di Jon Sobrino
1. Introduzione - il bisogno di interpellanza alla chiesa odierna
I martiri, presi nel loro insieme come martiri gesuanici, che vivono e muoiono come Gesù, e come popoli crocifissi, che vivono e muoiono come il servo di Jahweh (1), offrono alla chiesa luce e salvezza, come è stato già detto in precedenti articoli. In questo contributo vogliamo insistere sul fatto che essi sono pure interpellanza, cosa che è buona e necessaria.
Paragonata a quella che è sorta dal Vaticano Il, la chiesa universale vive un processo di involuzione. Certamente ci sono numerosi gruppi di cristiani solidali con il dolore del mondo, profetici e utopici, che cercano di rinnovare lo spirito e la fede. E anche oggi vi sono alcuni martiri gesuanici, soprattutto in Africa. Ma nel suo insieme la chiesa si sta configurando come istituzione alla ricerca di una “pastorale del successo" (Pedro Trigo) che mantenga o le restituisca presenza sociale e una dimensione di massa. Per paragonarla a quella di Medellin bastano queste parole di J. Comblin:
“Oggigiorno l'impressione dominante è che la gran parte delle Chiese, nei pastori e nelle pecore, sta tornando al passato. Mantiene lo stesso linguaggio, ma la pratica è diversa. Torna alle sagrestie e alle case parrocchiali. Non ascolta più la voce delle maggioranze povere e ascolta di più il suo pubblico tradizionale, quello che partecipa al culto. La Chiesa torna a preoccuparsi di se stessa. Cerca di recuperare posizioni di potere culturale, politico e perfino economico. Torna ad alimentare i sentimenti religiosi, le emozioni. Non le manca la clientela, perché il modello neoliberale ha fatto crescere l'angoscia, la disperazione, l'insicurezza, lo sconcerto dei popoli” (2).
Per invertire questa involuzione non è sufficiente riconoscere che la chiesa è peccatrice, casta meretrix, e chiedere perdono nel modo in cui è stato fatto negli ultimi anni dal vertice ecclesiale; in quanto astratta e poco coinvolta, infatti, la confessione del proprio peccato è stata inefficace. La domanda è dunque cosa può interpellare la chiesa.
Indubbiamente può interpellarla Dio, ma, a causa della sua trascendenza, Dio può rimanere distante e la sua interpellanza rimanere inascoltata. E, come ogni creatura, la chiesa fa in modo che così sia. Anni addietro, in epoca di antimarxismo viscerale, ho scritto che “la chiesa non ha paura del marxismo, ma di Dio". Può pure interpellarla Gesù Cristo, presenza storica del Dio trascendente, ma anche Gesù Cristo può essere situato in una lontananza senza volto né vigore interpellante. E quando si presagisce che il suo avvicinarsi è reale, allora può succedere quanto è accaduto nella leggenda del grande Inquisitore: il cardinale arcivescovo di Siviglia dice a Cristo: “Signore, non tornare".
Ma la fede cristiana è ostinatamente incarnazionale. La chiesa deve confessare che Cristo è presente nell'eucaristia, nella celebrazione della parola, nella comunità, nei pastori. Ed essa può essere interpellata da tutto questo, anche se può disattendere queste interpellanze. Ma c'è un'ultima specificazione - che in realtà è la prima - della presenza di Dio e del suo Cristo: “Ha voluto identificarsi con speciale tenerezza con i più deboli e poveri" (i Documenti della Terza conferenza genera/e dell'episcopato latinoamericano, Puebla 1979, n. 196). I poveri sono la massima presenza di Cristo nella storia: “vicari di Cristo" venivano chiamati nel Medioevo. Essi, pertanto, sono buona novella ed evangelizzano la chiesa. Ma essi sono pure lamento e chiamano alla conversione (Puebla 1979, n. 1147). Il motivo formale è stato già detto: sono presenza di Cristo. Il motivo materia/e è che i loro lamenti non possono essere zittiti (i Documenti della Seconda conferenza generale dell'episcopato latinoamericano, Medellin 1968; I: Giustizia, 1).
Facciamo ancora un passo. I poveri e i loro lamenti trovano la massima manifestazione nei martiri - in quelli gesuanici e, soprattutto, nei popoli crocifissi -, e per questo essi hanno la massima capacità di interpellare la chiesa. Dal punto di vista quantitativo essi sono tanto numerosi che solo con cecità e sordità colpevoli è possibile ignorarli. Dal punto di vista qualitativo è tale l'orrore che manifestano, che sono in grado di scuotere coscienze - e spingere pure alla conversione. E, inoltre, non permettono di utilizzare la fallace scusa cui la chiesa è incline - solo Dio può interpellarla -, perché Dio è in loro.
L'interpellanza dei martiri gesuanici si verifica più puntualmente in determinate epoche della storia (gli anni successivi a Medellin sono stati una di queste epoche in America Latina, e pure in Africa e in Asia), anche se, per interpellare, rimane sempre il loro ricordo. L'interpellanza dei popoli crocifissi e permanente, come lo è il mysterium inquitatis che permea la storia.
Abbiamo fatto un piccolo carosello teologico per mostrare quale sia la radice più profonda ed efficace dell'interpellanza alla chiesa, anche se questa radice - poveri, vittime e martiri - è palmare per qualunque cuore di carne. E tuttavia ci è sembrato importante farlo, tenendo conto che si tratta di interpellare la chiesa. Questa non può difendersi da una interpellanza che viene da loro, perché sono loro la massima presenza di Dio. E dato che l'interpellanza proviene da loro, e non da altro, l'interpellanza di fondo non verterà su alcunché di generico, ma sul nucleo stesso della fede cristiana: la misericordia, l'amore e la difesa del povero, l'identificazione con le vittime.
La conclusione è che la chiesa può essere interpellata e, come diceva mons. Romero, ne ha bisogno: “Abbiamo bisogno che qualcuno serva da profeta anche a noi, perché ci chiami alla conversione, perché ci impedisca di collocarci in una religione ormai del tutto intoccabile" (Omelia dell'8 luglio 1979) (3).
E, per finire questa introduzione, diciamo che, secondo quanto affermato, la prima e fondamentale interpellanza alla chiesa verte sul fatto stesso se essa sia o meno disposta a lasciarsi interpellare. Su cosa? Se somiglia o no a Gesù, se segue Gesù nella sua incarnazione, missione, croce e risurrezione. Vediamo.
2. Prima interpellanza: l'incarnazione, "superamento della irrealtà”
In questo terzo millennio la situazione delle masse del nostro mondo è miserabile. Vivere continua ad essere il loro impegno più difficile, e morire - nel proprio corpo, nella propria dignità, nella propria cultura, nel proprio spirito - la sorte più vicina. Orbene, la prima cosa che la chiesa deve fare per divenire "reale” e incarnarsi in questa realtà.
Una tale incarnazione non è facile per la chiesa anche se, partendo dalla sua fede, l'esigenza dovrebbe essere ovvia e fondamentale. Il Prologo di Giovanni esprime la volontà di Dio stesso di essere reale nel nostro mondo, volontà che consiste non solamente nel farsi storicamente carne, ma nel farsi carne debole. E, nel linguaggio della cristologia conciliare, la realtà assunta dal Figlio non è semplicemente l'humanitas, ma la sàrx, ciò che nella carne è debolezza. E nel cristianesimo trascendenza è in ultima analisi trans-discendenza (L. Boff). E questa discendenza non è solo diventare "l'altro", ma "il debole e piccolo".
Ciò a livello teorico è basilare, ma non suole esserlo nella vita della chiesa. Anche per essa - e non solo per la cristologia - il problema più grande è il docetismo (W. Kasper), ovvero crearsi un proprio ambito di realtà - dottrinale, liturgica, canonica - che la renda distante e così possa difenderla dal mondo reale, soprattutto dalle sue croci. Superare questo docetismo non è facile, ma almeno bisogna essere coscienti di quanto siamo inclini a cadervi e di quanto siamo assopiti dinanzi a questa realtà. E allora bisogna essere aperti all'interpellanza che Antonio Montesinos ha fatto cinque secoli fa: "Come è possibile che siano addormentati in un sonno letargico così profondo?".
Come aprire gli occhi alla realtà e superare questo docetismo che diventa quasi un esistenziale storico? Il miracolo può essere fatto dai popoli crocifissi che gridano con gemiti inenarrabili e invitano ad abbassare lo sguardo. E i martiri gesuanici ce ne danno un esempio. Perché non ci siano pretesti, questi mostrano le diverse maniere di farlo nel mondo attuale: Martin Luther King nel contesto di un movimento sociale, Silvia Arriola [religiosa salvadoregna, assassinata] nel contesto di una comunità popolare, Ignacio Ellacuria nel contesto universitario.
Per mons. Romero era evidente che la chiesa dovesse essere, innanzitutto, "reale". Con parole estreme, alcune davvero tremende, soleva dire: "Sono contento, fratelli, che la chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e per il suo tentativo di incarnarsi nell'interesse dei poveri" (15 settembre 1979). "Sarebbe triste che in una patria dove si sta assassinando in modo così orrendo non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Essi sono la testimonianza di una chiesa incarnata nei problemi del popolo" (24giugno 1979).
Chi scorgesse in queste parole sacrificalismo o masochismo non ha compreso né come era la realtà salvadoregna di allora né la profondità della scelta di mons. Romero nei confronti di questa realtà. Ciò che mons. Romero veniva a dire è che una chiesa che non è povera in tempi di povertà, che non è perseguitata in tempi di persecuzione, che non è assassinata in tempi di assassinii, che non si coinvolge in tempi di impegno e non incoraggia ad esso in tempi di indifferenza, che non ha speranza in tempi di speranza e non incoraggia ad essa in tempi di disincanto, non è una chiesa reale, ma una chiesa docetista. Va bene formulare l'ideale della chiesa come quello di una chiesa santa, autentica... Ma innanzitutto, l'ideale è il minimo-massimo di essere una chiesa reale.
Della chiesa di mons. Romero si potrebbe dire che era una chiesa con limiti, errori e peccati, ma ciò di cui non si potrebbe dubitare è che fosse una chiesa "salvadoregna", "reale". E perché partecipava non solo alla sofferenza della realtà salvadoregna, ma pure al suo spirito e alla sua creatività. "Voi, una chiesa così viva, così piena di Spirito!". Era una chiesa salvadoregna, segnata dalla generosità e dall'impegno della sua gente.
Superare il docetismo non è mai stato facile. La vera umanità di Cristo, pur essendo evidente nel Nuovo Testamento, è stata definita a Calcedonia (451) molti anni dopo che ne era stata definita la divinità a Nicea (325), che non era così evidente. C'è qualcosa di profondo che ci fa propendere verso il docetismo. Al suo superamento ci invitano e ci spingono i martiri: il popolo crocifisso in se stesso è un grido a volgere gli occhi su questa realtà, i martiri gesuanici insegnano ad abbassarsi a questa realtà.
3. Seconda interpellanza: la missione, "compassione verso la realtà
Medellin e Paolo VI nella Evangeli nuntiandi (n. 30) hanno fatto della liberazione integrale un elemento essenziale alla missione della chiesa. Vogliamo ora ricordare due caratteristiche di questa missione di liberazione, non per riprodurle oggi meccanicamente, quanto per raccogliere il pathos di quella missione che sta morendo la morte di mille scuse.
La prima caratteristica è la salvezza di un intero popolo. Mons. Romero è stato definito da Ignacio Ellacuria "un inviato di Dio per salvare il suo popolo" (4), e lo stesso arcivescovo ha visto se stesso come portavoce della parola di un intero popolo, un "essere voce per i senza voce" (29 luglio 1979). Ignacio Ellacuria insisteva sull’"invertire la storia, sovvertirla e lanciarla verso un'altra direzione" (5), e ha formulato l'utopia come una nuova "cultura della povertà" (6).
Il tentativo di lavorare per "un intero popolo" può - o ha potuto - essere più facile empiricamente in alcuni posti (America Latina) piuttosto che in altri, laddove i cristiani sono minoranza, e in alcune epoche, due decenni addietro, piuttosto che ora. Ma ciò che qui vogliamo sottolineare è l'orizzonte della missione, capace di coinvolgere e inglobare ciò che è vita e dignità delle maggioranze oppresse: il regno di Dio, la famiglia umana. Le chiese, grandi o piccole, devono tenerlo in considerazione e agire da lievito efficace. Questo è stato l'orizzonte di molte chiese, quella del Brasile per esempio; ma la tendenza odierna è quella di concentrarsi e di favorire la salvezza individuale, al massimo familiare -buona e necessaria -, più che quella di un popolo, ossia la salvezza interiore più che quella storica.
La seconda caratteristica è il pàthos dialettico, profetico. All' annuncio del regno era consustanziale la denuncia dell'antiregno, e così si originava il conflitto. Oggigiorno la missione non mette la chiesa, nel suo complesso, in seria opposizione al mondo oppressore, anche se vi sono alcune scaramucce. Su tutto ciò può essere che stiano esercitando il loro influsso la postmodernità, con la sua allergia verso i grandi racconti, e l'ideologia della globalizzazione, che ignora ciò che è dialettico per canonizzare - quasi sempre ipocritamente - il dialogo e la tolleranza, che quasi per necessità degenerano in indifferenza nei confronti dei poveri. Ma una chiesa che non è dedita alla difesa dei popoli, che non lotta né entra in conflitto per questo, diventa una setta chiusa o forse anche una istituzione di massa, ma certamente disinteressata alla realtà, un nuovo tentativo di cristianità socio-culturale.
E tuttavia, non può sparire la memoria sovversiva interpellante. Dove sono la profezia, le omelie e le lettere pastorali degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso? Dov'è l'abbassarsi verso i poveri, il condividere la loro impotenza e il loro destino? Insomma, dov'è quel primo amore della chiesa del Vaticano II, rispetto alla dignità del cristiano all'interno della chiesa, e soprattutto della chiesa di Medellin, rispetto all'essere chiesa dei poveri?
