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Mercoledì, 09 Gennaio 2008 23:34

La teologia e la pastorale riflettono (Bruno Secondin)

La teologia e la pastorale riflettono

di Bruno Secondin

Entriamo ora nella presentazione di alcune elaborazioni cristologiche più recenti, e in certo senso ancora aperte a sviluppi sia di necessaria maturazione, sia di perfezionamento e di consolidamento. Quelle che stiamo per presentare non esauriscono certo la gamma delle opzioni metodologiche riscontrabili, né le variazioni in atto in particolare nelle cristologie del terzo mondo.

Notiamo soprattutto che la forma «narrativa» della cristologia, come di tutta la teologia, sta sviluppando una felice sintesi fra culto e «imitatio Christi», tra linguaggio primario della fede e risposta ad una presenza esperimentata e contestualizzata in maniera nuova e medita.

L’interazione fra pietà o vissuto spirituale popolare e riflessione accademica o teologia sapiente è complicata. Ma non v’è dubbio che oggi si tende a prendere in seria considerazione l’esperienza religiosa, anche comunitaria, per «costruire» un discorso su Cristo che non sia puramente speculativo e astratto, ma sia la tematizzazione «organica» dell’incontro con Cristo, centro e senso plenario dell’esistenza, dei singoli e delle comunità.


TEOLOGIA DELLA LIBERAZIONE

In questo tempo si parla molto della «teologia della liberazione», quando si vuole parlare della teologia latino-americana. Ma non si può negare che l’elaborazione teologica dell’America Latina non si riduce alla sola corrente della liberazione. Ci sono di fatto molteplici forme di discorso teologico, e quindi molteplici forme di ricerca cristologica: sia tradizionali che innovative.

1. ALCUNI PRESUPPOSTI TEOLOGICI

Per capire il perché del radicamento storico sociale di tutta l’elaborazione teologica latino-americana, si deve fare attenzione alla situazione di violenza istituzionalizzata e allo stato di oppressione/repressione che provocano nei credenti una risposta legata alla fede. Impegnarsi per l’uomo oppresso è considerato pertanto un vero initium fidei.

Inoltre bisogna fare attenzione a due connotazioni di partenza:

- Esiste un’«unica . storia», dalla creazione all’escatologia, e quindi qualsiasi impegno a favore dell’uomo si colloca - anche se inconsapevolmente - nei disegni di Dio per la salvezza del mondo;

- Verità è ciò che fa l’uomo, cioè ciò che lo realizza in pienezza. Allora il «processo di liberazione che sta fermentando tutto il continente si presenta come un locus ermeneutico1.

Questo è un modo nuovo di fare teologia. Ma notiamo bene che questo non vuol dire che la liberazione pratica si identifica col contenuto della fede. Quando si dice fede come prassi politica: si vuoI dire che la fede oggi in America Latina può essere percepita all’interno di una prassi liberante, vi si mescola, ma non vi è esaurita. E la teologia della liberazione è il momento della chiarificazione teorica e critica alla luce della Parola e delle scienze umane di quello che avviene. Quindi la finalità della teologia della liberazione è: «rilettura del messaggio evangelico partendo dalla prassi di liberazione» (G. Gutierrez).

Per questo possiamo dire che per capire la teologia della liberazione e la sua cristologia, bisogna porsi anzitutto nell’ambito di un’«esperienza spirituale» molto forte. Più che una «teoria pensata ed elaborata», essa è anzitutto una corrente di spiritualità (di vita nello Spirito), che trova nell’«elaborazione teologica rigorosa una tematizzazione solida e interpretativa. «Il nostro metodo è la nostra spiritualità» (G. Gutierrez).

Tanto è vero che G. Gutierrez dedicava già un paragrafo della sua opera più famosa alla «spiritualità della liberazione»2. Anche il suo libro recente Bere al proprio pozzo, è dedicato all’itinerario spirituale del suo popolo peruano.

L. Boff parla di «contemplativus in liberatione» e Sobrino di «santità politica», come «liberazione con spirito, in quanto si tratta di unificare spirito e pratica, spiritualità e impegno». Il suo ultimo libro sulla spiritualità è particolarmente ricco per questo nostro discorso3.

In sostanza possiamo dire che l’apporto cristologico prevale: specialmente il Gesù della storia, la sua esperienza tra gli uomini, le sue azioni e reazioni di fronte ai vari messianismi e alle varie manipolazioni del potere, specie se fatte in nome di Dio. Non escludendo il momento escatologico o trascendente dell’evento Cristo, ma piuttosto concentrandosi su quest’altro punto. Possiamo dire che si tratta dell’evidenziazione del «momento prassiologico del messaggio di Cristo» (L. Boff).

2. ALCUNE CARATTERTSTICHE COMUNI A TUTT I TEOLOGI

1. Critica sistematica e di fondo alla teologia europea (cioè la teologia accademica classica). E’ accusata di essere portatrice dell’ideologia della classe dominante, di essere evasiva e intimistica, segnata da rassegnazione e manipolazione. Inoltre la si accusa di procedere per categorie universalissime e concetti astratti, privi di rapporto organico con la realtà concreta e con la fatica storica di trovare nella prassi la luce della fede.

2. Occorre porsi nell’ottica degli oppressi, cioè dal punto di vista dell’emarginazione e della dipendenza: questa prospettiva assunta sul serio, provocherà uno specifico linguaggio e una specifica sensibilità, un senso di servizio storico e di liberazione. Quindi una cristologia neutrale viene considerata impossibile e improponibile, almeno attualmente.

3. Occorre tener. conto della grande ricchezza della «cristologia popolare», contenuta nella «religiosità popolare». Che però va stimata, apprezzata, ma anche aiutata a purificarsi e a reinterpretarsi, dando giusto rilievo alle esigenze del momento storico che viviamo e che impone con urgenza uno sforzo per la giustizia, la libertà e la speranza.

4. Secondo L. Boff bisogna tener in conto le quattro seguenti priorità ermeneutiche: primato dell’elemento antropologico su quello ecclesiale; primato dell’utopico sul puro fattuale; primato del sociale sul personale; primato dell’ortoprassi sull’ortodossia.

L. BOFF, J. SOBRINO, G. GUTIERREZ

Non possiamo presentare la molteplicità dei teologi e degli scrittori spirituali dell’America Latina. Anche se la cosa non sarebbe inutile. Ma ci limitiamo ad alcuni veloci accenni al pensiero di tre fra di essi, che ci sembrano significativi.

L. Boff: (1938- ), francescano brasiliano, autore di molte opere. Sul nostro tema dopo il Gesù Cristo liberatore, considerato in fondo «tradizionale» Boff è andato elaborando vari «frammenti», ma non ancora una «cristologia sistematica».

In sostanza egli rifiuta un’impostazione neutrale della cristologia: «Il nostro interesse si colloca nell’orizzonte della teologia della liberazione, della prigionia e della resistenza». Perciò privilegia il Gesù storico sul Gesù della fede: per il significato maggiore che quello può avere in senso «liberatorio» per l’America Latina.

Fra i titoli cristologici ereditati, che egli accetta e stima, il teologo francescano preferisce però quello di «liberatore». Infatti:

— La prassi di Gesù è una liberazione in marcia: è il regno di Dio che viene avanti e si fa esperienza di libertà;

— La conversione che Gesù richiede da coloro che lo ascoltano: è anzitutto la creazione di nuove maniere di rapportarsi reciprocamente, nuovi rapporti liberi e liberanti;

— La morte di Gesù: è il prezzo da pagare per la liberazione che fa fatica ad imporsi, ed anzi trova difficoltà e conflittualità;

— La risurrezione è irruzione anticipata della liberazione definitiva.

Da qui prende senso l’annuncio dell’insperato, della realizzazione di una parabola di riconciliazione, attraverso un processo di liberazione nel quale si paga un prezzo. La croce di Gesù e di tutti coloro che la riesperimentano è partecipazione alla grande «passio mundi». L’utopia non sta al di fuori, ma nel più profondo e oltre l’umano.

J. Sobrino (1933-) gesuita basco-salvadoregno4.Egli parte dalla rilevazione che la situazione storica in cui Gesù si è trovato, ha storicamente tante somiglianze con quella attuale dell’America Latina. E’ una situazione di peccato che si ripete. Perciò suggerisce una concentrazione cristologica: è in particolare nell’orizzonte dell’utopia del Regno che si può capire tutto il messaggio di Gesù. Il Regno fa irruzione nell’umano in e per Gesù:

«Impareremo a vedere cosa sia stato realmente il Regno per Gesù non solo da quanto si può ricavare dalla sua nozione di Regno, ma dalla stessa vita di Gesù a servizio del Regno»5

Per cui il discorso sul Regno parte da Gesù «storico» e si illumina con Cristo, specialmente con la sua risurrezione, che si rivela il vero paradigma della liberazione.

Gran parte del discorso di Sobrino è lo sviluppo di una cristologia incentrata sul Gesù della storia, sul suo impegno al servizio del «regno di Dio», sulla sua «fede» e sull’importanza della sua «via»: cioè la sequela (seguimiento), una parola chiave per Sobrino, ed elemento insostituibile per conoscere Cristo.

«I concetti possono e debbono presentare genericamente la verità di Cristo, ma perché tale verità generica divenga verità reale è necessaria la mediazione di qualcosa che non è pura conoscenza; occorre la realtà totale della vita, che include la prassi dell’amore e della speranza, in base alle quali, dal di dentro, il generico si concretizza. Questa totalità che non si riduce alla mera conoscenza, noi la chiamiamo sequela»

Ma hanno rilievo anche la preghiera di Gesù e l’esperienza della risurrezione.

La «sequela» è criterio della confessione cristologica reale e fondamento per una comprensione di Cristo da dentro: il «sacrificium vitae» è la consumazione del «sacrificium intellectus» che è l’atto di fede.

Pertanto la cristologia della liberazione - per usare un’espressione cara a Sobrino - non pretende di essere tutta la cristologia, con le sue questioni dogmatiche e storiche. Ma senza dubbio essa rappresenta una nuova riflessione ermeneutica creativa.

G. Gutierrez (1928-), teologo peruano, conosciuto specialmente per la sua Teologia de la Liberaciòn. La cristologia è stata sviluppata meno da Gutierrez rispetto ai due teologi precedenti. Possiamo notare che nella Teologia della liberazione la cristologia appare qua e là: per es. «Cristo e la piena liberazione», «Cristo liberatore». Ne La forza storica dei poveri ci sono sviluppi maggiori, specialmente su questi punti: «Cristo verità del Padre», «Cristo povero», i «Cristi flagellati delle Indie».

Nell’opera Bere al proprio pozzo, il discorso cristologico è centrale. Per lui la spiritualità cristiana è caratterizzata da tre punti cardine:

- Un incontro con il Signore, inteso come esperienza spirituale fontale;

- Una vita secondo lo Spirito (non in senso spiritualistico), come un vivere in accordo con i grandi valori del Regno: la vita, l’amore, la pace, la giustizia;

- Un’«avventura collettiva mossa dallo Spirito»secondo il paradigma dell’Esodo biblico.

E questo perché in America Latina «la spiritualità è un’avventura comunitaria. Quasi passi di un popolo che fa il suo proprio cammino nella sequela di Gesù attraverso la solitudine e le minacce del deserto. Questa esperienza spirituale è il pozzo al quale dobbiamo bere. O, forse, oggi, in America Latina, è il nostro calice, promessa di risurrezione».

Anche nell’ultima opera — Parlare di Dio a partire dalla sofferenza dell’innocente, che è in sostanza una riflessione sull’avventura spirituale di Giobbe — il richiamo a Cristo è evidenziato. Colpisce nella parte conclusiva l’applicazione della riflessione europea dopo gli orrori dei lager — di fronte al trauma dell’olocausto ci si è chiesti: «come parlare di Dio dopo Auschwitz?» — alla peculiare situazione peruana.

Egli si domanda: «come fare teologia dopo Ayacucho?». Cioè come

«trovare un linguaggio su Dio in mezzo alla fame di pane di milioni di esseri umani, all’umiliazione di razze considerate inferiori, alla discriminazione della donna, in particolare quella dei settori poveri, all’ingiustizia sociale elevata a sistema, alla persistente e alta mortalità infantile, ai “desaparecidos”, ai privati di libertà, alle sofferenze di popoli che lottano per il loro diritto alla vita, agli esiliati e rifugiati, al terrorismo di vario segno, alle fosse comuni piene di cadaveri di Ayacucho....

In conclusione, secondo un’analisi complessiva che ne traccia J. Sobrino, la figura di Cristo in America Latina è stata riscoperta, non a partire dalla riflessione teologica, ma fondamentalmente dalla «rilettura» del Vangelo a partire dal «mondo dei poveri». Le note caratteristiche di questa figura sono: la vicinanza, la liberazione, la contemporaneità, l’annuncio di gioia.

Va notato che una trattazione completa della «cristologia» nella teologia della liberazione, esigerebbe molta più informazione. Sia per le varie «teologie della liberazione» che si stanno sviluppando in altre parti del mondo. Si pensi all’area caraibica, alla teologia nera degli USA, alla teologia della liberazione in Sud Africa, in Filippine, India, Asia.

Per quanto riguarda invece la «reazione» europea a questa «teologia»si può constatare che il dialogo va crescendo e non mancano riflessioni serie sui cambiamenti che in Europa dovrebbero essere fatti non solo sul piano della prassi (apparteniamo alle potenze che opprimono), ma anche nel campo della teologia. Per accogliere come partner questi interlocutori, e non trattarli con sospetto o con aria di sufficienza.

Note

1) L. B0FF, Salvezza in Gesù Cristo e processo di liberazione, in «Concilium» 10(1974), p. 99.

2) GUTIERREZ, Teologia della liberazione pp. 202-207 1981.

3) J. SOBRINO, Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987 (titolo originale: Liberaciòn con espìritu..., SaI Terrae, Santander 1985). E’ di fatto una raccolta di articoli.

4) Fra le sue opere, la già citata Cristologia; di valore particolare Gesù in America Latina, pp. 11-89: Jesùs de Nazareth, in C. FLORJSTAN - J. TAMAYO (ed.), Conceptos fundamentales de Pastoral, Cristiandad, Madrid 1983, pp. 480-513; Tracce per una nuova spiritualità, Borla, Roma 1987. Su di lui: J. MARTORELL, Jon Sobrino: un proyecto de cristologia, in «Teologia Espiritual» 30(1986), pp. 261-283; e uno studio più recente con bibliografia aggiornata J. A. GUERRERO, Jesucristo, salvador y liberador (La cristologia de Jon Sobrino), in «Naturaleza y Gracia», 34 (1987), pp. 27-96.

5) Cristologia, p. 350.

CRISTOLOGIA AFRICANA

Accanto alla giovane ma già suggestiva riflessione cristologica latino-americana, dobbiamo riconoscere anche un interessante sviluppo della cristologia africana. Senza dubbio si tratta di una situazione ancor meno sviluppata di quella dell’America Latina, perché possiamo riconoscere facilmente la lunghezza del suo cammino: che non va oltre i due decenni. Ma va rilevato anche che proprio la specificità singolare dell’ambiente e della cultura africana – così differenti da quelli europei o di prolungata influenza europea - rende queste ricerche di «cammini nuovi» e di «linguaggi inculturati» dell’unico Vangelo di Cristo, un settore quanto mai interessante.

Bisognerebbe ricordare che l’Africa - più precisamente l’Africa mediterranea - nei primi secoli cristiani aveva già dato alcuni fra i più grandi teologi antichi: Tertulliano e Cipriano, Agostino e Origene il grande maestro della scuola di Alessandria, il monachesimo primitivo che ha in Pacomio il padre della «koinonia», ecc. Ma poi le invasioni, sia dei popoli barbari venuti dal nord Europa che degli arabi con l’islam, sradicarono ogni cosa. Oggi nel nord Africa la religione cristiana stenta a sopravvivere, in situazioni di quasi totale islamismo di stato. Mentre nell’Africa subsahariana e giù fino al Sudafrica l’attività di conquista coloniale del secolo scorso ha portato, assieme ai vari conquistatori europei, anche le forme religiose di costoro. Moltissime nazioni africane celebrano proprio in questi anni il primo centenario dell’arrivo dei primi missionari (europei).

Negli anni sessanta è iniziata la grande epoca della decolonizzazione: che di fatto ha destrutturato l’equilibrio vitale delle società africane, instaurando un’economia di sfruttamento nel solo interesse delle multinazionali. Nel contesto internazionale l’Africa rimane un continente circuito dalle potenze straniere, che le impongono vincoli d’ogni specie, saccheggiandone le ricchezze. Oggi l’Africa è «un continente che non si appartiene».

L’elaborazione di una specifica cristologia africana si deve vedere allora in questo contesto: di enorme miseria materiale, di dipendenza culturale ancora impressionante, di patrimonio etno-culturale di grande qualità e di lunghissima data. E’ infatti in questa ricchezza di elementi religiosi tradizionali, e insieme di una «Africa strangolata», che si può capire la forma originale di parlare di Cristo e di cercare un linguaggio che parli dalla vita e nella vita.

Nell’Africa del sud, il tema abituale dei teologi neri, come Sebalo Ntwasa e Basil Moore, è quello della distruzione del «Cristo bianco», rappresentante della razza bianca oppressora e dei suoi missionari venuti dall’Europa. Si legge nel manifesto di Hammanskraal:

«La teologia nera è una teologia del futuro dell’uomo nero alla luce del Cristo liberatore. Conseguentemente, noi respingiamo l’interpretazione deformata del messaggio cristiano imposta al popolo nero dalle chiese dominate dai bianchi».

Nelle altre nazioni e etnie africane si seguono a preferenza altre piste, soprattutto si usano altri «nomi» per capire e vivere il mistero di Cristo. Un libro prezioso è apparso di recente, anche in italiano - Cristologia africana6  - che raccoglie i molteplici frammenti della riflessione e della letteratura, delle credenze e dei simboli, dei «nomi» e delle «immagini» che si riscontrano nell’Africa subsahariana, in particolare di lingua francese.

