uomo che confida nel Signore.
Beato l'uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.
È come albero piantato lungo corsi d'acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.
Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Alleluia, alleluia.
Rallegratevi ed esultate, dice il Signore,
perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.
Alleluia.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù, disceso con i Dodici, si fermò in un luogo pianeggiante. C'era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne.
Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
"Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell'uomo. Rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi, ricchi,
perché avete già ricevuto la vostra consolazione.
Guai a voi, che ora siete sazi,
perché avrete fame.
Guai a voi, che ora ridete,
perché sarete nel dolore e piangerete.
Guai, quando tutti gli uomini diranno bene di voi. Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i falsi profeti".
OMELIA
1. Il silenzio grembo in cui prende vita la preghiera e l’intera celebrazione
La prima cosa che viene in mente parlando del silenzio è di pensare a un tempo o un luogo caratterizzato dall'assenza della parola, dei rumori e delle relazioni; l'immagine che si accompagna è quella del vuoto, della solitudine... In realtà il silenzio è il grembo da cui nasce la parola carica di verità, da cui sgorga la preghiera. Fare silenzio è accingersi a pregare, è dare inizio alla preghiera.
Possiamo anche dire che il silenzio è il grembo da cui nasce e in cui si sviluppa la celebrazione. Eravamo soliti incominciare il Sal 65 (64) dicendo - seguendo il testo greco -: «A te si deve lode, o Dio, in Sion». La nuova traduzione CEI, facendo riferimento al testo ebraico, ci fa pregare dicendo: «Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion». Secondo questa formulazione, parafrasando, potremo dire: «Per te il silenzio è eucaristia, o Dio, in Sion (nella chiesa)».
Non fa meraviglia perciò che, a differenza del Ritus servandus in celebratione Missae del Messale tridentino, il nuovo Ordinamento Generale del Messale Romano (= OGMR), frutto della riforma liturgica del Vaticano II, richiami ripetutamente lungo l'intera celebrazione al valore del silenzio: cfr. OGMR 43,45,51,54,55,56, 66, 71,78,84,88, 127, 128, 130, 136, 147,164,165,271. Ripercorrendo queste indicazioni rubricali possiamo parlare di “silenzi dell'eucaristia”.
2. I silenzi dell'eucaristia
La linguistica ci insegna che una parola o un gesto, a seconda del contesto in cui viene a trovarsi inserita, amplia o restringe il suo significato1. Questo avviene anche per il silenzio: a seconda del momento in cui 'si fa silenzio', esso si carica di un particolare significato e contribuisce a dare un senso all'intera sequenza rituale. Ce lo ricorda l'OGMR formulando una indicazione generale:
Si deve anche osservare, a suo tempo, il sacro silenzio, come parte della celebrazione. La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l'atto penitenziale e dopo l'invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l'omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione (OGMR 45).
A prima vista questo testo sembra dare al silenzio un significato puramente funzionale; in realtà è proprio per il suo collocarsi in quel preciso momento, in quella sequenza rituale, che riceve e dà senso a essa. Per rendercene conto prendiamo in esame alcuni dei silenzi che sono previsti per la celebrazione dell' eucaristia.
2.1. Il silenzio della preparazione
Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia, nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione (OGMR 45).
Questo silenzio ha come soggetto il luogo e le persone. È un silenzio liminale, cioè che fa da confine, da soglia. Anche chi è entrato nella chiesa, ha cioè varcato fisicamente la soglia, deve intraprendere quel cammino che lo porta dal 'rumore' al silenzio interiore. Questo silenzio dà avvio a un movimento, quello dell'entrata nella celebrazione: movimento fisico è movimento del cuore e della mente. Fa spazio all'attesa dell'incontro con Dio e con gli altri (assemblea).
Attualmente si fa poca attenzione a questo silenzio; in questo modo si pregiudica l'avvio della celebrazione, che nasce da questo primo silenzio.
2.2. Il silenzio dei peccatori
Dopo il saluto iniziale, il sacerdote invita all'atto penitenziale dicendo: «Fratelli, prima di celebrare i santi misteri, riconosciamo i nostri peccati»; «Dopo una breve pausa di silenzio, viene compiuto da tutta la comunità mediante una formula di confessione generale» (OGMR 51).
Questo silenzio porta a una presa di coscienza di trovarsi davanti ai 'santi misteri' che l'eucaristia racchiude e sta per ripresentare; conseguentemente fa scoprire la nostra situazione di peccatori da cui nasce la domanda di perdono. Infatti quando l'uomo si trova davanti a Dio e al suo mistero, scopre il suo stato di peccatore; avvenne così per Isaia che disse: «Ohimè, sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,5). Lo è stato anche per Pietro; davanti alla pesca miracolosa egli si getta alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore» (Lc 5,8s.).
2.3. Il silenzio che genera la preghiera
Chi viene alla messa porta con sé un mondo inespresso - problemi, aspirazioni, ricerche... - che attende di poter emergere. Per questo l'OGMR dice che, dopo l'atto penitenziale ed eventualmente il canto del Gloria:
Il sacerdote invita il popolo a pregare e tutti insieme con lui stanno per qualche momento in silenzio, per prendere coscienza di essere alla presenza di Dio e poter formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera. Quindi il sacerdote dice l'orazione, chiamata comunemente 'colletta', per mezzo della quale viene espresso il carattere della celebrazione (OGMR 54).
Il sacerdote invita il popolo alla preghiera, dicendo a mani giunte: Preghiamo. E tutti insieme con il sacerdote pregano, per breve tempo, in silenzio. Poi il sacerdote, con le braccia allargate, dice la colletta; al termine di questa, il popolo acclama: Amen (OGMR 127).
Questo silenzio, in cui è inserita la colletta, è orientato a «prendere coscienza di essere alla presenza di Dio» e a dare la possibilità di «formulare nel cuore le proprie intenzioni di preghiera», che vengono poi raccolte (di qui 'colletta') da chi presiede in un'unica orazione, conclusa con la partecipazione di tutti mediante «l'acclamazione Amen».
2.4. Il silenzio dell'ascolto e della meditazione
L'OGMR, descrivendo la sequenza della liturgia della Parola, richiama ripetutamente la necessità del silenzio, prima, durante e dopo la proclamazione; è un silenzio fecondo, perché da esso sgorga la risposta orante, la professione di fede, la preghiera dei fedeli, l'offerta del sacrificio spirituale del credente.
Le letture scelte dalla sacra Scrittura con i canti che le accompagnano costituiscono la parte principale della liturgia della Parola; l'omelia, la professione di fede e la preghiera universale o preghiera dei fedeli sviluppano e concludono tale parte. Infatti nelle letture, che vengono poi spiegate nell'omelia, Dio parla al suo popolo, gli manifesta il mistero della redenzione e della salvezza e offre un nutrimento spirituale; Cristo stesso è presente, per mezzo della sua parola, tra i fedeli. Il popolo fa propria questa parola divina con il silenzio e i canti, e vi aderisce con la professione di fede. Così nutrito, prega nell'orazione universale per le necessità di tutta la chiesa e per la salvezza del mondo intero (OGMR 55).
La liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento, in essa sono opportuni anche brevi momenti di silenzio, adatti all' assemblea radunata, per mezzo dei quali, con l'aiuto dello Spirito Santo, la parola di Dio venga accolta nel cuore e si prepari la risposta con la preghiera. Questi momenti di silenzio si possono osservare, per esempio, prima che inizi la stessa liturgia della Parola, dopo la prima e la seconda lettura, e terminata l'omelia (OGMR 56).
Alla fine [della lettura] il lettore pronuncia l'acclamazione «Parola di Dio» e tutti rispondono «Rendiamo grazie a Dio». Quindi si può osservare, secondo l'opportunità, un breve momento di silenzio affinché tutti meditino brevemente ciò che hanno ascoltato (OGMR 128).
Se c'è una seconda lettura prima del vangelo, il lettore la proclama dall'ambone, tutti stanno in ascolto, e alla fine rispondono con l'acclamazione. Poi, secondo l'opportunità, si può osservare un breve momento di silenzio (OGMR 130).
È opportuno, dopo l'omelia, osservare un breve momento di silenzio (OGMR 66).
Il sacerdote... pronuncia l'omelia, al termine della quale si può osservare un momento di silenzio (OGMR 136).
Il popolo invece, stando in piedi, esprime [nella preghiera dei fedeli] la sua supplica con una invocazione comune dopo la formulazione di ogni singola intenzione, oppure pregando in silenzio (OGMR 70).
In questi testi intravvediamo una pluralità di funzioni e di significati del silenzio, a seconda di dove viene a trovarsi inserito.
C'è il silenzio prima della parola: è il silenzio della disponibilità all'accoglienza. Ancor prima di essere possibilità di riflessione, il silenzio è qui spazio per l'ascolto, per l'accoglienza senza pregiudizi, per la disponibilità libera dalla presunzione di sé. Il silenzio, così inteso, può paragonarsi a quel terreno buono di cui leggiamo nel vangelo (Lc 8,8) capace di ricevere il seme della parola di Dio.
C'è il silenzio durante e dopo la parola: è il silenzio della 'meditazione'. Chi ascolta fa come Maria che «custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19), cioè ricercandone il senso per la vita propria e della comunità.
In questo silenzio matura la riposta a Dio che ci ha parlato: il Credo (OGMR 67s.), la preghiera dei fedeli (OGMR 70), l'offerta (preparazione dei doni), l'azione di grazie (Preghiera eucaristica). L'insistenza dell'OGMR nel sottolineare i momenti di silenzio lungo tutta la sequenza della liturgia della Parola sta a indicare che essa deve essere immersa in un clima di silenzio.
2.5. Il silenzio dell'offerta e della glorificazione
Secondo l'OGMR il popolo accompagna la Preghiera eucaristica con il silenzio:
Il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell'azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge a Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa preghiera è che tutta l'assemblea dei fedeli si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell'offrire il sacrificio. La Preghiera eucaristica esige che tutti l'ascoltino con riverenza e silenzio (OGMR 78).
La Preghiera eucaristica esige, per sua natura, di essere pronunciata dal solo sacerdote, in forza dell' ordinazione. Il popolo invece si associ al sacerdote con fede e in silenzio, e anche con gli interventi stabiliti nel corso della Preghiera eucaristica (OGMR 147).
In questo silenzio il popolo è associato «per Cristo, con Cristo e in Cristo» all'azione di grazie per le 'grandi opere di Dio', all'offerta del sacrifico, alla glorificazione di Dio. È davvero un 'sacro silenzio', il silenzio dell'offerta e della glorificazione di Dio, in un atteggiamento adorante.
2.6. Il silenzio della fede e dell'adorazione
Dopo aver pronunciato le parole dell'istituzione, prima sul pane e poi sul vino, il sacerdote, in silenzio, presenta al popolo le specie eucaristiche, poi genuflette in segno di adorazione e conclude proclamando «Mistero della fede!». L'assemblea resta in silenzio e durante l'ostensione del pane e del vino consacrati, professa la sua fede nella presenza del Signore morto e risorto; vi è un suggerimento al riguardo: guardare le specie eucaristiche nel momento dell'ostensione e fare propria la professione di fede di Tommaso dicendo: «Signore mio e Dio mio!». Al termine della sequenza del racconto dell' istituzione, frutto del silenzio adorante, l'assemblea proclama la sua fede nel ripresentarsi oggi della passione morte e risurrezione del Signore.
2.7. Il silenzio dell'intimità che diventa canto
Anche nella sequenza rituale della comunione, come in quella della liturgia della Parola, ricorre continuamente il richiamo al silenzio, prima, durante e dopo la comunione.
Il sacerdote si prepara con una preghiera silenziosa a ricevere con frutto il corpo e il sangue di Cristo. Lo stesso fanno i fedeli pregando in silenzio (OGMR 84).
Dopo aver purificato il calice, conviene che il sacerdote osservi una pausa di silenzio; poi dice l'orazione dopo la comunione (OGMR 271).
Stando alla sede o all'altare, il sacerdote, rivolto al popolo, dice a mani giunte: Preghiamo e, a braccia allargate, dice l'orazione dopo la comunione, alla quale può premettere una breve pausa di silenzio (OGMR 165).
Questo silenzio personale permette il dialogo intimo con lo Sposo venuto per le nozze. Da questo silenzio nasce il canto di tutti gli invitati alle nozze dell' Agnello:
Terminata la distribuzione della comunione, il sacerdote e i fedeli, secondo l'opportunità, pregano per un po' di tempo in silenzio. Tutta l'assemblea può anche cantare un salmo, un altro cantico di lode o un inno (OGMR 88).
Compiuta la purificazione, il sacerdote può ritornare alla sede. Si può osservare, per un tempo conveniente, il sacro silenzio, oppure cantare un salmo, un altro canto di lode o un inno (OGMR 164).
Da notare che questo canto è l'ultimo previsto dall'OGMR, il vero canto finale. Purtroppo l'inosservanza di questo dettato dell'OGMR e delle dinamiche che vi soggiacciono, hanno portato un po' dovunque a fare un così detto canto finale che finisce per svilire la sequenza rituale della comunione, privandola del suo punto culmine: la preghiera intima che si fa canto.