È evidente che le cose cambiano, ma né la realtà né il vangelo sono cambiati in tal guisa che il vecchio pathos sia ormai irrilevante. Questo pathos di liberazione, utopico e profetico, non è altro che la compassione che consegue allo stare di fronte ai popoli crocifissi. Non che la chiesa non abbia più nulla di tutto questo, ma essa rimane più a livello etico che profetico, cerca il dialogo con altri poteri e rifugge dal conflitto con essi, parla molto di nuova evangelizzazione ma poco della dimensione agonistica della missione, parla di comunità ecclesiale ma poco del regno di Dio come mensa di condivisione che mette al centro i poveri. Comblin lo ha affermato con forza - e ironia: "Si continua a ripetere il discorso dell'opzione preferenziale per i poveri, ma la pratica è altra cosa. Sono parole... Words, words, words... Una volta le parole esprimevano ciò che si diceva" (7).
Oggi, ovviamente, vi sono compiti nuovi nella missione: genere, indigeni, afroamericani, rifugiati, AJDS, ecologia, dialogo interculturale e interreligioso... E nello sguardo dall'oggi si scoprono i limiti della visione precedente. Comblin, per esempio, riconosce che la teologia della liberazione "non ha dedicato attenzione sufficiente al vero dramma delle persone umane, al loro destino, alla loro vocazione e, di conseguenza, al fondamento della loro libertà" (8). Ma una cosa è riconoscere le novità del presente e i limiti del passato, altra è ignorare il pàthos di cui prima era impregnata la missione: misericordia e verità, in opposizione all'assassinio e alla menzogna (Gv 8,44).
Recuperare questo pàthos non è facile. Vi possono pure essere - e vi sono - masse di poveri che non sono neppure interessate a ciò. Non va dimenticato che la chiesa ha fatto una opzione per i poveri, ed essi se ne sono andati, in buona parte, nelle chiese pentecostali. Ma ciò non deve servire da scusa per non riprendere il pàthos di Medellin. "La chiesa dei poveri è latente. Una nuova circostanza può portarla nuovamente alla superficie della storia. Medellin riapparirà nuovamente domani come nuovo avvenimento ecclesiale" (9). La questione è se nella chiesa ci sia questo convincimento.
Mantenere vivo il pathos del Vaticano Il e, dalla nostra prospettiva, il pathos di Medellin soprattutto, è un problema basilare per la chiesa odierna, e a questo spingono i martiri. I martiri gesuanici non hanno dato la loro vita solo per cose buone, ma per qualcosa di più profondo: la salvezza di un popolo. I popoli crocifissi continuano ad attendere dalla chiesa compassione, che lavori e lotti - insieme a molti altri - per farli scendere dalla croce. Di elemosine e piccoli aiuti, di parole compiute a metà o incompiute, di disinteresse o disprezzo, di illusori orizzonti della globalizzazione che li emargina hanno avuto già a sufficienza. E non va dimenticato che nel portare a compimento la missione in un modo o in un altro la chiesa si gioca la propria identità; infatti "non e la chiesa a creare la missione, ma la missione a creare la chiesa" (J. Moltmann).
4. Terza interpellanza: la croce, farsi carico del peso della realtà
La realtà è un carico pesante per i milioni di vittime e diventa carico oneroso per coloro che solidarizzano con esse. I popoli crocifissi sono espressione della prima e i martiri gesuanici della seconda. Su quest'ultimo concetto vogliamo insistere ora.
Per i martiri farsi carico della realtà non è stato masochismo né mero desiderio mistico di identificarsi con il Cristo crocifisso, ma la conseguenza derivante dal seguire quel Cristo, ovvero dal praticare la misericordia sino alla fine, e pertanto senza rifuggire da conflitti e rischi. In un certo senso la pretesa di Gesù ("Prendi la tua croce e seguimi") è tautologica: essere e fare come lui - seguirlo - porta a farsi carico di ciò di cui egli si è fatto carico - la croce.
In questo senso "croce" è la sofferenza e la morte che sopraggiungono per difendere l'oppresso e lottare contro l'ingiustizia, e proviene dalla volontà di incarnarsi nella conflittualità della realtà ingiusta. Analogamente, "croce" può esprimere altre sofferenze, angosce, malattie, insuccessi, disincanti, paure, che talora possono perfino essere più dolorose di quelle che provengono dalla lotta per la giustizia.
Ciò dovrebbe essere chiaro partendo dalla tradizione biblico-gesuanica. La storia è segnata da un conflitto teologale tra un Dio della vita e gli idoli di morte che esigono vittime per sopravvivere. Nella teologia di Giovanni il maligno non è solo "cattivo", ma pure "assassino". Per così dire il male è più che male, ha il potere di distruggere coloro che lottano contro di esso. La grande aporia della storia è che il peccato ha potere e, se la questione si pone così, la chiesa deve prendere posizione nei confronti di un male che è conflittuale.
Ciò avviene in alcune circostanze, e certamente è accaduto in America Latina in epoche passate: la missione della chiesa era essenzialmente conflittuale, al di là delle psicologie, per il fatto di essere incarnata nella realtà e per il fatto di difendere le vittime. Ma oggi c'è un deficit di tutto ciò. Ci possono essere scontri verbali tra gerarchia e poteri, ma le parole sono ordinariamente scelte in tal guisa che vi possono essere parole e testi conflittual4 ma non ci sono molti conflitti reali. Ci sono delle eccezioni come, solo per menzionare vescovi martiri, mons. Gerardi in Guatemala, mons. Isaías Duarte in Colombia, mons. Munzihirwa nella Repubblica democratica del Congo, ma nel suo complesso la chiesa non si fa carico oggi di croci notevoli per dire ciò che dice né fare ciò che fa, a differenza di quanto è accaduto anni addietro. E neppure canonizza questi e molti altri martiri dei nostri giorni - cosa che pure le causerebbe conflitti con i loro assassini ancora viventi. Di più, talora cerca il ritorno a una certa armonia con i poteri di questo mondo. In America Latina molte nomine di vescovi sono state guidate da questa logica.
Si ripete oggi che non bisogna essere anacronistici, ma noi aggiungiamo che non bisogna essere acritici e neppure autoingannarsi. Sia la fede cristiana che la realtà storica continuano ad essere onerose e conflittuali. Comunque qualcosa bisognerà mantenere della parresia paolina, coraggio, audacia e fiducia, e non cadere nella vigliaccheria. Non vi esibito un cristianesimo fanatizzato, ma ancor meno un cristianesimo annacquato, che in ultima analisi potrebbe parlare allo stesso modo con le vittime e con i loro carnefici Non bisogna fare del cristianesimo una "grazia a buon mercato" che, come diceva Bonhoeffer, è il suo più grande pericolo. Non bisogna introiettare subliminalmente che la croce (e, logicamente, anche la risurrezione) sono cose buone nella liturgia e nella devozione privata, ma che non dicono nulla di serio sulla realtà di cui la chiesa deve farsi carico. In questa situazione i martiri ci interpellano e ci incoraggiano a farci carico della croce della realtà, e con ciò fanno un gran bene.
In primo luogo bisogna ricordare che, seppure non si tratti di una verità filosofica universale (ma certamente di una verità biblica e cristiana), per redimere il male esso va combattuto non solo dall'esterno, con tutti i mezzi legittimi ed efficaci, ma pure dal di dentro, facendosi carico di esso. Se non si accetta questo, vana è la parola di Dio sul servo sofferente e su Cristo crocifisso.
In secondo luogo, farsi carico della croce procura alla chiesa credibilità, cosa che non si consegue in alcun altro modo, e invera che la chiesa sta agendo cristianamente; infatti se non le accade, in maniera notevole, quanto è accaduto a Gesù, non si vede per quale ragione essa debba essere compresa e accettata come chiesa di Gesù. Così pensava mons. Romero: "Una chiesa che non soffre persecuzione, ma che sta godendo dei privilegi e dell'appoggio della terra, questa chiesa abbia paura! Non è la vera chiesa di Gesù Cristo" (11 marzo 1979).
A volte abbiamo eccellenti esempi di assunzione della realtà, rimanendo immersi in essa pur, nella consapevolezza che essa scaricherà tutto il suo peso. E il caso dei sette monaci trappisti di Thibirine (Algeria) che, nonostante le minacce, sono rimasti nel loro monastero, trasformato dal priore Christian de Chergé in un centro per il dialogo cristiano-islamico. Sono stati sequestrati e poi, il 26 maggio 1996, assassinati. Pur conoscendo quale sarebbe stato il loro futuro essi sono rimasti là. Sono stati "reali" fino all'estremo. Questo esempio, come le citate parole di mons. Romero, costituiscono ovviamente un caso limite, ma sono un esempio di come i martiri incoraggino - ordinariamente in modo più modesto - a farsi carico della realtà.
L'invito a "farsi carico della croce" è tanto antico quanto il cristianesimo. Non è mai stato facile ieri, e non lo è oggi. Ma almeno questo invito dovrebbe rimanere chiaro nella teoria cristiana e non si dovrebbero cercare strade per eliminarlo. E questo, che non è mai stato un compito facile, è ciò che viene reso facile dai martiri; ad ogni modo, essi ci interpellano al riguardo. Se i popoli crocifissi non muovono la chiesa a farsi carico della loro sofferenza e a partecipare al loro destino, nessuno sarà in grado di farlo. Se i martiri gesuanici non persuadono del fatto che l'amore più grande è possibile e umanizzante, e che passa dal farsi carico della croce della realtà, nessuno sarà in grado di farlo.
5. Quarta interpellanza: la risurrezione, “lasciarsi portare dalla realtà"
Formuliamo questo concetto in simmetria con il linguaggio precedente. I martiri ci interpellano-invitano pure a partecipare della risurrezione di Gesù.
Nella realtà c'è peccato; per questo essa è onerosa e bisogna farsene carico. Ma nella realtà c'è pure grazia; per questo essa è forza e può farsi carico di noi. I martiri - e tutta la gente buona lungo la storia - impregnano la realtà di amore e verità, cosa che rende questa più leggera perché ce ne facciamo carico, e la rende potente perché essa si faccia carico di noi. Per questo motivo non parliamo ora solo di interpellanza - scossone, messa in discussione -, ma pure di invito - offerta di grazia. Anche se aggiungiamo che, sebbene lo sembri, neppure è facile lasciarsi prendere in carico dalla realtà, perché sempre appare con vigore la hybris, l'arroganza degli uomini, il loro non lasciarsi donare. E per questo bisogna continuare a parlare di interpellanza.
Mettiamo ciò in rapporto con la risurrezione. Questa realtà impregnata di amore e verità rende possibile che possiamo già vivere come risorti nelle condizioni della storia. Per non cadere in forme angelicali ricordiamo che dal Risorto non sono sparite le piaghe, e ancor meno spariscono quelle di coloro che vivono la risurrezione nella storia. Non si trasformano in sostanze celesti. Ma una realtà di dono rende possibile il vivere con amore la sequela di Gesù, con la sfumatura di "pienezza e vittoria" che la risurrezione aggiunge. In termini storici questo significa, per la chiesa e per la vita dei cristiani, vivere con liberta, come trionfo sull'egocentrismo e l'egoismo, in maniera tale che nulla sia di ostacolo per fare il bene. Vivere con gioia, come trionfo sulla tristezza, in maniera tale che la sofferenza non produca amarezza ma purificazione. Vivere con speranza contro la rassegnazione, in maniera tale che il mistero dell'iniquità, l'ancora-no, il certamente-no, il disincanto, non seppelliscano la promessa... In questa libertà, in questa gioia e in questa speranza c'è già come un riflesso della risurrezione.
Questo è l'invito che i martiri fanno alla chiesa. E per tutto ciò l'interpellanza ultima è a non dimenticare. Non per il loro interesse - perché essi non vivono più in una struttura di egoismo -, ma per bisogno della chiesa.
6. Conclusione
Su questo bisogno diciamo una parola finale. Il Vaticano II ci ammoniva a far attenzione che "in questa genesi dell'ateismo possono avere non piccola parte gli stessi credenti che […] hanno velato più che rivelato il genuino volto di Dio" (GS 19). E con parole più forti la Scrittura denuncia: "Per causa vostra il nome di Dio è bestemmiato fra le nazioni" (Rm 2,24).
Orbene, i martiri gesuanici non hanno velato il volto di Dio: con la loro vita e la loro morte lo hanno rivelato. In chiese di martiri non si bestemmia il nome di Dio, ma lo si benedice o, almeno, lo si rispetta. A partire da loro si può dire con gratitudine: "A causa vostra il nome di Dio viene benedetto tra i poveri". Questo per quanto concerne il mondo che guarda alla chiesa.
Per ciò che riguarda i popoli crocifissi, che pure hanno lo sguardo rivolto alla chiesa, solo una chiesa di martiri gesuanici che si lasci coinvolgere da loro e ne raccolga l'eredità avrà credibilità dinanzi ai popoli crocifissi e manterrà viva la loro speranza nel tentativo di deporli dalla croce.
(traduzione dallo spagnolo di Mauro Nicolosi)
Note
1) Su questa distinzione, cf. il nostro articolo in Concilium 1, 2003: Il nostro mondo. Crudeltà e compassione, pp. 21-32.
2) J. COMBLJN, Medellin ayer, hoy y mañana, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79s.
3) [Cf O. ROMERO, Il mio sangue per la libertà di El Salvador. Le omelie dell'arcivescovo di San Salvador ucciso nella cattedra/e, Eurostudio, Milano 1980].
4) Cf I. ELLACURÌA, Monseñor Romero, un enviado de Dios para salvar a su pueblo, in Revista Latinoamericana de Teologia 19 (1990) 5-1 0.
5) ID., El desafio de las mayorias pobres, in Estudios Centroamericanos 493-494 (1989)1079.
6) ID., Utopia y profetismo desde América Latina, in Rivista Latinoamericana de Teologia 17 (1989)164-184.