Uno dei punti nevralgici dell’opera è quello di come poter chiamare, ossia «dare un nome» a Cristo, in maniera che diventi «familiare», accolto nella «casa culturale» dell’africano. Infatti è di interesse peculiare per gli africani trovare un nome africano per Gesù Cristo: tale cioè che permetta una migliore e più inculturata conoscenza del mistero stesso di Cristo. Nel libro si parla ampiamente dei titoli: capo, antenato o figlio maggiore, maestro di iniziazione, guaritore, e molti altri. E viene mostrato, per ognuno, quale possibilità v’è di essere in «relazione» con i contenuti del mistero», ma anche con il linguaggio esperienziale religioso delle etnie.

imposto dal movimento stesso dell’incarnazione, la divinità professata del Verbo incarnato non deve cadere nella pura e semplice assimilazione, ma diviene esercizio di esplorazione nella fede e di fedeltà alla fecondità inesauribile del mistero. E questo si chiama oggi inculturazione . forse la categoria che è più conforme all’elaborazione teologica e culturale della tradizione greco-latina. Mentre nel secondo caso - ché è appunto più prossimo all’universo religioso delle grandi religioni asiatiche (come abbiamo visto) e alla concezione religiosa tradizionale africana - si pone l’accento sul valore «cristologico» delle tradizioni religiose. In quanto Cristo viene ad essere il vertice il ricapitolatore della lunga catena di «grandi uomini» che hanno mantenuto vivo lo «spirito» del primo, l’originario progenitore della tribù, della etnia .

Non è sottovalutata neppure la dimensione «escatologica» del Cristo: come liberatore futuro e pienezza di vita nel secolo che viene. Essa è presente sia nel titolo di maestro di iniziazione, sia in quello di guaritore, sia in quello di liberatore. Ma rimane ancora da sviluppare con ulteriori apporti questa prospettiva, che è senza dubbio essenziale per una fedeltà al «mistero cristiano» nella sua completezza.

Note

6) Cristologia africana, Paoline, Cinisello Balsamo 1987. Un breve saggio anche in MOLONEY, African Christology, in «Theological Studies» 48(1987), pp. 505- 516.

CRISTOLOGIE «NUOVE»

Non vogliamo qui entrare nella valutazione critica di tutte le nuove cristologie, anche se il titolo sembra affermarlo. Piuttosto vogliamo dire qualcosa di alcune «nuove cristologie» - come quelle di Schillebeeckx, Hulsbosch, Schoonenberg, Küng, Duquoc - di cui però non abbiamo parlato, per non dilungarci troppo. Proponiamo una linea di valutazione, in generale.

Esse in buona parte si assomigliano per il tentativo di una valutazione critica di Calcedonia, e quindi tentano di riformulare in categorie nuove il suo insegnamento dogmatico, senza rinnegarlo. Loro affermazione è che bisogna «andare avanti da Calcedonia»: e in fondo oggi la cosa non fa molto problema. Dipende come si va avanti. In generale si constata che nella loro proposta di formulazione nuova e più adeguata della fede ci sono dei vantaggi e dei limiti.

1. Pericoli. Anzitutto vi è quello di un’interpretazione riduttiva del mistero. In quanto l’affermazione Cristo uomo-Dio sembra riduzione del mistero al dato antropologico. Non si vede bene espressa la preesistenza della persona divina. I vocaboli/categorie culturali che vengono impiegati sembrano non riuscire ad esprimere veramente il mistero, che va espresso e rispettato.

2. Vantaggi. Questi consistono nel richiamo ai dati «economici» (pro me) e non solo ontologici (in se). VuoI dire che ci è possibile così riflettere sul mistero di Cristo in modo da poter capire le leggi fondamentali su cui si costruisce il rapporto religioso Dio-uomo e su cui si struttura la storia della salvezza.

C’è poi il vantaggio di mettere in risalto che dire «Dio si è fatto uomo» vuol dire mostrare un evento che riguarda non solo la sfera umana, ma anche quella divina, un divenire presente cioè anche in Dio: ciò comporta uno sforzo per illustrare bene i significati. Altro vantaggio è anche quello di sollecitare ad una religione che si ponga nel mondo nella linea dell’incarnazione, cioè in pratica nella linea della promozione umana, in tutte le sue forme.

Altro vantaggio sta nella possibilità di leggere l’impegno di Dio come progressivo impegno di salvezza, anche dopo la venuta di Cristo. La diffusione del messaggio evangelico è progressiva e più intensa applicazione dell’economia dell’incarnazione nei vari momenti del progresso storico (culturale, politico, sociale...).

3. Si noti bene che questa economia non va dalla comunità a Dio, ma da Dio alla comunità. La storia si realizza quando l’uomo accetta Dio nella sua storia. Il cristianesimo non è una sociologia religiosa che diviene religione, ma una religione che sa suscitare aspetti socio-politici. Né si può mancare di evidenziare che il Dio con noi si manifesta nella gratuità, nella non-imposizione. E quindi risalta la prevalenza del servizio sull’autoaffermazione.

Idee molto simili si possono trovare anche in documenti «ufficiosi» ma di grande valore teologico, come il testo Questioni riguardanti la cristologia, della Commissione teologica internazionale.

SINTESI

Ci avviamo ora ad una valutazione complessiva e conclusiva dell’attuale stagione di studi e di riflessioni cristologici. Si tratta di alcune sottolineature generali che ci sembrano emergere con evidenza, in una sintesi finale7.

1. PROSPETTIVE GENERALI

Sono quelle che in fondo costituiscono alcuni dei più accentuati orientamenti nuovi .

1. Riconoscimento della storicità. Il pensiero storico attuale porta all’affermazione della «storicità» di tutte le proposizioni di fede e dei vari volti di Cristo. Non si può isolarli dal legame con l’ambiente storico culturale di ieri e di oggi. Il processo di ellenizzazione, di cui molto ci si lamenta, in effetti non è stato fatto senza una certa creatività; tuttavia fu un processo di inculturazione e quindi anche di «limitazione». Occorre rendersi conto dei condizionamenti storici, delle categorie mentali che ieri erano più statiche e oggi sono più dinamiche e funzionali.

Lo sviluppo del pensiero storico ha perciò liberato la cristologia anzitutto dalla sua stasi e creato giustamente la necessità di un rinnovamento costante e diciamo pure di un rinnovamento coraggioso. Occorre introdurre categorie dinamiche-funzionali anche nell’esistenza concreta del Verbo fatto uomo (sul suo sviluppo e il suo divenire se stesso).

Essere e storia sono strettamente collegati, non basta ribadire i dati di Calcedonia: Calcedonia deve essere punto di partenza, non mai eliminabile (come ha detto Rahner). Ma occorre anche assumere prospettive nuove sull’essere persona e sui condizionamenti che si verificano nel diventare realmente e totalmente persona.

2. L’interesse per il Nuovo Testamento. Il ripensamento della cristologia porta a riallacciarsi all’annuncio originario del Nuovo Testamento, ma anche ai legami con l’Antico Testamento e la letteratura detta «intertestamentaria». Con la conseguenza che l’immagine emergente dal Nuovo Testamento nei testi più antichi (es. i Vangeli) non corrisponde in tutto all’immagine neotestamentaria più tardiva: il Gesù prepasquale e il Cristo postpasquale sembrano a prima vista due entità ben diverse e non conciliabili. Per questo fin dall’epoca dell’illuminismo - di fronte alle accuse della «ricerca sulla vita di Gesù» (Leben-Jesu-Forschung) - si cerca di superare l’abisso profondo fra Cristo postpasquale e Gesù storico. La stagione ampia di questa «ricerca» non ha condotto veramente a dimostrare la storicità della fede posteriore in Cristo anche prima della proclamazione del dogma cristologico. In tutto si trova la mano della comunità postpasquale e della sua fede. E di conseguenza nel passato prossimo si negava che si potesse arrivare davvero al Gesù della storia tale e quale era stato: colpa degli strati, dei miti, delle teologie.

Solo in un secondo momento si troverà la via per arrivare al Gesù storico con sicurezza. Un geniale artefice del superamento delle difficoltà è stato E. Käsemann con le sue ricerche sul Gesù storico seguendo i cosiddetti metodi della differenza, dell’autorità, della disuguaglianza/somiglianza, ecc. Come dice Schilson: la cristologia posteriore può quindi intendersi come legittima spiegazione di un’esigenza contenuta nel Gesù terreno, esigenza che oltrepassa i limiti ordinari. Inoltre il «Gesù storico» resta necessariamente povero rispetto al «Gesù terreno». In altre parole la vita reale di Gesù era sicuramente più varia e più ricca di contenuto di quanto si può dimostrare storicamente accertato e accertabile.

3. Responsabilità pubblica della fede. L’annuncio di Cristo deve provocare l’uomo ad una risposta, attirano ad una nuova possibilità di vita e di esistenza (Bultmann). Ma deve anche avere un significato a livello comunitario: un peso sociale di critica e di incoraggiamento. Questo fa nascere la così detta «ermeneutica politica», che si sviluppa particolarmente in cristologia: mostrando la portata sociale del messaggio cristiano per l’epoca attuale.

Ciò porta a parlare: di soteriologia in chiave comunitaria e non solo individuale, della chiesa come istituzione critica fondata sulla «memoria passionis», dell’annuncio come di una memoria pericolosa per l’epoca attuale. In sostanza si ha l’accoglienza delle istanze migliori della teologia politica, della speranza, della liberazione.

Però tutte le cristologie che rivalutano la prassi messianica del Gesù storico corrono anche il rischio di fare di esso un nuovo mito e di sorvolare quelle implicanze della fede biblica in Cristo che raggiungono una maggiore profondità, e non sono esplicabili del tutto «prassiologicamente».

2. COMPITI

Si tratta di impegni evidenti per un rinnovamento della cristologia, secondo le attese contemporanee8.

1. Cristologia come storia (o anche «cristologia narrativa»). Questo vuole dire: mettere in risalto che la cristologia non può essere deducibile dai bisogni dell’uomo o della comunità, ma piuttosto essa si richiama, come narrazione, ad una storia realmente accaduta, in cui persona e causa sono intimamente legate e si identificano. Per cui nel Cristo terreno e glorificato abbiamo un’unica storia, un’unica vicenda, un unico itinerario. Cristologia dal basso e cristologia dall’alto sono superate.

La risurrezione e la gloria sono completamento e superamento della vita e dell’opera di Gesù terrestre. E la professione di fede postpasquale rende esplicito ciò che nascostamente già affiorava nella vita terrena: cioè la venuta del regno di amore di Dio. La conseguenza che Kasper suggerisce è di considerare l’incarnazione di Dio in Gesù Cristo non come evento momentaneo, ma come avvenimento che si è compiuto una volta per sempre, e che tuttavia riserva ancora in sé una storia, che trova la sua pienezza nella morte/risurrezione di Gesù. Ciò esige essere meno rigidi della scolastica e parlare di un itinerario di Gesù, di uno sviluppo nella conoscenza della volontà del Padre, di un cammino nella sua fede: lui è «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,2).

2. Orizzonte universale. Ci vuole una cristologia in relazione coi problemi fondamentali, tali non solo dell’anima singola, ma di tutta l’umanità. Quindi non una dottrina adatta «per me» e basta; ma una dottrina sensibile alla dimensione storico-dinamica dell’ordine della realtà globale che riempia l’esistenza dell’uomo che ormai è attaccato non solo alla memoria ma anche alla speranza e al progetto (ha imparato il futuro).

La dimensione escatologica così forte nel kerigma di Cristo e nella comunità primitiva è andata presto perduta nella cristologia cresciuta in ambito ellenistico, che si preoccupava del senso e dell’unità del cosmo e non dei «due gradi» (secondo la carne e secondo lo Spirito: cf. Rm 1,3s). Con un’immagine di Dio immutabile e metafisicamente spiegato, incompatibile con la sofferenza, la tensione escatologica sparisce. L’unica aspirazione finirà per essere l’immortalità e l’impassibilità. Doti che si sottolineano maggiormente in Dio.

Dice Kasper:

«Come allora vi fu una legittima ellenizzazione della fede, così oggi che ci troviamo alla fine di una storia cristiana in cui è prevalso l’elemento occidentale-europeo e all’inizio di una storia mondiale, può aver luogo una legittima disellenizzazione del cristianesimo».9

Si deve passare da una visione prevalentemente statica ad una visione più storico-dinamica dell’ordine della realtà globale, ad una crescente coscienza della solidarietà, dell’interdipendenza, dell’«uomo» nel senso di uomini al plurale. Insomma una cristologia che sappia dire qualcosa al processo di solidarietà universale, di planetarizzazione dell’esistenza, di «mondialità» dell’etica.

La storia di Gesù deve diventare una ripresa del tema speranza, una concezione aperta dell’essere, essere-in-relazione, della persona come «divenire» progettuale. L’essere in sé, proprio della metafisica fa fatica a dare spiegazioni in una cultura dove si enfatizza l’essere-per-l’altro, e al Dio «motore immobile» si preferisce il dinamismo del «Dio-con-noi».

3. Dimensione pneumatologica. È la cosa forse più difficile da sviluppare bene. Secondo la Scrittura, Gesù è il Cristo in quanto è l’«unto» di Spirito santo. Per cui una cristologia corretta è quella che valorizza questo rapporto in maniera non debole. Gesù è colui che porta in sé la potenza di Dio che è lo Spirito, all’opera nell’antica alleanza e ancor più evidente e vivo nella nuova. Per cui diviene egli stesso «Spirito vivificante» (1Cor 15,45). Questo non consente tuttavia di cadere nell’eccesso opposto, vale a dire di fare della cristologia una funzione della pneumatologia (sarebbe adozionismo).

Possiamo anche dire che Gesù è la meta escatologica cui tende l’opera dello Spirito nel mondo. In lui Dio è già «tutto in ogni cosa» (1Cor 15,28). Ma il ruolo dello Spirito rimane ancora uno «spazio aperto»: egli è colui che tiene aperte le possibilità a nuovi sviluppi, è la continua novità, è promessa, caparra, «guida» (Gv 16,13) verso «verità inedite».

Una fedeltà allo Spirito «improvvisatore» favorirebbe un approfondimento non puramente statico della verità e un confronto più accogliente verso i problemi del tempo: espressi nei «segni dei tempi», ma anche nell’emergere dell’attenzione per i «semina Verbi» presenti nelle tradizioni religiose dei popoli.

Note

7) Per quanto riguarda questo paragrafo ci serviamo del saggio scritto da A. Schilson in A. SCHILSON--W.KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979, pp. 13-30.

8) Teniamo presente qui il contributo di Kasper, in SCHILSON-KASPER, Cristologie, pp. 143-162.

9) SCHILSON-KASPER, Cristologie, p. 152.

3. CONCLUSIONE

Abbiamo presentato evidentemente solo una parte di quello che è il panorama della teologia attuale, nel campo della cristologia. Ci sarebbe da aggiungere molto di più, in campi «teologici» affini. Per es. il notevole ritorno al «cristocentrismo» nella teologia morale, che di conseguenza influenza notevolmente la spiritualità, essendo questa molto spesso collegata alla struttura di quella.

Ci sarebbe poi ancora da dire qualcosa sulla concentrazione cristologica acculturata e biblicamente molto più seria che ha oggi la vita consacrata. Anche questo influisce direttamente sul recupero «cristocentrico» della spiritualità.

Due sono le accentuazioni «cristologiche» che maggiormente sì evidenziano negli ultimi tempi per la vita consacrata. Vivere come Cristo: la vita consacrata è continuazione/attuazione della vita di Cristo. Vivere come discepoli, alla sequela di Cristo, secondo le esigenze evangeliche. In entrambi i casi la meta finale è la «conformazione» a Cristo, espressa anche con la terminologia della «consacrazione» (che è eminentemente cristologica).

In America Latina nella «chiamata alla sequela radicale di Cristo» (Puebla 742-757) appaiono come imprescindibili queste dimensioni: la lotta per la giustizia, l’opzione evangelica preferenziale per i poveri, la collaborazione con le aspirazioni di liberazione del popolo oppresso. Esse sono le linee guida delle molteplici esperienze di «vita religiosa inserita».

Ci rimane ora ancora da esplorare che cosa la pastorale popolare, l’insegnamento conciliare e i frequenti discorsi e pronunciamenti pontifici hanno messo in evidenza nel campo della cristologia. Nel capitolo che seguirà intendiamo dedicarci a questa esplorazione, che completa la nostra panoramica e ci mostra da altri punti di osservazione la ricchezza dell’attuale stagione ecclesiale


Pubblicato in Teologia
Le grandi incertezze nella Chiesa attuale

(seconda parte)


di José Comblin


5. Il Vangelo e l'istituzione

Il compito principale della teologia consisterà nell’identificare che cosa appartiene al Vangelo, che cosa è stato proposto da Gesù e in che cosa consiste l’istituzione attuale, in funzione degli sviluppi storici. Gesù mai ha pensato a una Chiesa nella sua forma attuale. Questo non vuol dire che quello che esiste adesso non possa essere buono o cattivo. Ma molti elementi si devono all’influenza di movimenti culturali e di religioni non cristiane, perché le religioni non cristiane ebbero un’influenza profonda durante tutta la cristianità.

Nello stesso senso ha scritto Hans Küng , quando propose che si mettesse in risalto il nucleo-base del cristianesimo. Questo nucleo può essere soltanto quello che a noi proviene da Gesù stesso.

Per un lungo periodo di 1000 anni, soprattutto dal secolo XIV, la teologia è stata apologetica e si è dedicata a dimostrare l’identità di tutto l'apparato istituzionale della Chiesa, i dogmi, la morale, la liturgia, l’organizzazione ecclesiastica con il Vangelo. Mostrava la continuità. Ha cercato di dimostrare in un primo tempo che tutto stava nel Vangelo. Quando gli studi storici hanno reso questa posizione insostenibile, ha difeso il tema dell’omogeneità, ossia dello sviluppo omogeneo. La teologia ufficiale ha cercato di dimostrare che tutto il sistema istituzionale aveva per finalità e per effetto una migliore comprensione del Vangelo. Sarebbe stato uno schiarimento del Vangelo che ancora era confuso.

Ora, tutte queste spiegazioni sono puramente gratuite. Sono servite per mantenere la continuità della cristianità. Ma oggigiorno dobbiamo constatare che il Vangelo è più chiaro che tutto il sistema che si è costruito sopra di esso con la pretesa di spiegarlo meglio.