3. Conclusione
Abbiamo percorso a grandi linee il dettato dell'OGMR in tema di silenzio. Ciò che emerge è che il nuovo rito - checché ne dicano i suoi detrattori - messo in opera da una sapiente regia e da presidenti e animatori competenti, orienta a far nascere dal silenzio la celebrazione dell'eucaristia, un silenzio che assume di volta in volta colori diversi, rende possibile l'ascolto fecondo, carica di significato le parole e i gesti, fa assumere alla preghiera tutte le sue diverse dimensioni, fino a farsi canto.
1 Cfr. G. VENTURI, Apporti della linguistica moderna alla comprensione della problematica del linguaggio liturgico, in AA.VV., Il linguaggio liturgico. Prospettive metodologiche e indicazioni pastorali, Dehoniane, Bologna 1981, 63 -117 .
(tratto da Rivista di Pastorale Liturgica, anno 2011, n. 289)
Ogni suicidio è una storia a sé e non ci sono spiegazioni dinanzi a un gesto che, il più delle volte, lascia sconcertati e interdetti. Non si sa mai quello che passa nella mente e nel cuore di chi sta per togliersi la vita.
Talvolta l'atto suicida contrasta con i valori professati dalla persona; è un tassello che non quadra con la sua storia. In qualche circostanza, il suicidio sopraggiunge proprio quando sembrava che le cose stessero prendendo una piega giusta.
Chi decide di sopprimere la propria vita lo fa per un'infinità di motivi, tra cui: la depressione, il disturbo bipolare, la solitudine, il senso di inutilità, le conflittualità familiari, l'incapacità di tollerare le frustrazioni, i fallimenti, le spigolosità caratteriali, una diagnosi infausta, le perdite. La scelta di chiudere il sipario matura all'ombra di sentimenti o pensieri struggenti, vissuti spesso come monologo. Il suicida rimane avvolto in un vortice di considerazioni che assolutizzano la sua visione catastrofica delle cose e lo convincono che la sua situazione è disperata e irreversibile.
Per chi resta l'impatto è terribile. Non è solo il sentimento di abbandono che sconvolge, ma la drammaticità di un gesto che, razionalmente o irrazionalmente, è percepito come un'accusa.
Lo strazio di chi resta
Familiari e amici si consumano nel tormento di aver fallito nel proprio ruolo di genitore, coniuge o figlio, di non aver amato abbastanza, di non aver prestato sufficiente attenzione a un gesto o a una parola, di non aver saputo decifrare un messaggio, di non poter tornare indietro.
I superstiti si sentono oppressi da una valanga di interrogativi, da tanti "ma" e "se", e da sentimenti contrastanti tra cui predominano il senso di colpa e la rabbia.
Innanzitutto familiari e amici sono sconvolti per non aver potuto prevenire la tragedia: «Vivrò il resto dei miei giorni nel tormento, per non averlo potuto salvare». «Passo le notti insonni, cercando disperatamente di cambiare ciò che è successo». «Sono rammaricata di non aver capito il dolore che si portava dentro».
Alcune famiglie provano vergogna e mascherano le vere cause di morte, attribuendola a fattori circostanziali: «Un infarto se l'è portato via per sempre». «Aveva un tumore al cervello». «Stava pulendo il fucile ed è partito il colpo».
Talvolta il senso di colpa emerge quando i familiari vanno al supermercato o in chiesa e avvertono il sussurro di qualcuno che dice: «Quella è la madre del ragazzo che si è impiccato». «Quello è il marito della donna che si è buttata dal quinto piano». Dietro ai commenti, i superstiti avvertono una silenziosa accusa per quanto accaduto o per aver fallito nel loro ruolo formativo o protettivo.
La presenza del senso di colpa richiede comprensione, ma anche una saggia valutazione nel rivisitare quanto accaduto. C'è il rischio di tormentarsi per colpe o errori non imputabili alla propria conoscenza o responsabilità. D'altro canto, non si può giudicare il passato con la conoscenza di oggi; né si può ritenere di essere l'unica persona di riferimento nella vita del defunto, né lo si può vegliare 24 ore su 24, per impedirne la morte, né si può scegliere per lui/lei. Se così fosse, il proprio caro sarebbe ancora vivo.
L'amore ferito
L'altro forte sentimento è di collera verso il proprio caro per averli lasciati, per aver rinunciato a lottare, per essersene andato senza salutare e aver inquinato l'immagine della famiglia. Per alcuni, la rabbia prorompe dinanzi agli imbarazzanti colloqui sostenuti con i carabinieri o per l'infinità di problemi causati.
Ecco alcune espressioni: «Non aveva il diritto di pensare solo a sé». «Non doveva lasciarci così!». «Perché lo ha fatto?». «Perché non ha pensato ai bambini?». Spesso sono le notti in bianco, il letto freddo, i mille grattacapi della vita quotidiana ad acutizzare l'irritabilità e la tensione.
In qualche modo i superstiti, a differenza del proprio caro che ha deciso di arrendersi, attraverso questa reazione dichiarano la loro volontà di andare avanti e di non lasciarsi travolgere dallo scoraggiamento.
La collera è un sentimento legato all'amore ferito, alla frustrazione per progetti distrutti, attese mancate, opportunità perdute. Non bisogna reprimerla o redarguire quanti la sperimentano con frasi. del tipo: «Non sentirti così!». «Non arrabbiarti!». «Non dire così!». È necessario che chi è in lutto dia spazio alla propria amarezza, quale premessa per maturare successivamente un atteggiamento di comprensione verso chi lo ha ferito, accettandone i misteri e la paura di vivere.
(tratto da Missione Salute, n. 1/2018, pag. 64)
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Is 6, 1-2. 3-8
Salmo Responsoriale Sal 127
Cantiamo al Signore, grande è la sua gloria.
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.
Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore!
La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l'opera delle tue mani.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Alleluia, alleluia.
Venite dietro a me, dice il Signore,
vi farò pescatori di uomini.
Alleluia.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, mentre la folla gli faceva ressa attorno per ascoltare la parola di Dio, Gesù, stando presso il lago di Gennèsaret, vide due barche accostate alla sponda. I pescatori erano scesi e lavavano le reti. Salì in una barca, che era di Simone, e lo pregò di scostarsi un poco da terra. Sedette e insegnava alle folle dalla barca.
Quando ebbe finito di parlare, disse a Simone: "Prendi il largo e gettate le vostre reti per la pesca". Simone rispose: "Maestro, abbiamo faticato tutta la notte e non abbiamo preso nulla; ma sulla tua parola getterò le reti". Fecero così e presero una quantità enorme di pesci e le loro reti quasi si rompevano. Allora fecero cenno ai compagni dell'altra barca, che venissero ad aiutarli. Essi vennero e riempirono tutte e due le barche fino a farle quasi affondare.
Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: "Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore". Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedèo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: "Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini".
E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono.
OMELIA
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Ml 3, 1-4
Salmo Responsoriale Sal 23
Vieni, Signore, nel tuo tempio santo.
