Formazione Religiosa

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Salvezza in Cristo e vita cristiana

di Pietro Rossano


L’EVENTO CRISTIANO


La storia prima di Gesù Cristo


18. Annunciando che Gesù Cristo era il salvatore degli uomini, gli Apostoli erano consapevoli di svelare al mondo un disegno di Dio già annunziato e preparato nel passato, il quale trovava ora il suo culmine in Gesù Cristo. Essi attingevano tale conoscenza dalla Bibbia, che avevano imparato a interpretare alla scuola di Gesù e poi sotto l’illuminazione dello Spirito Santo.

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Mercoledì, 15 Ottobre 2008 00:50

Dio (o il divino) con noi? (Ortensio da Spinetoli)

La domanda di Gesù ai discepoli in cammino “verso i villaggi di Cesarea di Filippo”, “chi dice la gente che io sia?” (Mc 8,27), torna ancora una volta alla mente di quanti continuano ad interrogarsi sull’ultima identità del “grande profeta” (Lc 7,16) che ha sconvolto la storia di Israele e delle genti.

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La Redazione presenta questo studio-riflessione del teologo Josè Maria Vigil come contributo alla informazione teologica in una prospettiva di ricerca.


Credere come Gesù.


Verso una rielaborazione dei dogmi cristologici


di José Maria Vigil



 


Vedere


Il nucleo del problema


Il cristianesimo dice che il suo fondatore, Gesù d Nazareth, è Dio stesso, la seconda persona della santissima Trinità, che si è incarnata nell’Umanità per darle a conoscere la verità e portarle la salvezza. Se questo è vero, la religione cristiana è l’unica religione fondata da Dio stesso in persona, e pertanto è la religione assoluta e indiscutibilmente superiore a cui tutta l’Umanità deve aderire. Le Chiese cristiane, in effetti, sono note nel mondo per la loro pretesa di universalità, assolutezza e unicità e per un certo inveterato atteggiamento di disprezzo verso le altre religioni.

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Giovedì, 24 Luglio 2008 02:08

Claude Geffré, il lavoro del teologo. Intervista

Claude Geffré è unteologo francese, docente emerito di teologia fondamentale dell'Institute Catholique di Parigi.

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Perché una teologia pluralista in Asia
di Tissa Balasuriya








(...) Cristologia esclusivista

La teologia tradizionale cristiana su Gesù Cristo può essere chiamata cristologia esclusivista, poiché limita la salvezza ai cristiani, considerandola possibile soltanto per mezzo di Gesù Cristo, il necessario, unico e universale salvatore di tutta l'umanità. Una teologia esclusivista normalmente afferma che le altre religioni, per quanto possano presentare alcuni elementi di verità, non mostrano “la verità", né mostrano una verità capace di condurre alla salvezza i propri seguaci.

Per varie ragioni, questa cristologia esclusivista non è una teologia accettabile per la grande popolazione asiatica, che presenta molti e riconosciuti profeti e santi, una lunga tradizione storica, Scritture sacre e una cultura religiosa sulla stessa linea degli insegnamenti di Gesù, come pure il messaggio ispiratore e il servizio di santi missionari cristiani (. . .). In ogni caso, per il momento, solo il 3-4% degli asiatici ha accettato il cristianesimo.

1 - Il cristianesimo è debitore di una antropologia religiosa discriminatoria, combinata con una soteriologia (insegnamento sulla salvezza) esclusivista. (...)

2 - L'interpretazione della vita, del messaggio e della morte di Gesù, mediante la quale è stata data soddisfazione a Dio Padre per i peccati dell'umanità, devia l'attenzione dal messaggio di Gesù di amore e giustizia in una società ingiusta che lo ha condannato a morire in croce. Questa cristologia interpreta generalmente la salvezza per mezzo di Gesù come quella di un Dio-Uomo che paga il prezzo per l'ira di Dio-Padre. Questo sembrerebbe contraddire il tema centrale del “Dio è amore" e dell'“ama Dio e il prossimo come criterio di salvezza” attribuito a Gesù dai vangeli (...).

3 - Dopo la vita e la morte di Gesù, solo una piccola percentuale di asiatici è appartenuta alla chiesa. Gli asiatici avevano religioni molto sviluppate, molto prima dell'arrivo del cristianesimo con le sue formulazioni teologiche esclusiviste (...). Una teologia che discrimina negativamente la maggior parte degli esseri umani del mondo non può venire da un Dio trascendente, che le religioni asiatiche, nel loro migliore e più ispirato pensiero, contemplano come un Dio di bontà e di giustizia per tutti. Questo è un criterio ad extra della credibilità di questo modello cristologico esclusivista. Il modello implicherebbe l'esclusione della grande maggioranza dell'umanità mondiale - prima e anche dopo Cristo - dalla grazia salvifica che, si diceva, viene solo da Cristo.

4 - La visione o il mito in base a cui Dio o una “Realtà trascendente ultima" avrebbe condannato tutti gli esseri umani ad essere peccatori per secoli prima della nascita di Cristo è impensabile nel nostro contesto spirituale religioso asiatico (...). Tanto l'induismo come il buddismo non sono capaci di concepire un inferno eterno disegnato da Dio per la maggior parte dell'umanità. Il castigo eterno per qualunque essere umano è impensabile e non è né umano né divino.

5 - Se l'insegnamento e la pratica esclusivisti della Chiesa hanno ispirato un immenso esempio di bontà attraverso le sue missioni in tutto il mondo, allo stesso tempo hanno giustificato le peggiori spoliazioni di terra e di ricchezze, registrate per quattro secoli a partire dal 1492. Ciò è in relazione con il maggiore genocidio conosciuto, fin dove arrivano i registri della storia. Intere civiltà sono state sterminate dai cristiani nel Nord e nel Sud dell'America. Allo stesso modo è stata giustificata la schiavitù fino al XVIII secolo.

6 - L'ingiusto sistema mondiale è stato costruito principalmente dai cristiani, con gli europei che hanno preso possesso di gran parte della terra abitabile del mondo. (...) Questo disordine mondiale è perpetuato dall'incubo della legalità internazionale, dalla forza delle armi, dal dominio della manipolazione finanziaria e culturale, soprattutto da gente che si definisce cristiana.

7 - La Chiesa non ha mai richiesto ai cristiani una compensazione per lo sfruttamento dei popoli che hanno colonizzato (...). I cristiani santi per la loro carità non sono stati campioni di giustizia mondiale e sociale, come si vede nell'enciclica Deus Caritas est di benedetto XVI.

8 - La cristologia esclusivista ha avuto un impatto negativo su quanti gestiscono il potere nella Chiesa. Le loro interpretazioni hanno condotto ad atteggiamenti di profonda arroganza e intolleranza delle potenti Chiese cristiane. Sono state utilizzate per legittimare l'inquisizione, le invasioni coloniali, il multisecolare colonialismo. I papi hanno incoraggiato i capi di Stato europei a invadere, conquistare e convertire al cristianesimo tutta la gente di altri Continenti perché si salvasse l'anima.

L'incongruenza tra il cuore del messaggio cristiano di un Dio amore e le esperienze vissute dai popoli oppressi sotto i dominatori cristiani durante mille anni di schiavitù, crociate, intolleranza nei confronti degli altri, invasioni coloniali e guerre implica un'interpretazione gravemente errata degli insegnamenti di Gesù di Nazareth (...). La cristologia tradizionale esclusivista non può venir riconosciuta come una teologia che abbia a che vedere realmente con Gesù Cristo, per il danno causato alla maggior parte dell’umanità per 1.500 anni. (...)

Cristologia inclusivista

(...) Alcuni teologi hanno tentato di trovare un cammino per la salvezza della maggior parte dell'umanità, che nella prospettiva esclusivista sembra essere condannata. Hanno creduto di intravedere una specie di porta di servizio perché i non cristiani possano entrare nel cielo cristiano: dicono che le persone non cristiane che conducono vite improntate al bene sono “cristiani anonimi". (...) Ma ad altre religioni sembra che questa forma di teologia riservi loro una specie di trattamento di seconda classe, una concessione cristiana (...).

Le teologie esclusivista e inclusivista pretendono che Dio sia parziale e stia dalla parte dei cristiani, ridimensionando il potenziale di rivelazione e salvezza delle altre religioni. La teoria esclusivista e anche quella inclusivista provengono da una distorsione del messaggio centrale di Gesù, facendo dipendere la salvezza dal rito sacramentale del battesimo e dall'appartenenza alla Chiesa. Questo è un ostacolo per una corretta e fedele comprensione del discepolato di Gesù, che intende la vita secondo i valori dell'amore, della verità, della giustizia, della condivisione, del perdono e della pace che Gesù ha mostrato e messo in pratica fino alla sua morte.

Di fronte a tali considerazioni, le chiese cristiane devono cercare di capire come e perché hanno potuto sbagliare per tanti secoli su temi fondamentali come quelli della condizione umana, della natura divina e del destino ultimo degli esseri umani (...). Si può dire che con li dogma del peccato originale non c'è possibilità per la teologia cristiana di elaborate un'interpretazione che non offenda gli “altri” che sono fuori dalla Chiesa, le altre religioni. Tale teologia poteva risultare accettabile solo all'interno di comunità e culture stabilite dai cristiani, giacché pone a loro disposizione un cammino magico di salvezza attraverso il battesimo dei bambini.

Solo una comprensione pluralista delle rivelazioni può essere accettabile per l'umanità in un mondo nel quale la maggior parte degli esseri umani non è cristiana. Questa può essere la base di un dialogo interreligioso e di una convivenza pacifica globale.

Verso una Teologia pluralista nella sfida della realtà asiatica

(...) In Asia il problema intellettuale pratico è cercate di conciliare gli apparenti opposti per analizzare la realtà. Se l'approccio razionale dell'Occidente si orienta più verso una epistemologia di "o questo o quello", dell'aut aut , si dice che l'Oriente sia più incline al questo e quello, all'et et . Così, il cristianesimo occidentale è arrivato a definizioni esclusiviste dogmatiche mediante la condanna, l'affossamento o la scomunica degli avversati (anatema), mentre le religioni e le culture asiatiche tendono a lasciare più spazio all'altro, al diverso, al dissidente, specialmente per quanto concerne la speculazione sulla Realtà Ultima (Dio) (...). In generale, l'ambiente percepito è di tolleranza e accettazione dell'altro, come hanno insegnato Lao Tse, il Budda, le Upanishad, Gitanjah o Rabindranath Tagore. Forse il Mahatma Gandhi è stato il miglior seguace pratico e teorico della nonviolenza di Gesù nella sua vita politica pubblica, più di qualunque altro santo cristiano, teologo o leader della Chiesa.

Una prospettiva pluralista delle religioni

Una cristologia pluralista deve porsi all'interno di una prospettiva pluralista del religioso. Alcune considerazioni:

Tutte le religioni del mondo hanno un corpo di buoni insegnamenti e di pratiche per una vita morale. Se non fosse così gli esseri umani non le avrebbero seguite per millenni. Le religioni si interrogano sul mistero della vita e sul suo significato ultimo. Tutte possono essere aperte al mistero, ma nessuna ha il monopolio su di esso, perché il mistero è infinito.

Nessuna religione può avere la pienezza della verità sulla Realtà Ultima Assoluta, perché ciò è al di là della capacità umana. Nessuna religione ha il monopolio della conoscenza di Dio, della Realtà Ultima o della salvezza umana e della vita dopo la morte. Tutte le religioni devono essere disposte ad apprendere dalle altre, ad apprendere anche dalla società laica e persino dall'evoluzione del mondo e dal suo progresso.