Questa teologia apologetica è stata al servizio della gerarchia, per difendere lo “statu quo” della cristianità, ma ha impedito che la Chiesa desse una risposta adeguata alle sfide della modernità. Questa apologetica, prevalente fino al concilio Vaticano II, ancora non è scomparsa, soprattutto nelle innumerevoli facoltà di teologia situate a Roma. Per l’evangelizzazione del mondo e perfino del popolo cristiano, questa teologia è stata sterile. Più ancora: è condannata a essere sterile! Non convertirà nessun pagano, nemmeno i cattolici. E’ stata la base dei catechismi, ma i catechismi non hanno formato cristiani adulti maturi.

Questa apologetica ha fornito il materiale che ha permesso al magistero di dare una risposta negativa alle grida che sono sorte in mezzo alla cristianità per 1000 anni, grida che chiedevano una riforma. Ad ogni generazione ci sono stati cattolici che non potevano accettare l’istituzione, perché vedevano in essa una contraddizione con il Vangelo. Questo dibattito ha dato origine alle cosiddette “eresie”, che, in fondo, erano tutte forme di contestazione dell’istituzione. Ci sono stati molti scismi e molta repressione, ma mai c’è stata accettazione unanime delle posizioni difese dalla teologia ufficiale.

Quando il nostro compito sarà annunciare il Vangelo a tutti gli esseri umani senza posizioni di forza, senza poter contare su una imposizione, questa teologia sarà completamente fuori gioco. Non riusciremo con questa a conquistare nuovi membri all’istituzione.

Evangelizzare è provocare l’illuminazione dei cuori e delle menti, non attraverso la forza di una istituzione ma per la rivelazione divina che si è manifestata in Gesù.

Il principio della nuova teologia è che la Chiesa sta subordinata al Vangelo e non il Vangelo subordinato alla Chiesa. Durante la cristianità il potere ecclesiastico sosteneva che il sistema istituzionale era l’interpretazione fedele e l’espressione attuale del Vangelo. In pratica, la teologia serviva per dimostrare che la Bibbia appoggiava il sistema ecclesiastico cattolico, per subordinare il Vangelo all’istituzione. Adesso il compito è differente. Si tratta di scoprire che cosa è realmente rivelazione divina, separandola da tutti gli elementi che sono stati aggiunti.

Tutto quello che è stato aggiunto ha avuto un ruolo storico, positivo o negativo. Molti elementi sono entrati sotto la spinta di altre religioni, o per ragioni politiche o culturali del tempo. Possono aver avuto un effetto positivo o negativo, probabilmente qualcosa di positivo e qualcosa di negativo. Il problema è che le circostanze sono cambiate e molte aggiunte che sono state utili in passato appaiono come incomprensibili e inammissibili al giorno d’oggi.

Quando parliamo del Vangelo, vogliamo pensare a che cosa e quanto viene realmente da Gesù. Già negli stessi vangeli ci sono aggiunte che provengono dalle comunità e esistono, dentro la cultura giudaica in cui Gesù si esprime, vari elementi di mitologia. Non possiamo conservare queste mitologie dentro il nucleo centrale.

Sia chiaro che il popolo cristiano ha bisogno di istituzioni; ha bisogno di credenze definite, di riti e celebrazioni, di comunità, di organizzazione delle comunità. Ha bisogno di ministeri organizzati. Possiamo pure pensare che ha bisogno di mitologia. La sfida è che queste istituzioni aiutino effettivamente a introdurre il Vangelo nella vita. Non possono essere considerate come definitive, irriformabili, ma devono lasciare spazio per altre espressioni istituzionali quando i tempi saranno mutati.

Allo stesso modo i cristiani hanno bisogno di segnali di identificazione. Hanno bisogno di realizzare gesti significativi, pronunciare parole significative, cosa che permette loro di rinnovare la coscienza di appartenere a un popolo, il popolo di Dio. Tutti i popoli hanno segni di identità e il popolo di Dio pure. Ora questi segni devono essere comprensibili e avere un contenuto non essere puramente gesti meccanici.

In realtà, le grandi linee di una riforma dell’istituzione già sono state esplicitate molte volte negli ultimi trent’anni. Il problema è la volontà di cambiamento. Tutte le burocrazie hanno ripugnanza a qualsiasi tipo di cambiamento perché potrebbe provocare cambiamenti nella burocrazia stessa e rimettere in questione la carriera dei funzionari. Tutti desiderano che non cambi nulla. Ora, la burocrazia vaticana ha acquisito una forza inaudita durante il pontificato di Giovanni Paolo II che non ha manifestato nessun desiderio di cambiare nulla se non aggiungere nuovi servizi burocratici.

C’è nel popolo cristiano, a tutti i livelli, un’aspirazione a una decentralizzazione del potere romano. Tuttavia, e giustamente, è questa riforma che la Curia impedirà con tutti i mezzi a sua disposizione. Perché sarebbe per essa una perdita di potere e una soppressione di posti di lavoro.

Comunque, la sfida eccola lì e non dà segni di sparire. Il sistema burocratico attuale impedisce l’evangelizzazione del popoli e disincentiva le chiese locali. Ha provocato l’uscita di milioni di cattolici soprattutto in Europa e nell’America Latina. Solo il Vangelo di Gesù Cristo può convertire.

6. La Chiesa e il mondo

Il Concilio Vaticano II ha proclamato che la Chiesa sta al servizio del mondo e non è fine a se stessa. La sua finalità è la salvezza di tutti i popoli, dell’umanità intera.

Essa riconosce l’autonomia del mondo e riconosce che ormai non è la Chiesa che dirige il mondo, come nei tempi della cristianità. Nella Gaudium et spes si rinuncia al progetto della cristianità. Di fatto, le parole dicono una cosa ma la realtà è differente. In pratica gran parte della Chiesa agisce come se ancora ci fosse o come se potesse rifare una nuova cristianità simile a quella che c’era nella prima parte del secolo XX.

Quando avvenne la separazione della Chiesa e dello Stato in Brasile, i vescovi non seguirono le raccomandazioni del padre Jùlio Maria, ma elaborarono un programma di conquista del potere perduto, approfittando delle strutture della società repubblicana, in modo tale che la Chiesa potesse, in pratica, rifare una cristianità. Adottarono come priorità la strategia di sempre: evangelizzare per mezzo dei bambini e delle istituzioni di educazione. Di fatto in poco più di cinquant'anni e sotto la direzione del cardinale Leme, grande ammiratore della nuova cristianità di Europa, la Chiesa ha ricostituito in Brasile un grande potere. Dicevano che l’80% delle élite brasiliane erano state educate in collegi cattolici. Di nuovo, la Chiesa aveva una facciata impressionante. C’è stato, di nuovo, un’imbracatura tra Chiesa e Stato. La classe dirigente sentiva che c’era bisogno della Chiesa per mantenere il popolo sottomesso, e non risparmiava i favori e perfino i privilegi, dei quali furono beneficiarie istituzioni cattoliche.

Quasi tutti i paesi latino-americani hanno avuto una evoluzione simile. Il modello era lo stato di benessere dell’Europa occidentale, ossia un capitalismo mitigato da una legislazione sociale protettrice dei lavoratori e la conservazione dei valori etici tradizionali, soprattutto la famiglia. Vero è che c’era una differenza sui problemi delle campagne. Questa nuova cristianità non mise in questione la struttura della campagna e i lavoratori della campagna erano rimasti ignorati e senza influenza nella vita delle nazioni. Il piano CEPAL combinava con questo modello perché impediva al grande capitale mondiale di impadronirsi dell’economia nazionale, anche se aveva realizzato alcuni agganci. Tutto pareva stare in pace. Gli accordi tra i vescovi e Juscelino Kubitschek erano il simbolo delle armoniose relazioni dentro una neo-cristianità di fatto, in cui ufficialmente la Chiesa non aveva potere politico, ma lo teneva nella realtà, grazie alle relazioni cordiali tra il potere religioso e il potere civile, nazionale, statale o municipale.

E vennero i regimi militari. Eccetto che in Cile, dove Pinochet introdusse un nuovo modello di globalizzazione neoliberale a cominciare dagli anni ‘70, gli altri governi militari non cambiarono basicamente la struttura della società. In Brasile, la Chiesa assunse la difesa delle libertà civili dei diritti dei cittadini, con alcuni buoni risultati. Infatti, se paragoniamo i paesi, la repressione fu molto minore che in Argentina o in Cile o nei paesi dell'America centrale. Ma non c’è stato molto conflitto in relazione alla struttura sociale ed economica. In pratica i governi militari eccetto che in Cile, rimanevano in qualche modo fedeli alla concezione sociale della dottrina sociale della Chiesa, prolungando la fase precedente. Praticavano un nazionalismo che li proteggeva contro la contaminazione proveniente dal modello neoliberale. I governi militari concordavano con la dottrina sociale della Chiesa globalmente considerata. Per questo gli episcopati che collaborarono con i governi militari invocavano questo argomento.

Dopo i regimi militari, molti, e tra questi, il clero e l’episcopato, pensarono che saremmo tornati al sistema precedente, così armonioso, di relazioni pacifiche in cui la dottrina sociale poteva fornire l’ideologia di regimi del benessere sociale. Come novità, lo stato del benessere poteva pure far partecipare altri settori della popolazione, per esempio, i contadini. Pensavano che era arrivato il tempo della riforma agraria. Un’occhiata al Cile avrebbe potuto far sorgere qualche dubbio. Dato che in Cile la democratizzazione mantenne il modello neoliberale senza una vera discussione, e la Chiesa tacque: il partito democratico cristiano era il governo e rimase responsabile della continuità del modello neoliberale.

Entrò il nuovo modello di società che si chiama globalizzazione, o neoliberalismo - i nomi non contano. Tutto questo è successo nella decade degli anni ‘90, la “decade della vergogna” dopo “la decade perduta” degli anni ‘80. I paesi latino americani si sono aperti al modello neoliberale e si sono integrati nell’impero del neocapitalismo delle grandi multinazionali. Tutte cose arcinote.

Quello che era avvenuto nel primo mondo fin dagli anni ‘70 e, soprattutto, negli anni ‘80, entrò in America Latina negli anni ‘90 (in Cile, negli anni ‘70), senza effetti sensibili sui rapporti Chiesa-mondo.

Sotto parvenze democratiche, il potere fu trasferito dagli Stati ai grandi complessi finanziari e alle multinazionali. I governi ancora si proclamano fedeli alla dottrina sociale della Chiesa, ma il nuovo potere economico mondiale ignora completamente questa dottrina. I suoi criteri sono differenti. Tra il progetto della chiesa e il progetto del grande capitale non c’è più contatto. Il modello economico invoca l’autorità della scienza e contro la scienza non si può fare niente.

Questo significa che la dottrina sociale della Chiesa ha perso tutta la sua forza. Essa è diventata irrilevante, perché inefficace, senza effetto reale nella società. E’ come se non esistesse.

Perciò stiamo in una situazione nuova: una Chiesa del silenzio in mezzo a una società guidata dal valore supremo del denaro e in cui le norme sono la competitività e l'aumento di potere. Nessuno legge la dottrina sociale della Chiesa, perché tutti sanno coscientemente o incoscientemente che essa ha perso tutta la sua efficacia. La Gaudium et spes è diventata irrilevante, senza contenuto reale, perché non ha applicazione.

E così la Chiesa deve esprimere la sua testimonianza in un’altra maniera. Oggigiorno, pubblicare documenti o fare discorsi e irrilevante. Nessuno legge questi documenti, proclami, appelli e così via. Per il FMI, è irrilevante. Il mondo attuale ha bisogno di ricevere messaggi più concreti, più forti che riescano a mobilitare i media e a svegliare l’attenzione e l’emozione delle masse.

Ciò che fa una testimonianza oggigiorno non sono le parole ma i gesti. Il gesto di Daniele che rifiuta di adorare la statua di oro. Ma dove sta la statua d’oro? Sta a Davos, nel club di Parigi, nel FMI, nella OMC. Sta nelle multinazionali. Gli effetti sono innumerevoli: mercantilizzazione del lavoro, riduzione del lavoratore a schiavo dell’impresa, esclusione sociale di metà della popolazione, “favelizzazione” delle grandi città e così via. Non si tratta di piccoli scandali isolati, ma di fatti immensi. E per di più, questi fatti si riferiscono a esseri umani.

Quello che ci aspettiamo sono azioni profetiche di grande visibilità che manifestino la parola di Dio nell’umanità, in modo che essa possa, di fatto, raggiungere le moltitudini. Un esempio può illuminare questa necessità. Quando il vescovo di Barra, don Luis Flavio Cappio, fa lo sciopero della fame per richiamare l’attenzione sulle menzogne e le ingiustizie del progetto di trasferimento nelle acque del Rio San Francisco, tutti i media hanno comunicato la notizia e questa semplice azione è riuscita a provocare un dibattito nella opinione pubblica nazionale, e a sospendere, magari per sempre, il progetto. Se la CNBB non avesse pubblicato quel documento, nessuno sarebbe venuto a saperlo.

Al tempo dei regimi militari ci furono molti atti profetici simili, per esempio, da parte di vescovi di grande personalità, in Brasile, in Cile e molti paesi. La morte di Oscar Romero è stata un segno straordinario. In quel tempo i segni si destinavano ai popoli dominati da dittature militari.

Oggigiorno, il problema non sono più i militari. Al contrario, ci sono militari che possono tornare alla tradizione nazionalista molto forte nella storia latino-americana. Il nemico è il sistema economico dittatoriale mondiale che ha il suo centro nei paesi del primo mondo.

Da quando si fa uso del nuovo sistema di comunicazione nella Chiesa, tutta l’attenzione dei media è stata orientata alla persona del Papa Giovanni Paolo II, che ha monopolizzato il potere delle immagini, perché era l’unico cattolico riconosciuto dai media. Il Papa aveva il dono della comunicazione e, coscientemente o no, voleva essere l’unica star. Il Papa è riuscito a dare alla Chiesa una visibilità molto espressiva. Tuttavia, globalmente, il suo messaggio è stato orientato e in modo abbastanza unilaterale. Non era possibile che una sola persona concentrasse in sé tutta la missione di testimoniare la Chiesa.

La neocristianità creata dopo la rivoluzione francese favorì il sorgere di molte opere cattoliche. Queste riuscirono a mantenere in seno alla Chiesa gli antichi contadini di cultura rurale tradizionale. Non riuscirono a integrare gli operai, né gli intellettuali. Anche al giorno d’oggi appaiono molte opere “cattoliche”. Esse hanno i loro vantaggi e i loro effetti positivi.

Le opere cattoliche ormai non sono segnali forti nel mondo di oggi. Anzi, sembrano isole, rifugi, entità che rimangono sconosciute al resto del mondo. Servono ai cristiani tradizionali, ma non costituiscono un annuncio del Vangelo per la grande massa. Non esiste più nemmeno una massa di contadini di cultura tradizionale. Non mancano casi in cui il messaggio diffuso da queste opere è che “la Chiesa è ricca”.

Oltre a questo, esse fanno sì che non ci sia una presenza cattolica nelle istituzioni e nella società civile. Esse consumano le energie dei cattolici più preparati. Chi darà testimonianza in mezzo al mondo? Invece di essere inviati come missionari, i cattolici vivono insieme in una società parallela senza contatto con la grande società. Se la Chiesa continuerà a riservare per se stessa le migliori forze dei religiosi e dei laici, chi sarà presente e chi darà testimonianza nelle imprese, nei condomini, nelle favelas, nelle università, nei collegi e così via?

Oggigiorno esistono migliaia di associazioni, organizzazioni di lotta contro la società neoliberale. C’è spazio per i cattolici. Dato che in tutti questi movimenti c’è necessità di una ideologia, di progetti concreti, di dirigenti onesti. C’è spazio perché i cattolici si manifestino come i servitori più disinteressati, più dedicati, più onesti. Possono essere il sale della terra alla luce che sul monte attira gli sguardi.

Le esortazioni ufficiali dicono che i laici devono dare testimonianza nel mondo, ma come possono farlo, se sono mobilitati al servizio di istituzioni cattoliche? La Chiesa tiene occupate molte persone che potrebbero stare nel mondo. C’è una contraddizione tra il discorso ufficiale sui laici e la pratica istituzionale che non si interessa del mondo. La gerarchia dovrebbe assumere un atteggiamento più chiaro e dare orientamenti non contraddittori.

La sfida dei cristiani nel mondo è oggi molto più difficile che in passato. Perché il sistema è molto forte, molto autoritario. Dentro le imprese la vigilanza è totale. Nessuno può contestare, nessuno può protestare, nessuno può criticare. Chi non si sottomette come schiavo diventa sospetto e può essere eliminato. Per questo dare testimonianza cristiana suppone eroismo. Allo tempo stesso è necessario essere prudenti come serpenti. Non esiste libertà di espressione. Allo stesso tempo c’è una campagna di lavaggio cerebrale per manipolare le menti e ottenere che tutti si convincano che è necessario obbedire, che non ci sono alternative e che sono molto felici di stare nell’impresa. Tutte le scienze umane concorrono per sottomettere le menti. I media, le istituzioni, l’ambiente globale della società: tutto serve per scoraggiare qualunque tentativo di cambiamento. Per questo soltanto personalità forti, con convinzione molto forte, potranno dare testimonianza. La maggioranza rimarrà in silenzio. L’economia neoliberale ha la stessa forza degli imperatori romani. La pressione psicologica è forte. In pratica e di fatto la maggioranza cede e lascia perdere le proprie convinzioni.

Da qui la necessità di una preparazione e di un appoggio molto forte. Senza formazione molto profonda, nessuno potrà aprire la bocca nella società e tutti ripeteranno le menzogne divulgate dai media.

La parrocchia non dà questa formazione. Se vogliamo evangelizzare il mondo dobbiamo prendere come priorità la formazione dei laici in tutti gli ambienti. I migliori sacerdoti, i migliori religiosi e le migliori religiose devono essere riservati per questa formazione. Basta con la formazione dei bambini. E’ meglio lasciare la parrocchia senza prete, dato che i laici possono assumerne quasi tutti i compiti. Anche una prima generazione di laici formati possono essere formatori. Ma questo esige dieci anni. Se non si ha il coraggio di formare i laici che dovranno lottare contro una struttura più dura che l’impero romano, perché sottomette le menti, non ci sarà presenza della Chiesa nel mondo, nonostante tutti i testi e tutti i bei discorsi.