7) J. COMBLIN, Medellin, in Revista Latinoamericana de Teologia 46 (1999) 79.
8) ID., Called For Freedom, Orbis Books, Maryknoll/N.Y. 1998, 197.
9) ID., Medellin, cit., 81.
(da Adista, n. 30, 12.04.2003, pp. 9-13)
di José Comblin
Fin dall'inizio è necessario dire che non si intende qui offrire una teologia a partire dall'America Latina come se fosse un punto di vista particolare, uno tra i tanti, come se fossero tutti equivalenti e accettabili. Quello che è accaduto nella teologia latinoamericana negli ultimi decenni non è un fenomeno locale. Non è nata una teologia particolare, una teologia circostanziale, locale, parziale. Così la vedono in Europa e in questo si sbagliano totalmente. Gli europei credono di situarsi in un punto di vista universale, credono di rappresentare l'universalità e di poter giudicare le teologie di tutti gli altri come se si trattasse dì teologie particolari che non riguardano la teologia universale.
È la teologia del Primo Mondo ad essere una teologia circostanziale, locale, parziale, particolare, perché è una teologia della cristianità occidentale. Non ha ancora rotto il legame con la cristianità, così come le Chiese storiche della cristianità: non hanno assimilato - e soprattutto non hanno portato avanti - il Vaticano II (...).
Che è successo in America Latina? Esattamente il contrario: si è portata avanti la teologia del Vaticano II in una forma radicale e si è abbandonato lo schema della cristianità. Si è preso sul serio quello che diceva il Vaticano II, cercando il popolo di Dio in mezzo ai poveri, cosa che le Chiese del Primo Mondo non si sono azzardate a fare e che la burocrazia romana è riuscita ad impedire difendendo la sua politica di alleanza con i poteri nella società occidentale, erede della cristianità. (...)
Naturalmente, all'interno della cristianità, vi sono state moltitudini di cristiani poveri che hanno compreso il Vangelo e lo hanno vissuto: erano il popolo di Dio, ma tra loro e la struttura di cristianità c'era un abisso quasi senza comunicazione. Il popolo pensava una cosa, e il sistema un'altra.
(...) In America Latina è avvenuta all'interno dello stesso clero e all'interno della teologia la riscoperta dei poveri e il vero senso della buona novella, del Vangelo che si rivolge ai poveri e non semplicemente agli esseri umani come se fossero tutti uguali. Quello che troviamo nella Bibbia è, precisamente, che non sono uguali, che nella storia vi sono ricchi e poveri, dominatori e dominati, sfruttatori e sfruttati, oppressoti e oppressi, e che il Vangelo ha senso nella denuncia di questa situazione, affermata fino alla morte dai profeti di tutti i tempi.
La teologia latinoamericana (...) ha riscoperto l'essenziale del cristianesimo, il suo messaggio centrale. Come ha potuto farlo? Perché ha rotto con la cristianità, ha rotto con il sistema coloniale, ha rotto con il sistema ecclesiastico. (...)
Si è scoperto che la Chiesa vera è la Chiesa dei poveri, quella che non è riconosciuta né accettata dal sistema. Cardinali, vescovi, sacerdoti, religiosi, leader laici hanno rotto con il sistema e per questo hanno conosciuto la vera Chiesa. Con i poveri hanno scoperto che la vera unità è escatologica, si situa alla fine, ma che in questo momento siamo in una storia di lotta, la lotta dei poveri per la loro liberazione, che è ciò che Gesù annunciò al suo popolo opponendosi a tutte le autorità di Israele, clero, dottori, anziani capi delle grandi famiglie. Hanno scoperto che il messaggio di Gesù è la speranza di una liberazione totale.
Situandosi in mezzo ai poveri, hanno capito che questa liberazione non si riferisce solo alla vita futura, che non si condensa in una cristianità idealizzata, ma che è presente nella lotta costante e perseverante dei poveri illuminati dalla promessa divina della loro piena liberazione. Questo non vuol dire che gli altri siano esclusi. Gesù offre loro un mezzo di salvezza: abbandonare la ricchezza e unirsi al popolo dei poveri.
Questo è il punto di vista che ci permette di giudicare e di apprezzare il significato del dialogo interreligioso.
1. Chi sta dialogando?
1.1. Chi dialoga con chi?
La questione è: se quelli che dialogano a nome del cristianesimo sono membri della struttura di cristianità - clero, religiosi - conviene dubitare molto. Non rappresentano il cristianesimo. Sarebbero sempre preoccupati di uscire dall'ortodossia. Quello che presenteranno come cristianesimo sarà l'ortodossia, cioè il sistema istituzionale della cristianità. (...)
Questo sistema è quello che si è presentato come cristianesimo per 16 secoli a tutti gli altri popoli. (...). Ancora oggi la maggior parte dei membri del sistema sono impregnati di esso e non riescono neppure a capire di essere dentro un sistema. Credono che quanto dicono è il cristianesimo perché è quanto hanno appreso nella loro teologia ed è quanto pratica il sistema.
Un dialogo in cui gli interlocutori che si dicono cristiani sono piuttosto rappresentanti di un sistema è molto sospetto. E possiamo presumere che per le altre religioni succeda qualcosa di simile. (...).
In questa fase della storia, la situazione è peggiore. C'è un cattolicesimo ufficiale che è sempre più burocratico. Il XX secolo ha assistito al sorgere della burocrazia vaticana che si è resa indipendente e manipola il papa, attribuendosi i poteri di Pietro. (...) Essa produce documenti senza fine per giustificare la sua esistenza. Ma la sua ragione d'essere, come quella di tutte le burocrazie, è aumentare il suo potere e per questo difficilmente può lasciar trasparire qualcosa di cristiano in mezzo a tutta questa immensa produzione di carta stampata. (...)
Il dialogo tra burocrazie darà una ragione d'essere alle burocrazie, ma non porterà a nulla. (...).
Un dialogo vero è un dialogo tra i popoli quando questi cominciano a convivere, confrontando le proprie religioni e influenzandosi reciprocamente. Con ciò si corromperà il cristianesimo? Non è probabile, perché le eresie le hanno sempre create i chierici e non i laici. La soluzione è imprevedibile, ma non c'è dialogo se si vuole sapere in anticipo dove si arriverà. Ogni dialogo è rischio, perché mette in discussione, squilibra tutte le parti e le obbliga a riformulare il proprio modo di vivere e di pensare.
1.2. La finalità del dialogo
C'è un sospetto. Nel mondo attuale tutte le religioni soffrono l'impatto del secolarismo della civiltà occidentale, scientifica e tecnologica. Tutte si sentono minacciate. Sentono di essere sempre più respinte dalla vita pubblica nelle varie nazioni. Il sospetto è il seguente: i rappresentanti delle grandi istituzioni potrebbero pensare, in quanto religioni, ad una lega di difesa dei propri interessi specifici. Una sorta di sindacato mondiale delle religioni.
(...). Il dialogo potrebbe essere lo strumento di un'alleanza mondiale dei fondamentalismi per promuovere l'importanza politica, sociale e culturale della religione. (...)
Una religione non è capace di correggersi da sola. Ha bisogno di ricevere la critica e la provocazione di altre persone ubicate fuori. Cioè, di altre religioni. Per questo alcuni dicevano che le eresie sono necessarie perché permettono di cercare la verità liberandosi da formule convenzionali e fisse. Per il cristianesimo questo lavoro è particolarmente necessario perché c'è un abisso tra il comportamento storico delle Chiese e il Vangelo di Gesù Cristo. Il dialogo permetterà di correggere tutta la corruzione di una religione, perché il confronto con le altre rivelerà le proprie deficienze. (...).
1.3. Cos'è la religione?
(...) Il cristianesimo vero è nell'azione dei cristiani che seguono l'azione di Gesù. Tutto il resto è simbolo, che aiuta o impedisce la ricerca della verità, secondo i casi. La verità della religione è ciò che va oltre la religione: la ricerca di Gesù Cristo, di Dio, non per mezzo di simboli e atti simbolici, ma nella realtà della vita. Che vantaggio ci sarebbe nel confrontare sistemi di simboli? Sarebbe impedire proprio l'essenziale, la ricerca comune della verità che è al di là di tutto ciò.
(...) Tutti insieme sono chiamati ad aiutarsi ad andare al di là dei propri limiti, delle proprie rigidità, delle proprie idolatrie, perché l'idolatria è considerare la religione come fine a se stessa. E fare della religione il fine e non il mezzo che deve cedere il passo a quello che è al di là.
2. L'oggetto del dialogo
2.1. Il discernimento delle religioni
La religione può essere la migliore o la peggiore delle cose. Tutto dipende dall'uso che se ne fa. In America, questa opposizione si è manifestata in forma tragica. La religione ha giustificato, provocato, incentivato la distruzione delle culture dei popoli indigeni e degli schiavi africani. Ha legittimato e consolidato la conquista, lo sterminio e la quasi schiavitù dei popoli indigeni. Ha giustificato l'importazione di milioni di schiavi dall'Africa e tutto il sistema di schiavitù che durò secoli. Tutto con la benedizione della religione ufficiale, dei suoi ministri e rappresentanti. Tutte le religioni sono accusate di orrori simili per quanto forse non di tale estensione. (...). D'altro lato la religione è indispensabile per dare senso alla vita. Senza religione la vita umana non ha direzione, non ha linea, è una successione di fatti senza significato.(...).
2.2. Il dramma dei monoteismi
Nel mondo attuale, la maggiore crisi religiosa riguarda i monoteismi. Quelli che sussistono sono il cristianesimo, l'islamismo e il giudaismo. Sono in crisi. Nel cristianesimo molti si sono allontanati dalla pratica tradizionale e si dimenticano dei dogmi tradizionali. (...)..
Nel giudaismo la crisi è immensa e la grande maggioranza non è praticante, neppure mantiene la fede nelle proprie credenze. Molti la mantengono in quanto ebrei, ma più per motivi culturali e politici che religiosi. L'islam si difende da un trauma tremendo attraverso il cammino del fondamentalismo. Questo entrerà in crisi inevitabilmente perché il contatto con la nuova cultura occidentale è inevitabile ed è essa che provoca la crisi. (...)
A questo punto dobbiamo riflettere sul cristianesimo. Questo è un monoteismo speciale. (...) Per prima cosa, il Dio unico non ha come attributo principale il potere, ma una combinazione di compassione, indignazione e volontà di agire. Questo si rafforza nella figura di Gesù che, lungi dall'apparire come un dio potente, è un dio debole, impotente, ridotto ai limiti di un essere umano, dominato, sfruttato, escluso.
In secondo luogo, dopo la morte di Gesù, la figura di Dio che balza in primo piano è lo Spirito, che è una forza immanente. Il Dio cristiano è al tempo stesso trascendente e immanente ma sempre debole, senza potere di imposizione e coercizione.
In terzo luogo, Gesù si pone alla guida della lotta dei poveri e dei dominati. Il Dio cristiano non è un Dio cosmico che rappresenta l'immobilità dell'universo, ma un Dio che entra nella storia non per giustificare il potere, ma per contraddirlo. È un monoteismo che si solleva contro la società stabilita, contro i potenti, smentendo la menzogna del monoteismo politico.
(...) Nel cristianesimo di Gesù, la povertà non e semplicemente un problema "sociale" o "politico", risolvibile con strumenti umani razionali, scientifici, tecnologici. Si è sempre sottolineato nella teologia della liberazione che la fame dell'altro non è un problema tecnico, ma un problema religioso, perché li si incontra Dio. Per questo il capitolo 25 di Matteo ha tanta importanza. Questo capitolo presenta il giudizio finale di Dio, la sua ultima parola, la forma con cui il vero Dio si interessa della religione, quello che intende per religione.
Per questo, l'attenzione ai poveri non è un'appendice, un corollario, un aspetto della compassione umana o della solidarietà. Non è un aspetto della giustizia. La dominazione, lo sfruttamento o l'esclusione dei poveri sono il dramma della creazione. Il Dio vero è coinvolto nella liberazione dei poveri e non è coinvolto nella religione. Dio detesta i templi, i sacerdoti e i sacrifici. La vera religione è l'amore attivo per i poveri oppressi perché si liberino dall'oppressione. La vera religione – se c’è bisogno di usare una parola tanto ambigua - è la lotta dei poveri per la loro liberazione. (...).
La questione è: chi parlerà in nome del Dio cristiano nel dialogo? L'interlocutore cristiano parlerà del Dio di Gesù o del Dio degli imperatori romani, inclusi tutti i loro eredi? Chi andrà a dialogare con gli indios e i neri di America? Chi parlerà loro del cristianesimo? Dalla risposta dipende la natura del dialogo: poiché il cristianesimo di cui si parlerà potrà essere lo stesso monoteismo dei conquistatori o il messaggio di Gesù Cristo.
2.3. La grande crisi attuale della religione
Crisi non vuole dire decadenza, né pericolo, ma cambiamento, trasformazione radicale. Non c'è pericolo per la religione, che ha il futuro garantito oggi come lo aveva nel passato. Non c'è decadenza della religione, ma solo decadenza di determinati tipi di religione e di determinate istituzioni religiose.(...)
Il potere nella società non è scomparso, è più forte che mai. Si è concentrato, ma in istituzioni anonime e per questo ha poca visibilità. (...).
Oggi gli oppressori non sono persone, padroni della terra, presidenti, partiti politici... L'oppressore è il sistema completo, che costituisce una forza che domina il mondo intero. (...).
Il sistema può migliorare lo stato di fame che c'è in America Latina, ma non può restituire la dignità all'immensa maggioranza di una popolazione che sa di essere una pedina in mano a forze anonime. Questo è il posto dei cristiani, ma costa, perché molti volevano una vittoria più immediata. Tutti volevano un cambiamento rapido, ma l'esame del mondo mostra che è inutile sperare l'impossibi-le. Sarà una lotta lunga in cui le comunità cristiane dovranno presentare al mondo un'altra maniera di vivere, finché alla fine il sistema non riconoscerà di aver fallito.