Le religioni devono accettare che vi siano modi diversi di "descrivere" la Realtà Ultima. Ogni religione può essere fedele alle proprie interpretazioni del divino senza rivendicare il controllo del divino. Allo stesso modo, rispetto all'origine o alla vita dopo la morte, nessuna religione può rivendicare una conoscenza assoluta di quello che è avvenuto prima o di quello che avverrà dopo la morte di una persona. Le religioni possono avere presentazioni diverse della propria comprensione del divino, espresse in una diversità di linguaggi, forme d'arte, contesto culturale, riti di culto, organizzazione comunitaria e sistema educativo. Più in là e più in qua di tutto questo, possono unirsi in un servizio genuino e disinteressato alla comunità umana. Qui si trovano il messaggio e la mistica più profondi della maggior parte delle religioni.

Le religioni possono pensarsi complementari per il bene comune spirituale di tutti, invece di considerarsi in competizione le une con le altre. Le religioni mondiali hanno un insieme di valori centrali rispetto a cui possono essere d'accordo e cooperare per la vita sociale pratica.

Le religioni sono i movimenti sociali mondiali più antichi e diffusi del mondo. Ricevono l’adesione leale di masse di popolazione e sono radicate in gruppi locali, comunità nazionali e reti mondiali. Insieme possono contribuire a sviluppare un ordine mondiale di condivisione, giustizia e pace. Possono promuovere i diritti umani a diversi livelli e lottare insieme per l'uguaglianza tra i popoli, per il rispetto verso ogni persona senza distinzione di sesso, età, classe sociale o casta, o a favore del commercio equo, della pace mondiale, del controllo delle armi, del disarmo nucleare, della cura per il pianeta Terra. Insieme possono essere i maggiori benefattori dell'umanità.

1. Tutte le religioni sono di fatto condizionate nei loro pensieri, espressioni e azioni dall'ordine sociale dominante e dalla loro eredità culturale. Tutte le religioni hanno bisogno di autocritica, autocorrezione e pentimento per i propri errori, per esempio quello di aver favorito la superiorità maschile e l'indifferenza per la giustizia di genere. Tutte le religioni meritano rispetto e accettazione per il bene che ispirano e realizzano.

2. Il compito più importante delle religioni dovrebbe essere quello di contribuire al miglioramento spirituale dei propri membri e della società in generale. Dovrebbero essere meno preoccupate dai problemi esteriori, come i riti del culto, la costruzione dei templi e delle chiese, l'organizzazione legale della comunità, la rivalità interreligiosa in termini di potere e di quantità di membri e anche dalle formulazioni filosofiche delle teorie e dei dogmi.

Le campane del tempio e delle chiese sono diverse, possono suonare a ore diverse e chiamare i fedeli a diversi servizi condotti da diversi sacerdoti. Ma il tono, la musica sono gli stessi; la canzone liberatrice del Divino ci ricorda a tutti la stessa verità eterna: che tutti siamo figli e figlie di Dio...

"Quello che manca in questo momento storico è passare dalla religione alla spiritualità... Mantenendo l'identità delle nostre religioni, dobbiamo andare al cuore del messaggio centrale di ognuna di esse e calare i temi dell'amore, della verità, della giustizia, dell'uguaglianza nelle circostanze reali della nostra vita. Questo può spianare il cammino verso una condizione di solidarietà spirituale. Potrebbe offrirci la chiave per aprire le porte delle nostre rispettive prigioni. La dipende da noi uscire e forgiare una nuova solidarietà spirituale che tocchi e trasformi la nostra società e fissi l'agenda per un mondo nuovo e di speranza" (Swami Agnivesh).

Verso una cristologia pluralista

(...) a) Dovremmo cercare di presentare il cuore del messaggio di Gesù di Nazareth a partire dalle sue parole e dalle sue azioni, principalmente quelle che proclamano che Dio è amore e che ciò a cui siamo chiamati è ad amare Dio e ad amare il prossimo come noi stessi. Possiamo cercare di articolare i valori che Egli proclamò, vivendo e morendo per essi (…).

b) Il cammino che Gesù mostra per la salvezza umana e universale (Mt 25,34-46). “Avevo fame e mi avete dato da mangiare". Tutti gli esseri umani possono seguire questo cammino, dentro o fuori della (Chiesa. Gesù non ha alcun monopolio sul cammino per la salvezza umana. Prima che Gesù nascesse già era operante la salvezza umana. Gesù ha mostrato un cammino, ma non lo ha iniziato ne lo ha aperto all'umanità.

c) Gesù non dovrebbe essere presentato come l'unico e universale salvatore di tutta l'umanità per la caduta dell'umanità nel peccato originale. Egli presenta un unico cammino di salvezza che è aperto a tutti gli esseri umani di tutti i tempi e che può essere anche mostrato dai leader di altre religioni, forse con parole diverse. Questo cammino di amore per tutti porterebbe il Regno di Dio sulla terra, e porterebbe anche la salvezza a tutti, con o senza filiazione religiosa.

d) Quello che è importante per i discepoli è seguire gli insegnamenti di Gesù sulla vita morale pratica, più che cercare di definirlo intellettualmente secondo le categorie della filosofia greca, come sostanza, persona e natura (…).

Gesù ha bisogno di essere liberato dalla cattività che soffre sotto la cristologia tradizionale esclusivista (...). Egli mostra un cammino verso una maggiore comprensione pluralista tra comunità di diverse religioni, per entrate in un dialogo di vita e azione per un'umanità diversa, libera dall'oppressione.

Vi sono molti figli e figlie di Dio nella stessa missione di Gesù, che cercano di spianare un cammino di amore e di servizio per tutti, al di là dell'egoismo personale o di gruppo. Riconoscere queste molte persone non sminuisce in nulla la filiazione divina di Gesù; è, semplicemente, un modo diverso di pensare alla comunione dei santi. Lasciamo che una cristologia pluralista purifichi la teologia e la vita cristiana e le renda più chiaramente simili a Gesù e a Cristo. Lasciamo che Gesù sia Gesù, il messaggero dell'amore di Dio, il liberatore dell'oppresso e il compagno nella costruzione di una Nuova Umanità. Lasciamo che Dio sia Dio, un Dio che ama e si preoccupa di tutti al di là di tutte le barriere costruite dagli esseri umani.




(da Adista , n. 86, 02.12.2006, pp. 8-10)

Pubblicato in Teologia
Il dualismo tra corpo e anima,
peccato del cristianesimo

di Wanda Deifelt

Il parlare di Dio, o teologia, avviene a partire dall'esperienza. La teologia femminista ha da molto tempo posto l'accento sul fatto che possiamo parlare della divinità solo a partire dall'esperienza, così come questa si relaziona alla condizione umana e alla sua finitezza, ai suoi aneliti e alle sue speranze (...).

Il XX secolo ha presentato nuove sfide e possibilità a questo parlare di Dio che, in gran misura, differisce dalla descrizione tradizionale di ciò che significa fare teologia. La sfida - venuta specialmente dalle teologie della liberazione, nera, femminista, womanist (la teologia femminista nera, ndt), mujerista (la teologia femminista delle ispaniche negli Stati Uniti, ndt), dalit, mimjung (teologia coreana, ndt) e indigena - può essere riassunta come una messa in discussione del modello universale di rivelazione implicito nel parlare di Dio a partire dal cristianesimo (...).

Il parlare di Dio

Poiché il nostro parlare di Dio può avvenire solo attraverso i limiti del nostro linguaggio, che è impregnato dalla nostra cultura, nessuna teologia riesce ad abbracciare la totalità della rivelazione divina. Teologi e teologhe hanno persino proposto di non parlare di teologia, ma di teo-antropologia, dal momento che il parlare di Dio può avvenire solo nel parlare umano.

La teologa Sallie McFague, nel suo lavoro pioniere, ha mostrato che Dio può essere descritto solo attraverso un linguaggio metaforico. Il linguaggio umano non riuscirà mai a descrivere la divinità nella sua totalità perché nessuna esperienza umana riesce a incapsularla. La nostra percezione è sempre parziale e così è anche il nostro linguaggio: parziale. (...)

I limiti del parlare umano

Per parlare della divinità, il parlare umano ha bisogno di riconoscere che vi sono limiti e possibilità. È impossibile ignorare i nostri limiti e fingere di riuscire a comprendere e a proclamare il messaggio riguardo al divino nella sua totalità. Questa arroganza umana, quando è associata a potere e ad autorità, può essere tradotta come peccato. Essa riduce il parlare di Dio a un'unica cosmovisione, escludendo tutte le altre in nome di un assoluto. È il peccato di universalizzare un'esperienza rendendola normativa. È ridurre l'infinito al finito. Teologhe womanist, mujeristas e femministe, così come i teologi della liberazione, denunciano da molto tempo i pericoli dell'universalizzazione perché questa rafforza un discorso normativo e limitato, perpetuando relazioni di potere asimmetriche. La riduzione del divino a una metafora, a un unico nome, è idolatria. Un linguaggio razzista, classista,sessista e omofobico ripete un ordine mondiale in cui ideologie razziste, sessiste, classiste e omofobiche sono divinamente sanzionate. Non solo la divinità è ridotta a una visione del mondo particolare. Ma, ancora più pericoloso, questo particolare è visto come l'unica manifestazione divina. Accentua una e nega le altre. È evidente il ruolo che contesto e cultura svolgono nella creazione e manutenzione delle metafore. Analizziamo la traiettoria di una metafora in particolare: Dio come padre. È una metafora biblica, legittima, impiegata da Gesù (...).

Il numero di volte in cui questa metafora appare in ogni vangelo mostra l'influenza del contesto sociale e come questa metafora si è andata assolutizzando. Dio è chiamato padre solamente 4 volte nel vangelo più antico, in Marco. In Luca appare 15 volte e 42 volte in Matteo. Nel vangelo più recente, quello di Giovanni, già appare 109 volte. Quello che è in gioco non è la legittimità di questa metafora come uno dei molteplici modi di parlare di Dio.. Quello che va messo in discussione è, in primo luogo, la sua assolutizzazione. In secondo luogo, l'uso della metafora per perpetuare il patriarcato. Siamo arrivati al punto che oggi causa furore l'impiego di qualunque metafora femminile per riferirci a Dio. Si può chiamare Dio roccia, ma è considerato offensivo chiamare Dio madre (...).

Le possibilità del parlare umano

(...) Il linguaggio di Dio è parlato in molti dialetti. Il cristianesimo, in particolare, non sempre ha festeggiato la ricchezza esistente in questi dialetti. Al contrario, li ha percepiti come minacce e tentativi di delegittimare la purezza della dottrina. Purtroppo, una pratica comune nel modello della Cristianità è stato di adattare la rivelazione divina dell"'Io sono Colui che è" al prototipo del "tu sei chi sono io". In questa pratica colonialista c'è una completa inversione del modello che celebra la diversità e abbraccia i dialetti. Questo modello ha accentuato l'omogeneità. L'identicità ha portato al conformismo e alla passività. Il modello dell'uniformità afferma che è necessario istituire gerarchie per supervisionare la purezza della dottrina. In nome della verità, la gerarchia cessa di vedere le molteplici manifestazioni del divino, i modi sorprendenti in cui Dio interviene nella storia e rivela il suo amore per l'umanità. Ironicamente, diventa idolatra.