Tanto per fare un esempio, la corruzione esiste a tutti i livelli e in tutte le imprese. E’ un fatto mondiale, non tipicamente brasiliano. I media parlano di casi di corruzione nella vita politica, perché possono farlo senza temere la repressione. Ma nessuno ha il coraggio di denunciare i casi di corruzione nelle imprese, nell’industria, nel commercio, nei trasporti, nelle prigioni, nelle scuole, negli ospedali, nelle amministrazioni pubbliche e perfino nel calcio, che adesso è una grande impresa. La regola è che tutti praticano corruzione. Come può mutare questo? Le leggi non si applicano perché tutti danno copertura. Nessuno sa niente, nessuno ha visto niente, nessuno ha sentito parlare di niente. Chi potrà essere onesto e impedire a se stesso di entrare nel circolo della corruzione? Bisogna disporre di un’energia senza pari.

La vita attuale è una preoccupazione permanente per non perdere il posto di lavoro, per chi ce l'ha già, o per cercare un impiego, un posto di lavoro per chi non ce l'ha, o per rimediare un lavoretto per sopravvivere per chi già ha smesso di cercare un posto di lavoro. Tra tutti esiste una competizione. Per avere un posto di lavoro bisogna rendersi gradevoli, adulare e, soprattutto, avere buone referenze. In quest’ambiente, come mantenere l’equilibrio? Come vivere serenamente con tali minacce? Solamente eroi.

La pressione sociale è così forte che senza una profonda mistica non c’è modo di salvarsi. Il clero non partecipa a tutto quello che a succede nella società; abita in un luogo privilegiato e, per questo, non sa quello che succede. La gerarchia non è cosciente delle sfide della società attuale. Non serve pensare che con lo sviluppo queste cose miglioreranno da se stesse perché nel mondo sviluppato questi problemi sono più forti ancora.

Per questo, senza mistica non si può agire come cristiani nel mondo. Rahner già diceva che nel XXI secolo la Chiesa sarà mistica o non sarà. La formazione parrocchiale non basta. Per di più, chi non va al culto, sono giustamente le persone che non vivono in questa pressione permanente.

Non esiste una forma unica di mistica. C’è una grande varietà di mistiche che stanno sorgendo. Senza una vita in permanente presenza di Dio, nessuno ce la fa. Oggigiorno la mistica non può essere vissuta in un rifugio lontano dal mondo, se non vuoi essere un privilegiato, salvo alcune vocazioni molto eccezionali. Deve essere vissuta nella società come nei primi tempi, cioè, in una società contraria al Vangelo, aliena ai valori morali, in una società senza amore e nella quale tutti sono rivali e tutti possono essere possono farsi male, essere licenziati, essere abbandonati.

L’economia neoliberale, il modo come si fa la globalizzazione, non è inevitabile. Il superamento di questo sistema è la grande meta del secolo XXI. Non si farà in pochi anni. C’è un risvegliarsi, ma ancora manca la partecipazione dei cristiani in questo risvegliarsi. Gli uomini e le donne che stanno lì già praticano la vita evangelica. Sono della Chiesa, ma hanno bisogno di riconoscersi, conoscersi e mutuamente solidarizzare in vista di un mutuo appoggio. Questo sarà il ruolo delle piccole comunità. Senza piccole comunità gli eroi si stancheranno e si scoraggeranno. Con una Chiesa viva, gli eroi possono moltiplicarsi e trasformare questo mondo.

C’è una terribile contraddizione tra l’aspirazione alla libertà che nasce nella rivoluzione culturale degli anni ‘70 e il sistema di economia mondiale che esercita una dittatura sui corpi e sulle menti. Chi sta sul fronte della lotta per superare questa contraddizione darà un segnale. Il messaggio di Gesù non sarà diffuso partendo dal potere, ma partendo da persone eroiche che si piazzano sul fronte del combattimento soltanto con la forza di Dio.

Pubblicato in Teologia
Le grandi incertezze nella Chiesa attuale

(prima parte)


di José Comblin





Sommario
: La Chiesa ancora non ha preso conoscenza della grande rivoluzione degli anni ‘70. Non ha capito la grande aspirazione alla libertà e i passi fatti. Questa rivoluzione include la critica di tutte le istituzioni perché sono repressive e sono di ostacolo alla libertà. La critica delle istituzioni tocca anche la Chiesa e sta alla base delle crisi interne della Chiesa fin dagli anni ‘70. D’ora in avanti la distinzione tra Chiesa e l’istituzione è inevitabile. L’istituzione è tutto quello che è stato aggiunto al messaggio di Gesù. Essa varia e ancora può e deve variare. La nuova situazione provocata dalla conquista del mondo da parte del sistema capitalistico mondiale, obbliga a cambiare l’atteggiamento davanti al mondo. La Chiesa pare muta e disorientata. Il Papa potrà dare segni profetici chiari in questo mondo neoliberale? Continuerà a pensare che la funzione della Chiesa è di offrire una dottrina sociale?

1. Il fatto fondamentale

Il fatto fondamentale è che la Chiesa ancora non si è accorta o non ha riconosciuto o non ha voluto accettare la grande rivoluzione della società occidentale che si è manifestata negli anni ‘70 del secolo passato e si è estesa rapidamente al mondo intero. Quello che succede attualmente in Cina e nei paesi detti “tigri asiatiche” è altamente significativo. Popoli che avevano una lunga tradizione di civiltà adottano con entusiasmo e quasi con furia la nuova società occidentale nata dalla rivoluzione degli anni ‘70.

La Chiesa vive ancora nell’illusione del mondo del tempo del Vaticano II, come se non ci fosse stata una rivoluzione così radicale quanto la rivoluzione francese, subito dopo il concilio. Chi oggigiorno legge certi testi conciliari, per esempio la Gaudium et spes, non può non rimanere impressionato dall’ingenuità della concezione del mondo che si aveva in quel tempo. Il Vaticano II ha parlato per un mondo che oggi non esiste più. E’ entrato nella storia, ma non fornisce orientamento per il mondo di oggi.

A partire dagli anni ‘70 è cominciata la frana della cristianità. Ai tempi del Vaticano II, alcuni frettolosi avevano proclamato la fine della cristianità. Ma non era ancora la fine. Al contrario, il concilio visse in un ambiente di neo-cristianità. Pochi anni dopo, cominciò la grande rivoluzione della società occidentale che si ripercosse anche dentro la Chiesa come un uragano. Molti cattolici si allontanarono dall’istituzione e anche molti sacerdoti e molti religiosi. I conservatori intransigenti attribuirono questo fatto al concilio, ma il concilio non aveva niente a che vedere con questo. Quello che era avvenuto era una grande rivoluzione totale della società occidentale: rivoluzione nella scienza, nell’economia, nella politica, nella cultura; rivoluzione totale e profonda con conseguenze di una rivoluzione nell’etica e nella religione.

Questa rivoluzione scosse tutte le istituzioni: la famiglia, l’impresa, la scuola, l’università, lo Stato e, naturalmente, le istituzioni religiose. Scomparvero antichi poteri e apparvero nuovi poteri. Ora sì, stiamo arrivando alla fine della cristianità. Ma ancora non è la fine della coscienza della cristianità all’interno della Chiesa. Al contrario, tutta l’istituzione continua a funzionare come se niente fosse cambiato e come se la Chiesa avesse ancora lo stesso potere sociale di sempre. Ci sono movimenti potenti che pensano che possono rifare di nuovo una neo-cristianità come era avvenuto dopo la rivoluzione francese. Pura illusione. Mancano gli elementi sociali per ricominciare questa operazione.

Tuttavia questa coscienza di cristianità in una situazione di svuotamento della stessa cristianità, genera un sentimento abbastanza generalizzato di malessere. Provate a paragonare la psicologia dei cattolici e perfino del clero con la psicologia degli evangelici! Tra gli evangelici prevale un sentimento di euforia, di fiducia, di vittoria. Gli evangelici si sentono vincitori e i cattolici hanno la coscienza degli sconfitti che cercano di coltivare il passato senza molta convinzione.

Ora, la fine della cristianità significa che l’evangelizzazione e la pastorale non possono essere fatte a partire da una posizione di potere.

Dai tempi di Costantino, la pastorale si è fatta partire da posizione di potere dei vescovi e del clero. Loro insegnano, amministrano i sacramenti, governano le comunità. Ogni parroco è papa nella sua parrocchia: lui è infallibile, con piena giurisdizione. I laici sono oggetto di obblighi: i laici devono frequentare la parrocchia, devono ubbidire e, soprattutto, sostenere finanziariamente una istituzione in cui non hanno nessun potere. E il potere del clero appare come se fosse il potere di Dio. La parrocchia è l’immagine del potere. Il parroco è inviato dal vescovo senza chiedere nessun parere ai laici. Lui comanda, non perché riconosciuto dal suo popolo come la persona più capace, ma semplicemente per imposizione del vescovo. All’improvviso, arriva e può comandare in tutto. L’unico limite al suo potere è la resistenza del popolo, l’indifferenza della maggioranza e un’attitudine di difesa così frequente tra i cattolici che fa sì che soltanto una piccola minoranza partecipi della parrocchia.

Quanto all’evangelizzazione del mondo, essa si fa quasi sempre per imposizione. L’evangelizzazione è andata di pari passo con le conquiste delle potenze della cristianità dell’Occidente, attraverso guerre di religione o conquiste di colonizzazione. L’America Latina è l’esempio più completo di quest’evangelizzazione attraverso conquiste e conversioni forzate. Ci sono state eccezioni. Ci sono stati missionari che hanno protestato contro la conquista. Essi però non ebbero nessuna influenza. Il loro scritti non furono pubblicati prima del secolo XIX quando gli imperi di Spagna e Portogallo erano già scomparsi. I popoli conquistati ricevettero il cristianesimo attraverso la pressione del potere politico militare associato alla missione.

Oggigiorno, la Chiesa non ha più potere oppure solamente mantiene alcune illusioni di potere. Ma già fin d’ora non può evangelizzare a partire dal potere. Questo lascia la Chiesa sconcertata, con un sentimento di impotenza. Io stesso ho sentito un Nunzio affermare che senza l’appoggio del potere civile la Chiesa non riesce a evangelizzare. Coloro che stanno attaccati alla tradizione restano sconcertati. Abituati all’idea che il prete è una persona di potere, improvvisamente restano disorientati, quando percepiscono che nessuno più accetta il loro potere, salvo alcune pie donne che si prendono cura della chiesa parrocchiale. Mons. Expedito, di São Paulo do Potengi, raccontava le parole del Vescovo di Natal che lo aveva nominato parroco. Diceva il vescovo: “Expedito, non dimenticare mai che tu sei un’autorità. Cerca di avere buone relazioni col Prefetto, col Delegato di polizia, e con il giudice. Quanto al resto fa quello che puoi”.

Il problema tra tutti i problemi e che sta alla base di tutti è la necessità di evangelizzare senza potere, a partire da una relazione di uguaglianza: un essere umano davanti a un altro essere umano, come modo di relazionarsi fra persone uguali e non in un relazionarsi da superiore a inferiore.

E’ il dramma di molti giovani sacerdoti che sono stati formati per il potere in un ambiente di potere e scoprono all'improvviso che non esiste più questo potere. Ma non sono stati preparati per un relazionarsi da persona a persona come fratelli uguali.

Nel linguaggio del Vaticano II, i laici sono stati promossi. Da allora sono stati pubblicati molti documenti eccezionali sui laici nella Chiesa. I documenti della CNBB sono particolarmente eccellenti e mostrano la qualità dei consiglieri che assistono i vescovi. Tuttavia nella pratica non è cambiato niente. I laici non hanno più potere, più autonomia di quello che avevano prima. Tutto è rimasto nelle parole, perché niente è cambiato nell’istituzione. Durante il precedente pontificato è stato pubblicato un catechismo cattolico. Qual è stata la partecipazione del popolo di Dio nella preparazione di questo catechismo? Zero. Nemmeno si sapeva chi erano le persone che stavano elaborando questo catechismo. E’ stato pubblicato un nuovo codice di Diritto Canonico. Qual è stata la partecipazione del popolo cristiano nella redazione di questo codice? Zero. I laici non valgono niente; in pratica, non hanno lo Spirito Santo. Essi sono ignoranti e come ignoranti devono accettare tutto senza reclamare. Prima di questo c’erano state riforme liturgiche. Il popolo cristiano era stato consultato? No. Il popolo è ignorante, i laici sono ignoranti. Tutto questo come se lo Spirito di Dio stesse soltanto nella gerarchia. Quello che dicono i documenti resta pura parola. In pratica, tutto continua come al solito, come sempre: un relazionarsi di poteri e una pastorale di potere. E’ questo che deve cambiare, se vogliamo evangelizzare questo mondo nuovo nel quale ora siamo immersi.

Perché nel mondo nuovo ci stiamo già. La grande maggioranza dei battezzati ormai non conosce neanche il Padrenostro e ignora tutto della Chiesa. La vita e un corri corri, passando da un’attività all'altra, per sopravvivere. La disorganizzazione sociale è tale che le persone vivono come individui solitari, isolati, senza fiducia gli uni negli altri, senza relazione umana di stabile: a volte, nemmeno tra si. La cristianità tradizionale, con il suo stile di vita, sopravvive in alcune tradizionali famiglie di tipo “mineiro” (da Minas, uno Stato del Brasile, n.d.t.). Sempre ci sarà qualche rappresentante del passato. Tuttavia, questi non hanno più influenza nella società e costituiscono rifugi ecclesiastici. Per i 5 milioni di abitanti dei condomini di San Paolo che cosa significa la Chiesa? Per i 3 milioni di abitanti delle “favelas” che cosa significa la Chiesa? Qual è il suo potere? Quel che vale sono i missionari che sono riusciti a formare piccole comunità vive, partendo da una relazione di fratelli, relazione di uguaglianza, senza invocare nessun potere ecclesiastico.

Questa è la sfida pratica ancora non assunta collettivamente dalla Chiesa: riconoscere che non si può più evangelizzare a partire da una posizione di potere, ma solo in una relazione di esseri umani con esseri umani uguali. In teoria, nessuno contesta, ma in pratica, tutto continua come se la chiesa ancora avesse nella società i poteri che aveva fino agli anni ‘70 del secolo XX.

2. Grande rivoluzione culturale

Esiste un’abbondante ed eccellente letteratura sulla rivoluzione dell’economia e della politica dopo gli anni ‘70. C’è stato un trasferimento di poteri con ripercussioni immense nella vita di tutti i giorni della gente come pure nella vita sociale. Volevo soltanto qui riproporre all’attenzione la rivoluzione culturale o, per meglio dire, uno dei suoi aspetti.

Un elemento importante di questa rivoluzione è stato, e ancora è, la critica sistematica di tutte le istituzioni, denunciate come macchine di potere e di repressione della libertà e della personalità individuali. La prima istituzione criticata è stata la famiglia, ed è chiaro che la famiglia tradizionale si disintegra. Perfino negli Stati Uniti dove l’ortodossia capitalista aveva sempre postulato che le relazioni di competitività e di ricerca del maggiore vantaggio nella vita pubblica non avrebbero toccato la vita privata delle famiglie, i più conservatori, come Francis Fukuyama, devono riconoscere che la famiglia è in piena crisi. Chi provoca la crisi sono i giovani che si sentono oppressi dalla cultura antiquata dei loro genitori, i cui i valori essi ormai non riconoscono.

La seconda crisi ha per oggetto tutto il sistema di educazione, dall’università fino alla scuola elementare. Il sistema è stato denunciato come oppressivo, sia per la maniera di imporre ed esercitare l’autorità sui giovani, quanto per il vuoto di contenuto che vuole imporre loro, senza prepararli alla vita reale. Questa critica ha provocato, di fatto, un indebolimento del sistema scolare ed educativo nel mondo intero. In tutti i paesi si riconosce una diminuzione dei risultati del sistema scolare, sempre più improduttivo, in modo che la scuola appare come scuola di analfabetismo. Le statistiche ufficiali sono ingannevoli, perché forniscono indici elevati di alfabetizzazione, ma non riferiscono il numero degli analfabeti funzionali che sono incapaci di leggere un testo e di capirne il contenuto.

La crisi dello Stato è generale. Essa provoca una disistima crescente della democrazia e l’indifferenza politica dei giovani, in modo generale. La crisi politica è oggetto di continui commenti, fin dagli anni ‘70. In America Latina, la lotta contro le dittature militari ha messo in sordina quello che stava succedendo nei paesi dominanti dell’Occidente: la disistima crescente dello Stato. Quando si ritornò al regime democratico, molti ebbero illusioni, perché non sapevano quello che stava succedendo alla democrazia.

Tutte le altre istituzioni sono state vittime della stessa critica e sono rimaste senza prestigio: decadenza dei partiti politici, dei sindacati, delle associazioni di quartiere e di quasi tutti i tipi di associazione. Molti sono entrati nel cammino della corruzione fino al punto che la corruzione ha raggiunto perfino i club del calcio e tutto il sistema imprenditoriale. Manca la repressione della corruzione, che è diventata la nuova istituzione sociale.

La critica a tutte le istituzioni ha aperto la porta a una nuova istituzionalizzazione. Ha aperto la porta alle entità economiche e alla priorità dell’economia nella società. Oggigiorno, sempre di più, il potere appartiene alle multinazionali, che si concentrano sempre più e a acquisiscono sempre più potere. In nome della libertà del mercato, acquisiscono sempre più potere, costituendo una piccola rete di megaimprese che impongono le loro leggi. Riescono a mettere al loro proprio servizio lo Stato, il sistema di educazione (a cominciare dalle università), il lavoro scientifico, e a corrompere, comprare o mettere al proprio servizio, sempre più tutta la rete delle istituzioni private. Dirigono tutto il sistema di informazione e di comunicazione, tutto il sistema di pubblicazione e di trasmissione dei messaggi. Trasformano la cultura in commercio, cioè, in una fonte di capitale. Tutto questo è stato molto bene analizzato. Approfittano del vuoto delle istituzioni forti e si trasformano in un solo potere totale, che riesce a dominare la vita, senza che la maggioranza degli abitanti se ne rendano conto. Grazie alla manipolazione dei media riescono a fare sì che i cittadini si trasformino in consumatori, aumentando così il loro potere.