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso,
il Signore valoroso in battaglia.
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria.
Dalla lettera agli Ebrei
Alleluia, alleluia.
I miei occhi hanno visto la tua salvezza:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele.
Alleluia.
Dal Vangelo secondo Luca
Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore - come è scritto nella legge del Signore: "Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore" - e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore.
Ora a Gerusalemme c'era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d'Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore.
Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, anch'egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:
"Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo
vada in pace, secondo la tua parola,
perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli:
luce per rivelarti alle genti
e gloria del tuo popolo, Israele".
Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: "Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione - e anche a te una spada trafiggerà l'anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori".
C'era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto con il marito sette anni dopo il suo matrimonio, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme.
Quando ebbero adempiuto ogni cosa secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nàzaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui.
OMELIA
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Ne 8, 2-4. 5-6. 8-10
Salmo Responsoriale Sal 18
Le tue parole, Signore, sono spirito e vita.
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
Ti siano gradite le parole della mia bocca;
davanti a te i pensieri del mio cuore,
Signore, mia roccia e mio redentore.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Alleluia, alleluia.
Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione.
Alleluia.
Dal Vangelo secondo Luca
Poiché molti hanno cercato di raccontare con ordine gli avvenimenti che si sono compiuti in mezzo a noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola, così anch'io ho deciso di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi, e di scriverne un resoconto ordinato per te, illustre Teòfilo, in modo che tu possa renderti conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
In quel tempo, Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. Insegnava nelle loro sinagoghe e gli rendevano lode.
Venne a Nàzaret, dove era cresciuto, e secondo il suo solito, di sabato, entrò nella sinagoga e si alzò a leggere. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaìa; aprì il rotolo e trovò il passo dove era scritto:
"Lo Spirito del Signore è sopra di me;
per questo mi ha consacrato con l'unzione
e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio,
a proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
a rimettere in libertà gli oppressi
e proclamare l'anno di grazia del Signore".
Riavvolse il rotolo, lo riconsegnò all'inserviente e sedette. Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: "Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato".
OMELIA
Prima di tutto vorrei condividere con voi un episodio del mio passato, vissuto nella Chiesa Ortodossa Russa, della quale faccio parte come presbitero. Dico subito: davanti alla sfida della pace penso che questa Chiesa si trova attualmente in una grave crisi spirituale. Come dice il Salmo: “di pace essi parlano ai loro vicini, mentre malizia c’è nel loro cuore” (28,3). Adesso non parlano nemmeno. La Teologia della pace esiste ancora, ma la pace non c’è. Per cominciare propongo la mia testimonianza.
Quando ero giovane, la parola “pace” faceva parte del discorso indispensabile della Chiesa ortodossa Russa, nella quale sono stato battezzato nel lontano 1971. Questa Chiesa mi ha spalancato le porte della fede cristiana. Ho avuto la sfortuna di venire in un mondo che era costretto, la mia famiglia inclusa, quasi condannato, all’ateismo di Stato, ma io ho avuto anche la fortuna di trovare la fede nell’età adulta, con una scelta cosciente. Poi ho riflettuto tutta la vita su questa svolta, chiedendomi : perché il Signore mi ha mandato un invito improvviso a questo banchetto? E sono diventato sacerdote proprio per non lasciarlo mai più.
La Chiesa ortodossa nell’Unione Sovietica, come tutti sanno, esisteva su di un territorio ideologico dove era incluso tutto ciò che esisteva e dal quale nessuno poteva uscire. Se tu occupaviun posto più che modesto nella gerarchia sociale, potevi almeno tacere. La Chiesa, come ogni struttura religiosa giuridicamente legale, era sempre sospettata e non aveva questo diritto. In quel tempo, parlo degli anni brezneviani, la memoria delle persecuzioni subite, sanguinarie sotto Stalin, oppure senza effusione di sangue, ma con la chiusura massiccia dei luoghi di culto sotto Kruscev, era ancora molto viva e dolorosa nella Chiesa. Dagli anni venti del secolo scorso il suo organismo ha imparato la scienza dell’adattamento, del conformismo, senza frontiere. Peggio ancora: la Chiesa si è inserita con comodità in questa posizione declassata e degradata. L’ha anche amata, in un certo senso, perché il conformismo era pieno di privilegi per le persone importanti, per i vescovi, i metropoliti. Uno dei privilegi era il permesso di uscire dal mondo ermeticamente chiuso, invalicabile per i cittadini semplici, ed andare all’estero, in Occidente in primo luogo. Certo, non per turismo personale, ma per parteciparealle varie conferenze teologiche con i colleghi occidentali. Per fare la teologia della pace prima di tutto.
Cosa dicevano questi teologi alle conferenze internazionali? Oltreai problemi degli addetti ai lavori, due motivi emergevano ed erano sempre presenti negli incontri all’estero e che andavano benissimo anche insieme ai discorsi più sublimi. Il primo: nell’Unione Sovietica non c’erano mai e non potevano neanche esserci una qualche persecuzione della fede cristiana (o di un’altra religione) per mano del regime poiché la sua Costituzione garantiva la libertà di coscienza per tutti i suoi cittadini. Qualunque chiacchiera su questo argomento non era altro che propaganda antisovietica e non poteva nemmeno essere discusso. Un altro motivo, più permanente ed insistente,durante i colloqui di quel tenore, era la lotta per la pace. Se con i diritti dei credenti non tutto era chiaro per gli interlocutori occidentali, con la lotta per la pace le cose procedevano più liscie e nel reciproco compiacimento.
Ma la lotta con chi? I due mondi usavano un linguaggio quasi comune e tuttavia con un messaggio diverso. “Siete per la pace in tutto il mondo?” - chiedevano gli inviati sovietici agli interlocutori occidentali. “Certo!”. “Siete contro la bomba atomica?”- “Come tutto il mondo”. “Siete contro l’imperialismo occidentale e soprattutto americano?”. “Senza dubbio”. “Siete contro i vostri governi venali al soldo del padrone d’oltreoceano?” “In gran parte sì, siamo decisamente contro”... e così via. Questo era il piatto principale, tutto il resto era, direi, il contorno. Una piena compressione reciproca si stabilisce tra due teologie della pace quando ambedue manifestano una nobile volontà per il trionfo del bene sul male dappertutto. Era assolutamente inopportuno e maleducato parlare in questo contesto dei diritti dei credenti in Oriente e della libertà di coscienza, oppure menzionare l’invasione di un altro paese, come la Cecoslovacchia o l’Afghanistan. Sotto questi discorsi patetici, molto simili ai discorsi cristiani, nella parte ortodossa si poteva leggere il programma chiaramente politico di uno Stato apertamente anticristiano. Le parole, però, spesso coincidevano e sembravano quasi identiche. Lo slogan della pace, anche se solo slogan, era più importante della realtà – assai poco pacifista. Pochi, anzi pochissimi, potevano indovinare che tutte queste belle parole facevano parte di un compito speciale, dato a ciascuno dei partecipanti, i quali dopo ogni riunione avrebbero dovuto scrivere un rapporto segreto alla polizia che aveva dato il permesso di partecipare a questi colloqui, con il resoconto di ogni cosa, inclusi i contatti privati, soprattutto quelli avvenuti fuori aula.