Il gioco tra contesto sociale, linguaggio e immagine di Dio avviene in tensione creativa. Fa uso di un linguaggio metaforico che lotta con la necessità di parlare del divino e l'incapacità di farlo. Si vive un'esperienza di già e non ancora. Io posso parlare di Dio solo in un linguaggio che è familiare, relazionale e culturalmente localizzato. Ma tento di superare i limiti della mia propria esperienza e del mio proprio linguaggio proprio attraverso l'incontro con gli altri e le altre. Questa alterità è l'alterità divina, ma è anche l'alterità celebrata nell’incontro quotidiano con altri esseri umani e con il nostro ambiente. La Teologia della Liberazione ha insistito sul fatto che possiamo parlare di Dio solo a partire dall'esperienza della solidarietà divina con l'umanità, del Dio che si rivela nel linguaggio della gente semplice. La teologia femminista aggiunge che possiamo parlare di Dio solo come lo ha fatto Gesù, attraverso parabole (...).

Il linguaggio dei corpi

In America Latina, nella teologia femminista, il corpo umano è diventato un modo parabolico per parlare di Dio (...). Tre storie, presentate qui di seguito, ci aiutano a intendere la concretezza quotidiana dei corpi ed esemplificano la nozione di corporeità difesa dalla teologia femminista (...).

Leonildo, un agricoltore del Movimento dei Senza Terra in Viamao, Rs, si pone a fianco del suo campo di riso e dice: "tutto quello che c'è qui siamo stati noi a piantarlo". La sua voce denuncia l'emozione di produrre l'alimento con le sue stesse mani, usando le risorse di cui la comunità dispone, nella terra che ha conquistato. I giorni passati negli accampamenti lungo la strada, nelle baracche coperte di teli di plastica neri, fanno parte del passato. Ma c'è solidarietà con le migliaia di uomini, donne e bambini che ancora non hanno terra e soffrono la violenza della fame, dell'esclusione sociale e delle aggressioni armate. Una parte del riso prodotto va ad aiutate altre famiglie che sono ancora accampate.

La lotta per la terra in Brasile è un esempio storico della vulnerabilità delle persone semplici. I conflitti agrari hanno provocato migliaia di morti. Sono i corpi dell'agricoltura, dell'agricoltore e del bambino che vivono nei campi - soggetti a una violenza continua, al pericolo di essere assassinati da pistoleiros assoldati e alla mercé del lavoro infantile - che diventano parabola per la teologia femminista. Non è il corpo idealizzato, ma il corpo concreto: maltrattato dalla fame, dall'eccesso di lavoro, dalla lotta per la dignità. È anche il corpo che celebra le piccole conquiste. Questo corpo è parabola per parlare della rivelazione divina: Dio in mezzo a noi. (...) Affermare che Dio è in mezzo a noi è celebrare l'incarnazione. La divinità si fa umana, prende corpo, per annunciare speranza e resurrezione. La divinità opta per la vulnerabilità. Dio stesso si fa bambino vulnerabile per vivere tra di noi. I corpi vulnerabili diventano il verbo della manifestazione divina.

Quando Daniela parla del suo lavoro di educazione popolare presso la comunità quilombola le brillano gli occhi. È afrodiscendente e si è legata a questa comunità all'interno di Sào Lourenco do Sul, Rs. Quilombolas sono schiavi e schiave che sono fuggiti dai loro padroni (al tempo della schiavitù) e hanno dato vita a una comunità libera. La comunità vive quasi isolata e il riscatto di storie, musiche, danze e spiritualità è diventato una passione per Daniela. Insegnare a giovani e a bambini a danzare la capoeira è riscattare la loro cultura, la loro dignità e il loro valore. Rivendicare se stessa come donna nera e provare orgoglio per il colore della pelle significa delegittimare secoli di ideologia razzista. Per Daniela è una gioia che non può essere trattenuta dentro di sé, ma deve essere celebrata nella comunità. Il corpo come parabola non si restringe al corpo individuale. C'è una collettività, la comunità, il senso di appartenenza che permea le reazioni umane. La comunità quilombola è una parabola per questo corpo sociale. (...) Ma il caso di Daniela mostra anche il limite della parabola: anche il corpo sociale ha bisogno di critica, di decostruzione. Così come la comunità si trova geograficamente isolata, anche lei è isolata dall'immaginario socio-culturale e religioso del suo ambiente circostante. La sua esperienza di lotta non è valorizzata dalla comunità più ampia fino a quando lei stessa non la valorizzi. (...).

Nella fabbrica di riciclaggio di rifiuti, in Gravataì, Rs, Nilda racconta che, prima di avere un padiglione per separare i rifiuti, cercava materiale nella discarica. Il camion scaricava la spazzatura e lei, insieme ad altre persone, controllava quello che lì veniva gettato. La necessità di sopravvivere - di trovare carta, plastica, vetro e metallo da vendere - l'obbligava a contendere i rifiuti a topi e mosche. Il Movimento nazionale di raccoglitori di rifiuti l'ha aiutata ad assicurare la propria sopravvivenza, con dignità. "Prima vivevo in mezzo alla spazzatura e mi sentivo come la spazzatura della società. Ora lavoro qui, insieme ad altre donne. Questo ha dato coraggio a tutte noi".

La degradazione di corpi, ridotti ad oggetti, nega la sacralità della vita e della creazione. Che un essere umano possa sentirsi come rifiuto della società mostra l'urgenza di affermare la dignità dei corpi vulnerabili. E mette anche seriamente in discussione il modo in cui il cristianesimo ha trattato il corpo umano (...)

Il corpo come parabola della divinità

(...) Il lavoro di teologhe femministe come Rosemary Ruether ci aiuta a intendere che la creazione è una manifestazione della divinità. L'ecofemminismo enfatizza l'interconnessione della parte con il tutto e l'interdipendenza che questo comporta. Il divino ci è noto come creatore, un Dio il cui potere e la cui dinamicità si manifestano in una continua creazione e ricreazione.

(...) Il cristianesimo ha bisogno di riconoscere il ruolo catastrofico che gioca nella nostra cultura e società, alimentando un dualismo tra natura e cultura, mondo materiale e spirituale, individuo e comunità, corpo e anima. (...) Queste dicotomie non solo rafforzano le gerarchie ma impediscono un approccio integrale. La saggezza degli agricoltori - i quali sanno che, se non ci prendiamo cura della terra, la prossima generazione non sopravvivrà - non ha un posto in una economia globalizzata e neoliberista che ha occhi solo per l'individuo, i suoi interessi immediati e il profitto di un gruppo di persone facoltose. La coscienza ecologica dell'interdipendenza si estende anche ad altri esseri umani. Se la creazione è il corpo di Dio, il corpo sociale è quello in cui viviamo questo amore in atti concreti di giustizia e riconciliazione. Dio ha creato l'uomo e la donna a sua immagine. Questo ha stabilito un modello di relazione che non sempre viene considerato. Affermare che gli esseri umani sono creati a immagine di Dio è trattare un altro essere umano con la stessa riverenza che in un incontro con la divinità, i nostri incontri con gli altri esseri umani sono ben lontani da questo. Non solo non trattiamo l'altro e l'altra con lo stesso rispetto e la stessa dignità che riserviamo all'incontro con il divino, ma ci comportiamo con indifferenza, mancanza di rispetto e molte volte in maniera da umiliare l'altro. Trattiamo altri corpi come spazzatura. (...).

L'offerta divina della vita si estende alla totalità della creazione e non solo a un segmento, quello degli esseri umani. Il divino si rivela nella creazione e la creazione ha bisogno di attenzioni. Come esseri umani, siamo i custodì responsabili della nostra dimora, il nostro oikos (...).

Un linguaggio della corporeità ci porta al qui e ora ed esige una migliore attenzione al presente. Usare il corpo come metafora, come parabola per parlare della divinità, richiede che la teologia si preoccupi non solo della salvezza, ma anche del benessere dei corpi (...)

(da Adista, n. 22, 19.03.2005, pp.10-12)

Pubblicato in Teologia
Anche Ninive è la città
in cui Dio prende dimora

di Pierangelo Sequeri

Per trovarsi nel punto d’incontro fra il cristianesimo e la città, bisogna anzitutto sentirsi concittadini, nella città dell’’uomo. Si tratta di sentire lo spazio e il tempo del mondo come spazio e tempo nostro, a pieno titolo. Un cristiano non è un sopravvissuto, nel mondo che cambia (sempre cambia il mondo), in transito da un mondo che era il suo e ora non lo è più. Al quale vorrebbe ritornare, ma non può. Sembra banale. Invece è uno dei nodi dell’inconscio ecclesiastico più difficili da elaborare.

Bisogna anzitutto credere che questo è il tempo favorevole, questo è il mondo che poggia sulla creazione di Dio, questa è la città nella quale il Figlio assimila gli amori e gli umori dell’uomo vivente per renderne eloquente la verità perfetta custodita dal Padre e le opere che attestano le passioni indomabili di Dio per la creatura. Nazareth è la nostra città, e poi Corinto, Efeso, Laodicea, l’Atene dei filosofi e la Roma dell’impero. La città in cui Dio prende dimora è la nostra città. Persino Ninive è città di Dio, alla cui sorte Dio si appassiona. Non lo saranno Milano e Napoli, Madrid e Parigi, New York e Los Angeles?

I nodi essenziali, sui quali registrare oggi il gesto cristiano della testimonianza ecclesiale, li indicherei così.

Il radicamento di Dio nell’assimilazione dell’umano.

Il mistero di Nazareth, anzitutto: il grande tema che l’ecclesiologia deve di nuovo incorporare fino al midollo. Nazareth è l’emblema della profonda immedesimazione del Figlio, che fa tutt’uno con l’incarnazione e la rivelazione del Padre. Un tempo lunghissimo. Tempo di seminagione del profumo di Dio e di assimilazione degli umori dell’uomo: come vive e come muore, come gioisce e come soffre, come si dispera per il pane e come si entusiasma per i figli, come piange di risentimento per le ferite di coloro che gli sono cari e come si scopre improvvisamente capace di compassione e di cura per l’estraneo che non ha mai conosciuto. Abbiamo cercato di abbreviare - abbiamo osato considerare superfluo - il mistero di Nazareth. Finiamo per parlare un gergo religioso, pur altissimo e devoto, in cui non si può più intendere la Parola di Dio che mira al cuore. Per poter annunciare l’eterna verità di Dio bisogna essere profondamente contemporanei alle avventure e alle fatiche del vivere che prende la sua forma qui e ora E’ l’evento discriminante della novità cristiana.

Le opere che sigillano la verità della rivelazione.

La scena originaria dell’annuncio porta indicatori la cui priorità non deve più essere revocata in dubbio. La parola dell’annuncio è resa univoca e trasparente dal ministero della liberazione dal male, accompagnato dalla rimozione dell’esclusione dalla cura di Dio. Le opere di Gesù sono i segni della rivelazione, non semplicemente lo spazio dell’applicazione morale della coerenza religiosa. Sono il codice dell’annuncio che rende precisa l’inaudita verità di Dio, che in Lui si rivela. Ciò che vale per la rivelazione vale per la fede, «I ciechi vedono, gli zoppi camminano, i poveri sono consolati, i demoni sono cacciati». La confessione della fede rimane vuota se l’evidenza della prossimità di Dio rimane cieca. «Non chi dice Signore, Signore». La franca confessione dell’Evangelo di Dio, che ha l’identità del Figlio Gesù come referente assoluto, patisce la rimozione del sacro e la propaganda religiosa allo stesso modo. La purificazione evangelica della religione -delle religioni - ha qui il banco di prova dell’annuncio della fede che salva. Come siamo toccati, tutti - e anche ora - dalla nascita e dalla risurrezione di Gesù? Come siamo riscattati dalle passioni di Dio e dall’avvilimento del Figlio?