Succede qualcosa di simile a quello che era successo alla rivoluzione francese. Questa soppresse tutti i sistemi di obbligazione del commercio e della circolazione delle mercanzie ed aprì il cammino al capitalismo. La rivoluzione culturale dell’attualità ha aperto il cammino una nuova forma di capitalismo molto più potente, perché invade tutti i settori della vita e può contare con un immenso progresso tecnologico e scientifico. Come lottare contro gli abusi di questo nuovo potere? Ci vorranno cento anni.

3. La Chiesa davanti alla rivoluzione culturale

Globalmente, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, possiamo dire che la Chiesa ha preso un atteggiamento negativo in relazione alla rivoluzione culturale. Così era successo anche dopo la rivoluzione francese. Sia ben chiaro che ci sono aspetti negativi nella nuova cultura: essa distrugge valori che avevano molta importanza in passato, che erano parte del patrimonio della cristianità.

Tuttavia, ci sono anche valori positivi, e soprattutto, valori definitivi contro i quali è vano lottare. Senza dubbio, c’è, dagli anni ‘70, un risvegliarsi della libertà personale, della volontà di conquistare più libertà, una denuncia e un rifiuto di tutte le forme di repressione. Mettiamo pure che appaiano nuove forme di dipendenza, ma la coscienza non è più la stessa.

Questa coscienza di libertà si è svegliata, soprattutto, nelle donne. Quello che più è cambiato è stata giustamente la coscienza delle donne, che vogliono essere riconosciute come esseri umani completi e autentici, con lo stesso valore degli uomini. Per la prima volta una rivoluzione diretta dalle donne per l'emancipazione delle donne. Ma, c’è pure un risvegliarsi di coscienza di libertà nei giovani. C’è voglia di vivere pienamente la vita, anche se questa voglia possa essere contaminata dal consumismo.

C’è una voglia di vivere pienamente la vita con lo sviluppo massimo di tutte le capacità. Per molti, il cristianesimo ha perso valore perché insegna una maniera penitenziale di vivere la vita. Il cristianesimo ha fama di essere una forza di repressione di tutti i movimenti vitali, un freno alla liberazione umana.

Bisogna riconoscere che, nella cristianità, il clero insegnava ai cristiani che la vita cristiana era una vita di sacrifici, che era necessario non solo accettare le mortificazioni che Dio mandava, ma anche aggiungerne delle altre, facoltative, per aumentare i meriti. C’era quello che Jean Delumeau ha chiamato “la pastorale della paura”, che consisteva nel mantenere vivo un sentimento permanente di peccato, accompagnato dalla paura della condanna finale e, per questo, dalla necessità di opere di espiazione. Le donne vestivano di nero e coprivano l’intero corpo. La rivoluzione culturale ha liberato da queste cose che non appartengono al Vangelo, ma sono state introdotte nella cristianità durante il Medio Evo.

Dopo la rivoluzione culturale, milioni di uomini e, soprattutto, di donne sono usciti dalla Chiesa, non per motivi di dottrina o di fede, ma perché non accettavano più lo stile penitenziale della spiritualità che si insegnava. Hanno smesso di aver paura dell’inferno e dei castighi di Dio. Quello che rifiutano nella Chiesa non sono i dogmi, e meno ancora il Vangelo, ma l’austerità della vita, la preoccupazione costante per il peccato e la paura che si infondeva nella coscienza del peccatore. I giovani fuggono da questo come dalla peste. Non ne vogliono proprio sapere. I movimenti integralisti, come l’Opus Dei o i Legionari di Cristo devono praticare un lavaggio cerebrale radicale perché i loro membri accettino questo ritorno al passato.

Cristo non è venuto a creare un movimento penitenziale, ma ad annunciare la gioia dell’arrivo del regno di Dio. Il centro del cristianesimo è la proclamazione della resurrezione, che è promessa di vita e di vita abbondante.

Dobbiamo cambiare l’asse fondamentale della spiritualità. Durante il periodo della cristianità occidentale l’asse è stato il venerdì santo, la maggior festa celebrata dal popolo. La spiritualità era concentrata intorno all’espiazione dei peccati. La stessa eucaristia era stata intesa per tutta questa epoca come una preghiera di suffragio per le anime del Purgatorio. Al centro della figura di Gesù stavano la passione e la croce, a quel tempo i grandi simboli della cristianità. Questo è penetrato profondamente nella mente e nel cuore del popolo cattolico e le chiese della riforma lo accentuarono ancora di più.

D’ora in avanti, l’asse della spiritualità dovrà essere la resurrezione, ossia, la vittoria della vita, nonostante la morte e il peccato. Ancora non sappiamo quale sarà l’asse della spiritualità del nuovo papa. Non sappiamo se entrerà nella mentalità della nuova cultura o se cercherà di restaurare la spiritualità medievale.

D’altra parte, in relazione alla nascita di un nuovo potere, il potere economico delle multinazionali, il sistema finanziario mondiale e la formazione di una nuova borghesia, il magistero si è mostrato abbastanza timido e riservato. Nessuno si è sentito toccato dalle sue condanne molto vaghe. C’è stata, e ancora c’è, l'impressione che la Chiesa non voglia entrare in conflitto con i nuovi poteri e preferisce un’alleanza con essi, anche se in maniera discreta per non scandalizzare i fedeli. Pensa che potrà adattarsi all’economia, anche se rigetta l’insieme della loro cultura.

4. La critica dell’istituzione ecclesiastica

La critica delle istituzioni non poteva lasciare da parte le istituzioni ecclesiastiche. La critica delle istituzioni, che si manifesta chiaramente fin dagli anni ‘70 ci obbliga a fare una distinzione che non era stata mai fatto prima di questa data e quindi è assente nei documenti del Concilio Vaticano II. Quando il Concilio parla della Chiesa, parla allo stesso tempo dell’istituzione cattolica romana e della Chiesa come mistero di Dio, come realizzazione presente del regno di Dio. Non fa distinzioni. Parla come se tutto l’apparato istituzionalizzato, il burocratizzato dell’istituzione ecclesiastica appartenesse all’essenza della Chiesa. Ora, sia la storia come le scienze umane, specialmente la sociologia, mostrano che tutto questo apparato è una costruzione storica, che è cambiata abbastanza durante i secoli e che è stato definito a partire da presunti contratti con altre istituzioni che appartenevano a culture nelle quali la cristianità era entrata. L’istituzione è cambiata e può cambiare ancora, anzi deve cambiare perché ormai non costituisce un aiuto per l’evangelizzazione, ma, molte volte, un ostacolo.

Hanno cominciato a manifestarsi movimenti critici, soprattutto a partire dagli anni ‘70. Prima di questa data, prevaleva l’idea che il Concilio Vaticano II avesse portato le risposte alle preoccupazioni del popolo di Dio. A partire dagli anni ‘70, la rivista Concilium cambiò il suo orientamento: diventò sempre più critica, essendo portavoce del pensiero di vari movimenti di molte persone nella Chiesa cattolica in contatto con la nuova cultura.

A queste critiche fatte all’istituzione la gerarchia rispose con silenzio assoluto. Essa ignora o finge di ignorare queste rivendicazioni.

Davanti alla critica all’istituzione, Giovanni Paolo II rispondeva ritornando alla grande disciplina. La sua risposta è stata restaurare tradizioni, usi, costumi, devozioni anteriori al Vaticano II e che avevano perso il prestigio o erano cadute in disuso. Il Papa volle restaurare il sacramento della penitenza mediante la confessione auricolare al sacerdote, anche se questa disciplina era stata introdotta ormai in una fase molto avanzata del Medio Evo ed era stata ignorata nella Chiesa per quasi dodici secoli. Tutto questo mantenendo un ambiente di rigore nella dottrina tradizionale, nella liturgia e in tutta l’organizzazione istituzionale, dichiarando terminata la fase sperimentale.

In questo modo, Giovanni Paolo II ha ripetuto quello che era successo nel secolo XIX dopo la rivoluzione francese. La Chiesa aveva restaurato il passato a partire dalla classe dei contadini. Molti missionari si erano dedicati a evangelizzare le campagne e i contadini, ancora erano la grande maggioranza della popolazione. Nell’ambiente rurale fu possibile ricostituire un frammento della cristianità anche se sempre in conflitto con la società dominante. L’atteggiamento dell’istituzione verso la modernità è sempre stato più di rifiuto, fino a raggiungere un punto culminante nel pontificato del Papa Pio X.

Questa nuova cristianità non poteva non essere fragile, anche se a quel tempo non si sapeva. Non si poteva prevedere l’immensa migrazione dalle campagne alla città. Tuttavia, era prevedibile che era pericoloso concentrare la chiesa in una classe sociale che cominciava a diminuire, e alcuni cattolici dettero l’allarme perché avevano visto il pericolo che c’era nel rigettare tutta la modernità. C’erano in essa valori positivi che era pericoloso attaccare. Durante tutto il secolo XIX l’atteggiamento dominante fu quello del rifiuto. Il prezzo fu la perdita di tutta la classe intellettuale e delle persone che avevano studiato, e la perdita della classe operaia. Quando finalmente con Giovanni XXIII la Chiesa accettò i principi della dichiarazione dei diritti umani, ormai era troppo tardi. L’immensa maggioranza dei cattolici già se n’erano usciti.

Fino gli anni ‘50 del secolo XX, l’America Latina visse nella dipendenza culturale dall’Europa. Assimilò a poco a poco la lotta contro la modernità nei suoi diversi aspetti, e una piccola classe operaia nacque quasi senza la presenza della Chiesa. Anche in America Latina la classe istruita si allontanò dalla Chiesa. Le donne rimasero fedeli, perché esse non potevano istruirsi. Quando fu aperta loro la porta dell’università, esse reagirono come gli uomini. Trovarono la Chiesa una istituzione rispettabile, potente tra la classe dirigente, ma senza valore per la loro vita personale e senza rilievo per il loro pensiero. Sebbene meno profonda che in Europa, la separazione tra Chiesa e classe istruita mantiene ancora forti ripercussioni nel mondo universitario intellettuale di adesso: predomina un atteggiamento di indifferenza. Pochi e poche pensano che potrebbero trovare nella Chiesa qualcosa d’importante per la loro vita. Sono cristiani fedeli al messaggio evangelico, ma senza contatto con l’istituzione.

Oggigiorno, la strategia di condannare le loro culture non ha più l’appoggio della classe dei contadini, perché i contadini sono andati in città e quelli che sono rimasti stanno in contatto permanente con la cultura urbana mediante la TV. Giovanni Paolo II proclamò che gli agenti della nuova evangelizzazione si sarebbero chiamati movimenti, cioè: Opus Dei, legionari di Cristo, Focolarini, Comunione e Liberazione e altri simili. Questi costituirebbero una truppa d’assalto, ma senza una massa al seguito. E’ una base molto stretta per fondare una nuova neo-cristianità.

Quali sono le critiche che si fanno all'istituzione? In primo luogo, c’è la critica della burocratizzazione. A tutti i livelli, il clero si è burocratizzato. L’agenda dei preti, dei vescovi, della curia romana è piena di riunioni, seminari, congressi, programmazione, relatori, documenti, assessorati, progetti. Naturalmente tutto questo rimane lì sulla carta. La burocrazia enuncia tutto quello che dovrebbe essere fatto senza dire mai chi lo farà. Perciò, tutto resta sulla carta. Questo non importa alla burocrazia. Dato che la burocrazia cerca di rispondere e accontentare il capo, molto più che non i “clienti”. Quello che importa con tutta questa attività fatta di parole è che si dicano cose che accontentano il capo. E’ necessario nascondere i problemi, dimostrare ottimismo, mostrare che si stanno risolvendo i problemi. Qual è la finalità di qualsiasi burocrazia? Sopravvivere, crescere, garantire il proprio futuro e aumentare il proprio potere. Una burocrazia ha una sua finalità in se stessa. Quello che succede là fuori, nel mondo, in mezzo agli uomini, alle donne, non importa molto. Basta evitare che le critiche arrivino fino all’orecchio del capo. Cresce nella Chiesa l’impressione che tutto quello che il clero fa, dalla curia romana fino alla parrocchia, è totalmente irrilevante e artificiale e rimane lontano dalla realtà degli uomini e delle donne. La burocrazia si costituisce come corpo autonomo indipendente. La burocrazia ecclesiastica è diventata fine a se stessa.

Un pubblicista francese del secolo XX, Charles Murras, fondatore del movimento di destra “Action Française”, era agnostico. Ma un giorno dichiarò che si congratulava con la Chiesa romana, che era stata capace di purificare il cristianesimo dal pericoloso fermento del Vangelo. In pratica, ci sono casi in cui di fatto il lavoro della burocrazia ecclesiastica serve per evitare che il fermento pericoloso del Vangelo possa penetrare.

In secondo luogo, nonostante la concessione fatta nel nuovo Codice di Diritto Canonico, la Chiesa mantiene nelle città la struttura obsoleta della parrocchia. Il clero viene preparato per agire in un quadro parrocchiale. Gli stessi religiosi sono integrati in parrocchie. Ora, strutturalmente, la parrocchia è fatta per conservare, aiutare, promuovere quelli che partecipano al culto, le persone che appartengono a una piccola minoranza di quelli che stanno nel tempio. La parrocchia vive in funzione del tempio, anche se si dice il contrario. Invece che preparare i cristiani per evangelizzare la società essa si chiude sulla minoranza fedele alle istituzioni del passato.

La parrocchia non considera né fabbriche, né supermercati, né scuole, né collegi, né università, né ospedali, né istituzioni sportive, culturali o di svago, né mezzi di comunicazione della città. Essa sta organizzata intorno ai sacramenti e alle feste liturgiche. Nemmeno riesce a organizzare la catechesi degli adulti e meno ancora la loro formazione missionaria. Essa concentra le energie dei fedeli nel tempio stesso, in se stessa. La Chiesa sta chiaramente a servizio di se stessa, non si può negare le eccellenti intenzioni di molti parroci, tutta l’immaginazione per fare una parrocchia missionaria. Il problema è strutturale ed già era stato denunciato da San Tommaso di Aquino. Dopo otto secoli ancora non si è visto la soluzione. La conseguenza è un popolo passivo, incapace di dare testimonianza nella società, chiuso in stesso, in una spiritualità di pura interiorità.

Intanto, in America Latina, c’è stata l’esperienza di base che poteva aver dato una risposta. E stata l’esperienza delle Comunità Ecclesiali di Base (CEBs). L’esperienza sta continuando, ma non è stata adottata ufficialmente dalla Chiesa. Non è stata loro dato uno statuto ufficiale, e le CEBs rimangono come qualcosa di estraneo e fragile, perché qualsiasi parroco o qualsiasi vescovo può disfare il lavoro fecondo di decine di anni.

Le CEBs che ancora sussistono rimangono subordinate alle parrocchie, alla dipendenza dei parroci. Succede loro quello che è successo all'Azione Cattolica in molti paesi: la subordinazione alla parrocchia è una sterilizzazione di fatto. I movimenti di Azione Cattolica, o non si sono sottomessi all’ordine parrocchiale e furono condannati come nel caso della JUC, o si sono integrati e sono stati assorbiti, o rimasero come gruppi piccoli, semiclandestini. Le comunità devono adottare il programma parrocchiale e finiscono per dedicarsi innanzitutto al culto e alle feste religiose, anche conservando il discorso delle origini. Il modello iniziale di comunità inserite nel mondo popolare e impegnate con il mondo popolare è stato sfigurato. Il nuovo clero non lo adotta. Invece l’autonomia delle piccole comunità integrate in una pastorale della città e non della parrocchia è l’unico cammino. Non serve determinare che d’ora in poi la parrocchia sarà missionaria. Strutturalmente, essa non può essere missionaria, perché non è organizzata in funzione della città, ma in funzione della sua propria crescita.

In terzo luogo, la critica che si fa alla Chiesa come istituzione è che essa mantiene un sistema di potere obsoleto e inefficace. E’ il famoso problema del clero. Il clero monopolizza tutti i poteri e sta al comando in maniera assoluta, unicamente perché inviato dal vescovo senza che i laici possano avere un piccolo spazio di azione. Ogni cinque anni essi sono obbligati a sottomettersi agli umori del nuovo parroco. La ragione è amministrativa. Il vescovo fa le nomine in funzione dei problemi del clero e non in funzione della capacità evangelizzatrice del medesimo. Il prete lotta per conquistare una autorità che un pò alla volta sta esaurendosi.

Il prete non è stato preparato per stare in mezzo al mondo dando testimonianza del Vangelo. E’ stato preparato per amministrare una parrocchia secondo le tradizioni religiose. Alcuni riescono ad andare al di là della formazione ricevuta, ma la maggioranza rimane con quello che hanno imparato in seminario.

Io ho scritto molto in passato sul problema del clero. Non voglio ripetere quello già detto molte volte. Eppure non credo che il nuovo papa abbia la sia pur minima disposizione a cambiare qualche cosa riguardo al clero e alla struttura di potere della Chiesa.

Ci sono molti laici e laiche, che lavorano effettivamente come missionarie e missionarie, generalmente senza mandato, senza riconoscimento ufficiale, senza potere e gratuitamente. Sono eroi che hanno tempo e energia e si dedicano alla missione con molta generosità e gratuità. Ci potrebbero essere molti più uomini e molte più donne se si facesse un appello, offrendo loro riconoscimento, fiducia, autonomia, perché molti semplicemente non vogliono essere “ausiliari” del prete. Quante migliaia di pastori evangelici sono sorti in Brasile ultimamente che si dedicano alla predicazione, alla missione, con entusiasmo, sacrificio e dedicazione! Sono più di 100.000. Molti avrebbero potuto essere missionari e missionarie nella Chiesa cattolica, se soltanto fosse stata loro offerta questa missione, riponendo fiducia in loro.

In futuro, i ministri saranno riconosciuti e identificati dalle comunità, grazie alle loro qualità di profeti e ai loro doni spirituali. In ogni città ci sarà un nucleo permanente di persone con profonda conoscenza dei diversi aspetti della vita della città, e potranno consigliare e organizzare attività pubbliche comuni, riunendo la grande comunità.

Una quarta critica ha per oggetto la strategia, che consiste nell’educare i cristiani quando sono bambini. La catechesi si dirige ai bambini. Dal secolo XIX la pastorale della Chiesa si è concentrata sui bambini. Per questo si dà la priorità assoluta alle scuole cattoliche e alla catechesi infantile. In questo modo gli adulti cristiani sembrano infantilizzati. Del cristianesimo essi sanno quello che gli è stato insegnato quando erano bambini. Mai hanno imparato che cosa significhi essere cristiano come lavoratore, cittadino, padre o madre di famiglia, dentro alle circostanze e agli ostacoli reali della vita.