In Russia queste cose non facevano un gran mistero. Tutto ciò che all’interno e fuori del Paese si chiamava “lotta per la pace” ha avuto per noi un suo prezzo, per dire la verità, a buon mercato. Bisogna aggiungere che all’epoca la lotta per la pace andava avanti anche con lo stesso ecumenismo ortodosso. Ma appena è arrivata la libertà, i vecchi amici ecumenici sono rimasti perplessi: perché dopo il crollo del regime è quasi crollato anche l’ecumenismo? Semplice: perché un’attività del genere non era più obbligatoria, la scena internazionale era cambiata. In quel momento la stessa parola “pace”, abusata e compromessa, si è svuotata di qualsiasi contenuto specifico, al pari di un vecchio dettaglio del discorso ideologico. La Chiesa Russa non è più minacciata e non ha più bisogno di giustificare la propria esistenza all’interno di uno Stato che era, confessionalmente e aggressivamente, ateo. Invece il discorso sulle persecuzioni, proibitissimo qualche anno fa, dagli anni ‘90 in poi è diventato non soltanto lecito, ma quasi ufficiale. La parola “pace” piano piano è sparita dallo spazio pubblico. Poi, trent’anni dopo, un’altra svolta inaspettata: lo Stato, più che ortodosso e diventato autoritario, dichiara l’Operazione Speciale contro l’Ucraina. E la parola “pace” ha cambiato rotta. Proprio nel senso orwelliano: la “pace” ormai significa guerra. Ma come? In che modo la lotta per la pace si è trasformata nella benedizione del massacro?
Non si può spiegare tutto solo con l’ubbidienza cieca allo Stato. Questa Operazione Speciale che sostituisce la parola guerra ha una sua dimensione non soltanto ideologica, ma anche psicologica, perfino spirituale. Naturalmente, la Chiesa Russa non dice apertamente: “andate tutti alla guerra, uccidere è una gioia per il cristiano”. Ella chiama il suo gregge alla difesa della patria. Difesa contro chi? Qui troviamo il momento più drammatico, emozionante: l’invenzione del nemico. Il nemico dello Stato nella guerra con l’Ucraina coincide, nel nostro caso, con il nemico ecclesiale. Chi è questo nemico? È lo stesso, il nemico da secoli, raramente anche amico, cioè l’Occidente collettivo – ma con qualche sfumatura in più. Nel caso politico tutto è semplice: l’Occidente è l’aggressore, colui che fa la guerra contro la Russia sulla terra ucraina. Tutto qui. Ma nella prospettiva ecclesiale questa battaglia si riveste dei vestiti teologici, come il sacro dovere della difesa della patria contro l’invasione straniera. La guerra, parola non pronunciabile, è ormai sacra perché l’invasore possiede i tratti apocalittici dell’Anticristo. Anzi, infernali come Satana. Satana: proprio questa parola gira negli ambienti ecclesiali ed esce dalla bocca dello stesso patriarca.
Non cerchiamo le tracce del senso comune in questa posizione, sia politica, sia teologica; di solito l’ideologia prevale sul sano ragionamento. Ma dal punto di vista ecclesiale con quali “versetti satanici” l’Occidente conduce la guerra contro la Russia? Prima di tutto, si tratta della caduta morale: l’Occidente è accusato della corruzione totale: come modo di vivere, dell’omosessualità onnipresente, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso, delle lezioni di educazione sessuale cominciando dalla più tenera età, e così via. Di più. L’Occidente che ha tradito se stesso vuole imporre la sua corruzione anche a noi, puliti e sani, aspira a rubare l’Ucraina dalla sua salute morale. Non è tanto chiaro come queste accuse possano giustificare le bombe che cadano sulla gente pacifica che non è omosessuale, bambini inclusi, ma à la guerre come à la guerre, nella lotta totale contro l’Occidente le vittime non si contano e non hanno i tratti individuali. L’invenzione di qualsiasi nemico va sempre insieme all’invenzione della sua controparte, alla personificazione del bene, anche inventato, nell’incarnazione della patria stessa. Oggi questo bene s’incarna nel “mondo russo”, nel cosiddetto “russkij mir”.
Il “mondo russo” è progettato come il simbolo, la bandiera, la fortezza della moralità, cominciando dall’opposizione della sessualità sana a quella perversa. Da testimone di due mondi, russo e occidentale, potrei affermare che in questo campo non ci sia una grande differenza. Nell’orrore della guerra i soldati occupanti stuprano anche le bambine. Lo slogan “il mondo russo” serve per l’orgoglio nazionale, ma soprattutto per la ricerca della propria identità. Dal punto di vista ecclesiale, espresso da tanti teologi della Chiesa ortodossa, ma al di fuori della Russia, il concetto stesso di “mondo russo” introdotto nel vocabolario spirituale della Chiesa rappresenta una pura eresia. Ma questa eresia non è da ieri. Come non è da ieri è la confusione degli interessi dello Stato con la vita propria della Chiesa. Questo tipo di confusione esiste da tanto tempo; nel 1872 il concilio locale di Costantinopoli ha condannato la confusione di questo genere con il nome di etnofiletismo. La condanna è ancora valida, ma essa, come la libertà di coscienza garantita nella Costituzione, serve piuttosto da decorazione; quasi tutte le Chiese ortodosse sono alquanto ripiegate su se stesse. Tra le innumerevoli ricchezze e virtù della Chiesa ortodossa l’universalismo del messaggio cristiano non occupa il primo posto. La psicosi militarista dopo aver infettato il “russkij mir”, ha rubato i cervelli, danneggiando la fede stessa. Coinvolge la gente semplice nella follia della guerra non soltanto socialmente, ma anche spiritualmente.