La religione nel crogiolo dell’assoluto di Gesù.

Sempre, nella religione, si formano e riformano clericalismi, rabbinismi, fondamentalismi, esoterismi, gnosticismi, durezze di cuore, divisioni mortali, autoesaltazioni di ogni genere, derive superstiziose e contaminazioni di ogni sorta. Alcune sono riconoscibili come il frutto del peccato dell’uomo. Altre sono insidiosamente incistate nell’invocazione del nome di Dio. La religione che si accontenta di provare semplicemente la propria coerenza con se stessa, rende testimonianza a se stessa, non a Dio.

Nei decenni trascorsi, premuta dalla rappresentazione di una secolarizzazione che avrebbe condotto la religione al declino come forma civile, anche la teologia cristiana ha cercato la possibilità di un’interpretazione e di una pratica non religiosa del cristianesimo, contrapponendo la fede evangelica alla forma religiosa. La tesi, pur con i suoi eccessi, ha riportato alla luce la verità di una dialettica che era stata indubbiamente oscurata. Rimane però il fatto che la pura alternativa della fede alla religione scrive la parola di Dio sulla sabbia di un’interiorità inafferrabile e taglia semplicemente fuori l’universale umano della relazione con Dio. Non c’è proprio nessun altro modo di andare a toccare le nervature della carne, e l’intimità dello spirito in cui l’esistenza si trova toccata nell’intimo è riscattata e plasmata secondo la verità destinata. Per dodici apostoli che chiamò, il Figlio considerò come “suoi” cinquemila uomini alla volta. Per non contare le donne e i bambini. Li istruì sulla verità di Dio che riguardava la loro vita e la sua destinazione, facendo in modo che non mancassero del pane e non dovessero vergognarsi delle loro ferite. lndividuò fra essi, non solo fra i discepoli, figure straordinarie, la cui “fede” additò all’ammirazione dei suoi e di tutti. La Cananea, la Samaritana, il lebbroso riconoscente, Zaccheo il pubblicano. Qualcuno - come il ladro crocifisso o il centurione romano - scoprì di essere “dei suoi” senza averlo previsto. Non stiamo rimpicciolendo troppo, a motivo di uno sguardo ecclesiologico forse indebolito dall’età, la vasta comunità di coloro che «guardano con fede a Gesù» (Lumen gentium, 9) nelle città che abitiamo - del resto sempre provvisoriamente?

Pubblicato in Teologia
Giovedì, 22 Maggio 2008 23:44

I volti di Gesù - Prima parte (Bruno Secondin)

I volti di Gesù
Prima parte

di Bruno Secondin

 

 

I - Chiarimenti

Dobbiamo chiarire fin dall’inizio che bisogna evitare di percorrere la storia allo scopo di individuare quali siano le spiritualità criostocentriche, per distinguerle da quelle che non lo sono.

Non c’è dubbio che non vi può essere una spiritualità cristiana allo stesso tempo anche «cristocentrica», se il Cristo non occupa cioè il centro. Per quanto teocentrica essa sia, per essere autenticamente cristiana, dovrà essere un’esperienza di discepolato (= sequela) dietro a lui in maniera radicale. Qualunque teocentrismo dovrà essere ancorato al Dio di Gesù Cristo.

Il nostro discorso sarà allora fatto a due livelli:

- Il piano dell’esperienza cristiana: il cristocentrismo è il costitutivo dell’esperienza stessa, senza di esso non esiste esperienza cristiana;

- Il piano delle sintesi vissute: dipende dalla cultura, dalla sensibilità, dal momento storico. Ma in tutto — in ogni specificità:

- Bisogna cogliere il cristico, come autenticità cristiana. Senza la via di Cristo non si può arrivare al Padre, e senza arrivare al Padre non si può neppure essere aperti all’autentica «verità» del Figlio.

Mettiamo anche in guardia da un pericolo notevole nel leggere i dati storici: cioè la tendenza ad usare degli schemi ideologici. Con tale atteggiamento si rifiuta, si accetta, si parzializza la testimonianza e il valore delle esperienze vissute.

Per esempio, lo schema contemplativo: quando si privilegia il trascendimento più o meno radicale del corporeo e si svaluta il fatto incarnatorio. E si parla di «nudità» in senso di immutabilità, destoricizzazione, «totale astrazione». Soprattutto negli spirituali occidentali si manifesta questa tendenza (la mistica astratta o delle essenze) e il loro libro preferito è il Vangelo di Giovanni (cf. la sua frase: «è bene che me ne vada..»). Teresa di Gesù e Giovanni della Croce hanno superato questo scoglio, affermando la presenza dell’umanità di Cristo anche nei momenti più «mistici».

Per esempio, lo schema della chiesa spirituale: caratteristica della chiesa medievale, e di Gioacchino da Fiore (+1203) in particolare (ma presente anche in altre epoche e movimenti: montanisti, donatisti, fratelli del libero spirito, illuminati di varie epoche, alcune tendenze della teologia liberale...). Si legge la storia per età: dopo il Vangelo del Regno predicato da Cristo, ci sarà il Vangelo dello Spirito: nel quale viene superata la tensione tra legge e spirito, gerarchia e libertà carismatica, corporeo e spirituale, ecc.

Per esempio, la tendenza alla cristologia etica: che vuoI dire risolvere la cristologia in «cristianesimo», cioè in programma di azione per il cristiano. Cristo diviene senso dell’esistenza e della storia, «progetto» di maniere di vivere dell’uomo (per-gli-altri, per esempio), senso dell’esistenza e della storia, cifra della profondità dell’esistenza. E come un Gesù ridotto a programma etico, non avvenimento vivo di grazia operante, storicamente fondata negli eventi salvifici (pasquali specialmente). Solo il rapporto con la persona storica di Gesù dà all’esistenza «normata» da quella Persona l’autenticità «cristiana» della sequela-imitazione.

Su questi problemi avremo comunque modo di ritornare alla fine della panoramica storica.

 

II - Il punto di vista biblico

Dal punto di vista teologico e biblico/esegetico, si possono trovare moltissime sintesi nelle opere di cristologia, là dove esaminano le categorie bibliche del mistero della salvezza realizzatasi in Cristo. Ad esse rimandiamo, senza ripetere qui più di quanto sia necessario, quello che in esse è ottimamente esposto1. Il nostro intento è quello specifico della spiritualità.

L’attuale feconda stagione di letture bibliche, non ignare delle esigenze .esistenziali della riflessione sulla Parola, ha alimentato un proliferare di testi, qualitativamente anche eccellenti, almeno in alcuni casi, sulla «spiritualità biblica». Di conseguenza disponiamo oggi di aiuti importanti per capire meglio in che cosa consista la «normatività» dell’esperienza spirituale primitiva rispetto a quella posteriore derivata. La migliore conoscenza del contesto culturale e della pietà delle tradizioni sapienziali e dei gruppi ascetici, ci consente di vedere l’intreccio fra tradizione e novità, fra correnti di pietà e simbologie religiose, fra immaginario apocalittico e figure messianiche.

La spiritualità perciò in questi vent’anni ha acquisito una matura base biblica, scientificamente corretta e vitalmente ispirativa. E’ questo un fatto di grande importanza, che i secoli passati non conoscevano assolutamente: non solo come letteratura dell’esperienza, ma anche come sapienza che dirige l’esperienza. I saggi di spiritualità biblica stanno pertanto diventando proposta di percorsi mistagogico all’appropriazione soggettiva del “mistero” di vita e di fedeltà di Dio. Ed è quello che più conta in questi nuovi studi.

1. PLURALISMO E UNITÀ ALL’INTERNO DELLA BIBBIA

Ci si accorge subito — anche ad un accostamento superficiale — che nel testo attuale dell’Antico Testamento e ancor più logicamente nel Nuovo Testamento, quando si parla del Cristo, si ha davanti una pluralità abbastanza ampia di asserti cristologici, di formule kerigmatiche, di titoli cristologici, di inni liturgici, di simboli e immagini. Che cosa si deve dire di questa diversità e pluralità che sembrano far consistere la dottrina cristologica biblica in un certo numero di frammenti disparati per contenuto e forma?

Bisogna tener presente che il movimento cristiano primitivo non era culturalmente omogeneo: v’erano ambienti particolarmente ostili alla cultura dominante (che era lo ellenismo) in nome della fedeltà alla tradizione questa tendenza va sotto il nome di giudeocristianesimo. Ma l’incontro con quello che fin dal secolo scorso si usa chiamare «ellenismo» (nome posto in uso da Droysen), avvenne presto, rimanendone il cristianesimo ampiamente segnato, anche se sotto certi aspetti non l’ha accettato del tutto. La tendenza più marcata è il superamento del particolarismo culturale, verso un cosmopolitismo geografico e culturale, accompagnato — per dialettica interna — dal recupero di un inedito atteggiamento individualistico, quale tamponamento dello smarrimento di fronte alle dimensioni macroscopiche della nuova situazione.

All’interno della visione universale propria all’ellenismo, v’è, contemporanea all’apparire del cristianesimo, anche l’insorgenza di un’altra corrente o movimento: la gnosis, cioè l’assolutizzazione della «conoscenza» come mezzo unico di salvezza. E’ una tendenza che di fatto si costituisce sulla visione pessimistica del cosmo e della storia umana: questo «mondo materiale» è regno della tenebra, e del male, «pienezza del male» (come dice il Corpus Hermeticum, 6,4). L’uomo deve, con il soccorso di un rivelatore divino, recuperare la propria identità superiore, ricordando la sua «origine», ricongiungendosi, mediante la gnosi, col mondo celeste.

La «configurazione» dell’identità cristiana della prima generazione subirà gli influssi sia dell’ellenismo che della gnosi; ma allo stesso tempo elaborerà una sua visione di universalità, con un processo di inculturazione, che non è stato del tutto pacifico.

Ciò pone il problema, cui molti hanno cercato di dare una qualche soluzione: se sia mai possibile trovare un’unità, «un’unica teologia biblica, cresciuta da unica radice e che si mantenga con ininterrotta continuità». Tutta la vicenda della Leben-.Jesu-Forschung ha qui la sua giustificazione, e in molti hanno cercato di dare soluzioni.

La soluzione non può essere separata dal coinvolgimento dell’esperienza ecclesiale, la quale trova il suo cardine nell’evento morte/risurrezione e lo sviluppa di lì. E’ in ultima analisi il rapporto tra il Gesù della storia e il Gesù della fede che viene qui in risalto e di cui è piena la discussione cristologica recente. Rimane da ricordare anche che secondo la Dei verbum resta centrale la testimonianza dei quattro evangeli nel corpo degli scritti neotestamentari (Evangelici merito excellere...: DV 18).

La cristologia dei manuali, fino ai tempi recenti, è stata una cristologia dell’ontologia calcedonense; la dimensione storica del mistero di Cristo è stata sentita per lo più come un’appendice meno rilevante dal punto di vista teologico. Ne derivava un discorso ontologico e assiologico sul Signore, ma non una sottolineatura adeguata della sua centralità sul piano della storia della salvezza.