Allora, con chi andiamo a dialogare? Con tutti coloro che non accettano il sistema e sono decisi a lottare contro di esso, non solo con parole e simboli, ma con la loro vita, con la loro maniera di vivere, come isole in mezzo a un mondo che non comprende perché un essere umano non possa essere felice come semplice consumatore. (...). Con le altre religioni si dialoga se accettano di entrare nella lotta contro questo sistema. In caso contrario, non vale la pena dialogare e mancano argomenti di conversazione.
Siamo molto coscienti che la storia è molto più ampia dell'area di estensione del cristianesimo, ma tutti siamo chiamati ad entrare nella stessa storia. Dio non chiede se una persona è cristiana o musulmana o induista o confuciana... tutto questo non gli interessa. Dio vuol sapere chi è coinvolto nella nascita e nella crescita del suo popolo dei poveri. (...)
Alla teologia delle religioni possiamo proporre due temi di base.
Il primo è il tema della storia. In generale le religioni non si interessano della storia. Nella Bibbia l'importante è la storia, il cammino reale, materiale, storico seguito e creato dall'umanità chiamata da Yahvé alla libertà. Questa storia coinvolge tutti gli uomini e le donne di tutte le religioni. Tutti sono chiamati a porre le proprie forze al servizio di questa immensa marcia dell'umanità verso la sua liberazione da quel peccato immenso che è la dominazione dell'essere umano sull'essere umano.
In secondo luogo, c'è il tema dell'idolatria che è anch'esso basilare nella Bibbia. L'idolatria non sono le religioni, ma l'uso della religione al servizio del potere, della ricchezza, della dominazione. (...). Gesù arriva a definire esattamente l'idolatria quando la identifica con la sottomissione al denaro.
Nella visione cristiana c'è un dualismo profondo, per quanto non definitivo: alla fine si realizzerà l'unità, ma solo alla fine. Nella storia c'è una lotta permanente tra il vero Dio e gli idoli, tra il falso e il vero. Gesù dirà: tra il Padre e il denaro.
Per questo, la parola "Dio" non ci sembra molto conveniente e, oggi, porta a molta contusione. Questa parola è culturale e non primordiale. Nella Bibbia Dio non ha nome, neppure il nome Dio. Dio è colui che non ha nome perché è al di sopra di tutte le culture e rappresenta l'universale. (...) È la libertà pura che chiama alla libertà.
Dal momento in cui esiste questa storia unica che è lotta unica, tutte le religioni sono interpellate perché tutte sono dentro la lotta, tutte attraversare dalla dualità: tutte partecipano del bene e del male e tutte sono chiamate a liberarsi. (...).
Per questo, insieme al dialogo con le religioni, è essenziale mantenere il dialogo con gli atei, perché questo dialogo ci aiuterà e aiuterà tutte le religioni a preservarsi dall'idolatria. In realtà, dobbiamo mantenere le porte aperte al dialogo con gli atei. I primi cristiani furono condannati come atei. Il dialogo con gli atei è importante per noi tanto come il dialogo con le religioni. Bisogna mantenere l'equilibrio tra i due, perché la verità e nel mezzo, o piuttosto a un livello superiore dove non si nota più la differenza tra religione e ateismo.
(da Adista, n. 46, 18.06.2005, pp. 7-10)di Marco Ronconi
Ricordo con grande affetto la prima lezione di "Storia ecclesiastica recente" all'università. Al suono della campanella, con signorile eleganza gesuitica e lieve cadenza fiamminga, il professore scandì un elenco di date ed eventi disposti a coppie sulla lavagna luminosa. 10 marzo 1791 e 7 dicembre 1965: da un lato il giorno in cui Pio VI definì la libertà religiosa una mostruosità, dall'altro la data di promulgazione di Nostra aetate, in cui il Concilio Vaticano II affermò che il diritto dell'uomo alla libertà religiosa «affonda le sue radici nella rivelazione cristiana». 8 dicembre 1864 e 6 agosto 1964: Pio IX afferma che il Papa non deve venire a patti con la moderna civiltà, mentre un secolo dopo Paolo VI spiega che la Chiesa deve dialogare con il mondo in cui si trova. 20 novembre 1704 e 27 ottobre 1986: Clemente XI vieta ai cristiani di celebrare secondo i riti cinesi, mentre sull'altra colonna Giovanni Paolo II prega ad Assisi con i leader delle principali religioni mondiali. L'elenco potrebbe essere molto lungo, ma penso si sia capito. La storia della Chiesa ha conosciuto grandi continuità ma anche forti discontinuità. Al di là dei giudizi, negarle non è mai un buon segno. Mi torna in mente quella lezione tutte le volte in cui, insegnando ad adolescenti, ho l'impressione che oggi circolino alcuni immaginari molto diversi tra loro, ma accomunati dal dare per scontato che alcuni elementi del cristianesimo (o delle religioni in generale) «esistono da sempre così». Eppure - solo per stare a questioni tipicamente romane - l'ultimo Conclave in cui fu esercitato il veto di un imperatore non risale al Medioevo, ma al 1903: nella Chiesa cattolica la massima autorità è quella papale, ma quando Benedetto XV invocò la pace alla vigilia della prima guerra mondiale, molti vescovi francesi e un cardinale belga lo presero quasi a pernacchie; la lingua latina non è la più antica delle lingue liturgiche e quando la si introdusse al posto del greco ci fu chi si oppose per decenni, ma la fede non crollò...
L'immaginario, poi, mi sembra diventare ancora più fantasioso se si allarga il confine dello sguardo. In questa stessa rubrica ho già presentato alcune figure che incrinano il pregiudizio per cui "mediorientale" "islamico", o comunque non cristiano. Dalle attuali Palestina, Libano, Turchia, Siria, Iraq (per tacer di Egitto e Maghreb, ma sarà per un'altra volta) proviene invece la maggior parte non solo dei protagonisti biblici, ma anche dei Padri della Chiesa. Nella storia, alla voce "arabi e cristiani", non corrispondono solo le crociate, ma anche una quantità di medici, teologi e vescovi che, ad esempio tra il IX e l'XI secolo, «hanno lasciato un patrimonio letterario di primaria importanza che può qualificarsi anzitutto come "patrimonio del dialogo": un dialogo tra credenti che non si sentono ancora figli di religioni contrapposte, ma solo di interpretazioni diverse dell'unico monoteismo»: così, ad esempio, scrive il monaco di Bose Sabino Chialà introducendo la traduzione di Unità e divisione dei cristiani (edizioni Qiqajon), libretto medioevale attribuito al cristiano Ali lbn Dawud Al-Arfadi. È impressionante leggerne alcun brani pensando a come il nostro immaginario rischia di aver pericolosamente riempito la distanza (temporale e geografica) che ci separa. Ali Ibn Dawud, infatti, si rivolge alla Chiesa araba di circa un millennio fa scandalosamente divisa da tensioni e condanne, sottintendendo che imparare il dialogo tra cristiani è condizione indispensabile e previa per praticare la stessa arte all'esterno. Molto prima del famoso discorso di Giovanni XXIII all'apertura di un Concilio non a caso definitosi «ecumenico», è qui invocata la distinzione tra «il patrimonio della fede cristiana» e il «come viene formulato»: «Su quanto divergono a parole, i cristiani (delle diverse fazioni) sono d'accordo nel significato: su quanto si contraddicono in apparenza, sono unanimi nella sostanza (…) Non c'è divisione né separazione, se non per la passione, lo spirito di parte e il desiderio di supremazia». Non è infatti la diversità delle formule e delle consuetudini che può escludere qualcuno dal cristianesimo, quanto piuttosto la «mancanza di amore e umiltà» che fa «svanire la fede». «A mio giudizio sono come della gente che si dirige verso una città, sulla cui autenticità ed esistenza sono tutti d'accordo, ma che dissentono sulle vie e sulle strade che portano a essa. Ogni gruppo prende una strada che afferma essere la via giusta per la città, ad esclusione delle altre. Terminata la via si riuniscono tutti nella città». Tutti, tranne coloro che hanno usato del Vangelo per la propria vanagloria e per seminare odio. Sono essi e solo essi, quelli che si perdono.
Ora, è tornato di moda tra gli oratori contemporanei stupire con dotte citazioni. Avrei un piccolo (e mi rendo conto immodesto) suggerimento: nel prossimo futuro qualcuno potrebbe richiamare - non necessariamente da solo, anche in coppia come faceva il mio professore - un testo come quello di Ali Ibn Dawud Al-Arfadi? Il nome è ostico perché abbiamo perso la familiarità con quel mondo cristiano, ma la sua memoria - fortunatamente in non totale continuità con altri rami della nostra storia - potrebbe tornarci utile.
(da Jesus febbraio 2008, p. 49)
Juan Luis Herrero del Pozo
Non sembra possibile chiarire se Dio sia intervenuto se non ci intendiamo prima sul termine “intervento". Sebbene venga spiegato più avanti, si può arse favorire la comprensione anticipando che la relazione Dio-creatura non è mai una relazione di causa-effetto (in questo caso sarebbe una relazione magica) ma di fondamento strettamente ontologico, cioè che riguarda l'essere come essere “creato" in tutto quanto è e fa. Per la tendenza ad assimilare tutto alla nostra condizione creata e finita, propendiamo a intendere la relazione Dio-creatura come azione (sia di Lui verso di noi che di noi verso di Lui). Per superare questo equivoco - inconscio? -, non trovo migliore espressione che quella del fondamento ontologico per esprimere quello che intendiamo per “creazione".
1. Nella "creazione" si conclude la teologia...
Questo fondamento ontologico della creatura ha ancora meno a che vedere con un'azione propriamente temporale di Dio che immaginiamo abbia fatto passare il creato dal niente (quando niente esiste) all'essere (quando dopo qualcosa comincia ad esistere). Il fondamento ontologico non ha nulla a che vedere con la dimensione temporale. Il creato è ontologicamente dipendente da Dio anche se non ha avuto un inizio temporale, cioè anche se, riavvolgendo la storia del cosmo, non andassimo ad urtare con il confine del tempo o con il momento prima del quale niente esisteva. Penso perfino che non manchino ragioni per parlare di una creazione ab aeterno e di una coesistenza “eterna” dell'infinito e della realtà creata, il primo Necessario, la seconda Contingente. Teologicamente “Dio è amore”, cosa che filosoficamente corrisponde al concetto di bonum est diffusivum sui, il Bene è per sua natura espansivo, creativo. Niente impedisce di contemplare la possibilità fisica di una serie illimitata di big-bang.
Questa nozione così depurata di “creazione", ben intesa, ingloba tutto in teologia. Ci basta anche per dare conto della nozione, tanto cristiana - e tanto umana -, di gratuità. La comunicazione di Dio è essenzialmente Dono; Bernanos diceva giustamente “Tutto è grazia”. Questo fondamento ontologico, questa gratuità radicale che riguarda le radici e la totalità dell'essere non va mai dimenticata. Ma è sufficiente per affermare con decisione, a partire da esso l'autonomia totale rispetto a Dio di ogni essere che, nel suo ordine e in una qualche maniera, dovrà comportarsi “come se Dio non esistesse”. In questo mondo, una madre può inviare un messaggio telepatico al figlio e io posso trasmettere energia ad un amico malato. Dio è più potente, gli basta sostenere ogni essere o azione nella sua esistenza autonoma; andare più in là e intervenire nel processo storico sarebbe contraddire se stesso. Ovviamente si capirebbe ancor meno che lo facesse alcune volte sì e altre no (sebbene molti ricorrano alla preghiera per chiedere qualcosa).
II. L'”ìnterventismo" divino è magia
L'”interventismo" divino è la conseguenza diretta e naturale del vecchio paradigma nella sua radicale dipendenza dal pensiero magico. Ho parlato di magia perché l'interventismo divino sarebbe come tirar fuori ancora un altro coniglio dal cilindro quando il circo è già pieno di conigli. In ogni caso, è magia attribuire a Dio l'essere causa di un qualche effetto che cominciasse ad esistere, o, esistendo già, sì vedesse modificato contravvenendo alla sua autonomia e alle leggi naturali, fisiche o mentali. Per gli antichi, l'intervento dall'alto faceva parte del meccanismo di funzionamento del cosmo. All'origine del movimento di ogni astro c'era un angelo e il re riceveva l'autorità da Dio. Oggi solo il papa pretende dì conservare questo privilegio. Le leggi fisiche e gravitazionali, in un caso, e il popolo sovrano, nell'altro, finirono col sopprimere il lavoro degli angeli e di Dio che recuperava la sua trascendenza occulta dopo un'immanenza male intesa. Ma poiché l'Illuminismo risultava troppo pericoloso, l'Autorità ecclesiale fece molta attenzione ad assicurarsi che l'autonomia del cosmo non si estendesse alla coscienza sotto forma di libertà di pensiero e decisione.
III. L'intervento "soprannaturale", un falso sovrappiù
Questa attenzione non risultava difficile all'istituzione ecclesiale perché previamente (magari per la necessità di conferire finalità e senso al processo dì divinizzazione di Gesù) era stata operata la distinzione tra “naturale" e “soprannaturale", cioè tra quello che era a portata dell'essere umano per “natura" e quello che gli era arrivato, aggiunto successivamente, come redenzione soprannaturale sovrabbondante dal peccato originale (felice colpa!), nuova suprema gratuità a fondamento di una “nuova creazione”. Un’abbagliante personalità aveva fatto di Gesù qualcuno appena al di sotto dell’Altissimo, figlio di Yahvè. Gesù aveva annunciato il Regno, ma subito Paolo e altri seguaci, a partire dalle loro soggettive esperienze religiose, si erano dimenticati praticamente del Regno di Dio e avevano cominciato a parlare del secondo Adamo, abbondantemente riparatore del peccato del primo. Tutto il racconto mitico della Genesi era stato teologizzato e i racconti sinottici mistificati. Gesù aveva centrato il suo messaggio sul Regno, quello dei poveri e degli emarginati, i suoi discepoli hanno sostituito il Regno con Gesù. La Buona Novella non è più il nuovo statuto dei poveri ma la Persona (divina) di Gesù.