Il risultato è che i bambini educati nella catechesi cattolica passano agli evangelici quando diventano adulti perché il messaggio degli evangelici è per gli adulti non per i bambini. La pastorale concentrata sui bambini non è efficiente nella nuova società. Ormai è finita, fallendo nel secolo XX.


(continua)
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Sul celibato ecclesiastico

di Emmanuel Leroy Ladurie


Nelle sue lettere a Tito e Timoteo, san Paolo scrive che « il vescovo deve avere una sola donna”. Certo il Cristo ammetteva quest’idea, pur privilegiando la semplice castità, cioè l’autocastrazione (puramente simbolica), come quelli dei suoi discepoli che volevano situarsi in modo assoluto in una prospettiva celeste. E tuttavia il vescovo o il prete doveva decidere da sé: userà o no dei diritti coniugali che gli spettano nei confronti della sposa che Dio gli ha dato?. Nessuna legge canonica, e in ogni caso civile o cristiana, proibiva questo “uso”. San Gregorio di Nazianzio (nato nel 330) ricorda che quando fu generato suo padre era già vescovo. Quanto al prete Novaziano, non gli viene rimproverato il suo matrimonio, ma la violenza in “virtù” della quale ha provocato un aborto di cui fu vittima la sua compagna. Sinesio, che fu vescovo di Tolemaide, rivendicava il diritto di vivere con sua moglie dopo la consacrazione episcopale, e di avere così molti figli. Sant’Atanasio (nato verso il 295) nella sua lettera al monaco Draconzio, fa allusione ai prelati sposati e padri di famiglia. Clemente di Alessandria (nato verso il 150) dichiara che la Chiesa ammette benissimo che uno sia il marito di una sola donna e che poco importa che l’uomo in questione faccia professione di essere prete, diacono o laico. Se questo signore vive il suo matrimonio in maniera irreprensibile genererà molta progenie e nessuno vi troverà da ridire.

Un po’ più tardi il concilio di Gangres lancia l’anatema contro qualcuno che pretende che non si possa partecipare ai santi misteri (messa, ecc.) in compagnia di un prete sposato. Tutt’al più la Costituzioni apostoliche verso l’anno 400 della nostra era proibiscono ai preti vedovi di concludere una nuova unione coniugale.. Un certo Socrate (omonimo del filosofo) segnala che un gran numero di preti illustri nonché di vescovi ebbero (durante il loro magistero) dei figli dalle loro legittime spose. Al concilio di Nicea, nel 325, Pafnuzio, venerabile anziano e celibatario indurito, si leva contro coloro che vogliono che vescovi e preti si astengano da ogni commercio coniugale dopo la loro ordinazione. Il testo di Pafnuzio è superbo: “La relazione sessuale del marito e di sua moglie, possiamo crederlo, è anche una forma di castità, e ognuno deve seguire le preferenze del suo cuore.” Le parole di Pafnuzio, illuminate, troncheranno la discussione a Nicea, nel senso coniugale.

L’importante è di notare che in epoche assai antiche non esisteva nessuna legge della Chiesa che costringesse il clero al celibato. A partire dal IV° secolo, e soprattutto dal V° della nostra era, la Chiesa romana invece evidenzia il celibato come uno dei valori supremi del sacerdozio. Tale è la lezione di un concilio del 386, sotto la direzione del papa Siricio: “I Ministri del culto dovranno rinunciare per sempre alle opere della carne”. Da allora sant’Agostino e san Gerolamo faranno fuoco e fiamme contro un autore chiamato Vigilanza (sic) eccessivamente tollerante per le debolezze umane, troppo umane: san Paolino da Nola e san Salviano di Marsiglia dovranno dunque vivere con le loro mogli come con sorelle.

Non contestiamo questa evoluzione “castissima”. Ma nel nostro tempo di rarefazione estrema di vocazioni al sacerdozio, sarebbe certamente indicato di ritornare alle consuetudini della primitiva Chiesa delle dieci generazioni iniziali, questa Chiesa che ci viene sempre data come esempio. Nel Belgio attuale pochissime vocazioni si manifestano: bisogna dunque ricorrere a preti polacchi o congolesi, uomini di valore, ma che hanno talora difficoltà a comunicare, per ragioni linguistiche, con i loro greggi. Non si potrebbero reclutare dei celebranti nell’immensa colonia dei pensionati, compresi i non vedovi. Una volta formati, debitamente ordinati, diventerebbero senza dubbio ottimi soldati al servizio dell’esercito pacifico di un certo Cristo. Questa è la lezione che si potrebbe trarre da alcuni vecchi testi dei più antichi padri della Chiesa.

(In Le monde des religions, 17, p. 43)

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Domenica, 30 Dicembre 2007 00:06

5. Sacerdozio ministeriale (Marino Qualizza)

6. Sacerdozio battesimale
e ministeriale
di Marino Qualizza

5. Sacerdozio ministeriale

Di solito quando si parla di sacerdozio ministeriale, si cercano indicazioni nella lettera agli Ebrei. A stretto rigore di termini, lì si parla solo del sommo sacerdote in riferimento a Cristo che ne ha portato a compimento il servizio in modo unico ed irripetibile, per tutte le motivazioni che vengono addotte nella lettera stessa. E si parla pure di un sacerdozio che ha esaurito la sua funzione, sostituito da Cristo, che ha inaugurato la nuova epoca, quella della grazia, oltre le cerimonie ed i sacrifici. Indirettamente si possono ricavare delle indicazioni sul sacerdozio ministeriale; è preferibile allora l’accesso ad altri testi e soprattutto a quanto i Vangeli sinottici ci dicono sull’attività dei discepoli e poi su quanto Paolo ha scritto occasionalmente sul suo ministero e su quello dei collaboratori. Abbiamo poi i testi preziosi delle lettere pastorali a Timoteo e Tito, dove si parla di episcopi, presbiteri e diaconi, pur senza specificare nei minimi particolari i loro compiti. Altra fonte importante sono gli Atti degli Apostoli, dove si racconta di come Paolo e Barnaba, nel primo viaggio missionario, abbiano costituito le prime comunità cristiane e vi abbiano preposto dei responsabili, perché le guidassero nella fede appena ricevuta ed accolta. <

<Per loro costituirono nelle singole chiese degli anziani, e dopo aver pregato e digiunato li raccomandarono al Signore nel quale avevano creduto>

> (At 14, 23).

Originalità e novità dei ministeri nel NT

Nelle lettere pastorali i testi sono più diffusi e costituiscono una base importante per la comprensione ed anche l’organizzazione del ministero ordinato nella Chiesa, nel triplice grado di episcopi, presbiteri e diaconi. I testi sono distribuiti in 1Tim3, 1-13; 5, 17-18; Tito 1, 5-9: <<Per questo ti ho lasciato
a Creta, allo scopo cioè di mettere in ordine quanto rimaneva da completare e per stabilire presbiteri in ogni città secondo le istruzioni da me ricevute. Ognuno di loro sia irreprensibile, sia marito di una sola moglie, abbia figli credenti che non siano accusati di vita dissoluta né siano insubordinati. Bisogna infatti che l’episcopo, in quanto amministratore di Dio, sia irreprensibile, non arrogante, non collerico, non dedito al vino, non violento, non avido di vile guadagno; al contrario sia ospitale, amante del bene, saggio, giusto, pio, padrone di sé, attaccato alla parola sicura, secondo la dottrina trasmessa, per essere capace sia di esortare nella sana dottrina, sia di confutare coloro che vi si oppongono>

>.

Il carisma dello Spirito

I testi ci fanno capire che la guida delle chiese locali era basata su istruzioni e prassi per sé note e quindi non riprodotte nei testi. In essi,come nel presente, si insiste soprattutto sulle doti morali e sul comportamento da avere e da seguire. Ma in 2Tim 1, 6 troviamo un’altra indicazione di grande rilievo che ci da capire che la guida della Chiesa non è questione burocratica o di doti solo umane. << Per questo motivo, ti esorto a ravvivare il carisma di Dio, che è in te per l’imposizione delle mani>

>. Qui c’è l’indicazione originale del ministero ordinato: si tratta di un carisma, di un dono che viene dall’alto, ed è invocato da Dio con l’imposizione delle mani. Si entra così in una prospettiva carismatica, non ereditaria, del conferimento di un ministero. La sua natura dunque, andrà letta e interpretata alla luce del dono di Dio.

San Paolo fonderà in modo teologicamente perfetto il carattere di questo ministero e la sua portata, in 2Cor 5, 18-20: <<E tutto ciò è da Dio, il quale ci ha riconciliati con sé mediante Cristo, ed ha affidato a noi il ministero della riconciliazione; è stato Dio, infatti, a riconciliare con sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. Noi fungiamo quindi da ambasciatori per Cristo, ed è come se Dio esortasse per mezzo nostro>>. Questa è il fondamento teologico del ministero ordinato, inteso nel suo significato generale. È una partecipazione all’opera di riconciliazione compiuta da Cristo e resa presente dal ministero di coloro che fungono da ambasciatori per Cristo, mediante l’imposizione delle mani.

Lo sviluppo di questi e altri temi verrà ripreso in altro contesto.


Bibliografia essenziale

S. DIANICH – S. NOCETI, Trattato sulla Chiesa, Queriniana, Brescia 2002

M. KEHL, La Chiesa, trattato sistematico di ecclesiologia cattolica, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995

E. CASTELUCCI, Il ministero ordinato, Queriniana, Brescia 2002

M. QUALIZZA (a cura), Il ministero ordinato, nodi teologici e prassi ecclesiali, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004

Pubblicato in Teologia

C’è un filo rosso che si snoda lungo tutti o quasi i documenti del concilio: il richiamo costante ai tre uffici o compiti che ricevono i credenti in Cristo, in virtù del dono del battesimo.

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Gesù nella ricerca teologica odierna

di Bruno Secondin


La nostra è una stagione di studi cristologici numerosi e anche qualche volta notevoli. Nella riformulazione attuale della fede, il mistero di Cristo ha un posto centrale, come è logico che avvenga. Egualmente le prospettive teologiche in questo settore sono molto varie, come anche le finalità che ciascuno dei teologi si pone nell’affrontare il problema Cristo.

Del resto un pluralismo notevole lo si riscontra già all’interno del Nuovo Testamento, anche se il nucleo centrale di ciò che si annuncia e si vive è sempre lo stesso e unico, immutabile: cioè Gesù Cristo uomo perfetto - Figlio incarnato di Dio - salvatore e capo di tutto il creato - nel quale gli uomini sono solidali con tutta la storia e con tutto il mondo.

E’ questa l’«insondabile ricchezza» di Cristo (Ef 3,9) mai esauribile. Ma tutto questo è presentato con accentuazioni diverse, già nei libri biblici, per esempio:

- a partire dall’esperienza storica che si è fatta, da quello che si è visto e conosciuto, toccato, dall’aver incontrato il Risorto, Signore, datore dello Spirito;

- oppure dall’alto: cioè a partire dai testi sapienziali (manifestazione della Parola, sapienza, Spirito, giustizia), o liturgici (sacerdozio, sacrificio, rito, sangue), o profetici (messia, servo, figlio dell’uomo, redentore, re davidico...).

Persona e causa si fondono in vario modo a seconda delle esigenze della comunità e degli intenti dello scrittore: così abbiamo la così detta «cristologia dal basso» (o dalla fine) e la «cristologia dall’alto» (o dall’inizio), la cristologia epifanica, la cristologia funzionale, ecc.

Nelle varie cristologie attuali l’intento spesso cercato è quello di proporre una visione cristologica che risponda alla sensibilità odierna, alle nostre prospettive socio-culturali, al contesto specifico di provenienza del teologo o dei lettori. Possiamo considerare tipico esempio programmatico quello di B. Forte, Gesù di Nazaret, Storia di Dio, Dio della storia, (1)che si propone di collocare la sua riflessione nell’ottica della società e della chiesa del meridione d’Italia. Ma non tutti sono convinti che ci sia riuscito, al di là delle proclamazioni di principio.

E’ fuor di dubbio comunque che il contesto storico-socio-religioso ha influito e influisce profondamente nelle varie elaborazioni e anche nelle correnti di spiritualità. (2)

Note

1) Paoline, Alba 1981.

2) Per un primo riscontro bibliografico generale: B. MONDIN, Le cristologie moderne, Paoline, Roma 1979; A. SCHOLSON-W. KASPER, Cristologie, oggi, Paideia, Brescia 1979; PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA, Bibbia e Cristologia, Paoline, Alba 1987. Per la spiritualità: C. RICHSTÂTTER, Christusfrömmigkeit in ihrer historischen Entfaltung, Kökln 1969; B. SECONDIN, Messaggio evangelico e culture, Paoline, Roma 1982.

ORTODOSSA

Non dobbiamo aspettarci novità rilevanti in questo settore. Sia nell’ambito dell’ortodossia geografica che in quello della diaspora (es. Meyendorf, Evdokimov, Florovskij, Losskij), in genere la prospettiva è quella della cristologia dall’alto: «Il Verbo si è fatto carne». Questo tema viene illustrato con particolare attenzione per la fedeltà verso la tradizione patristica e antico-conciliare (dei secoli d’oro della teologia orientale).

Importante è anche l’influsso del misticismo monastico e liturgico. Al centro è la divinità: nell’adorazione, contemplazione, partecipazione, redenzione come «indiamento» (sulla base di 2Pt 1,4: «participes naturae divinae») sta tutta la vita del credente. (3)

Interessante è anche la sua riflessione su Cristo «gloria del Padre» di P. Evdokimov, (4) per cui il volto definitivo di Cristo è quello glorioso della trasfigurazione e della risurrezione. Intende volto definitivo in senso ontologico di densità divina del Cristo. Anche J. Meyendorf, con la Cristologia ortodossa è un autore da ricordare: rifacendosi a Gregorio Palamas ripresenta la modalità della redenzione dell’uomo nel Cristo come partecipazione alla divinità. Tale partecipazione è essenzialmente nucleo centrale della natura umana e non solo dono divino.

Interessante è la linea della «sofia cristologica»: che ha radici fin dai primi secoli cristiani, ma che è stata ripresa e rivalutata in questo secolo da vari autori. «Le sofiologie dei teologi russi moderni si iscrivono nella linea della theòria physikè e della visione pasquale del mondo; loro scopo è di rendere spirituale la fisica dei nostri giorni, le scienze naturali e le teorie cosmiche che ne derivano».

Noi accenniamo a tre rappresentanti moderni.

V. Soloviev (+ 1900): ispirandosi al misticismo con tinte di origenismo e gnosticismo, e prendendo le categorie dell’idealismo tedesco (Schelling, Fichte), sviluppa una teologia «teandrica., concentrando la sua attenzione al momento dell’incarnazione di Cristo; l’incarnazione viene pertanto concepita come un evento che si realizza nel cuore dell’uomo.

Tale evento abbraccia tutto ciò che è umano, collocando la storia umana nella prospettiva dell’universale cristificazione.

«Così il Cristo-Dio-Uomo, si compie nel Cristo-Dio-Umanità. Quindi la sofiologia di Soloviev si giustifica in quanto collegata col teandrismo, ossia Dio che si fa uomo, il Logos che assume la natura dell’uomo e rende possibile la «sofiologia» divina che si fa presente nell’umanità»

Si può sottolineare, con Vladimir Losskij, che nella tradizione ortodossa la vita cristiana si definisce come «vita in Cristo» più che come «imitazione di Cristo». Cristo non è solo un ideale morale da riprodurre, ma la vita stessa dell’universo e il nodo di tutta l’esistenza.

P. Florenskij (+ 1943) scienziato, astronomo e teologo: sviluppa le idee di Soloviev, affermando che la “sofia” è la grande radice della creatura totale, e l’uomo che vuole mantenersi in uno stato vitale deve lasciarsi lavorare da essa che è «l’angelo custode del creato». Afferma con convinzione che l’ideale dell’ascesi cristiana non sta nel disprezzo del mondo, ma nella gioiosa sua accettazione e nello sforzo per rendere il mondo più ricco innalzandolo a un livello superiore fino alla piena trasfigurazione.

S. Bulgakov (+ 1944). La sua teologia gravita particolarmente attorno alla cristologia: «La Parola si è fatta carne». La sua riflessione sulla sofia divina e creata è di grande qualità teologico-spirituale.

Tra la sofia divina e la realtà creata esiste un nesso non solo di creaturalità: quella divina ha fatto dal nulla il mondo. Ma anche un’attrazione: nel senso che v’è nel mondo creato un divenire,un emergere, uno svilupparsi, un giungere alla sua conclusione, come un cammino verso la pienezza.

Il Verbo, come natura divina che si autorivela, assume la sofia creata, dalla carne incorrotta della vergine Maria e fa uscire la nostra sofia deteriorata verso lo stadio primigenio, la riporta verso la deificazione, cui la creazione tendeva per intrinseca esigenza già all’inizio, a prescindere dal peccato. Bulgakov vede l’inizio della storia della salvezza dell’uomo nel momento dell’annunciazione, quando lo Spirito santo non soltanto discende per la concezione e per il parto divino, ma resta in Maria con tutte le sue Virtù; resta con lei per tutti i secoli con tutta la forza dell’annunciazione ed eternamente.

Notiamo che nella chiesa orientale non c’è una theologia crucis ampiamente sviluppata (avvicinabile a quella luterana per es.). La croce infatti, è veduta essenzialmente collegata con la creazione, l’incarnazione e la risurrezione. Essa è parte di un processo globale in cui si pongono in grande evidenza gli aspetti soprattutto positivi.

Scrive Evdokimov:

«Se si penetra fino al cuore della spiritualità ortodossa, vi si trova anzitutto la sensazione viva dell’irruzione trionfante della vita eterna, della vittoria sulla morte, sull’inferno: è il soffio del messaggio evangelico portato dalla gioia pasquale (La novità dello Spirito».

Così il segno della gloria inonda la croce, la quale è presentata “gemmata”, indicando con ciò il trionfo e la trasfigurazione dell’evento del Calvario.