Non possiamo entrare in tutti gli aspetti vetero e neotestamentari della figura del Cristo, diciamo le figure, i simboli, i titoli,ecc.,con cui la comunità dei padri che attendevano (AT) e dei credenti che «hanno visto» (NT), ha cercato di ricordarsi e di esprimere la propria testimonianza su di lui. Tali figure non state inventate dalla primitiva comunità cristiana; ma si trovavano, già radicate nell’immaginario di Israele e pertanto possedevano un significato abbastanza delineato. Possiamo citare, ad esempio, figlio dell’uomo, servo, sommo sacerdote, logos, profeta, figlio Dio, messia, pastore, re, sapienza, Emmanuele, Salvatore e Redentore, ecc. Ciascuna figura riveste un significato proveniente da molteplici influssi esterni e da diverse tradizioni Il problema individuare quale figura o titolo può operare come «sintesi».

Sono molti i tentativi che cercano di individuare sostenibili interpretazioni in grado di armonizzare le differenze: sia attraverso la scelta di un titolo che possa fare da sintesi (per esempio, Regeard suggerisce Figlio di Dio); sia attraverso l’accentuazione:un titolo che meglio riesca ad esprimere un’interpretazione risposta delle attese degli uomini di oggi, senza scadere in riduzionismo antropologico (per esempio, L. Boff suggerisce il titolo liberatore 2. Ci pare che la nostra preoccupazione deve essere più attenta alle esigenze della «esperienza spirituale»; per cui noi ci limiteremo a riprendere il suggerimento di CM. Martini, che ci sembra suggestivo e utile alla Spiritualità.

Note

1) Ne raccomandiamo uno in particolare: quello che si trova in Mysterium Salutis, ai volumi V e VI in italiano (III in ted.). Ci riferiamo in particolare ai contributi di N. Füglister, Fondamenti veterotestamentari della cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium salutis, V, pp. 139-287 e R. Schnackenburg, Cristologia del Nuovo Testamento, in ibid., pp. 289-491.

2) E’ la tesi di fondo del suo libro Gesù Cristo liberatore.

 

III – I Padri

Nella giornata alquanto movimentata della risurrezione, secondo la narrazione di Luca, le tre «apparizioni» — dei due «uomini» alle donne (24,4), di Gesù ai due di Emmaus (24,15), e poi agli undici e agli altri (24,36) — conducono a trovare la chiave di interpretazione dei fatti «nuovi» e «incomprensibili» in ciò che era già stato detto e scritto: «da Mosè e da tutti i profeti in tutte le Scritture» (24,27), «nella legge di Mosè, nei profeti e nei salmi» (24,44), L’interpretazione «in prospettiva di Gesù Cristo» di tutta la tradizione non se l’è inventata la comunità dei suoi seguaci, forzando la storia secondo le esigenze a questa estranee, ma è un metodo «interpretativo» che Gesù stesso ha praticato e suggerito, prima e dopo la risurrezione. Si tratta di attualizzazione del progetto interno, di «senso pieno» di intuizioni e fatti, di arricchimento di una tradizione di letture preziose e di cui oggi meglio conosciamo le movenze3.

Gesù Stesso si presenta come «ermeneuta» delle Scritture: «aprendo loro la mente perché comprendessero» (Lc 24,25); proclamando che il testo si realizza in quel momento («oggi per voi si compie»: Lc 4,21) manifestando di voler realizzare le anticipazioni («deve compiersi in me questa parola della Scrittura»: Lc 22,37),ecc. Ancor più, è Gesù stesso che «si riconosce» in alcuni typoi dell’Antico Testamento e attesta di essere in «continuità» con loro.

Si tratta di personaggi storici, come Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Isaia, Giona: cf. Mc 2,25-26; 4,12; 6,35ss; Mt 12,40-42; Lc 4, 25-27; o più recenti, come Giovanni il Battezzatore (Mc 9,13).

Si tratta di forme istituzionali e attività, come l’alleanza o il sacerdozio: Mt 12,6; Mc 14,24.

Si tratta di esperienze di Israele che ora si ripresentano in lui: Mt 4,1-11; Mc 12,10-11.

I disastri e le disgrazie, come anche l’incredulità e il rifiuto, si ripetono ora come in passato; Mc 13,14.24ss; Mt 11,23; 23, 28; Lc 21,24; 23,30.

Le speranze di un nuovo Israele a dimensioni universali stanno per compiersi nella sua chiesa: Mc 13,27; Mt 8,11; 24,31.

Ma la cosa più importante di tutte è tener conto preciso dell’ambiente storico-religioso in cui si è trovato Gesù, degli elementi vitali più influenti e delle forme principali di spiritualità in quell’ambiente.

1. Il contesto

Conoscere il contesto e vedere la sua osmosi con l’esperienza di Gesù, è la prima condizione per una ricerca autentica.

Il centro propulsore e unificante della spiritualità, vissuta in quel momento, ce Io indicano le fonti rabbiniche. Ricordiamo il detto attribuito dalle Pirqe Avot (Massime dei Padri) a Simone il Giusto, membro della grande Assemblea: «Il mondo poggia su tre cose; sulla Torah (cioè l’ammaestramento), sul servizio (il culto a Dio, ‘avodah) e sulle opere di misericordia (ghemilut chasadim4. Recentemente P. Grelot ha sostenuto — e sembra con buon fondamento — che l’attesa di un «mediatore di salvezza» non è centrale nella speranza giudaica, mentre il vero centro sarebbe costituito dal regno di Dio e dall’attaccamento alla Torah, intimamente tra loro connessi5.

La tradizionale concezione — teorica e pratica — del dato veterotestamentario come un complesso di «promesse» (o anche una serie di profezie) che a priori e con tutta lucidità, si riferiscono a Gesù di Nazaret e che in lui trovano un adempimento evidente e confermante per le aspettative dei discepoli, è oggi superata e insostenibile. L’abitudine a frammentare il testo biblico per trovarvi affermazioni anticipatrici (i «dicta probantia»), misconosce e anche forse tradisce il senso vero dei passi che utilizza, sradicandoli dal tessuto originario unitario nel quale solo possono essere perfettamente intesi.

Quello che va invece attestato e conservato è che l’evento di Cristo va interpretato «secondo» la Scrittura; la quale per noi è stata scritta. Bisogna allora individuare non tanto il puro dato letterario o terminologico, ma le categorie fondamentali, entro cui si può comprendere il Cristo redentore nel contesto di tutta la rivelazione. Ciò vale a dire che bisogna evidenziare le categorie «cristologiche» e le strutture «soteriologie» che si mostrano costitutive per un’elaborazione dell’idea di mediazione salvifica.

Più che la raccolta delle prefigurazioni, serve invece cogliere le intenzioni e le aspirazioni che conducono a certe categorie di «mediatore salvifico». E non dimenticare nemmeno gli archetipi mitici, prebiblici e extrabiblici, che possano aver dato il loro influsso.

2. Il fallimento

Un’altra importante osservazione da rilevare; che i tre maggiori tipi di mediatori di salvezza veterotestamentari: re, profeta, sacerdote (cui si dovrebbe aggiungere anche altri titoli o altre maniere di esprimere gli stessi titoli; angelo di JHWH, agnello, Figlio dell’uomo, sapienza, servo, unto, ecc.) non hanno una storia lineare e in espansione. Anzi conoscono divergenze all’interno secondo le varie situazioni storiche o le tragedie nazionali, conoscono discontinuità ed evoluzione, compreso l’inaridimento. Tanto che qualcuno ha detto che l’evoluzione della teologia di mediazione salvifica, sia nella forma della regalità, che in quella del sacerdozio, che in quella del profetismo, non raggiunge nei fatti nessun vertice: piuttosto; si rivela storia di un fallimento.

Ma questa storia di fallimento risulta definitivamente superata in Cristo Egli è compreso secondo il Nuovo Testamento come colui in cui si unificano tutti i tipi di mediatore antecedenti, sia celeste che regale, sacerdotale che profetico.

«Egli attua e unifica quei diversi aspetti escatologici che nell’Antico Testamento risultano ancora frammentati... Definitivamente superata risulta pure la storia del fallimento: in Cristo, in questo mediatore universale, che realizza e al contempo personifica il vero Israele, la teocrazia e la mediazione di salvezza JHWH ed Israele, Dio e l’uomo, si trovano così intimamente congiunti da escludere ormai per sempre ogni possibilità di dissociazione»6

In linea concreta fra gli elementi che strutturano la spiritualità ebraica bisogna anche ricordare; la preghiera, lo Shemah, e il digiuno, il culto e la prassi etica, i vari atteggiamenti verso la Torah, le forme di discepolato e di «compagnia» (i chaverim), le comunità, i poveri, il lavoro, la saggezza di vita.

Note

3) Cf. M. Cimosa, Lettura cristiana dell’Antico Testamento, in A. Bonora, La spiritualità dell’Antico Testamento, EDB, Bologna 1987, pp. 451.514.

4) Pirqe Avot, ed. Y. Colombo, Roma 1977.

5) Cf. il suo libro La speranza ebraica al tempo di Gesù, Borla, Roma 1981.

6) N. Füglister, Fondamenti veterotestamentari della cristologia del Nuovo Testamento, in Mysterium Salutis, V, p. 285.

 

IV - La fisionomia ed il vissuto, spirituali, di Gesù

La fisionomia spirituale che emerge dal Nuovo Testamento circa il volto di Cristo, le linee di forza del suo messaggio e della sua esperienza, gli influssi che ha saputo esercitare immediatamente sui discepoli e attraverso essi sul primo nucleo dei credenti, tutto è oggi già abbastanza studiato. Ultimamente sono state meglio anche sottolineate le attese messianiche del tempo in cui Gesù di Nazaret visse e le idee forza della spiritualità del momento. Gli ultimi 40 anni di studi biblici sono in ciò un periodo di enorme progresso.

La questione sulla quale ancora si discute, ma che trova sempre meno oppositori: è se sia possibile indagare su quale sia stata la vita spirituale di Gesù di Nazaret, cioè il suo vissuto esperienziale di fronte a Dio.

Bultmann è del parere che voler conoscere Gesù secondo la sua individualità naturale sia motivato da un bisogno «carnale», (2Cor 5,16) che non può condurre alla fede vera. Per lui l’indifferenza voluta verso la personalità di Gesù è essenziale alla fede.

Ma oggi la tendenza in uso è quella di tentare di esplorare il vissuto di Gesù, al di là e al di sotto dei messaggio «confezionato. e trasmesso» dalla comunità dei seguaci, la quale lo ha fatto in. categorie non «asettiche». Diversi scrittori attuali di spiritualità biblica, con tutte le cautele del caso, hanno tentato di «ricostruire» il vissuto spirituale di Gesù, e anche la sua «proposta di spiritualità». È quello che hanno cercato di fare per esempio Guillet, Goffi, Fabris, con una certa ampiezza e buon esito. Con meno ampiezza e completezza Barbaglio e Dupont in alcuni studi recenti.

Per cui possiamo ora disporre di vari contributi, anche se alcuni di genere parziale, tesi a ricostruire l’esperienza religiosa — o il vissuto spirituale — di Gesù di Nazaret, da cui derivano anche le proposte (sue) di una nuova etica per i suoi discepoli, perché la condividano.