A partire dalla potente irruzione divina del Dio-con-noi si moltiplicano a cascata - in grado superiore a quelli dell'Antico Testamento - gli interventi soprannaturali della divinità, al di sopra e al margine delle leggi della natura e delle possibilità della coscienza e della libertà:
- Infusione della grazia santificante, mozioni soprannaturali (grazia attuale) per rendere possibili atti meritori di eternità e/o sanare e rafforzare la libertà "caduta".
- Efficacia necessaria anche se strumentale dei sacramenti che generano e dotano l'anima di nuove possibilità (virtù soprannaturale).
- Superamento della simbologia eucaristica della condivisione della mensa grazie all'interpretazione letterale di "questo è il mio corpo", con il conseguente modo di "presenza reale" di alchimia transustanziatoria (secolo XI).
- Infusione di un "carattere" indelebile e permanente da parte di certi sacramenti (neanche Dio, mi si perdoni, mi toglie il sacerdozio, così come l'apostasia non cancellerà mai il "carattere" battesimale, l'essere cristiano).
- "Ispirazione" grazie alla quale il profeta o lo scrittore sacro concepiscono certi nuovi contenuti di coscienza (le verità rivelate) irraggiungibili senza uno speciale intervento divino. A partire da qui tutto è più confuso.
- Nessuno ha dubitato che i contenuti parlati o scritti di profeti e agiografi fossero farina del loro sacco, vissuti soggettivi, esperienze religiose personali. Ma vengono rivestiti di una cappa soprannaturale di "ispirazione" divina (ma come distinguere i due livelli?) in virtù della quale ci è dato di aggiungere chiaramente la postilla "parola di Dio" ad ogni lettura (rivelazione). Sarebbe bastata una coscienza sensibile e aperta per discernere il carico di dis-velamento di Dio che veicola l'esperienza spirituale di un uomo di Dio. Sempre... quanto più umano, più divino!
- Una sede speciale dell'azione divina senza rispetto alcuno per l'autonomia cosmica, cioè al di sopra o al margine delle leggi naturali (magia), è l'ambito dei miracoli...
- Per colmo, quando Garibaldi si presenta alle porte della Città Santa, Pio XI si rifugia nell'infallibilità: si guadagna da un lato quello che si perde dall'altro. È il massimo dell'interventismo (per quanto sempre a mezze tinte: va a sapere - con certezza umana, chiaro! - se si danno i requisiti per avere la garanzia dell'”assistenza" dello Spirito in una definizione 'ex cathedra’).
Ancora e ancora... azione, azione e azione (causa-effetto) di Dio che modifica, supplisce, completa l'autonomia - incompleta? - del creato. Si è autolimitato Dio nella creazione; si corregge in seguito al peccato originale mediante la "nuova creazione"?
In una concezione magica di Dio, egli sarebbe in grado di fare "il pio" e non "il meno": potrebbe far emergere l'essere dal nulla ma non dotarlo originariamente di forza evolutiva, trasformatrice, orientata alla pienezza. L’evoluzione verso stadi superiori non è un accidente aggiunto bensì e inerente al concetto di essere limitati) ma perfettibile. Tanto l'evoluzione ascendente delle specie quanto la capacità innata delle coscienze di rigenerarsi moralmente, di "convertirsi", di dire liberamente sì laddove prima si diceva no. È la capacità naturale di discernimento e di decisione che costituisce la persona come coscienza intelligente e libera. Il peccato è inerente all'essere limitato o deficiente ("necessarium est quod deficiens quandoque deficiat", quello che può sbagliate, sbaglia sempre qualche volta). E non rappresenta nessuna cesura irreparabile che avvenga alla coscienza e la renda incapace di riabilitarsi (come pretende la sua teorizzazione come “offesa infinita" a Dio).
IV - Non è deismo
A forza di difendere l'autonomia della creazione in tutti i suoi ambiti, lasciamo spazio a chi ci accusa di deismo. Il deismo è la cosmovisione di una creazione orfana di fronte ad un dio ozioso e annoiato. Perché, se "non interviene", come può occuparsi provvidenzialmente del mondo, che è quello che lui fa? Sbagliamo, credo, se non ci basta che Dio sia il fondamento ontologico e abbiamo bisogno di duplicarlo in un fare provvidenziale. Perché, se Dio non agisce, in cosa occupa la sua solitudine? O, perlomeno, come vetta in nostro aiuto? Come ci salverà?
Non sono deista, neanche lontanamente. Come ho detto, mi oriento a credere che il Dio di Gesù sia l'essenzialmente presente, tanto vicino che non lo si può concepire senza il suo essere visceralmente creatore, diffusivum sui abaeternum et in aeternum. È "attività" trascendente, "Atto puro”.
È necessario riconoscere che la metafisica su Dio è asciutta e austera, e mal si concilia con l'immaginazione spazio-temporale, con similitudini e metafore. Queste rispondono, tuttavia, al mondo in cui siamo immersi, a quello che entra in noi attraverso i sensi, al calore del cuore. Per questo preferisco la mistica, perché la mistica è metafisice con il cuore (profondità e tenerezza).
Il nostro Dio è il contrario dell'orologiaio che si disinteressa del suo orologio. Il rifiuto di ogni interventismo divino non è il rifiuto della sua Presenza, Vicinanza e Amore. L’essere creatura si definisce come essere-a partire da-Dio, cioè essere-a partire dall'amore, ciascuno al proprio livello, in modo che, se non lo fosse, tornerebbe al nulla, smetterebbe di esistere. Stiamo parlando di una Presenza Fondante della realtà e quanto più realtà tanto più Fondante, fino ad arrivare, per quanto riguarda l'essere umano, a quello che diceva Agostino di Ippona: "Dio è più dentro in me della mia parte più profonda" o, nelle parole poetiche del Profeta Maometto, “più vicino della mia vena giugulare". Le immagini sorgerebbero a fiotti, per quanto tutte pervertano la Grande Realtà. Dio è la luce che inonda un prisma di puro cristallo, ad una profondità tale da conferirgli l'essere quello che è. Dio è la respirazione, l'alito, la "ruah" del cosmo. Dio è l'Uno del Molteplice, Pura Energia, Dea Madre eternamente pregna del Mondo... E, soprattutto, la metafisica della poesia mistica: "Passò per questi luoghi con sveltezza, e soltanto effondendo / lo sguardo con mitezza / Ti lasciò rivestiti di bellezza" (Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, ndt). Più del Nirvana.
Tale e non altro è, a mio modo di intendere, il mistero dell'immanenza del Trascendente, quello di una creazione che è insieme umanizzazione, incarnazione e salvezza, in un'unica modalità di Presenza in differenti tappe dell'evoluzione cosmica e della maturazione della persona.
V - Una cosmovisione credente e laica
Detto ciò in maniera chiara perché nessuno si inganni, tenteremo di tracciare una cosmovisione semplice, umana, spirituale, valida per tutti, credenti e non credenti (i quali devono solo provvedere ad eliminare l'etichetta Dio con cui non sono conformi).
Lo ripeto di nuovo, tutto è Grazia, tutto è Dono, "chi ha Dio, nulla gli manca", “in lui, Dio, non in Gesù, ci muoviamo e siamo". Una volta affermato questo, nel pensiero e nel progetto di vita del credente (è l'unica fede che non sia magica), il resto della storia e della persona si costruisce "come se Dio non esistesse". Cosa o chi ci impedisce di stabilite che il cosmo, essere umano incluso, nella sua totalità evolutiva, emerge all'esistenza con una capacità "naturale" sufficiente per progredire verso la perfezione? Dio non ha bisogno di fare nient'altro, si è dato interamente e lì rimane alla radice di ogni realtà perché questa raggiunga il suo massimo sviluppo. È lì come massimo Presente, per quanto la coscienza umana possa non percepirlo. Tutto si svilupperà come se Dio non esistesse, per quanto lunga sia, nell'evoluzione della coscienza primitiva (la nostra attuale), la tappa magica in cui l'immaginario collettivo si fabbrica un Dio antropomorfo. Un Dio interattivo che viene inteso come un personaggio familiare, quasi domestico, per quanto di molto superiore, che muove dietro le quinte i fili della storia. Penso che sia un deficit dell'Occidente cristiano (non gesuanico). Dico questo perché probabilmente l'Oriente ha un pensiero e un comportamento più raffinati. Abbiamo supposto che qualcuna delle sue religioni o non avesse Dio o fosse panteista, semplicemente perché si trattava di una spiritualità più evoluta che intendeva il mondo e si sviluppava nella vita "come se Dio non esistesse”.
Noi invece, abbiamo addomesticato Dio molto presto, ce 1o siamo fatto propizio scaricando su di lui la nostra responsabilità e caricandolo della gestione degli avvenimenti. Abbiamo parlato incessantemente di Dio come se nulla ci si nascondesse del suo essere, abbiamo pronunciato il nome di Dio invano, lo abbiamo utilizzato come condimento di tutte le vivande, siamo ricorsi a Lui, perché mi venga concessa una piazza, guarisca la mia mucca, piova sul mio campo, l'immaginetta (il mio amuleto) in macchina mi preservi dagli incidenti, i miei affari abbiano successo con una benedizione inaugurale ecc. Il "come se non esistesse" significa che la provvidenza di Dio non ci toglierà le castagne dal fuoco, perché non esiste provvidenza intesa come intervento di Dio. Dio non distribuirà giustizia né darà da mangiare al Terzo Mondo.
VI - Sviluppo della coscienza autonoma
Ignoriamo, salvo alcuni pochi punti fissi, quale sia stata la dell'essere umano e l'evoluzione della sua coscienza. Ma qualcosa conosciamo della breve storia - alcune poche migliaia di anni - dei nostri predecessori ebrei. E la conosciamo perché essi stessi hanno generato diverse tradizioni orali e scritte, la Bibbia, in cui ogni generazione consegnava il proprio vissuto religioso soggettivo, che magnificava e assolutizzava, facendone coautore lo stesso Dio. A partire da qui si è realizzata l'esegesi del testo, interpretazione di quello che la "Parola di Dio" stava dicendo (senza dubitare che avesse parlato). Esegesi che era appena l'analisi dell'evoluzione della coscienza soggettiva di un popolo. Sapendo a posteriori che, diversamente che in oriente, gli ebrei facevano intervenire costantemente Yahvé come personaggio qualificato della loro storia, sarebbe di grande importanza - ma tutt'altro che facile - isolare dalle credenze più propriamente religiose relative agli interventi divini tutto quanto bisognerebbe spiegare come socialmente, culturalmente, psicologicamente e antropologicamente umano. Sarebbe un po' come avvicinarsi alla storia dell'evoluzione della coscienza di quel popolo senza eguali. Non ci darebbero inquietudine le contraddizioni e le atrocità che ora ci appaiono nel considerare la Bibbia come "Parola di Dio". Dal momento che non so se qualcosa sia stato fatto su questa linea, mi limiterei a formulare un’ipotesi di lavoro a partire dall'esperienza, da dati antropologici e da una riflessione umana critica.
La mente dell'uomo primitivo è impregnata dalla convinzione della propria precarietà a causa delle malattie e della morte e della mancanza di difese di fronte alle forze della natura, il fulmine, il vulcano, il fuoco, il mare, il gelo, le inondazioni. Nel momento stesso in cui l'essere umano diventa cosciente della sua precarietà, avverte la necessità di qualche protezione e salvezza. Nel duplice sentimento di precarietà e ansia di salvezza alberga la sua convinzione di non essere solo, bensì circondato da forze che subito egli personalizza e divinizza. Ha inizio inevitabilmente il processo di fabbricazione di dei "a propria immagine e somiglianza". Un dio o alcuni dei le cui azioni magiche solo l'Illuminismo ci preparerà a scoprire come tali, indicandoci che le cose hanno una propria autonomia e si reggono per leggi proprie e che non è necessario un dio antropomorfo che interferisca nella storia come una causa che produce un effetto inatteso: scelgo questo popolo tra tutti, contraddico le isobare e faccio piovere a richiesta di alcuni credenti, faccio un miracolo perché il papa possa canonizzare questa buona persona (o non così buona) ecc.
Dopo quei tempi arcaici, il progresso umano è stato molto lento in ciò che è veramente sostanziale: le civiltà e le culture sì difendevano come potevano da credenze in base a cui non si poteva stare sicuri che qualche dio, proprio o alieno, non ne facesse una delle sue con la propria bacchetta magica. Fino al tempo assiale, decisivo come lo è stato quello del neolitico, dell'ampio processo del Rinascimento-Illuminismo, pare che l'umanità non riuscisse a raggiungere l'età adulta nel superamento del pensiero arcaico magico: vivere radicati nella Grande Realtà "come se dio non esistesse”.
Una volta che la Modernità ci permette una nuova cosmovisione, un nuovo paradigma, non è difficile concepire un essere umano che procede in solitudine precaria in questo mondo sapendo di non essere solo.
Il mito del “peccato originale" è quel racconto, esistente in un modo o in un altro in quasi tutte le cultore, con cui i gruppi umani tentano di spiegare e di formulare l'esistenza del Male: se Dio non può esserne l'origine (lo è sì nella misura in cui Dio non può "creare" un cosmo illimitato e perfetto), è stato qualche disordine morale dell'essere umano, qualche peccato a sconvolgere la realtà cosmica. È la funzione del mito: di fronte all'ignoto, esprimere e verbalizzare una causa che indichi una qualche spiegazione.
La realtà naturale, fisica o morale, è per sua propria natura limitata, rischiosa, precaria. Chi ci può assicurare che ciò si debba alla perdita di un qualche status anteriore perfetto? E, per la stessa logica, chi può segnalare i limiti del naturale? Contro tutti i pregiudizi della teologia vigente, Blondel osò prendere sul serio questa insaziabile insoddisfazione, questa autentica sete di Infinito del cuore umano e identificarla con l'Immanenza di ciò che chiamiamo "soprannaturale", Dio e la sua attrazione verso la Pienezza.