Mi ricordo un’immagine quasi commovente che ho trovato sulla pagina FB di un sacerdote ortodosso italiano: una pia vecchietta al momento del voto per lo zar-presidente fa il segno della croce benedicendo l’urna elettorale. Credo che l’autore della fotografia non abbia sospettato che in questo modo lui ci offre un ritratto perfetto della dittatura. Non quella di una tirannia primitiva e violenta, ma quella della padronanza vera e onnipresente che agisce nelle anime. Sotto l’apparenza di una “sancta simplicitas” il televisore-Putin, insieme a tutti i mezzi della comunicazione dei quali egli ha il controllo totale, con le mani del manipolatore-mafioso-Putin vota per il dittatore-Putin. Non a caso il sistema totalitario preferisce chiamarsi democrazia popolare, perché il capo (oppure il partito) unico e il suo popolo fanno in questo tipo di democrazia la stessa cosa. Almeno nel mondo virtuale. Nel mondo reale il padrone non chiede a nessuno il permesso di gettare il proprio popolo nelle fiamme della guerra, ma la guerra si fa sempre nel nome del valore supremo, con un coinvolgimento della sua popolazione non solo sul piano politico (dove la gente non è mai ammessa), ma su quello prima di tutto verbale, dottrinale, appassionato e anche religioso. Proprio l’omogeneità ideologica della società costituisce il nucleo del regime totalitario, sia sovietico, sia attuale, basato sull’identità comune dell’Uno e degli altri. Il “russkij mir” produce oggi questa identità comune.Chi non vuole iscriversi in questa personalità collettiva va defenestrato, emarginato, esiliato, eliminato in un modo o nell’altro.
I giornali parlano della guerra di Putin, è vero o no? Direi, sì e no nello stesso tempo. Certo, solo lui, capo delle forze armate, ha potuto dare l’ordine per iniziare l’Operazione militare speciale che, secondo i suoi progetti, avrebbe dovuto essere breve e trionfante. Tre giorni per prendere Kiev. Tre settimane per schiacciare tutta l’Ucraina. Poi fare il bagno nell’osanna della Russia-vincitrice, come fu dopo la presa della Crimea, e l’umiliazione dell’Occidente che si morderà le mani nel suo rancore impotente. Dopo il restauro graduale dell’impero russo, detto storico, di cui l’Unione Sovietica era solo una tappa provvisoria. Moldova, Georgia, preparatevi! Paesi Baltici, perché no? Se l’Occidente lascia l’Ucraina, lascerà anche la Finlandia che fino al 1918 faceva parte dell’impero russo. L’Europa avrà paura di opporsi alla superpotenza nucleare. Tutti si ricordano la dichiarazione di Putin che la caduta dell’URSS rappresenta la tragedia più grande del XX secolo. Non la Seconda guerra Mondiale con l’Olocausto, non il Gulag. Chi riesce a capovolgere questa tragedia riceverà il gran premio dalla storia.
L’operazione, però, non è andata secondo i progetti iniziali. Essa non è diventata la guerra-lampo, ma un fango di sangue in cui si è trovato tutto il paese. Non soltanto militarmente, ma soprattutto ideologicamente. Nella Federazione Russa attuale non c’è più un’ideologia di Stato di tipo classico (proibita tra l’altro anche dalla Costituzione, ancora eltsiniana) ma c’è un’ideologia in atto, il cui pilastro più importante è la vittoria nel passato. La vittoria sovietica nella Guerra patriotica è festeggiata il 9 maggio ogni anno con una solennità liturgica crescente mentre la partecipazione degli Alleati è sempre più oscurata. Questa festa non fa più accenno alle vittime incalcolabili (nessuno sa la cifra esatta, ma non meno di 30 milioni), ma si basa sempre sulla gloria, sull’eterna invincibilità della Russia. Proprio la vittoria del 1945 è ormai la parte principale di una religione di Stato; tanti bambini nell’età della scuola materna portano con orgoglio l’uniforme militare, mentre mamme sorridenti fanno spesso la gita usando carrozzelle costruite come piccoli carri armati. Nelle strade si possono vedere automobili con sopra l’iscrizione “A Berlino!”. In questo anno nelle tante scuole materne ed elementari sono state introdotte le lezione obbligatorie del patriottismo. Adesso, alla fine del 2024, una decina di conferenze ecclesiali è programmata per festeggiare la gloria degli 80 anni dalla vittoria del 1945. Certo, non tutta la popolazione è tentata da quest’ossessione (di una “vittoria indemoniata”, secondo l’espressione di un sacerdote ortodosso), ma il vento impetuoso che soffia sulle acque russe è così.
Quel vento soffia sulla Chiesa ortodossa perché la guerra in corso ha anche una sua dimensione teologica. Secondo una formula famosa, la guerra è la continuazione della politica con altri mezzi. Tra questi mezzi il primo posto è occupato dalla demonizzazione del nemico, anche se inventato. Ripeto, non eravamo noi ad aver attaccato il paese vicino, ma l’Occidente l’ha fatto con le mani ucraine. Noi difendiamo la nostra patria dall’aggressione occidentale, ma anche dalla sua corruzione, dalla loro democrazia falsa e ipocrita. Ci difendiamo dai missili che nel futuro, forse, sarebbero stati messi ai nostri confini. Se le nostre bombe cadono sugli ospedali, sui teatri, le chiese ed i sistemi energetici in Ucraina (soprattutto sulle città russofone Kharkiv, Odessa, ma anche Kiev) e se lasciamo le città rase al suolo, lo facciamo, come ho detto, per difendere la Santa Rus’ dall’Anticristo.
Di più: difendiamo gli ucraini stessi dal loro ucrainismo testardo, perché la difesa della patria in un caso si chiama patriottismo, nell’altro nazismo. Come se gli ucraini fossero soltanto dei russi smarriti che vanno puniti per aver ceduto all’appello delle sirene occidentali. Il nome stesso Ucraina è sbagliato, il vero nome suo è Novorossia, la vecchia Russia Nuova che faceva sempre parte di quella vecchia. Tutto questo è stato apertamente scritto e proclamato dal Concilio Mondiale Popolare Russo che non è un organo ecclesiale, ma il cui presidente è il patriarca Kirill in persona. Per chi ha un po’ di chiarezza cartesiana nello spirito, si tratta di una povera leggenda politica che comunque funziona. Le guerre non si fanno con le chiarezze, ma con i miti.
Si può capire che sotto un regime dittatoriale la posizione pubblica del capo della confessione più grande del paese non possa essere completamente indipendente. Leggendo i numerosissimi interventi pubblici del patriarca si vede come egli, una persona comunque intelligente, davvero creda alla giusta causa di questo massacro di due popoli, ucraino e russo. Nessun dittatore ha affermato quella recente novità teologica secondo cui i caduti russi di questa guerra siano già liberati da tutti i loro peccati e vadano subito nel Regno dei Cieli. Ciò è molto simile all’assoluzione dei peccati garantita una volta ai crociati. I dittatori non inventano cose del genere. Nello stesso tempo Sua Santità non ha pronunciato nemmeno una parola di compassione nei confronti delle vittime ucraine che rimangono ancora, almeno dal suo punto di vista, nel suo ovile ecclesiale.