«Si nota una stretta correlazione, scrive Barbaglio7,a livello di Gesù storico, tra simboli religiosi e codici etici di vita; i primi fondano i secondi e questi traggono la loro giustificazione da quel]i. Il disvelamento del volto di Dio che stava impresso nella sua anima non era fine a se stesso, ma mirava a suscitare comportamenti e atteggiamenti conseguenti nei destinatari della sua parola e azione. Egli stesso si comportava in maniera coerente con le immagini religiose vive nella sua persona,e ad esse si riferiva quando intendeva giustificarsi davanti a precise contestazioni dei suoi critici... Parlando e operando disvelava la complessa immagine di Dio da cui era “agito”, affinché anche gli altri, appropriandosene ne fossero coerentemente animati nella loro vita».

Ci proponiamo ora di tracciare alcuni linee delle principali caratteristiche del vissuto spirituale di Gesù di Nazaret, con riferimento peculiare alle testimonianze dei Vangeli sinottici, senza alcuna pretesa di essere completi.

1. Identità spirituale di Gesù

In base alle testimonianze evangeliche, Giovanni il Battezzatore, che si riconosce precursore del «Messia» era propugnatore di una tendenza riformatrice antistituzionale, moderatamente innovatrice. Egli ha per punto focale l’imminenza del giudizio di Dio, e quindi insiste su gesti dì purificazione (il bagno purificatore) e la conversione degli atteggiamenti (Lc 3,3-18). Egli non è il solo a proporre una religiosità più dinamica e autentica. Altri proponevano cammini simili: si pensi al maestro fondatore della comunità di Qumrân e alla scuola rabbinica di Hillel. Con loro Gesù ha dei rapporti nella visione generale delle cose (per esempio, interiorizzazione), ma anche se ne distacca in maniera inattesa, come manifesta la crisi di Giovanni e dei discepoli nei suoi confronti (Mt 10, 3; Gv 6,66s).

Centrale elemento discriminante è l’annuncio del Regno, come in atto qui e ora, e attivo nella sua persona. «Cristo si presenta come I’autobasileia”, dice Origene. Il tema del Regno era uno dei più tradizionali nella liturgia del tempio e nell’assemblea sinagogale. Ma Gesù non fa riferimento a questi contesti per proclamarsi «realizzatore». E per una investitura profetica, secondo Luca, che Gesù prende l’iniziativa della proclamazione, e ciò avviene nella scena programmatica di Nazaret (Lc 4,18; Is 61,1).

Un atteggiamento spirituale di rilievo di Gesù è la sua esperienza di orante. Luca soprattutto rileva questo pregare con frequenza e in situazioni di vita molto diverse. Oltre al clima generale della preghiera, alla sobrietà degli atteggiamenti è importante sottolineare il valore del titolo Abba, che va ritenuto originale e il «movimento nello Spirito» (Lc 10,21-22). Tuttavia la sobrietà estrema sul suo «intimo», nonché i probabili ritocchi operati dalla mentalità della comunità, non consentono di ricostruire con tutta esattezza il «vissuto» di Gesù, anche se appaiono evidenti sia la sua libertà e la fiducia, che la profondità del rapporto figlio-padre.

2. L’immagine di Dio

È molto importante sapere quale immagine Gesù si fa e annuncia di Dio, perché qui sta uno dei focus della sua stessa spiritualità. Le circa 40 parabole sono forse lo strumento simbolico e intenzionale più utile a scoprirlo.8 «Dio di Gesù» che emerge attraverso le parabole è un Dio che si fa vicino, e in particolare si fa attento a tutti gli «emarginati». Dalla parabola della pecorella smarrita (Mt 18,12-14; Lc 15,4-7) a quella del figlio prodigo (Lc 15, 11-32), da quella degli operai alla vigna (Mt 20, 1-15) a quelle del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10-14), degli invitati alle nozze (Lc 14,16-24; Mt 22,2-10) e fino all’inno di giubilo (Mt 11,25-26), i testi offrono un’immagine di Dio dai tratti fra loro omogenei. Non un Dio dalla parte degli osservanti e dei pii arroganti, garante dei privilegi e della sapienza insuperbita. Gesù propone piuttosto un Dio che prende la parte degli esclusi, degli ultimi, dei semplici, dei peccatori.

«Il Dio di Gesù è un Dio che non si lascia annettere da una casta o da un gruppo chiuso. La sua maniera di essere il Dio di tutti lo fa anzitutto il Dio degli esclusi e di coloro per i quali la società religiosa benpensante non ha che disprezzo. Il discorso che Gesù tiene su Dio lo condurrà ben lontano, poiché in fin dei conti il Dio di Gesù Cristo sarà il Dio di un Messia crocifisso».9

Ma c’è anche un’altra immagine di Dio: è quella di un Dio che non accetta mezze misure, che esige la risposta totale dell’uomo. Una risposta di imitazione della sua bontà (cf. il servo impietoso: Mt 18,23-34), la fiducia anche di fronte al fallimento (cf. grano che muore: Mc 4,3-8), la certezza di una storia feconda anche se misteriosa (crescita della spiga: Mc 6, 26-32; cf. anche Mt 13,31-33; Lc 13,18-21). Il vertice comunque e insieme la profondità del rapporto figlio-padre si incentra nella vicenda pasquale, dalla preghiera del Getsemani al grido sulla croce. Nell’esperienza di abbandono di Dio, apparentemente assente, si manifesta la confidenza estrema nel Padre, congiunta con la volontà di perdono e di misericordia per tutti.

Così Gesù, che ha fatto insieme esperienza di un Dio vicino e nello stesso tempo assente, impone globalmente una spiritualità di «animosa fides» e di speranza disarmante, alimentata più dal fallimento che dalla vittoria immediata.

3. L’amore come progetto dl vita

A somiglianza degli altri maestri, anche Gesù identifica la dottrina di «tutta la legge e i profeti» (Mt 22,40 e parall.) nel precetto dell’amore, spinto però ad una radicalità estrema: fino al nemico, a colui che ci fa del male o ci odia. Un amore «smisurato» che è riconosciuto anzitutto in Dio misericordioso e che, per la relazione filiale — «perché siate figli del Padre vostro» (Mt 5,45; Lc 6,35) — si fa naturale atteggiamento dei discepoli.

«L’amore di Dio, vissuto nella relazione vitale di figlio-padre, non solo è un modello dell’amore tra gli uomini, ma è la fonte interiore delle nuove relazioni definite in termini di amore gratuito e universale».10

L’interiorizzazione di questo amore già era stata intuita da alcuni profeti, ma Gesù lo fonda sulla relazione profonda col Padre, dal quale si riceve come dono e dinamismo. E per questo può assumere dimensioni umanamente impossibili, come quella del perdono totale e gratuito, che a sua volta chiama ad entrare nella dinamica dell’amore anche il colpevole (Lc 7,47).

4. Rinnovamento dei rapporti nei gruppi sociali

Rientrano nella prospettiva religiosa di Gesù anche relazioni umane rinnovate: ma anche in questo caso si tratta di motivazione decisamente religiosa. I settori più evidenti sono i seguenti.

I rapporti coniugali, che si devono basare sulla fedeltà reciproca e indissolubile, come inscritta nel progetto creatore; ma la «chiamata» di Dio può giustificare e sostenere anche una situazione di solitudine affettiva, non priva di problemi anche se serena (Mc 10,28-30 e parall.).

I rapporti familiari, per un certo verso vengono ridimensionati nei confronti del primato della sequela di Cristo e della relazione di «famiglia» nata dalla fecondità della Parola (Mc 3,33-35). Ma anche si notano nella vita di Gesù degli elementi di affettuosità, i di attenzione al dolore e alle gioie delle famiglie amiche, come quelle di Lazzaro e di Pietro.

I rapporti sociali sembrano orientati in maniera contro-culturale, per la preminenza della cifra del «servo», che manifesta un rovesciamento dei ruoli e la preminenza degli emarginati nei confronti del Regno. I testi sulle beatitudini, sul rapporto con i peccatori, la rivalutazione dei bambini per entrare nel «Regno» ne sono una dimostrazione. Gesù stesso presenta la sua fisionomia come segnata dal modello del «servo» (cf. Mc 10,42-45).

«Gesù si è fatto “servo” all’interno del gruppo per libera scelta come prolungamento e attuazione dei suo essere “servo” davanti a Dio. La sua totale dedizione al regno di Dio si traduce nelle relazioni con i discepoli in uno stile di piena disponibilità. Di qui matura il modello alternativo dell’autorità fondata su “rapporti di amore”». 11

L’uso dei beni materiali occupa un evidente rilievo nella spiritualità di Gesù. Non si può certo affermare che Gesù ha provato la condizione di miseria o di schiavitù. Ha avuto, durante gli anni di attività pubblica, amici generosi e simpatizzanti che lo accoglievano; e nel suo gruppo c’erano disponibilità finanziarie (c’era una cassa comune: Gv 12,6) e gente facoltosa che lo sosteneva, come quel gruppo di donne che lo aiutavano «coi loro beni» (Lc 8, 1s). Ma è un fatto che il tema dei poveri e della vigilanza di fronte all’idolatria dei beni materiali, è frequente nei suoi sermoni e parabole. La ragione è certamente di origine religiosa: la preminen.za del regno di Dio su tutte le cose esige quindi una gerarchia di valori differente da quella della mentalità corrente.

5. Il vertice

Il vertice dell’esperienza spirituale e del modello di vita di Gesù si ha nella sua esperienza del limite e della morte violenta. Egli non era affatto indifferente per la vita: l’amava, la difendeva, strappava dal male i sofferenti, perfino strappava alla morte le sue prede. Godeva dell’amicizia sincera e anche della tavola ospitale: perché si trovava bene tra amici. Amante della vita e suo difensore, dovette, affrontare la violenza e perfino la morte, proprio come ultima tappa del suo scontro con tutto ciò che le produceva, magari ammantato di «pretesto» sacro. E si trattava di poteri economici, politici, religiosi, culturali .

Gesù «vive» la propria morte «consegnandosi» per restare fedele fino in fondo, come ultimo gesto di libertà nell’amore. E’ morto perché amava la vita: e l’amava tanto fino a metterla in gioco per recuperarla per tutti «Il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per essere servo e dare la vita in riscatto per molti» (Mc 10,45)

La sua fedeltà non sta solo nel morire per noi, ma anche nell’inventare altre modalità, oltre la morte, per essere per noi vita e speranza assolute: e la istituzione dell‘eucaristia memoriale {del suo amore e del suo sangue «per la nuova alleanza», sta a dimostrare la fantasia creativa di colui che ci amò in maniera «divina».

«Perché le parole profetiche della cena divengano realtà fino alla fine de secoli bisogna che egli spiri e rimetta a Dio il suo spirito (Lc 23,46). Allora, spogliato di tutti i limiti e accolto dal Padre nella sua gloria, tutto quello che egli è, il suo corpo, la sua vita, le sue parole e i suoi gesti si trovano a portare fino alle estremità dell’universo e fino alla fine della storia la potenza dello Spirito (At 2,33). Dal costato aperto per sempre, dal corpo liberato dalla morte, nascono la chiesa e i sacramenti (Gv 19,34; 20, 22)».