Pur con questo aspetto “ottimista”, notevole è il legame posto nella teologia orientale contemporanea tra Calvario e la Trinità: molto più che la tragedia dell’uomo, il Calvario appare come l’espressione della tragedia divina, il calarsi tra di noi del dramma intimo della Trinità, della passione dolorosa di Dio, per cui la croce è da un lato il prolungamento nel tempo dell’intimo mistero eterno del dolore di Dio; e dall’altro è l’eternizzarsi della sofferenza umana del Cristo.

Note

3) Per un primo veloce approccio: T. SPIDLIK, Gesù nella pietà dei cristiani orientali, in Gesù Cristo mistero e presenza, Teresianum, Roma 1971, pp. 385-406; L. GNILKA, Cristologie del mondo ortodosso, in Il Salvatore e la Vergine-Maria, Marianum-EDB, Roma-Bologna 1981, pp. 137-187; B. SCHULTZE, Pensatori russi di fronte a Cristo, 3 voll. Firenze, 1947-1949; D.I. CIOBOTEA, Jésus Christ, vie du monde. Une approche théologico-spirituelle orthodoxe, in « Contacts » 35 (1983), pp. 99-126.

4) Cristo nel pensiero russo, Città Nuova, Roma 1972.

PROTESTANTE

Tutta la teologia cristologica della chiesa protestante si radica nella centralità della croce di Cristo. Già Lutero aveva insegnato: «In Christo crucifixo est vera theologia et cognitio Dei». In quest’affermazione e nella teologia che ne deriva sta una verità certissima: la croce è il criterio della sequela autentica. Ma anche la risurrezione fa parte intrinseca dell’esperienza del dolore: la morte è vissuta fino in fondo, ma anche è vinta, nello stesso movimento.

Noi ci limitiamo a ricordare alcune delle posizioni cristologiche più rilevanti.

R. Bultmann (+ 1976). Per questo teologo centrale del nostro secolo, bisogna superare tutte le affermazioni dottrinali ereditate, per scoprire i meccanismi di mitizzazione della comunità primitiva, e arrivare alla convinzione che «storicamente» Gesù ci è praticamennte ignoto. Col metodo storico-morfologico (form-geschichtlich) Bultmann analizza i Vangeli, separa le pericopi che li compongono secondo i diversi generi letterari, le raggruppa poi nuovamente e ottiene, in tal modo, diverse raffigurazioni di Gesù, dettate dalle molteplici esigenze della comunità primitiva (esigenza catechetica, polemica, apologetica, esorcistica, missionaria, ecc.). Ma le strutture espressive sotto le quali la comunità primitiva ha sepolto il nucleo primitivo della fede sono tante: per ritrovarlo bisogna «demitizzare e demetafisicare». Fa parte del mito tutta la struttura supernaturalistica del Nuovo Testamento.

Quello che vale, e che la comunità ci ha voluto trasmettere, è l’incontro personale del credente con Cristo: solo chi assume una disposizione esistenziale può scoprire il vero nucleo della cristologia. Attraverso il kerigma si è interpellati, si è spinti verso il futuro, a decidersi, a capire/capirsi in Cristo e quindi ad abbandonarsi a lui con obbedienza sfiduciale.

La continuità tra Gesù e i credenti si spiega così:

- Da una parte Gesù non ha insegnato una dottrina sulla sua persona, ma ha messo l’accento sul fatto che la sua persona era un qualcosa di deisivo, portatrice della parola decisiva di Dio;

- Da parte della comunità: essa ha un legame storico con Gesù, ma il suo annuncio non è una speculazione sulla «persona» di Gesù, ma piuttosto «appello per una decisione esistenziale a favore di questa parola decisiva di Dio in Gesù».

H. Braun: radicalizza la demitizzazione, riducendo la cristologia ad antropologia. Per lui il centro del messaggio cristologico è una comprensione di se stesso che l’uomo continuamente fa: parlare di Cristo e annunciare Cristo (nella varia angolatura e novità) serve al convincimento per l’uomo che nei suoi rapporti di fraternità, nel suo non esaltarsi, non usare prepotenza, nel diffondere invece fraternità, Gesù continua ad operare come salvatore.

G. Ebeling: segue vari indirizzi, ma prevale quello esistenzialista. Egli si domanda: su che cosa si fonda la fede in Gesù Cristo dei primi? Altra preoccupazione sua è quella di ricondurre la cristologia esplicita a quella implicita , al Gesù storico, per scoprire cosa in Gesù fu espresso come Parola normativa. In questo punto è chiaramente contro il suo maestro Bultmann.

La salvezza si basa su un incontro fra persone sulla base della Parola, che spinge alla scommessa della fede.

K. Barth (+ 1977) A lui per certi aspetti si potrebbe accostare anche quanto dice Balthasar sul mysterium paschale: pur partendo da prospettive diverse, arriva a risultati simili con i suoi studi famosi, fra cui emerge Die kirchliche Dogmatik, iniziata nel 1932, incompiuta. A noi interessa specialmente I/I e 2.

Egli sostiene che non è possibile fare un discorso teologico se non a partire dall’evento Cristo. Sviluppare la cristologia implica un coinvolgimento dell’intero discorso trinitario: perché la professione cristologica pervade, forgia nel loro contenuto e valore tutte le affermazioni su Dio.

La teologia della manifestazione di Dio che si autoabbandona, postula necessariamente un’attenzione al rapporto Padre-Figlio, che è animato da amore e fedeltà fino alla totale obbedienza di kenosis.

H. Richard Niebuhr (+ 1962). Da non confondere col fratello Reinhold. Ricordiamo di lui specialmente Christ and Culture.

Egli colloca la sua riflessione teologica nel contesto esistenziale della storia. Dire che il Verbo si è fatto carne, cioè condizione umana fino in fondo, ciò vuol dire affermare che egli si è fatto storia. E la sua efficacia sarà reale se di fatto trasformerà la nostra storia: conoscenza storica di Gesù e storia cristocentrica della comunità dei fedeli sono fondamentali.

È Cristo che fonda sia l’unità di fede cristocentrica sia il pluralismo delle cristologie e delle immagini storiche che lo ricordano. Ma Niebuhr esclude un’interpretazione puramente storicistica del mistero di Cristo: per comprenderlo davvero non ci si può fermare alla storia «esterna», occorre il salto della «fede», che è salto nel cuore della storia di Gesù e nostra.

D. Bonhoeffer (+ 1945). Per questo teologo/pastore (5) la figura di Gesù che bisogna prediligere non è il wie(come), o il dass (il fatto), ma il wer (la persona): cioè la figura dell’uomo della carità spinta fino alla dedizione totale nell’esistere-per-gli-altri.

Si legge in una lettera dalla prigionia:

«L’esistere per gli altri di Gesù è la presa di coscienza della trascendenza. Dalla libertà da se stesso, dall’”esistenza per gli altri”, fino alla morte scaturiscono l’onnipotenza, l’onnipresenza, l’onniscienza. Fede è partecipazione a questo essere di Gesù (incarnazione es croce, risurrezione). Il nostro rapporto con Dio non è un rapporto religioso, con l’Essere più alto, più potente, più buono. Questa non è vera, autentica trascendenza; il nostro rapporto con Dio è una nuova vita nell’”esistere per gli altri, nella partecipazione all’essere di Cristo”».

A queste posizioni Bonhoeffer era giunto attraverso un’attenta considerazione dell’impatto di Cristo sulla vita attuale: solo un impatto «provocatorio» e impegnato può avere un senso in una storia che sembra la negazione del senso profondo della venuta del Redentore. Solo seguendolo nel dono totale agli altri può avere un senso credere in lui e parlare di lui. Altrimenti si riduce Dio al ruolo di Lükkenbüsser (tappabuchi) per bisogno di superare la insecuritas. In questa «theologia crucis» che indica l’impotenza di Dio in funzione della potenza dell’uomo - «nel Crocifisso Dio si depotenzia, per lasciare all’uomo la sua potenza» - Dio sembra dissolversi in una forza di liberazione storica, senza spazio né per la risurrezione, né per una qualsiasi «ecclesiologia» specifica.

W. Pannenberg (1925-). Possiamo chiamarlo il propositore della cristologia della risurrezione. Opera notevole: Cristologia. Rifiuta, con altri chiamati della «sinistra bultmanniana», lo scetticismo storico, rivendicando assoluta priorità all’elemento storico su quello esistenziale. Con più forza di Cullmann, afferma il carattere obiettivo della storia della salvezza.

Egli preferisce non muovere «dalle parole e dalle opere» (cioè l’attività) di Gesù, ma dalla sua risurrezione. Questo il suo ragionamento: il quadro della storia di una persona lo si comprende solo alla fine, quando tutti i frammenti si possono collegare in unità e si possono ricongiungere in un significato globale unitario.

O. Cullmann (1902-1999). Questo grande esegeta rifiuta e contesta la posizione di Bultmann, e sostiene clic la storia fa parte del nucleo essenziale della rivelazione cristiana: perché gli eventi storici sono il fondamento della salvezza evangelica. (6) L’evento centrale della rivelazione - egli preferisce chiamarla storia della salvezza (Heilsgeschichte): questo termine ha fatto fortuna dopo di lui - è Gesù Cristo. Egli dà senso a tutto quello che procede, ma non esaurisce tutto il percorso della storia: anzi dà piuttosto un nuovo «senso completo» ad essa, in quanto egli costituisce la vittoria definitiva.

Secondo Cullmann, per una, completa ed essenziale conoscenza della cristologia bisogna passare per certe tappe:

«La vita e la morte di Gesù; le sue allusioni alla propria consapevolezza; l’esperienza pasquale dei discepoli; l’esperienza del Signore presente; la riflessione compiuta, sotto la guida dello Spirito, circa i rapporti soteriologici delle funzioni di Cristo separate cronologicamente; le quali, dal punto di vista della rivelazione vengono fatte risalire fino alla creazione».

La sua è una cristologia essenzialmente storica, che rifiuta qualsiasi apriori filosofico e qualsiasi cristologia metafisica. Sembra però che lo studio delle azioni di Cristo, vada a scapito talora della considerazione sulla struttura ontologica di Cristo, cioè della sua persona, come Verbo incarnato.

Circa il prolungamento della storia della salvezza nel tempo della chiesa:

«L’attesa resta dunque come nel giudaismo. Si continua ad attendere dall’avvenire quanto ne attendevano gli ebrei. Ma il centro della storia non è più lo stesso. Il centro è raggiunto, ma la fine deve ancora venire.

J. Moltmann (1926-). Egli assumendo l’escatologia a principio ermeneutico della cristologia, (7) la sottopone ad una «rivoluzione copernicana»: essa non è più sviluppata alla luce del passato, ma del futuro; non in base a quanto è già accaduto, ma di quanto deve accadere. Croce e risurrezione sono i due pilastri successivamente messi in luce in chiave escatologica e di proclamazione pubblico-politica. La risurrezione - contrariamente al pensiero di Barth che pensava il futuro come svelamento di ciò che già c’era - non è solo svelamento, ma compimento finale. E quindi rimane un futuro in arrivo, una riserva definitiva che spinge alla trasformazione.

L’immagine autentica di Dio è quella di «potenza del futuro» inteso come dono e novità: questa immagine apre un dialogo tra fede cristiana e «speranze terrestri» (secolari). E un evento dato in promessa, ma rinvia alla vita e all’opera terrena di Gesù, specie alla croce.

Gesù non è tanto colui che è posto nella gloria, ma piuttosto l’annunciatore del futuro che è promesso e che verrà. Egli funge da conferma della pienezza ultima. Allora la croce si presenta come riassunto dell’intera vicenda di Gesù. Del resto così la prevedeva tutto l’AT; così si vede emergere dal contrasto con il potere del tempo e con gli schemi religioso-politici.

Ecco un suo testo significativo:

«Facendosi uomo in Gesù di Nazaret, Dio si immerge non soltanto nella finitezza dell’uomo, ma anche, con la morte in croce, nella situazione di abbandono da Dio che l’uomo esperimenta... Nessuno dovrà fingere, apparire diverso da quello che è, per cogliere la comunione che lo stringe al Dio umano. Potrà abbandonare tutte le finzioni e sembianze, e in questo umano diventare quegli che in verità è. Inoltre il Dio crocifisso gli si rende vicino nello stato di abbandono sofferto da ciascun uomo. Non esiste isolamento o reiezione che egli non abbia assunto sulla croce di Gesù. Non c’è bisogno di alcun tentativo di giustificazione, nemmeno di autoaccuse demolitrici per avvicinarsi a lui.

L’abbandonato da Dio e reietto può accettarsi là dove conosce il Dio crocifisso, che in lui già vive e che lo accetta. Se Dio si è assunta la morte in croce, ha pure assunto l’intera vita e l’esistenza concreta con l’intera e concreta sua morte. Senza limiti e condizioni l’uomo è accolto nella vita e nella sofferenza, nella morte e risurrezione di Dio, e prende vitalmente parte, nella fede, della pienezza di Dio. Non esiste nulla che lo possa escludere dalla situazione di Dio: dal dolore del Padre, dall’amore del Figlio e dall’impulso dello Spirito»

Certo che la verità di tutto questo sta nella luce della risurrezione e Moltmann lo nota chiaramente:

«La risurrezione non svuota la croce (1Cor 11,17), ma la riempie di escatologia e di significato salvifico».

Note

5) Si ricordi la sua opera Resistenza e resa (lettere dal carcere), Queriniana, Brescia 1971; Sequela, Queriniana, Brescia 1971; Wer ist und wer war Jesus Christus, Hamburg 1962.

6) Ricordiarno di CULLMANN, Cristo e il tempo, EDB, Bologna 1965; Cristologia del Nuovo Testamento, EDB, Bologna 1970; Il mistero della redenzione nella storia, EDB, Bologna 1966.

7) Si vedano le sue opere Teologia della speranza, Queriniana, Brescia 1970 e Il Dio crocifisso, Queriniana, Brescia 1973.






CATTOLICA

Anche in questo settore si deve dire che oggi si lavora molto per una riscoperta, una rilettura, una rivalorizzazione dell’umanità di Cristo, in parte oscurata in passato dall’enfasi sulla «divinità» di Cristo. Per qualcano ci troviamo perfino in uno sbilancio «cristocentrico», a scapito di un corretto equilibrio fra teocentrismo e cristocentrismo.

Il cattolicesimo rifiutando il divorzio tra fede e ragione, insisteva nei secoli recenti sul modo dell’unione della divinità e dell’umanità del Verbo incarnato. Lo shok della modernità ha avuto spazio vero nel cattolicesimo all’inizio del secolo con la crisi modernista. A partire dagli anni ‘60 la teologia cattolica e protestante dialogano strettamente. Un momento comunque di grande rilancio del ripensamento cristologico è stato il XV centenario del concilio di Calcedonia (451).

Le fratture mortali che avevano imbrigliato la cristologia fino ai tempi moderni erano:

- Frattura tra studio biblico e studio cristologico, che portava questo all’enfasi sulla riflessione metafisica e anche all’uso puramente strumentale dei testi biblici;

- Frattura tra rivelazione di Dio offerta in Gesù Cristo e la ricerca umana che si costituisce in autonomia assoluta;

- Frattura tra il Gesù della storia, Dio con noi e fonte della salvezza, e il Cristo della fede, che ha invece significato e valenze universali e attuali.

Molto articolato è il quadro epistemologico dell’odierna cristologia e soteriologia.

Si possono individuare otto categorie evidenti dell’odierna cristologia:

1. Dimensione biblica: precisione esagerata nel cercare le basi storiche e teologiche nei testi biblici;

2. Dimensione storico-salvifica pone in risalto gli eventi della vita di Gesù, in particolare quelli pasquali;

3. Dimensione pasquale: tutto gira attorno a questo punto cardine e tutto da qui si spiega;

4. Dimensione pneumatico-ecclesiale la continuità dell’evento Cristo nella chiesa attraverso l’opera dello Spirito santo e le vicende del tempo;

5. Dimensione esistenziale-personalistica: che chiama in causa la vitale comunione interpersonale col Cristo, fonte della salvezza totale dell’uomo;

6. Dimensione soteriologico-prassica che accentua quei contesti in cui la non salvezza emerge, e quindi l’impatto che la salvezza ha su di essi;

7. Dimensione ecumenica: ci sono dei sintomi fra cattolici e protestanti; rimane quasi nullo l’incontro con l’ortodossia;

8. Dimensione pluralistica: in quanto esprime una varietà di approcci e di ottiche (culturali, geografiche, linguistiche).

Se si vuole una enumerazione dello spettro delle cristologie Cattoliche contemporanee, si può ricordare: la cristologia cosmica di Teilhard de Chardin e quella trascendentale di K. Rahner; quella della dualità di P. Schoonenberg e quella estetica di H.U.v. Balthasar; quella politica di J.B. Metz e quella della liberazione di G. Gutierrez, L. Boff, J. Sobrino; quella cristiano-marxista di F. Belo, quella storica di W. Kasper e quella storico-biblica di L. Bouyer; quella metafisica-dinamica di J. Galot e quella metadogmatica di H. Küng e di E. SchilIebeeckx .

Teilhard de Chardin (1881-1955). Vuole armonizzare scienza e cristianesimo e ritrovare Cristo come centro organico di un universo in evoluzione. (8)

Secondo questo scienziato, filosofo e mistico, l’incarnazione deve essere legata alla stessa linea evolutiva della materia e della storia dell’uomo. Possiamo parlare di una cristologia nell’orizzonte della cosmologia. Secondo lui il cammino della scienza non può più essere quello dell’analisi, ma quello della sintesi, perché l’analisi porta alla frantumazione del pensiero. Si rende allora possibile e necessaria la convergenza su Cristo, perché lui appare come centro organico di tutto l’universo.

«Cristo rispetto al mondo non è un accessorio aggiunto, un ornamento, un re di quelli che facciamo noi, un padrone... Egli è l’alfa e I’omega, il principio e la fine, la prima pietra e la chiave di volta, la pienezza e colui che riempie. Egli è colui che completa e che a tutto dà consistenza. Verso di lui e attraverso di lui, vita e luce interiore del mondo, nel pianto e nella fatica, la convergenza universale di tutto il creato. Egli è il centro unico, prezioso e consistente, che brilla sull’apice futuro del mondo, sul polo opposto della zona oscura in eterna diminuzione in cui si avventura la nostra scienza quando scende per la strada della materia e del passato». (9)

Da questo punto di vista solamente la cristologia apre alla scienza il cammino per elaborare la cosmologia, per ricercare e trovare il senso intrinseco di tutta la realtà. E l’incarnazione ha un significato tutto particolare: «in quo omnia constant» (Col 1,17).