La mitologia politica della guerra va avanti e si riveste della teologia. Oggi la Russia si proclama il Katechon (2 Ts. 2,6-7), colui che trattiene (l’ordine divino). La Russia trattiene, si oppone, fa d’ostacolo all’Anticristo collettivo e la Chiesa partecipa per prima in questa battaglia cosmica. Senza nessuna esitazione, a questa battaglia per il Katechon sono mandati anche i criminali comuni. A tutti paesi belligeranti mancano i soldati e la Russia chiede che i carcerati - con qualsiasi crimine sulle spalle - prendano le armi, più uno stipendio oltre le stelle, in cambio di un servizio di sei mesi al fronte, per poi essere liberi. La metà di loro ha già perso la vita. Un’altra metà torna in libertà e uccide di nuovo. È un grande flagello per la società civile quando decine di migliaia di assassini professionisti sono rimessi in libertà senza nessun controllo. Di più: qualsiasi protesta in Russia, anche un semplice “no alla guerra”, pronunciato pubblicamente, può costare qualche anno di galera. Per quale motivo? Per calunnia alle forze armate o addirittura per terrorismo. Ma il fatto più drammatico è che la stessa logica agisce anche nella Chiesa; il patriarca personalmente ha composto la preghiera per la vittoria della mitica “Santa Rus” e l’ha imposta come obbligatoria a tutti i chierici della Chiesa Russa. La devono leggere tutti. Chi si rifiuta è sospeso o anche ridotto allo stato laicale. La maggior parte dei sacerdoti la legge con una buona fede “patriotica”, ma altri - non si sa quanti - col cuore spezzato. Essi sono messi di fronte ad una scelta insopportabile: andare contro la propria coscienza o perdere tutto, rompere con la parrocchia che, a volte, loro stessi hanno costruito, condannando la propria famiglia alla miseria. A tutti i crimini della guerra se ne aggiunge un altro: la confusione totale delle anime, la violenza sulla coscienza, l’asservimento della verità.
La verità da sempre è la prima vittima della guerra, come anche la nostra capacità di compassione, di empatia, di partecipazione al dolore di un altro essere umano si trovano paralizzate. Un’altra vittima è la nostra facoltà di guardare le cose in faccia: un male demografico; le perdite russe sono davvero terribili (spesso i cadaveri dei soldati russi sono abbandonati sui campi di battaglia), una rovina economica imminente, una macchia di sangue sullo stesso nome “Russia” nel mondo. Gli sforzi enormi che la guerra chiede alla Federazione Russa minacciano la sua esistenza stessa come paese unito e multinazionale; bisogna essere ciechi per non accorgersi di questo pericolo.
Immaginiamo: dopo aver sacrificato un milione dei suoi soldati, che ormai non daranno figli, dopo aver provocato un’emigrazione di massa dei migliori specialisti, scienziati, scrittori, dopo aver mandato migliaia e migliaia di giovani che non volevano uccidere in prigione, dopo aver speso mille miliardi di euro per la vittoria militare, dopo aver imposto al paese conquistato un governo fantoccio e la bandiera russa sventolare a Kiev e dappertutto, la Russia finalmente avrà vinto. Con quale guadagno? La conquista di uno spazio completamente rovinato e imbevuto d’odio fino alla gola verso gli invasori che durerà per secoli? Questa guerra non si fa per un guadagno reale, ma per sconfiggere un nemico inventato. La sagoma di questo nemico cresce ogni giorno, chiude la nostra facoltà di riflettere. Una capacità di giudizio sobrio, però, è la virtù più apprezzata nell’Ortodossia.
Qui sta il punto: l’infezione della fede in Cristo con la follia dell’ideologia statale. La confusione della fede ortodossa con la menzogna e gli orrori del regime. Non si tratta di una semplice collaborazione o obbedienza alle circostanze che non si possono cambiare, ma proprio del danno portato all’Ortodossia stessa, del miscuglio del Vangelo con la macchina della propaganda putiniana, ben ingrassata con i soldi dello Stato e che lavora senza sosta. La trasformazione della fede ortodossa in una sorta di religione civile con la sua Santa Rus’, un concetto immaginato nel XIX secolo, contro il mondo anglosassone, come nemico da sempre e così via?... E per questa religione i soldati russi che tornano a migliaia a casa nelle bare di zinco?
Questa guerra si fa non per i soldi che sono buttati via in quantità enorme, ma per il mito nazionale inserito nella stessa vita religiosa. Per il territorio imperiale che è diventato un vero feticcio nella spiritualità perversa. Per provare al mondo corrotto che siamo i più forti, i più veri, i più perfetti. Ma chiediamo: cosa può fare la teologia della pace di cui abbiamo provato a descrivere il suo passato miserabile e il suo presente ingannevole per tornare alla pace vera in futuro? Cristo disse “Abbiate pace in me” (Gv.16,33). Non abbiate l’orgoglio che la vostra fede sia migliore di quella degli altri, che la vostra patria sia più bella e virtuosa, ma abbiate pace in comunione con Cristo – cosa che la Chiesa ortodossa insegna da sempre. Ma che insegna rivolgendosi ad un quadro strettamente personale, che non esce mai fuori dalla pratica ascetica, dal combattimento invisibile. L’Ortodossia ha tutti i mezzi spirituali per liberarsi dalla gabbia ideologica perché la via d’uscita si trova nel suo patrimonio. Questa via è il pentimento. Ho sentito tanti discorsi e prediche sul pentimento e mi chiedevo sempre: perché la spiritualità adatta per una singola persona non è compatibile con la comunità, con la Chiesa di Cristo nel suo insieme? Perché il pentimento per un singolo e l’orgoglio nazionale per il gregge? Se la Chiesa un giorno trova la strada per passare da una spiritualità isolata di tipo monastico alla spiritualità comune, e condivisa con tanti, essa troverebbe anche una vera teologia della pace con gli altri. Dopo essere usciti dalla gabbia dorata del “mondo russo”, possiamo aprirci anche al mondo creato da Dio che Cristo è venuto a salvare. L’unico vantaggio che possiamo avere in questo disastro è il risveglio d‘una nuova vocazione spirituale che crede nell’uomo e che ha aperto le porte a Cristo non soltanto nella cella dell’anima di un monaco solitario, ma nella solidarietà con l’umanità sofferente.
La “Santa Rus’” del lontano passato è un’icona di un paese che esisteva solo nell’immaginario o nel subconscio collettivo e che si è nascosta sotto il nome del “russkij mir”, oggi è opposta alla fede cristiana e davvero ortodossa. Questo è il compito della teologia della pace che consiste non nelle belle citazioni e buone intenzioni, ma anche nella scoperta del pericolo penetrato nella stessa eredita cristiana. Bisogna saper tracciare una linea di demarcazione proprio spirituale tra il messaggio politico e quello ecclesiale, tra la fedeltà a Cesare e la fedeltà a Dio. Nel “mondo russo” (vi ricordo tra l’altro che un centinaio di popoli di etnie diverse vivono sul territorio della federazione Russa) riconosciamo la faccia del fariseo evangelico, in questa pretesa d’essere portatoridi valori eccezionali nei confronti degli altri popoli. Questa è la nuova versione dell’ideologia della terza Roma del XV secolo. Questa ideologia si riduce ai tre formule; la Prima Roma è caduta per eresia, la seconda Roma, Costantinopoli è caduta sotto gli infedeli, la Terza Roma è rimasta come unica guardiana della vera fede con il suo zar ortodosso e rimarrà per sempre.