6. Il «vissuto spirituale» di Gesù Risorto

Non c’è dubbio che l’esperienza spirituale di Gesù risorto rimane un mondo misterioso in cui non si penetra, perché è il mondo del Dio invisibile. Non è in continuità semplice con la vita di: Gesù, è un evento che appartiene ad un altro ordine, e non si può «umanamente» verificare. Attraverso la risurrezione Gesù di Nazaret passa nella vita definitiva e piena, è strappato alla nostra finitudine, che era anche la sua (volontariamente assunta). Proprio perché è un «evento escatologico», che va collocato nel Regno della fine, nel futuro della storia, esso va interpretato attraverso i «segni».

meno uomo di Gesù sofferente: egli ha ormai compiuto definitivamente la vocazione di uomo, la rivelazione dell’uomo in Gesù «nei giorni della sua carne». E’ il crocifisso che diventa risorto e il risorto rimane il crocifisso: come ricorda Gesù stesso a Tommaso (Gv 20,27) e come mostra la visione apocalittica dell’agnello immolato che riceve potenza, onore e gloria (Ap 5,9-l2).12

La risurrezione offre l’indicazione del senso misterico della vita di Gesù e anche della nostra esistenza nello Spirito.

«Nel corso della vita di Gesù la manifestazione del suo essere era inseparabile dal suo agire salvifico. Nel sacrificio della sua morte egli si è compiuto definitivamente come Figlio con la sua obbedienza, ma nello stesso tempo portava a compimento anche il ritorno dell’uomo verso Dio, in un amore più forte dell’odio e in un’offerta assoluta di riconciliazione. Nella sua risurrezione rimane la stessa solidarietà tra la persona e la missione: vi scopriamo ad un tempo l’identità di Gesù definitivamente manifestata e il compimento della sua missione di salvezza. La risurrezione ha una dimensione propriamente salvifica; ci rivela anche la profondità e la fecondità per la nostra salvezza di ciò che Gesù ha compiuto sulla croce».

È un orizzonte che già Paolo amava illustrare a più riprese, chiamando a vivere «da risorti», «in novità di vita», quale «nuovo impasto», cui Dio stesso ha messo mano. Ma oggi in modo peculiare si fissa l’attenzione sulla risurrezione come il paradigma chiave di tutta la vita ecclesiale e della genuina spiritualità cristiana.

Dice Guillet:

«Le parole di Gesù risuscitato non hanno niente di confidenza, nemmeno di conversazione; esse non mostrano le sue reazioni. Quando parla della sua passione ai discepoli di Emmaus, Gesù non ritorna sul dramma che ha vissuto, riprende l’insegnamento che aveva dato. E appena i suoi hanno ritrovato la fede, li abbandona affidando loro la missione: “Andate” (Mt 28,19). Così l’esperienza della fede cristiana non è la scoperta di un personaggio nuovo, ma al contrario la scoperta dell’identità fra Crocifisso e Risorto. E se il Crocifisso è ora Risorto, questo fatto interessa tutta l’umanità e deve essere annunciato ad ogni creatura. 13

Note

7) Bargaglio, La spiritualità, p. 68

8) Cf. CM. Martini, Perché Gesù parlava in parabole?, EDB-EMI, Bologna 1995.

9) Dupont, Le Dieu de Jésus, p. 329.

10) Fabris, La spirirtualità, p. 102.

11) Fabris, La spirirtualità, p. 15.

12) Cf. X. Léon Dufour, Risurrezione di Gesù e messaggio pasquale, Paoline, Roma, 1973.

13) Jésus, in DS 8, 1092.

 

 

V – Unitarietà dei Vangeli

Ci sembra abbastanza suggestivo, anche se rimane nell’ambito dell’ipotesi di interpretazione quanto propone a questo riguardo C. M. Martini. Egli tenta di cogliere una concatenazione unitaria nei quattro Vangeli, in maniera da mostrare il carattere progressivo del loro discorso, e i riflessi «esistenziali» che sembrano venire esplicitati.

Martini parte da una constatazione facilmente verificabile: spesso si trova nei testi del NT il richiamo alla progressiva maturazione del battezzato nella sua esperienza di fede. Talora, come in Atti 2, si parla esplicitamente di alcuni momenti successivi dell’introduzione nel mistero cristiano. Anche dopo il catecumenato. vi è un periodo di istruzione, collegato con una più intensa partecipazione alla vita comunitaria; come Ebrei attesta: v’è «insegnamento iniziale su Cristo», cui deve seguire una istruzione più completa e approfondita (Eb 6,1-6).

A questo punto si domanda se oltre alla coscienza evidente di un itinerario da percorrere, esisteva anche una qualche forma di«manuale» che introducesse alle varie tappe, che accompagnasse i particolari momenti della maturazione cristiana. Egli trova che i quattro Vangeli, diversi per motivi storici e redazionali che tutti conosciamo, possono essere letti — nella successione Marco-Matteo-Luca-Giovanni – come esempio di risposta a problemi o gradi diversi dell’esperienza del credente. Emerge così l’ipotesi di quattro momenti successivi della maturazione cristiana: iniziazione catecumenale, introduzione alla vita comunitaria, avviamento all’evangelizzazione e maturità contemplativa. Nel saggio citato Martini si limita a cogliere gli aspetti dell’appropriata «didascalia», mentre si potrebbero cercare anche altri suggerimenti: per esempio sulla preghiera, sui sacramenti, sui carismi, sulla diaconia.

1. Marco: il Vangelo del catecumeno. E’ la tappa della conversione: come cambiamento dell’orizzonte, capovolgimento di idee. Si tratta di far percorrere al catecumeno che conosce qualcosa dell’esperienza cristiana (ma con molto mistero), un itinerario che conduce ad un impatto diretto con il mistero di Cristo, alla scoperta in Gesù Cristo crocifisso del vero volto di Dio. Il pagano/ catecumeno che si avvicina al Vangelo può essere molto religioso, con mentalità, religiosa sovraccarica di «divinità»: deve scoprire Dio che non ci appartiene, che viene, che ci coinvolge, che dispone di noi, che non evita neppure la croce per nostro amore. Gesù col suo modo di vivere e morire ci mostra il vero volto del vero Dio. Di fronte a questa scena, come il centurione si deve prendere posizione: «Veramente costui era il Figlio di Dio!» (Mc 15,39).

La trasformazione interiore richiesta è espressa bene in Mc 7,21- 23: «Dal cuore nascono le intenzioni cattive». Soltanto col battesimo ci si libererà dalle complicità malvagie, riconoscendo di aver bisogno della salvezza autentica (cf. Mc 10,47).

2. Matteo: il manuale del catechista: perché contiene ben ordinato e suddiviso tutto il materiale con cui iniziare alla vita ecclesiale. Le grandi linee del mistero del Regno: il discorso della montagna (5-7); il discorso della missione (10); il discorso in parabole (13); il discorso ecclesiale (18); il discorso escatologico (24- 25). Il cristiano deve imparare cosa significa vivere da figlio di Dio nella chiesa visibile. Due chiavi di interpretazione possono essere Mt 28,20: «Ecco io sono con voi fino alla fine del mondo» e i testi del giudizio e del perdono (25,31-46; 18). Significa che il neobattezzato deve imparare che si deve riconoscere il Signore in colui che Dio ha inviato, e anche in colui che egli incontra nella sua comunità, nel perdono comunitario, nell’attenzione ai piccoli, nella mutua accoglienza. E questa la maniera di stare nella chiesa del Signore.

3. Luca: Il Vangelo del teologo. Ha di fronte il cristiano che si rende conto di aver abbracciato Cristo, di essere non solo in comunità d’amore, ma anche cosciente di stare nel mondo con persecuzioni e ostilità, di doversi spiegare, collaborare con altri «credenti indifferenti», con doverosi tagli verso le proprie radici (le rinunce). Importante è anche la relazione con la radice giudaica, cui sono state fatte le promesse. Qual è il senso e il compito di una comunità cristiana nel mondo? Attraverso il richiamo alla fraternità, al perdono, alla misericordia, alla preghiera (primo momento; fino al c. 9); attraverso il diradarsi dei miracoli e l’emergere di parole dure e intransigenti, invitanti a rischi difficili (dal c. 9 alla croce); attraverso il mistero della croce, culmine sconcertante e difficile da accettare: Luca vuole educare alla vera maturità. Solo una maturazione profonda che sa anche entrare nel mistero della croce è in grado di dire parole «autentiche», cariche di senso anche pér gli altri, i pagani. Luca vuole provare che tutto quello che sotto l’impulso del Vangelo si realizza è parte del piano di Dio. E questo vale anche per la diffusione delle comunità paoline nel mondo greco e romano. Esse sono frutto della «solidità» del Vangelo (asfàleia: 1Ts 5,3), sviluppo legittimo delle premesse poste da Gesù e dai dodici. Come si vede si alimenta una mentalità più ampia e aperta al mondo intero (di fronte al quale ci si pone anche attraverso un linguaggio che tenga conto delle categorie culturali altrui e delle tradizioni religiose già ricche di impulsi positivi).

4. Giovanni: il Vangelo dell’anziano. Il cristiano che è passato per una serie di esperienze, che hanno creato in lui molto spazio a Cristo, ha raggiunto una maturità solida: essa diviene come una «parola evangelica». E allora si potrebbe domandare: cosa significa ora tutto questo? C’è un elemento unitario? Giovanni non parla molto di riti, precetti, ma moltiplica le confessioni: che si concentrano in un’unica affermazione: il Padre ci dona il Figlio e il Figlio ci dona lo Spirito e in questo noi abbiamo tutto il succo dell’esperienza vissuta. La risposta al dono del Padre è la pistis, l’atteggiamento di fede, che non è gnosi, ma conoscenza sapienziale. Il quarto Vangelo educa a sentire la presenza dell’unico dono divino nella molteplicità delle esperienze ecclesiali. Con una misura che si può dire giustamente contemplativa, unificante, mistica. Il culmine per Giovanni è l’esperienza della gloria risplendente nella croce: quando lo Spirito dona la forza di offrirsi perdonando il rifiuto senza rimpianti, senza recriminazioni né risentimenti.

Seguendo questa prospettiva, si vede chiaramente che l’annuncio del Vangelo e la realizzazione di quanto esso propone si presenta come un’esperienza aperta, disponibile, al confronto, capace di dare spiegazioni con serenità e rispetto. Ma anche in grado di condurre - attraverso gradualità e proporzioni - al mistero profondo e alla fedeltà alla storia.

E conclude Martini:

«A un cristianesimo profetico, liberante, buttato nell’azione redentiva del prossimo, si oppone quasi come relitto del passato un cristianesimo mistico, essenziale, posto nella contemplazione di Dio. E noi vediamo dalla considerazione dei Vangeli, come tutti questi aspetti, senza divisioni, senza ambiguità sono integrati. Certamente prevale in Luca l’esperienza profetica e in Giovanni l’esperienza mistica. Ma ambedue si integrano nell’unità della persona, in una sintesi operativa originale, libera da opposizioni schematiche che, mi pare, ha molto da insegnare anche alle troppo facili mode da cui ci lasciamo prendere anche nella chiesa del nostro tempo»14.

Note

14) Mistica,p. 201.

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Salvezza in Cristo e vita cristiana

di Pietro Rossano


L’EVENTO CRISTIANO


I discepoli di Gesù

12. Mentre viveva in singolare intimità di preghiera e di colloquio con Dio suo Padre, Gesù manifestò sempre una profonda solidarietà verso gli uomini. Ebbe rapporti di benevolenza e di salvezza con tutti, uomini e donne, giusti e peccatori, poveri e ricchi, connazionali e stranieri; se dimostrò preferenze, queste furono per i sofferenti, i disperati, gli umili. Ebbe per la persona umana un rispetto quale nessuno mai prima aveva manifestato; una grande e sana libertà regnò sempre attorno a lui.