(Prendiamo fiato: sono molti i castelli dogmatici che traballano. Nonostante ciò, c’è una sensazione di liberazione e di pace che accompagna i credenti in questo processo di decostruzione).
La coscienza umana, in particolare, è perfettamente attrezzata per l'avventura esistenziale, per quanto sia limitata e precaria nelle sue origini biologiche. Ma possiamo star sicuri che ogni storia, individuale o collettiva, si sia costruita senza preferenza o scelta alcuna da parte della divinità. Dalla massima precarietà fino alla pienezza, perché è legge di vita.
Neppure c'è posto per alcuna chiamata divina ad uno stato di vita concreto. Non c'è alcuna scelta legittima a scapito dell'uguaglianza o dei canali democratici nella designazione a qualche carica. Nessun battesimo genera un qualche cambiamento nell'anima. Nessun sacramento produce alcun effetto estraneo al potere della sua simbologia. Nessuna persona supera un'altra per indicazioni soprannaturali, ma solo per qualità o formazione naturali...
Questo tema di somma importanza non si esaurisce qui. Ma credo che quanto detto, per quanto provocatorio e scandaloso, sia sufficiente a sospettare da dove possano soffiare venti nuovi. In realtà sarebbe un beneficio per i teologi, nonostante qualcuno possa credere di perdere lavoro e identità. Per quanto mi riguarda personalmente, ho l'impressione di restare senza compiti propriamente teologici. Al tempo stesso mi si apre davanti un campo immenso di studio e di contemplazione: l'ingente figura di Gesù il Nazareno, apparendomi insipida la teologia (presunzione e orgoglio, senza dubbio!), inizia nel mio spirito a crescere come non avrei mai potuto immaginare nel corso delle ripetute letture dei testi evangelici. Amico credente o non credente... aude sapere!
(da Adista, n. 76, 3.11.2007, pp. 2-5)
di Pietro Rossano
Gesù Cristo
1. Il cristianesimo prende origine da Gesù Cristo, personaggio storico, nato, vissuto e morto nella antica Palestina situata all’incontro di tre continenti e civiltà, l’Asia, l’Africa e l’Europa. Dall’anno della sua nascita prende origine il calendario moderno.
2. Gesù Cristo nacque a Betlemme da una vergine di nome Maria, della stirpe d’Israele, che lo aveva concepito per un intervento straordinario dello Spirito di Dio, e trascorse la più lunga parte della sua esistenza nel silenzio e nel lavoro quotidiano, nel piccolo villaggio di Nazaret.
3. Aveva circa 30 anni quando iniziò con autorità tra i suoi conterranei una predicazione pubblica, portando a tutti ed a ciascuno questo annuncio decisivo: « Dio vi chiama a convertirvi, a credere in lui e ad entrare nel suo Regno ». un invito pressante al rinnovamento spirituale, ma anche un annuncio di liberazione e di gioia: in Gesù, Dio si rivolge agli uomini per invitarli ad entrare in comunione con lui, e ricevere da lui la felicità alla quale aspirano.
4. Proclamò beati gli umili, i miti, i giusti, i misericordiosi, gli amanti della pace, i semplici e i sinceri; richiese il coraggio della rottura con ogni forma di peccato, anche a costo dei massimi sacrifici, dischiudendo gli orizzonti della vita futura: « Che giova all’uomo, disse, guadagnare anche tutto il mondo se poi reca danno all’anima sua? ». Insegnò a ciascuno a sentirsi piccolo davanti a Dio, a considerare gli altri come fratelli e ad essere pronto a perdonare, così come Dio realmente perdona a ogni uomo- In tal modo diede a tutti una speranza, e la possibilità di rivolgersi con fiducia a Dio.
5. Benedisse il lavoro e la famiglia, condivise il dolore e le esperienze della vita, considerò di pari dignità l’uomo e la donna, predilesse i bambini, apprezzò i valori dell’amicizia e della nazione. Prima di morire diede ai suoi discepoli questo distintivo: « Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati: da questo gli uomini conosceranno che siete miei discepoli: se vi amerete a vicenda ».
6. Per condiscendenza verso le sofferenze degli uomini e per significare che la salvezza di Dio era presente in lui, operò molti prodigi, guarendo ciechi dalla nascita, facendo camminare storpi e paralitici, risuscitando morti; dimostrava così con i fatti di essere veramente l’inviato di Dio sulla terra.
7. Di sé e della sua missione rivelò personalmente ai discepoli quello che potevano capire, promettendo dopo la sua morte l’invio, da parte di Dio, dello Spirito, che li avrebbe introdotti nella pienezza della comprensione e della verità. Chiamò sempre Dio suo Padre, e parlò di sé come del Figlio, inviato dal Padre, con poteri eguali ai suoi, ma sottomesso in tutto alla sua volontà, della quale disse di nutrirsi come di cibo.
8. Lo scopo della sua esistenza era il compimento di una missione che egli spontaneamente adempiva in spirito di obbedienza e di amore. Disse di essere venuto « non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per gli uomini ». Raffigurò se stesso nell’immagine del pastore buono che dona la vita per le sue pecorelle, e paragonò la sua morte al grano di frumento che si dissolve nella terra al fine di risorgere e portare molti frutti.
9. Le sue parole e il suo comportamento urtarono la suscettibilità dei capi religiosi del popolo, i quali decisero di sopprimerlo; ma egli, pur consapevole dei pericoli che si addensavano sulla sua via, non fece nulla per evitarli, fino al giorno in cui, catturato, fu consegnato prigioniero al governatore romano Ponzio Pilato. Questi, per debolezza e per calcolo, lo condannò al supplizio infamante della croce, sulla quale morì affidando la propria vita al Padre e perdonando ai crocefissori. L’ufficiale romano che aveva guidato il picchetto di esecuzione dopo averlo visto spirare esclamò: « Veramente quest’uomo era il figlio di Dio ».
10. Fu seppellito da alcuni discepoli, e sulla tomba i nemici presero misure di sicurezza; ma ciò nonostante al terzo giorno il sepolcro fu trovato vuoto e Gesù apparve risorto, come aveva promesso, e si manifestò più volte e con evidenza ai discepoli, i quali in seguito diedero testimonianza di averlo veduto risorto con i propri occhi, e toccato con le proprie mani. Poi un giorno, alla loro presenza, si levò verso il cielo e scomparve, ponendo termine alla sua missione visibile sopra la terra. Annunciò che sarebbe tornato solennemente alla fine dei tempi, per raccogliere i frutti del seme da lui gettato, e dare a ciascuno secondo le sue opere.
11. Le parole e i gesti principali di Gesù sono stati raccolti dai discepoli nei quattro libretti dei Vangeli; essi costituiscono per i cristiani la parte più preziosa del Nuovo Testamento, (1) e contengono l’annuncio e la testimonianza che gli Apostoli diedero di lui. Dai Vangeli la sua figura continua a emergere nella storia, ponendo a tutti gli uomini il problema capitale della sua persona e della sua missione: « E voi chi dite che io sia? ».intervista di Hugo José Suàrez
Com'e successo che sei diventata una teologa femminista?
Ho studiato a Lovanio e sono giunta a Recife, in Brasile, nel 1973. Era in piena effervescenza la Teologia della Liberazione, sicché sono tornata a studiare teologia attraverso di essa. Leggevo tutto quello che pubblicavano Gustava Gutiérrez, Leonardo Boff e altri. Ho iniziato con molto entusiasmo. Negli anni '73-'75 non pensavo di essere femminista. Avevo ascoltato qualcosa di Bettv Fridam negli Stati Uniti e allora non vi trovavo niente che mi piacesse. Ero interessata all’opzione per i poveri.
Sul finire degli anni ’70, ho cominciato a percepire che molte questioni relative alle donne non entravano nella riflessione della Teologia della Liberazione. Per esempio, il tema del corpo, della sessualità, problemi quali l'aborto, la colpevolizzazione, il lavoro all’interno delle mura domestiche, ecc., e ho cominciato ad essere più sensibile alla tematica. Mi sentivo male, ma non avevo proprio la forza e il coraggio per parlare a voce alta di tutto questo. Fino a quando nel 1980, lessi su Concilium due articoli: uno di Dorothee Sölle, un testo bellissimo sulla cultura dell'obbedienza, dove si spiega. come il nazismo sia frutto della cultura dell'obbedienza, e noi, come donne, per la nostra sottomissione e il "complesso di inferiorità", abbiamo sostenuto questa cultura; l'altro articolo, che era di una statunitense, Rosemary Radford, parlava delle immagini di Dio. Ho cominciato a leggere le femministe del Brasile, che avevano un periodico intitolato "Mulheiro". Ho cominciato pure a interessarmi alla lotta delle Madri di Piazza di Maggio. Io stessa avevo vissuto la repressione della dittatura, durante la quale una delle mie compagne era stata assassinata. Il femminismo mi ha dato alcune illuminazioni per capire in parte quello che e successo in quel tempo a molte donne.
Così il femminismo è stato per me un incontro, una coscienza, un incontro con donne del ceto popolare, un malessere, un apprendistato... E d'improvviso ho cominciato a parlare, e non so come mi sono ritrovata teologa femminista. Non posso dire che è stata una determinata donna a farmi cambiare, ma un movimento, una coscienza creata attraverso riviste, libri, articoli e la vita quotidiana in un quartiere, il vedere come vive la gente.
Come si colloca la tua riflessione rispetto alla Teologia della Liberazione?
Mi sento sulla stessa onda dell'opzione per i poveri, della maggioranza della popolazione, della questione delle contraddizioni di classe, in sintonia con tutta quest'analisi sociologica. Il taglio fondamentale dell'opzione dei poveri è sempre lo stesso; ma quello che introduco (e per questo dico che c'è differenza, non opposizione) è che, a partire dal femminismo, faccio una critica alla teologia patriarcale che non ha mai considerato l’intervento del genere (costruzione sociale di genere). Com'è possibile che continuino a non denunciare le ingiustizie che sono state commesse sulle donne? Per esempio, quante donne sono state violentate in rivoluzioni e guerre, come in Ruanda, Haiti? Perché il corpo della donna diventa arma di guerra? Perché fanno la guerra sul corpo della donna? Perché non denunciano mai queste cose? Denunciano sempre le ingiustizie sociali, ma all'interno di queste ingiustizie ci sono corpi che subiscono più ingiustizia di altri.
La Teologia della Liberazione si muoveva dunque all’interno dello schema patriarcale di pensiero?
Sì, sebbene la Teologia della Liberazione abbia avuto il coraggio di introdurre il metodo sociologico e l'analisi economica nella teologia: ha spiegato chi sono "i poveri", che escono da un’astrazione e una genericità di poveri di spirito per convertirsi in poveri nel senso concreto della parola. A questo, la Teologia della Liberazione penso abbia dato un contributo valido, ma non ha criticato lo schema teologico tradizionale, la struttura del Dio creatore, del Figlio unico che ha sofferto per noi, ecc. Allora credo che sia necessario farlo adesso, perché viviamo in una società molto sacrificale e la teologia ha una responsabilità in questo, nel come uscire da questo sacrificio che la società ci impone.
Dopo i tuoi imprevisti ritorni in Europa e la censura che ti hanno imposto, ora per il dottorato stai per discutere una tesi su “Il male visto a partire dalla donna”. Cometa sviluppato questo tema?
Per affrontare questo lavoro non prendo in considerazione per prima cosa le teorie teologiche sul male, il peccato e la sofferenza, ma i testimoni, che sono innanzitutto le donne che raccontano il loro dolore. Non fanno un discorso teorico o sistematico sul dolore, ma questo si trova mescolato alle loro vite. Allora prendo il libro di Isabel Allende, "Paula" nel quale il male è considerato come "il mio Paese all’epoca della dittatura militare". Fonte di salvezza per Isabel è scrivere, scrivere per non morire, per continuare a resistere alla sofferenza. Poi prendo una scrittrice indiana chiamata Kamala Marcandaya, che patisce il male nella vita quotidiana, nella sua lotta per trovare da mangiare, per curare il figlio malato, ecc.; questo tipo di dolore è per me il dolore proprio delle donne. A seguire, considero le testimonianze che presenta un giornalista brasiliano, Gilberto Dimestain, che ha seguito il fenomeno della prostituzione delle bambine sulle strade; come giornalista, è stato nei posti dove loro stanno, ha parlato con loro e dopo ha scritto tin libro, e io cerco di rispondere alla domanda: qual è il grande male che vivono? Inoltre parlo delle donne del "Movimento per un'abitazione dignitosa" del Brasile, di Domitila Chungara della Bolivia, di suor Juana Inés de la Cruz del Messico e di altri casi concreti. La domanda è che esperienza hanno di quello che noi chiamiamo "il male". Questo è il mio punto di partenza. Segue un capitolo sulla mia esperienza personale e, dopo, qualcosa che non è molto comune nella teologia di Lovanio: lavorare con la mediazione di genere. E quando dico genere voglio dire che uomo e donna non sono realtà biologiche, ma realtà culturali, cioè che non si dà sesso biologico senza sesso culturale, perché ci viene detto cos’è un uomo e cos'è una donna, come si devono comportare, ecc. La mia preoccupazione è individuare il discorso plurale del male e scoprire come questa pluralità è vissuta da vari gruppi di donne, e, all'interno di quello che chiamo il discorso teologico, pongo la domonda: qual è il Dio delle donne?
Nella prospettiva di genere, non esiste una nozione di femminile e di maschile? Sarebbe tutto una costruzione sociale?
Penso di sì. Chiaro, c'è il fatto biologico, ma una bambina dal momento in cui nasce entra nella costruzione sociale, il papà e la mamma cominciano a trattarla come una figlia femmina. Cioè, il fatto bruto del biologico non significa niente, o significa qualcosa, ma è un biologico già condizionato da quella cultura. Non credo che ci sia un'essenza maschile o una femminile preesistente all'uomo storico e alla donna storica che siamo; non c'è niente di preesistente, piuttosto la differenza biologica che abbiamo è al tempo stesso una differenza culturale. Ti dicono che tu, come maschio, non puoi fare determinate cose, ti guardano in un certo modo ecc. C'è una costruzione sociale della questione biologica.