Credo che le vie della speranza e della pace vera non sono esaurite ancora. Oltre l’Ortodossia nazionale e cosiddetta patriottica c’è anche l’Ortodossia cristiana che non si esaurisce mai. La Tradizione ortodossa che proviene dai Padri della Chiesa, dai Padri del deserto nasce dalla radice spirituale che istruisce a distinguere il bene e il male dentro noi stessi giudicando noi stessi. In questa scienza del stare davanti al giudizio di Dio l’Ortodossia ha sviluppato una profondità eccezionale ma la sua spiritualità rimane nei muri dei monasteri, nell’intimità di una singola anima. È arrivato il tempo in cui il senso del pentimento dovrebbe uscire fuori, per entrare nel campo sociale confessando i nostri peccati davanti il mondo intero. Questo tipo di pentimento sarebbe perfettamente ortodosso senza consolazioni celeste e metafisiche, senza chiacchere sulla “Santa Rus”, senza nascondersi dietro il “mondo russo”, dietro il Katechon, ecc. “Ho peccato davanti al cielo e davanti a te”, come dice il figlio prodigo, sono diventato il complice dei peccatori coperti del sangue dei fratelli; una vera teologia della pace inizia con la confessione della colpa, una teologia che resta ancora da scoprire.
Le Chiese occidentali hanno un grande esperienza nella confessione della colpa non soltanto personale, ma anche collettiva. Mi ricordo il primo paragrafo della Dichiarazione di Barmen del 1934: “Gesù Cristo, così come ci viene testimoniato nella Sacra Scrittura, è la sola Parola di Dio che noi dobbiamo ascoltare, cui dobbiamo affidarci in vita e in morte e cui dobbiamo obbedire”. Come manca una fermezza simile alla Chiesa d’oggi! La fermezza del metropolita Filippo di Mosca che cinque secoli fa aveva proclamatoin faccia dell’ortodossissimo Ivan il Terribile - e poi fu da lui ucciso. “Noi cristiani facciamo immolazione senza sangue sull’altare, ma fuori delle nostre chiese è versato dappertutto il sangue cristiano”. Perché un giorno qualcuno di alto rango ecclesiale non potrebbe dire: noi imploriamo il Signore per il perdono dei nostri peccati e perché il nostro esercito, anche se super ortodosso, con la nostra piena benedizione ed i suoi cappellani militari uccide i nostri fratelli in Ucraina con il pretesto ideologico inventato da un altro zar?
Si può ricordare anche la confessione di colpa di Stoccarda dopo la Seconda Guerra Mondiale, come anche numerosissime confessioni simili nella Chiesa cattolica all’epoca di Giovanni Paolo II e così via. Il riconoscimento comune della colpa, anche se le colpe sono diverse, non è la strada giusta per una vera teologia della pace? Anzi, non si tratterebbe soltanto della pace nella prospettiva dell’unità di tutti noi, cristiani colpevoli?
Anche da noi, nel nostro piccolo, nel marzo di 2022, subito dopo l’inizio della guerra, circa 300 sacerdoti della Chiesa Russa hanno firmatouna protesta. Il tono di questa lettera era molto pacifico, ma comunque una trentina di questi sacerdoti ha già subito un contraccolpo da parte della Chiesa ufficiale, con la sospensione a divinis o anche la riduzione allo stato laicale. Certamente, una trentina di sacerdoti sono una minima parte del clero che non è d’accordo con la guerra, ma i firmatari si rendevano conto del pericolo che potevano subire. Senza dubbio, questa la lettera non ha avuto nessun effetto pratico, ma è importante per la coscienza che le parole chiave fossero pronunciate. Ogni voce di protesta ha il suo peso, perché si tratta del futuro della Chiesa. Fuori di internet, parole simili non esistono, naturalmente, nello spazio pubblico all’interno della Russia, ma un giorno la Chiesa potrà ricordarle. Anzi, trovare in queste parole la sorgente della propria rinascita, come dopo il crollo del regime sovietico la Chiesa ha ritrovata nelle testimonianze dei suoi martiri, negati prima, la forza della propria identità.
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Is Is 62, 1-5
Salmo Responsoriale Sal 95
Annunciate a tutti i popoli le meraviglie del Signore.
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
Cantate al Signore, benedite il suo nome.
Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.
Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: "Il Signore regna!".
Egli giudica i popoli con rettitudine.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi
Alleluia, alleluia.
Dio ci ha chiamati mediante il Vangelo,
per entrare in possesso della gloria
del Signore nostro Gesù Cristo.
Alleluia.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: "Non hanno vino". E Gesù le rispose: "Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora". Sua madre disse ai servitori: "Qualsiasi cosa vi dica, fatela".
Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. E Gesù disse loro: "Riempite d'acqua le anfore"; e le riempirono fino all'orlo. Disse loro di nuovo: "Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto". Ed essi gliene portarono.
Come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto - il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l'acqua - chiamò lo sposo e gli disse: "Tutti mettono in tavola il vino buono all'inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora".
Questo, a Cana di Galilea, fu l'inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
OMELIA
Omelia di Paolo Scquizzato
Prima Lettura Is 40, 1-5. 9-11
Salmo Responsoriale Sal 103
Benedici il Signore, anima mia.
Sei tanto grande, Signore, mio Dio!
Sei rivestito di maestà e di splendore,
avvolto di luce come di un manto,
tu che distendi i cieli come una tenda.
Costruisci sulle acque le tue alte dimore,
fai delle nubi il tuo carro,
cammini sulle ali del vento,
fai dei venti i tuoi messaggeri
e dei fulmini i tuoi ministri.
Quante sono le tue opere, Signore!
Le hai fatte tutte con saggezza;
la terra è piena delle tue creature.
Ecco il mare spazioso e vasto:
là rettili e pesci senza numero,
animali piccoli e grandi.
Tutti da te aspettano
che tu dia loro cibo a tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono;
apri la tua mano, si saziano di beni.
Nascondi il tuo volto: li assale il terrore;
togli loro il respiro: muoiono,
e ritornano nella loro polvere.
Mandi il tuo spirito, sono creati,
e rinnovi la faccia della terra.
Dalla lettera di san Paolo apostolo a Tito
Alleluia, alleluia.
Viene colui che è più forte di me, disse Giovanni;
egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Alleluia.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco».
Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
OMELIA