Anche se rimane sempre il sospetto di uno spiritualismo mistico e visionario, il suo influsso è stato sentito parecchio nella teologia dell’epoca conciliare

K. Rahner (+ 1984): possiamo parlare per lui di cristologia nell’orizzonte di una nuova comprensione dell’antropologia. La sua proposta è nota anche col nome di «cristologia trascendentale».

Per Rahner l’uomo mira all’appello salvifico dal suo interno: e porta l’esempio dell’amore mai soddisfatto, del morire, dello sperare. In Gesù queste aspirazioni si fanno pienezza: Dio si fa dono all’uomo aperto alla pienezza; e l’uomo si fa in Cristo un sì vero e obbedienziale al Padre, che è pienezza definitiva.

Si potrebbe essere del parere che Rahner cade nell’ontologismo e nell’idealismo. Ma egli è cosciente di queste possibili accuse e spiega che i suoi concetti di Salvatore-assoluto, Dio-uomo, Logos incarnato, sono possibili solo perché di fatto il cristianesimo riconosce già in Cristo la presenza di tale realtà.

«Nel delineare in maniera apriorica tale cristologia trascendentale eravamo coscienti che tale lavoro è storicamente possibile solo perché già esiste il cristianesimo, la fede effettiva in Gesù io quanto Cristo, solo perché l’umanità ha già fatto esperienza storica della realtà di questa idea trascendentale». (11)

Questo porta ad affermare che l’evento di Gesù di Nazaret dà luogo alla riflessione teologica trascendentale, e non il contrario: che sarebbe idealismo e astoricismo. L’esistenza concreta dell’uomo si deve definire come disponibilità all’ascolto e all’obbedienza verso Dio, ossia egli è «potentia oboedientialis» alla parola di Dio. Perciò se l’uomo si consegna a Dio liberamente, questo non diminuisce la sua libertà né il suo essere uomo, poiché Dio non è né estraneo, né concorrente all’uomo e alla sua libertà, ma è la garanzia alla sua libertà e sua meta.

L’antropologia figura quindi come «cristologia incompiuta», imperfetta, da realizzarsi in pienezza; mentre la cristologia appare come descrizione di un essere umano eccezionalmente completo e riuscito. La storia e la teologia della storia aiutano a concepire l’esistere come processo verso l’immediatezza di Dio, sostenuta dalla sua autocomunicazione liberamente donata. Dio può giustamente essere chiamato «il futuro dell’uomo».

J. B. Metz (1928- ). È il più noto rappresentante della teologia politica. Interessante è la parabola del teologo di Münster. Egli passa attraverso una triplice prospettiva, messa in luce successivamente. E’ importante notare che quando dice «teologia politica», per politica non si deve intendere un nostalgico ritorno all’integrismo, ma una teologia orientata all’azione, capace di sostenere un ruolo attivo nella «polis».

b. L’annuncio della salvezza come «memoria passionis, mortis et resurrectionis Jesu Christi». La fede è memoria, memoria della scelta per i poveri, che Gesù fece. Si tratta di attualizzare nel contesto storico, socio-politico in cui i cristiani vivono, tale forma di vita. La forma storica di Gesù di Nazaret vittima e vincitore, fa diventare il cristianesimo memoria pericolosa, liberatrice e redentrice di Gesù Cristo di fronte alla società. La chiesa dovrebbe essere un luogo di parola pericolosa e sovversiva, basata sulla «maniera storica della scelta di Dio per i poveri».

c. La salvezza come sequela della prassi messianica di Gesù. E questa l’ultima fase della parabola migliore di Metz. In essa convergono narratività e sequela, mistica e prassi «politica» nella struttura dell’esistenza cristiana, definita come sequela.

Non va dimenticata un’obiezione molto seria: le comunità cristiane primitive erano poco interessate alle condizioni sociali. Ciò che contava era la salvezza degli individui. L’atteggiamento di fronte al mondo consisteva in un «indifferentismo eroico» (Troeltsch). Paolo si potrebbe addirittura chiamare un tipico conservatore. Come inserisce la teologia politica questo fatto nella sua teoria?

La teologia politica sottolinea soprattutto la funzione della «sfida» (challenge). Oltre a questa esiste il compito del «conforto» che certamente ha una base evangelica. Il conforto è necessariamente congiunto con la ricerca del senso in situazioni inevitabili, e quindi ha un effetto anche «legittimante». Quale equilibrio intende stabilire la teologia politica tra comfort e challenge? Cioè tra legittimazione e profezia critica?

Altra osservazione è che alla «teologia politica» non è seguita una nuova militanza, ma nei fatti una rinascita del religioso e un bisogno nuovo di «sacro».

Un giudizio comunque globale su Metz e la sua «teologia politica» mostra che appare ridotta la valorizzazione dei gesti e detti del Gesù della storia - egli però valorizza molto I amore nella morte/risurrezione - e non è spiegata questa «sequela» in una società pluralistica e planetaria

Con queste ultime indicazioni di Metz e della sua proposta di «teologia politica», che ha trovato ampia eco e attenzione nella coscienza cristiana degli anni ‘70, si è venuta manifestando l’esigenza che la fecondità della rivelazione storica compiuta in Cristo sia di continuo rilanciata tra gli uomini dalla chiesa, con la sua testimonianza di vita, con la sua denuncia profetica con la sua riserva «critica» di fronte ai messianismi intramondani, con tutti i segni di amore e di carità, di servizio e di solidarietà di lotta per la giustizia e la liberazione. Questi «segni» saranno la messa in opera della vittoria della risurrezione su ogni violenza e ogni disperazione. La «memoria» che il cristiano conserva con tutta fedeltà è una memoria aperta al futuro, rivolta al futuro. Contro i trionfalismi facili essa ricorda la «morte» del Figlio di Dio in croce, in uno scontro insanabile fra differenti visioni e progetti di vita. Contro l’angoscia e la paura essa ricorda il rovesciamento misterioso della risurrezione, la libertà totale anticipata nella risurrezione del Cristo.


Note

8) Per una conoscenza più ampia, R. GIBELLINI, Teilhard de Chardin, l’opera e le interpretazioni, Queriniana, Brescia 1981; La spiritualità di Teilhard de Chardin, Cittadella, Assisi 1972; A. AMATO, La cristologia cosmica di Teilhard de Chardin, in Problemi attuali di cristologia, LAS, Roma 1975, pp. 95-123; I. BERGERON A.M. ERNST, Le Christ universel et l’évolution selon Teilhard de Chardin, Cerf, Paris 1986.

9) TEILHARD DE CHARDIN, Science et Christ, Oeuvres, IX, pp. 60s.

10) La bibliografia su Rahner non è poca. Un’ottima autopresentazione della cristologia di Rahner si ha alla voce Gesù Cristo, in Sacramentum Mundi, Morcelliana, Brescia 1975, IV, p. 181-223. Per gli studi: I. SANNA,Cristologia antropologica di Karl Rahner, Paoline, Roma 1970; M. GESTEIRA GARZA,La Cristologìa de Karl Rahner, in «Estudios Trinitarios», 21(1987), pp. 61-93.

11) Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Alba 1977, p. 298.

Pubblicato in Teologia

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alla pura azione di Dio

di Severino Dianich

Tutte le cose che il cristiano fa sono realtà dedicate a Dio specie se sono dirette al bene dei fratelli. L’efficienza rappresenta oggi il criterio base del lavoro; ma se essa diventa un idolo, dobbiamo opporgli la pura adorazione di Dio, la contemplazione. E’ sintomatico che l’azione liturgica raggiunga il suo scopo non per la nostra efficienza ma solo per grazia.

Tutti coloro che sul nostro pianeta, nelle più diverse culture e civiltà possono godere di un giorno, ogni sette, libero dal peso del lavoro dovrebbero sentirsi debitori verso Mosè, o chi per lui nell’Antico Testamento ha inventato l’istituzione della settimana e del sabato. «Domani è sabato, riposo assoluto consacrato al Signore», disse Mosè ispirato da Dio in Es 16,23. Non che gli altri giorni, quelli dedicati al lavoro, non debbano essere consacrati al Signore, ma così il tempo dell’uomo resta scandito dal ritmo armonioso del lavoro e del riposo, dell’azione e della contemplazione.

Gesù ha infranto il confine fra luoghi profani e luoghi sacri, fra tempo sacro e tempo profano. La sua azione più sacra, nella quale è culminata la sua opera sacerdotale di redenzione dell’umanità, fu compiuta nella profanità più brutale, quella della sua uccisione come di un delinquente condannato a morte: fuori del tempio della città santa, come fuori del tabernacolo e dell’accampamento - dirà la Lettera agli Ebrei - venivano bruciati i resti degli animali sacrificati.

Allo stesso modo tutte le cose che il cristiano fa, unito a Cristo, nell’adempimento del suo dovere sono atto sacerdotale, realtà sacra degna di essere dedicata a Dio. Anche se siamo soliti chiamare “giorno del Signore” il giorno della festa, questo non significa che i giorni del lavoro non siano di Dio e non debbano essere vissuti come sacri e dedicati a lui.

Il lavoro e l’efficienza

È dovere fondamentale di ogni uomo guadagnarsi il pane lavorando. San Paolo lo dice espressamente: «Chi non vuoi lavorare neppure mangi» (2Ts 3,10). Ora il primo criterio in base al quale giudicare il valore del lavoro e, quindi, anche quella dignità per la quale può essere dedicato a Dio, è il criterio dell’efficienza: l’azione vale in quanto uno realizza lo scopo che si era proposto, e questo dipende dalla scelta e dall’utilizzazione, compiuta in base alle competenze possedute, di un mezzo adeguato al fine inteso. E qualcosa di molto razionale, ben calcolato, che richiede il possesso dell’arte o del mestiere.

Non ci si stupisca se questo carattere così umano, quasi economico, debba essere considerato in ordine al rapporto con Dio: tanto la vita cristiana manifesta la presenza del suo amore fra gli uomini quanto i credenti alla sequela di Cristo compiono realmente e concretamente il bene dei fratelli e della società. La più pura e religiosa delle intenzioni non redime dal fallimento l’opera compiuta con inettitudine, sì che non raggiunga lo scopo al quale dalla sua stessa natura era destinata. L’offerta prescritta dall’antico rituale di Israele doveva essere perfetta: «Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno» (Es 12,5): non si dona a Dio un animale zoppo! Gesù a sua volta ha detto che ci giudicherà se noi, incontrandolo nella persona dell’uomo affamato, gli avremo dato da mangiare; non ha detto: Avevo fame e avete pregato per me (cf Mt 25,35s). Solo nel caso in cui l’insuccesso colpisca dal di fuori, imprevedibile e accidentale, l’opera attinge un altro valore, quello dell’assimilazione al Cristo in croce e allora sarà la sofferenza del fallimento ad essere degna di essere offerta a Dio.

Proprio perché siamo particolarmente tentati di ridurre tutto il valore della nostra vita unicamente all’efficienza, le cui possibilità vengono esasperate dalle tecniche prodigiose di cui siamo dotati, oggi più che mai abbiamo bisogno di un’alternativa. Quando il lavoro diventa il tempio e l’efficienza tecnologica un idolo, abbiamo bisogno di opporgli la pura adorazione di Dio, non come ritorno al sacro, ma proprio come desacralizzazione delle sacralità mondane.

Azione e contemplazione

L’alternativa ci è stata offerta da Mosè (Dt 5,12-15): «Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bue né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero che sta entro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d’Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato». Di sabato tutto si arrestai si interrompe il lavoro di ognuno, dell’israelita, dello schiavo, del forestiero, della bestia e si entra nello spazio di Dio che ha liberato Israele dalla schiavitù del lavoro al servizio del faraone. La quiete universale è il luogo della libertà, là dove Dio agisce, mentre l’uomo è libero dall’obbligo, dal calcolo, dalla fatica. Così ogni sabato è in qualche maniera una teofania: il grande universale riposo rende vuoto lo spazio e il tempo e in questo vuoto il divino può manifestarsi.

In questo spazio vuoto ha luogo la liturgia domenicale. Anch’essa a suo modo è un’azione che richiede una sua efficienza: tanto per banalizzare, in chiesa l’impianto di amplificazione deve funzionare. Ma la liturgia è essenzialmente contemplazione fine a sé stessa. Non c’è un vero e proprio scopo da raggiungere né, se ce lo volessimo prospettare, alcun mezzo per verificarne il raggiungimento. Non si dà nessuna proporzione fra mezzo e fine: cosa è mai una genuflessione, un canto, una lettura o lo stesso mangiare il pane eucaristico rispetto alla comunione col Signore e tra i fratelli che l’eucaristia promette e realizza?

Guardini a suo tempo, in buona compagnia con Ruizinga e Ugo Rahner, ci ha insegnato il valore di questo momento nel quale l’homo faber cede il posto all’homo ludens, l’azione alla contemplazione, la tecnica alla dossologia, l’impegno operativo alla preghiera. L’ostentata interruzione del lavoro, cioè di quei processi di attività nei quali gesti e cose vengono misurati in base alla loro utilità, per riposare nello spazio dell’”inutile”, giocare nella celebrazione e nella lode di Dio, libera la comunità dalla tensione dell’efficienza e la apre all’accoglienza della pura azione di Dio. Nella tacitazione dell’attività umana si rende udibile la voce del “totalmente Altro” e si fa percettibile la sua presenza. Così appare chiara la coscienza di fede della comunità che percepisce il rito sacramentale come una pura actio Dei. Il sacramento, infatti, non raggiunge il suo scopo per la mia efficienza, ma solo per grazia. L’evidente e clamorosa nullità dell’azione liturgica, semplice gioco rituale, esprime la purezza dell’attesa che Dio si manifesti e sia lui solo a operare in noi.

* docente emerito della Facoltà teologica di Firenze

(da Vita Pastorale, aprile 2007)

Bibliografia

Guardini R. Lo spirito della liturgia, Morcelliana 1980, Brescia;
Dotolo C. (ed.), Teologia e sacro. Prospettive a confronto, Dehoniane 1995, Roma, pp. 55-75;
Heschel A.J., Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Garzanti 2001, Milano;
Maggiani S., “Riposo sabatico e festa” in Servitium 30 (1996), pp. 578-588;
De Gennaro O. (cur.), Lavoro e riposo nella Bibbia, Dehoniane 1987, Napoli;
Augé M., La domenica: festa primordiale dei cristiani, San Paolo 1995, Cinisello Balsamo.

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Nella costituzione dogmatica sulla Chiesa, ma non solo, il concilio ha dedicato una attenzione particolare al sacerdozio comune o battesimale dei fedeli. Essa si spiega con la ripresa della riflessione sulla natura e sull’identità della Chiesa, iniziata in modo originale subito dopo la prima guerra mondiale, e dunque negli anni ’20 del XX secolo.

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Lunedì, 19 Novembre 2007 23:29

L’Eucaristia fonte di speranza (Marino Qualizza)

L’Eucaristia fonte di speranza

di Marino Qualizza

Forse suona inconsueto questo titolo nei riguardi dell’eucaristia, abituati come eravamo a considerarla o come oggetto di adorazione o come momento di devozione individuale nella comunione. Ma se esaminiamo più a fondo i diversi aspetti di cui l’Eucaristia si compone, troviamo che la speranza dovrebbe occupare un posto rilevante per il valore intrinseco in essa contenuto. Infatti la riflessione teologica, che già troviamo nei testi ispirati di S. Paolo e di S. Giovanni, danno grande rilievo a questa tematica. Non è un caso allora che anche la teologia da una quarantina d’anni a questa parte abbia riscoperto il valore della speranza, fondandola direttamente sulla risurrezione di Gesù, di cui noi facciamo memoria proprio nella celebrazione eucaristica. Si richiamano perciò tre aspetti indivisibili: risurrezione, eucaristia, speranza. Basterà solo ricordare che la speranza, in quanto virtù teologale non è un pio desiderio né tanto meno una supposizione, ma la degustazione già anticipata di quello che saremo e ci sarà dato. Proprio la dimensione della speranza faceva usare alla teologia, in tempi ormai abbastanza lontani l’espressione “già e non ancora” con ciò si vuole indicare che noi siamo già entrati nel mondo di Dio, anche se la sua definitiva partecipazione avverrà in un tempo che è dinanzi a noi. Proprio questa apertura costituisce il dinamismo della fede, che assume il colore della speranza, e apre prospettive importanti nella vita cristiana. Addirittura nell’antichità l’interpretazione della bibbia in senso dinamico e aperta al futuro del mondo di Dio era dato proprio dalla speranza. Questo aiutava i lettori della bibbia a non considerarlo un libro di memorie sul passato, ma come la parola potente di Dio capace di creare e rinnovare la storia nella quale essi e noi viviamo. Si poteva comprendere benissimo allora come la verità della bibbia portasse all’Eucaristia e che questa fosse la verità concreta vissuta e dinamica della rivelazione biblica.

Tenendo conto di questo si può comprendere bene come anche la Chiesa in Italia abbia scelto per la sua prossima assemblea di Verona proprio il tema della speranza. E dovrebbe essere chiaro a tutti che la scelta non è stata fatta per offrire un po’ di consolazione agli sfiduciati cattolici italiani, ma per renderli protagonisti di un progetto che richiede consapevolezza e ardimento. Chi si nutre dell’Eucaristia diventa per ciò stesso portatore di un bene che viene da Dio e che è indispensabile per il mondo. Ai cristiani di oggi allora si chiede un rinnovamento che parta da una convinzione e da una esperienza. La celebrazione eucaristica non è una cerimonia, anche se per certi aspetti deve averne le sembianze, ma è il momento qualificante e fondante tanto dell’identità della Chiesa quanto della sua missione. L’identità è data dalla comunione e dalla condivisione fra i credenti; cosa che non può essere lasciata solo ai desideri, ma concretizzata nella realtà, pena l’inefficacia del segno sacramentale. La missione è data dalla conseguente apertura dei cristiani verso il mondo e dalla cordiale accoglienza di quanto c’è nel mondo. Solo la considerazione di questi due aspetti dovrebbe dare nuovo vigore ed anche nuova gioia nella partecipazione alla celebrazione eucaristica. Proprio la gioia della comunione con Dio diventa l’espressione della speranza che si dovrebbe leggere sul volto di ogni credente.

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