Come si sviluppa l'interiorizzazione del modello gerarchico e maschile nella vita quotidiana delle donne e nell'istituzione ecclesiale?
È chiarissima la gerarchia presente nei discorsi. Quando ascolti le donne di Sao Paulo che lavorano nel "Movimento per un'abitazione dignitosa", è interessante, perché loro sentono la gerarchia, dicono: "Qualcosa c'è quando uno nasce uomo o quando nasce donna", e quando si nasce donna ti dicono: "Impara a lavare i piatti e a pulire la casa" e quando si nasce uomo gli dicono: "Vai fuori, vai a guadagnarti da vivere"; al bambino si ripete: "Tu comandi le donne". Sebbene il discorso non venga esplicitato sempre in questi termini, la cultura ti educa in modo che sono rarissime le donne del ceto popolare che non hanno la mentalità della sottomissione.
E questa realtà è ancora più forte in istituzioni come la Chiesa. Se domandi quanti sono i sacramenti, ti dicono sono sette, ma in realtà sono sette per gli uomini e sei per le donne. La disuguaglianza è presente, le responsabilità di potere e di decisione che hanno le donne all'interno della Chiesa sono quasi nulle. Qual è l'elaborazione teologica fatta dalle donne e riconosciuta dalla Chiesa? Solo quella di alcune che hanno ripetuto le stesse cose degli uomini, ma se cerchi di parlare a partire dal tuo dolore, da come ti senti donna, con le tue sofferenze, non ti ascoltano. Il dolore della donna non è normativo, il dolore dell'uomo sì. La crocifissione dell'uomo Gesù ha molto più senso del dolore di sua madre Maria. Il sangue di Gesù è redentore, mai si è parlato del sangue delle donne, che inoltre è considerato impuro. Io voglio mettere a nudo queste contraddizioni della religione.
In questo momento la Chiesa cattolica vive una stanchezza dottrinale (se non un ritorno indietro) e sono poche le prospettive di cambiamento. Credi che esistano possibilità per il sacerdozio delle donne, oppure si può pensare, per esempio, che un giorno una donna potrà essere papa?
Ora non è possibile, ma credo che il problema non è che noi, come donne si possa essere elette papa. Il problema e che questo modello gerarchico (gerarchia non solo sociale, ma anche sessuale) deve cambiare. Il punto non è che la Chiesa stabilisca che le donne siano ordinate, piuttosto che esista una concezione diversa dell'essere umano. La soluzione non è ordinare le donne, ma cominciare a cambiare relazioni, contenuti e azioni. Per esempio, in temi come l'aborto, la sessualità, i metodi anticoncezionali, in tutto quello che riguarda il corpo, la posizione della gerarchia cattolica è molto conservatrice. Nel caso della pianificazione familiare, per loro esiste il metodo naturale e quello artificiale, ma allora, in questa prospettiva, non dovrebbero accettare i pacemaker cardiaci, perché anche questi sono artificiali; se fai una separazione troppo rigida, il tema si complica. Esiste, dunque, un'idea di natura che bisogna cambiare; non è il sacerdozio delle donne che è essenziale, ma che si riconosca il loro diritto a pensare, agire, condurre, dire cose diverse da quelle degli uomini e che siano riconosciute per questo. Bisogna creare nuove relazioni nella società; questo vuol dire anche che bisogna ripensare i contenuti teologici, perché ci sono cose che non si possono più sostenere, che sono state valide in un mondo teocentrico e medievale, dove tutto era organizzato in base ad un'immagine di Dio come "padre onnipotente, creatore del cielo e della terra"; ma oggi non si ha più questa idea di Dio. I nuovi paradigmi della scienza, i movimenti ecologici, femministi, ecc. hanno fatto cambiare la mentalità, per cui oggi non si possono più dire le cose che si dicevano prima.
(da Adista, 80, 17-11-2007, pp. 8-10)
di Giovanni Tangorra
C’è il rischio che la chiesa si ripieghi su se stessa soffermandosi nella contemplazione del suo mistero anziché protendersi verso gli altri. Occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa, personalizzando la fede. Altro rischio da evitare è il fariseismo. Perché le situazioni sfavorevoli sono maggiormente vantaggiose per la chiesa.
(...)
Una chiesa di uomini
Dopo gli anni dedicati ad analizzare l'identità della chiesa, Congar sente l'esigenza di esaminare il contatto fra questa identità e le principali realtà che costituiscono la dimensione dell'uomo: la persona, il tempo, il mondo. Lo stesso termine «itinerario» fa uscire da una prospettiva in cui la chiesa rischia di ripiegarsi su se stessa, soffermandosi nella contemplazione del suo mistero e afferma che è invece necessario che si riscopra protesa verso gli altri. In poche parole, occorre abbandonare la tentazione del narcisismo ecclesiale perché c'è una strada da percorrere, uomini da incontrare, un tempo da subire e un mondo da abbracciare.
Questo è il segno autentico che esigono i tempi, così come l’autore francese afferma in questa citazione: «Il riconoscimento della situazione reale vuole che la chiesa non esista solamente in se stessa, ma in un certo modo al di fuori di se stessa, al di là dei suoi quadri sacrali, nelle strutture stesse del mondo». (1)
Il passaggio da operare è quindi quello da una chiesa statica a una dinamica, da una chiesa introversa, ferma nella difesa del suo apparato a un'altra che decide di impegnare se stessa lungo l’itinerario degli uomini.
Mentre fino alla rivoluzione francese la società viveva ovattata in uno schema istituzionale che concedeva ben poco alla persona e dove l'autorità pensava a tutto, successivamente c’è stata un'autentica presa di coscienza da parte del soggetto che ha riscoperto il suo spazio personale. Si è così entrati in uno schema che privilegia la dignità dell'uomo a partire dall'uomo stesso, quindi con la sua capacità di essere vero responsabile degli atti che costruiscono la sua esistenza e non strumento o preteso fine di preconcette ideologie.
Di fronte a questo movimento la chiesa ha assunto diverse posizioni che vanno dalla condanna esplicita all'attesa di tempi migliori. Secondo Congar non è possibile mettersi a guardare, occorre accogliere queste nuove idee che devono addirittura diventare motivo di riespressione del cristianesimo. La soluzione proposta non è quindi quella della condanna o della chiusura in se stessi rinforzando le proprie difese, ma quella dell'accettazione.
Nasce proprio qui l’intima esigenza riformista dell’autore, dalla considerazione, cioè, di un mondo diventato adulto che egli caratterizza in questi termini: «passaggio da un mondo oggettivo, a un mondo soggettivo, da un mondo dell’ordine, della gerarchia e della tradizione ad un mondo della coscienza personale». (2)
Il tema, che occupa molte pagine delle opere congariane, si riduce a una sola conclusione: occorre riscoprire il soggetto e farlo entrare nella chiesa. È come un leit-motif di tipo programmatico: nel messaggio cristiano sono importanti le persone e dunque la chiesa è una realtà che deve essere fatta dagli uomini, negli uomini per cui non bisogna schermirsi di fronte al principio personale, perché «sempre la fede personalizza». (3)
Questa personalizzazione va operata a due livelli: nella fede e nella considerazione della chiesa stessa.
Personalizzare la fede
Il primo passo e quello di una coerente autocritica, che deve portare a una revisione dello stesso concetto di «chiesa».
Troppo spesso questo è stato inteso più nel senso dell'apparato che in quello degli uomini. «Abbiamo elaborato - scrive Congar - una teologia. e talvolta pure praticato una pastorale. del sacramentum, dei mezzi di grazia quali esistono in se stessi allo stato di istituzioni, di istanze amministrative, di formule. di riti: li abbiamo messi troppo poco in relazione con un soggetto religioso di cui possono essere e sono effettivamente la cosa (res) e soprattutto con un soggetto religioso collettivo, con una comunità». (4)
L'autocritica riceve nuovi argomenti dalla considerazione del reale. Riferendosi ad alcune indagini, Congar mette in evidenza, in un suo studio, che se un protestante e un cattolico abbandonano entrambi la pratica religiosa, l'abbandono si fa più radicale nel cattolico e questo perché, mentre il cattolicesimo pratica una fede ancorata all'istituzione, il protestante, per l'assenza di strutture, è obbligato a fare atti religiosi personali e quindi ha una maggior possibilità di restare in una dimensione di fede, nonostante l'eventuale abbandono della pratica. Il cattolico, invece, abbandonata la struttura, sembra che abbandoni anche ogni movimento interiore.
rimedio non è quindi quello di rafforzare la dimensione istituzionale della fede, ma quello di sottoporla a un’attenta verifica, soprattutto nelle sue conseguenze più negative, come l'oggettivismo, il legalismo e il giuridismo. Tutte si riducono a una matrice comune: confusione dei mezzi col fine e materializzazione del rapporto religioso. L'oggettivismo infatti scambia la grazia coi suoi strumenti, il legalismo sostituisce l’amore con la legge e il giuridismo confonde la validità canonica con la dimensione di Dio. che Dio, in quanto soggetto primo, crea soggetti, rispettati nella loro coscienza e libertà.La sua volontà di dialogo con la cultura contemporanea porta quindi Congar a condividere l'odierno disagio istituzionale e, soprattutto per ciò che riguarda il mondo della fede, lo giudica positivamente, sostenendo che il futuro della chiesa dipende proprio dall'accoglienza o meno di questo principio, ossia da «una personalizzazione molto più grande delle convinzioni e dei comportamenti». (5)
Personalizzare la chiesa
Tre concetti congariani aiutano a comprendere questo tema e a chiarire meglio le idee finora esposte. Essi sono legati ad altrettanti termini specifici, che approfondirò singolarmente: qualcuno / interiore /reale.
1. Il primo si oppone a «qualcosa», un termine che in Congar esprime il rischio di una cosificazione della grazia, con un'accentuazione esagerata del «mezzo» e delle regole per attuarlo. L'autore si serve della dialettica qualcosa/qualcuno per indicare che tutto ciò che ha a che fare con la vita della chiesa non è solo gesto di «qualcosa», ma è atto di «qualcuno», sentito e ricercato in modo personale, con sincerità e autenticità. Si tratta di operare un passaggio dalla cosa in sé, alla cosa in qualcuno, dal primato delle cose a quello delle persone.
Molte sono le applicazioni di questo principio, non solo al livello di ritualismo religioso, ma anche nelle discussioni dottrinali dove si è spesso più preoccupati dell’esattezza dell’enunciato che del suo contenuto di verità.
2. «Interiore»per Congar è un termine che esprime l'indole del progetto divino. Questo si sviluppa attraverso un movimento di interiorizzazione per cui procede dall’esteriorità delle figure e dei riferimenti all’interiorità del cuore umano. È la dinamica della presenza divina che dalle pietre delle stele e dei templi, dalle tavole della legge, avanza per interiorità fino a diventare una presenza dello Spirito all’interno del cuore stesso del discepolo. (6) Il cammino non si fermerà che in cielo, sinonimo di interiorità assoluta. (7)
Se questo progetto prosegue dalle forme verso il cuore, dalle pietre verso l’interiorità, non bisogna allora avere paura del principio personale, ma favorirlo in tutti i modi.
3. «Reale» sta invece per vero e nel nostro caso indica una cosa che è vera perché diventata atto soggettivato. Sotto questo aspetto un rapporto religioso si dice «reale» nella misura in cui è gesto che parte da un soggetto. Congar si spiega ricorrendo al concetto scolastico della res. Per gli scolastici la res è ciò che di fronte al sacramentum (il mezzo) e alla res et sacramentum (l’effetto), costituisce il sacrificio spirituale dell’uomo e quindi produce l’effetto di grazia. (8) Unendo queste tre dimensioni si deve allora sostenere che il sacramento non è completo finché non raggiunge un grado di interiorità, finché, in sostanza, non è il gesto di «qualcuno».
Non sono però solo gli atti a beneficiare della visione personalista introdotta all’interno della fede. È il mistero della chiesa che deve diventare «reale» nel soggetto umano. «La chiesa stessa che è come un grande sacramento – scrive l’autore – deve avere il suo compimento e la sua verità nell’uomo stesso. Essere reale, potremmo dire, è affermare la sua realtà, raggiungere la sua verità». (9) Dunque la chiesa non è reale o vera finché non raggiunge la sua res nel cuore dell’uomo, finché non diventa vita stessa della persona. La chiesa deve essere gesto di qualcuno e non qualcosa; deve vivere nell’uomo e non nelle cose, siano esse riti, verità, leggi, gerarchie.
La denuncia implicita è quindi contro una specie di materialismo ecclesiologico: la chiesa raggiunge la sua integrità non solo nell'applicazione oggettiva dei suoi contenuti e delle sue regole, bensì diventando contemporaneamente una realtà generata nelle coscienze, nei cuori dagli uomini, rinnovandosi come atto esistenzializzato.
Da queste poche note si comprende come Congar abbia quasi preparato, con molto anticipo, le problematiche principali che hanno coinvolto la chiesa europea degli anni settanta-ottanta, a noi note col titolo di Evangelizzazione e sacramenti, nonché un tema ecclesiologico di grande attualità, strettamente collegato allo dimensione antropologica: quello della chiesa come «noi».
Il fatto che questi argomenti fanno parte del passato non vuol dire che sono superati, anzi credo che oggi stiano ridiventando di profonda attualità, in un periodo in cui il cosiddetto ritorno religioso rischia di confondersi con un tentativo di restaurazione, e quindi con un'isolata conferma dell'elemento istituzionale, oppure con una sorta di atteggiamenti magico-sacrali che al fondo costituiscono proprio il massimo livello dell'umiliazione della persona.