13. La folla si assiepava sui suoi passi e lo seguiva nel suo cammino, ma fin dall’inizio egli si volle circondare di discepoli e collaboratori particolari. Come riferiscono i Vangeli, dopo aver pregato il Padre, egli chiamò a sé quelli che voleva, e ne costituì Dodici perché stessero con lui e per mandarli a predicare il suo messaggio. Per questo diede loro il nome di Apostoli, che significa « inviati ». Ad essi comunicò particolarmente il suo messaggio, la sua missione e i suoi poteri; li vediamo quindi, già vivente Gesù, predicare nei villaggi e nelle località della Palestina. Nel gruppo degli Apostoli dedicò particolare attenzione a Pietro, al quale affidò la direzione e la custodia di tutti quelli che avrebbero creduto in lui, dicendo: « Conferma i tuoi fratelli ».

14. A Pietro e ai Dodici promise una particolare assistenza dello Spirito Santo per illuminarli e dirigerli nella verità, al fine di trasmettere e interpretare fedelmente il suo messaggio a tutte le genti. Essi saranno i depositari e i responsabili sulla terra dell’opera della salvezza da lui inaugurata. A tal fine diede loro il potere di compiere efficacemente atti significativi, come il battesimo, il perdono dei peccati e la celebrazione del mistero della salvezza, (1) sul modello di ciò che egli aveva fatto alla vigilia del suo arresto, quando, nel corso dell’ ultima cena con i Dodici, benedisse il pane e il calice del vino dicendo: «Questo è il mio corpo che viene dato per voi... Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene sparso per voi: fate questo in memoria di me»,

15. Prima di lasciare la terra, dopo la risurrezione, promise agli Apostoli lo Spirito Santo che avrebbero ricevuto tra breve per essere suoi araldi e testimoni su tutta la terra; poi conferì loro questo mandato fondamentale: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra; andate dunque e ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quello che vi ho ordinato: ed ecco io sono con voi fino alla fine del mondo». Ed in segno di autorità davanti agli uomini diede loro il potere di operare miracoli in nome di Dio, come realmente avvenne.

16. Gli Apostoli iniziarono la loro missione il giorno stesso in cui ricevettero lo Spirito Santo, nella festa ebraica della Pentecoste, 50 giorni dopo la risurrezione di Gesù, e pochi giorni dopo la sua dipartita dalla terra. Pietro, i Dodici e i loro primi collaboratori presero ad annunziare e testimoniare pubblicamente, con franchezza, la «buona novella» della salvezza offerta da Dio in Gesù Cristo. «Sappiate tutti con certezza, proclamava san Pietro, che Dio ha costituito Signore e salvatore quel Gesù che voi avete messo in croce». «Fungiamo da ambasciatori per Cristo» scriveva l’apostolo Paolo, «e Dio esorta per bocca nostra; vi invitiamo dunque in nome di Cristo: riconciliatevi con Dio». E l’apostolo san Giovanni: « Quello che è avvenuto, che abbiamo ascoltato, che abbiamo visto con i nostri occhi, che abbiamo contemplato, e che le nostre mani hanno toccato.., lo annunciamo a voi, affinché anche voi abbiate comunione con noi, e la nostra comunione sia con Dio Padre e con il Figlio suo Gesù.. affinché la vostra gioia sia piena ».

17. Coloro che accettavano la testimonianza degli Apostoli, ricevevano il battesimo e formavano il primo nucleo della «Chiesa» di Dio, termine greco che significa « assemblea», «convocazione», Le testimonianze storiche rivelano chiaramente che la Chiesa primitiva radunava persone provenienti dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa. Un documento contemporaneo descrive la Chiesa della prima ora così: «Erano perseveranti nell’ insegnamento degli Apostoli e nell’unione, nello spezzamento del pane (eucaristia) (2) e nelle preghiere…. prendendo il cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo. E il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che venivano alla salvezza».

1) Sul battesimo, il perdono dei peccati e la celebrazione dell’eucaristia vedi i nn. 21 e 22 del c. « La vita cristiana » e il n. 31 del c. « La sapienza cristiana».

2) L’eucaristia è la ripetizione del gesto compiuto da Gesù nella sua ultima cena; sulla natura e significato di essa vedasi il n. 22 e il n. 37 del c. «La vita cristiana» e il n. 31 del c.«sapienza cristiana»

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Salvezza e guarigione.
Una prospettiva teologica africana

di Mary Getui


Salvezza e guarigione sono in relazione l'una con l'altra, in quanto ciascuna di esse, ed entrambe, implicano una restaurazione laddove c'è stata rottura, un ritorno alla totalità, al benessere, alla salute e alla pienezza della vita.

Una prospettiva cristiana africana della salvezza e della guarigione deve prendere in considerazione la comprensione cristiana e il suo coinvolgimento in materia, così come la comprensione autoctona africana. I due sistemi dì credenze hanno molto in comune riguardo a ciò che la salvezza e la guarigione implicano, agli ostacoli sulla strada della loro realizzazione e del loro raggiungimento, ai passi necessari per affrontare tali ostacoli. Le differenze, se esistono, saranno più sulla diversità di accento. Questa discussione presenta un approccio collettivo, che puntualizza gli aspetti unici e appropriati.

Salvezza e guarigione sono centrate sull'apprezzamento e il rispetto per la vita come dono di Dio e per i beni e valori che contribuiscono alla pienezza della vita, come la buona relazione con Dio, la fertilità della terra, il cibo, la salute dei bambini e delle famiglie, il rispetto per la dignità umana, la sicurezza, la giustizia, la salute, la libertà dei prigionieri, il riso e la gioia, la speranza, l'unità, il lavoro, la vitalità e la spiritualità profonda.

Purtroppo, la situazione non può essere considerata ideale, dal momento che la pienezza della vita è assente o sperimentata parzialmente a causa della realtà dell'esistenza umana, caratterizzata dalla povertà, dalla fame, dalle malattie, dalla sofferenza, dalla disperazione, dalla desolazione, da relazioni familiari spezzate o conflittuali, dai conflitti etnici, a livello nazionale e internazionale, dalla devastazione dell'ambiente, dalle inondazioni, dagli incidenti, dai rifugiati, dalla solitudine, dalla mancanza di abitazione, dalla corruzione di massa e cronica, dalla decadenza morale e da carenti politiche di assistenza sociale.

Mentre la comprensione cristiana della salvezza enfatizza la dimensione individuale, quella autoctona africana riconosce che la vita è un ciclo che incorpora esseri vivi, quelli che non sono nati e persino i morti. I vivi hanno la grande responsabilità, mediante uno stile di vita morale retto, di preparare il cammino per una vita sana a coloro che non sono ancora nati. I vivi devono anche mantenere una relazione cordiale con coloro che sono morti, compiendo certi doveri, come quello di mantenere il buon nome della famiglia, di nuovo attraverso una vita morale retta.

La comprensione cristiana della salvezza non si limita alla realizzazione escatologica futura, ma la enfatizza. Il sistema di credenze africano vede la vita nella sua totalità, guidato dall'importante considerazione - indicata nei vari miti dell'origine/creazione - che la vita ha un inizio, un proposito e un destino dati da Dio.

L'amalgama di questi due sistemi di credenze si può riassumere nell'idea che la salvezza non è limitata al piano spirituale ma abbraccia la vita intera: la dimensione psicologica, mentale, emotiva, sociale e anche cosmica. Ciò si applica anche alla guarigione, che si riferisce non solo al benessere fisico dell'individuo, ma alla guarigione interiore e alla ricostruzione delle relazioni spezzate, come a una sana relazione con la natura. Per esempio, esistono vari tabù relativi all'uso sano delle risorse come l'acqua e la terra e al rispetto della flora e della fauna.

Le ragioni del perché l'ideale non si realizza e, pertanto, della necessità di guarigione e salvezza sono varie. Si possono ordinare su una scala che va dalla deviazione dal piano divino fino al modo in cui gli individui si relazionano con se stessi, con gli altri e con il mondo intero, tanto visibile quanto invisibile.

Nello sforzo di cercare la guarigione, si sono adottate varie soluzioni. Ci si può rivolgere alla medicina tradizionale, visitando ospedali e altre postazioni mediche create e amministrare dai missionari. Molto spesso, tuttavia, la gente si avvicina all'eredità culturale africana attraverso un intermediario e, segretamente, consulta curanderos che variano dagli indovini che indicano la causa dell'infermità agli erboristi o a qualunque altro specialista che offra una cura. Il rimedio può essere preventivo o curativo. La consultazione attraverso un intermediario o in segreto avviene perché molte delle principali Chiese tendono a condannare le pratiche curative indigene africane. Le Chiese africane carismatiche ed evangeliche accettano maggiormente le pratiche africane autoctone.

I servizi di guarigione nelle Chiese cristiane variano dall'imposizione delle mani agli infermi alle visite a persone malate in casa e all'ospedale, all'unzione con olio consacrato e acqua benedetta e altri simboli speciali. Considerando che la guarigione include altri aspetti della vita, le preghiere per la buona salute si applicano anche ad altre necessità, come ad esempio quelle di coloro che sono stati danneggiati socialmente perché la loro famiglia è stata distrutta o di coloro che sono stati abbandonati. Le preghiere legate alla cura o alla prosperità si rivolgono nel momento in cui la gente intraprende qualcosa di nuovo, come un nuovo lavoro, una nuova casa, o quando si celebra un matrimonio, un compleanno o un anniversario, quando si costruisce un nuovo edificio o quando si ara il campo per la semina, o quando si utilizzano nuovi strumenti di lavoro. Il rito della riconciliazione invoca anch'esso la cura. Tali servizi sono condotti principalmente da sacerdoti, ma è comune che anche i laici “unti” partecipino ad essi. La partecipazione di piccole comunità cristiane, gruppi di preghiera e di studio biblico è anch'essa considerevole.

Un elemento significativo della guarigione è dato dalle testimonianze di quanti hanno sperimentato o assistito a casi particolarmente straordinari di cure ricevute. Tra questi casi straordinari vi sono quelli che riguardano l'infertilità, le malattie croniche, le benedizioni ricevute sotto forma di lavoro o di matrimonio. Si esprimono certe riserve sul carattere genuino o fraudolento di queste cure. E questo continua a destare sospetti, ma la tendenza continua ad essere viva e in crescita.

Anche la salvezza ha creato controversie in circoli cristiani, quando viene interpretata come destinata unicamente a coloro che sono “nati di nuovo", perché hanno vissuto un'esperienza o una rivelazione speciale. Essi sono stati accusati di adottare un atteggiamento "più papista del papa". Ciò provoca conflitto e malintesi.

Risulta chiaro come da un contesto teologico africano la salvezza e la guarigione siano intimamente legate. La conclusione per entrambe è che ogni individuo riconosce e promuove la volontà di Dio per l'esistenza umana, che si percepisce come pienezza di vita nel passato, nel presente e nel futuro. E chiaro anche che la pienezza di vita può essere ostacolata o può rimanere incompleta a causa delle azioni umane e delle loro idee su Dio, su se stessi e sugli altri, inclusa la natura. Mentre la salvezza può essere più orientata verso la pienezza ultima della vita alla fine dei tempi, la guarigione è vincolata all'esistenza quotidiana.

(da Adista, n. 86, 02.12.2006, pp. 14-15)
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