La tentazione ecclesiale
Per Congar intraprendere un cammino contrario rispetto a quanto esposto finora equivale a cadere nella prima delle due grandi tentazioni ecclesiali: quella del fariseismo. (10)
Questo coincide con la tentazione di sostituire il fine ai mezzi lasciando prevalere la forma sullo spirito. I farisei. almeno quelli dei vangeli, avevano per fine la legge e non l'uomo, piegando la sua dignità al dettato scritto. La chiesa cade in questa tentazione tutte le volte che lascia prevalere l'elemento istituzionale-organizzativo su quella personale-spontaneo, tutte le volte che la struttura soffoca i carismi e l'unità elimina la diversità. «Il pericolo insomma – scrive il teologo francese – è che ciò che è principio e fine non venga ricoperto, offuscato e alla fine rimpiazzato da ciò che doveva restare mezzo». (15) L'orientamento farisaico umilia l'uomo in quanto misura la sua fede non tanto dalla sincerità dei gesti, quanto dall'aderenza delle cose. Il rapporto religioso perde così la sua purezza e il volto di Dio diventa estraneo e irraggiungibile perché gli viene sostituita un’idea e un’immagine di tipo autoritario. Il vangelo autentico è invece grande antagonista del fariseismo, basta pensare al ricorrente e lapidario principio del «sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27).
Congar non è il tipo di contrasti e quindi non li crea lì dove per principio non esistono. Così la dialettica spirito/forma non è vista come un conflitto ineluttabile, per cui la strada più giusta da seguire deve essere la complementarietà dei principi.
Tuttavia, se si deve scegliere, Congar non ha dubbi, al punto che egli augura alla chiesa di trovarsi sempre in una situazione sfavorevole anziché di successo rispetto alle istituzioni civili, perché le considerazioni ufficiali favoriscono la chiusura, l’arroccamento, il conformismo, e il cristianesimo diventa un dato biografico, più che una scelta. (12)
Il messaggio conclusivo è molto semplice: gli uomini non si utilizzano, si servono. La chiesa non deve allora scambiarsi per un partito che cerca consensi, ma si ritroverà ogni volta che si perderà.
Note
1) «Structures essentielles pour l’Eglise de demain», in Concilium, suppl.to 60/1970, p. 153 (tr. it. «Strutture essenziali per la chiesa di domani», in Il Regno, ott. 1970, pp. 517-519.
2) Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, Cerf, Paris 19692, p. 36 ; cf. soprattutto le pp. 49-52 : «Religion et institution», in Théologie d’aujourd’hui et de demain, Cerf, Paris 1967, pp. 81-97 ; «Renouvellement de l’Esprit et réforme de l’institution», in Concilium, 73 (1972), pp. 37-45.
3) Questo motivo percorre tutte le pagine del libro sulla Riforma, ancora oggi uno dei saggi più discussi di Congar, quello che gli valse addirittura l’accusa di sospetto modernismo, cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 127-131; anche Sainte Eglise, Cerf, Paris 1963, pp. 43-68, 89-97.
4) Jalons pour une théologie du laicat, Cerf, Paris 1953, p. 81.
5) «L’Avenir de l’Eglise», in L’Avenir, atti della settimana degli intellettuali cattolici, Cerf, Paris 1964, p. 212.
6) Su questo tempo soprattutto Le mystère du temple (tr. it. Il mistero del tempio, Borla, Torino 1963).
7) Cf. «Le ciel, buisson ardent du monde», in Vie spirituelle, 618 (gennaio 1976), pp. 69-79.
8) Cf. «Pour une liturgie et une prédication réelle» in La maison Dieu, 16 (1948), pp. 75-87 ; ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation, Cerf, Paris 1962, pp. 161-173.
9) Ivi, p. 165.
10) Cf. Vraie e fausse Réforme dans l’Eglise, o. c. pp. 143-157.
11) Ivi, p. 145.
12) Sempre attento alle parole, in un altro studio Congar propone un’interessante verifica dell’azione pastorale e alle missioni, applicando queste idee alla distinzione fra discepolato e proselitismo. La prima è un’azione motivata dal bene dell’uomo visto come soggetto, il proselitismo è, invece un rivolgersi agli uomini come strumenti per il trionfo della propria organizzazione: cf. «Réflexions sur prosélytisme et évangélisation» in Rythme du Mond, 2 (1946), pp. 58-68, ripreso in Sacerdoce et Laïcat devant leur tâches d’évangélisation et de civilisation o. c. pp. 51-64.
di Marino Parodi
Senza pensarci tanto, si citano pagine di Tagore e di Gandhi in prediche o in incontri di preghiera. E non si fa male. Perché sotto un profilo ascetico l’induismo può correre in parallelo col cristianesimo. Perciò conoscere questa religione (tra le più antiche ancora praticata da circa 900 milioni di persone) oltre gli stereotipi dei fachiri, del karma e della reincarnazione, è un utile esercizio spirituale.
Un giovane alla ricerca della verità interpellò il saggio Yajnavalkya: «Quanti sono gli dei, o maestro?». Il saggio rispose in ossequio alla formula liturgica: «Quanti sono enumerati nella formula invocatoria a tutti gli dei, figliolo: 3.306». «Va bene», obiettò il giovane, «ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Trentatrè». «Va bene, ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Sei». «Va bene», incalzava il discepolo, «ma quanti sono veramente gli dei, maestro?». «Tre». «Va bene, ma quanti sono veramente gli dei, maestro», chiese ancora il discepolo. «Due». «Va bene, maestro, ma quanti sono veramente gli dei?». «Uno e mezzo». «Va bene, maestro», insisteva ancora il giovane, «ma quanti sono veramente gli dei?». «Uno solo, figliolo», rispose infine il saggio.
Questo dialogo, risalente all’VIII secolo a.C. permette a noi occidentali quantomeno di cominciare a comprendere quattro caratteristiche di fondo dell’induismo, religione dai contenuti tutt’altro che facili da afferrare e ancor più difficili da definire. Innanzitutto, una natura estremamente aperta e “pluralista”, capace quindi di accogliere in sé elementi, dottrine e credenze. In secondo luogo, il carattere - comune un po’ a tutte le religioni e filosofie dell’Estremo Oriente - “esperienziale”: l’induismo si propone come strada, come metodo, per condurre l’uomo alla liberazione e al Divino. «Io proclamo invano con le mani tese al cielo che la rettitudine porta al benessere e alla felicità. Perché non seguite la virtù?». Così si esprime Vyasa, il presunto autore del Mahabharata. In terzo luogo, il profondo senso di armonia che permea l’universo, al di là di ogni apparente contraddizione. La Verità è una sola, ma ha molti volti e viene percepita in maniera diversa da altrettanti individui diversi. In quarto luogo, il profondo anelito a quel Divino, che permea di sé l’intero universo.
Principi basilari
figura centrale dell’induismo contemporaneo e al tempo stesso della politica mondiale del secolo scorso, sosteneva che le Upanisad e tutti gli altri testi sacri indiani potrebbero riassumersi in base ai principi che seguono: Tutto ciò che si muove sulla terra è penetrato dal Signore, l’universo intero ne è espressione. 2)La felicità non consiste nell’accumulare, ma nel dare. 3)L’attaccamento ai beni terreni è male e causa di sofferenze. 4)La rinuncia in tal senso è il bene supremo. 5)Quando ci saremo finalmente “distaccati”, troveremo la gioia.A tutto ciò vanno aggiunti due altri principi importanti, generalmente non facili da accettare per la nostra mentalità occidentale. Innanzitutto colui che cerca la Verità, quindi il senso della vita e la liberazione, è al tempo stesso soggetto e oggetto della ricerca: a ben vedere, il discorso si fa del tutto naturale nella prospettiva, propria a tutto l’Estremo Oriente, che sostanzialmente non distingue tra Dio e universo. In altre parole, manca il concetto di creazione, introdotto dalla Bibbia.
Inoltre, l’induismo insegna il distacco dall’esito, raccomanda l’azione indipendentemente dal raggiungimento del fine. «Soltanto l’azione può essere sotto il tuo controllo, ma questo non può essere esteso ai risultati. Non restare legato né ai frutti di un’azione né all’ozio», raccomanda la Bhagavadgita (800 a.C.) la quale, assieme ai Veda (1500 a.C.), costituisce una delle due grandi raccolte di testi sacri indiani.
Paradossalmente la disposizione spirituale al distacco permette alla mente, libera da tensioni, di concentrarsi a fondo sulle proprie facoltà, favorendo in definitiva il conseguimento della meta. Per dirla con Lord Nelson, in questa religione Dio si aspetta dagli umani che essi compiano il proprio dovere semplicemente perché è il loro dovere. I risvolti psicologici sono particolarmente importanti poiché la psicologia postfreudiana, sviluppatasi attraverso vie in buona misura alternative rispetto al percorso tracciato dal professore viennese, avendo riscoperto in pieno la natura insostituibile della spiritualità ai fini di uno sviluppo sano e autentico della personalità umana, ha attinto grandi risorse dal buddismo e dall’induismo, ma in particolare dal secondo.
Care Gustav Jung, Roberto Assagioli (fondatore della psicosintesi) e, in tempi più recenti, Abraham Maslow e Ken Wilber, fondatori della psicologia transpersonale, hanno trovato nella millenaria saggezza indiana preziosi strumenti di conoscenza dell’anima umana e della sua guarigione.
La psicologia non è peraltro l’unica, per quanto importante, branca della scienza a essersi accorta in tempi recenti del valore dell’induismo. Pensiamo infatti alla fisica, le scuole più avanzate della quale, di indirizzo quantistico, insegnano come alla base dell’universo vi sia non già la materia, contrariamente a quanto per secoli si credeva, bensì l’energia, il pensiero, ossia lo spirito (discorso ovviamente estremamente complesso, che certo non si può sintetizzare in poche battute, tuttavia sicuramente meritevole di un cenno in tale contesto).
Continuando in tale sforzo di semplificazione, possiamo affermare che, infatti, sempre stando alla fisica più aggiornata, la realtà è in definitiva composta da svariati livelli o dimensioni - la netta maggioranza dei quali invisibili ai nostri occhi - e di queste la materia è quella più provvisoria, più fluida, più labile. L’induismo insegna da millenni lo stesso principio.
Lo spirito e la terra
L’occasione è buona per sfatare un altro pregiudizio relativo all’induismo, e ancora una volta diffuso in Occidente, il quale vuole questa religione nemica della dimensione terrena, al punto da negarne l’esistenza. Nulla di più falso, benché anche questo, al pari di tutti i pregiudizi, contenga un frammento di verità. Profondamente convinto della natura essenzialmente spirituale dell’universo, nonché dell’esistenza di tante dimensioni, l’induismo relativizza sì la sfera corporea e materiale, per concentrarsi sull’essenziale, ossia sull’Assoluto e sul Divino.
Al di là di ogni fraintendimento e degenerazione, peraltro sempre possibili per qualunque religione, l’induismo non ha mai negato l’esistenza della dimensione terrena. “Squarciare il velo di Maya”, ossia sfatare l’illusione che vuole fare di ciò che vediamo con gli occhi e tocchiamo con le mani l’unica realtà, significa saper superare ogni apparenza per scoprire che gli eventi terreni, così come si manifestano, non sono che uno spaccato assai ridotto di un panorama infinitamente più vasto, nel quale anche ciò che più ci pare assurdo e caotico ritrova un proprio significato preciso.
L’evoluzione spirituale, che per l’indù costituisce il significato dell’esistenza, comporta innanzitutto il riconoscimento e l’accettazione della dimensione terrena, per poi scoprire che esiste una realtà molto più vasta e ricca di significato. Riconoscere la dimensione terrena significa anche prenderla sul serio per interagire con essa. Naturalmente esiste una pluralità di vocazioni - possiamo dire, esprimendoci in termini cattolici - e in questa gamma la scelta ascetica occupa un posto d’onore e di primo piano, ma non è certo l’unica possibilità.
Un esito importante della scuola spirituale indù consiste nella possibilità di “dominare” la materia e il corpo. Parecchi yogin (maestri di yoga) indiani hanno non a caso in svariate occasioni dimostrato una straordinaria resistenza a fatiche fisiche di ogni genere, al punto da risultare del tutto insensibili al dolore, riuscendo a privarsi di cibo e di sonno per giorni e giorni, spesso lavorando incessantemente, senza mai subire il minimo danno alla salute.
Il karma e la reincarnazione
Conoscere l’induismo è tutt’altro che un optional per farsi un’idea del panorama religioso contemporaneo mondiale di oggi e di ieri. E ciò non soltanto perché questa grande religione può forse considerarsi la più antica tra quelle tuttora vive e operanti nel mondo. Infatti - fattore forse addirittura più importante del precedente - elementi fondamentali della spiritualità induista, a seguito di complessi processi storici e culturali che hanno causato una profonda evoluzione della coscienza religiosa di un po’ tutto l’Occidente (pensiamo soprattutto alla colonizzazione dell’India da parte dell’Inghilterra, protrattasi sino al 1947), hanno finito per diventare patrimonio comune di milioni di europei e americani, spesso rimasti peraltro ancorati alla fede cristiana.
Pensiamo a quel principio metafisico, cardine dell’induismo, che è il karma, ovvero “azione”, secondo il quale ogni azione è portatrice di un preciso significato morale, i cui effetti possono protrarsi per una serie indefinita di nascite. Conseguenza e premessa indispensabile di tale dottrina del karma è la credenza nella reincarnazione (o, per meglio dire, serie di reincarnazioni), l’una e l’altra curiosamente assimilate in Occidente in maniera spesso acritica e superficiale, senza nemmeno essere consapevoli delle origini indiane e dando per lo più per scontato un fattore che in realtà non è: ossia la conciliabilità tra fede cristiana e credenza nella reincarnazione.
Contrariamente a quanto normalmente si ritiene in Occidente, la reincarnazione è considerata sì dalla tradizione induista il percorso normalmente seguito dalla maggioranza degli esseri umani, ma non necessariamente da tutti e meno che mai viene considerato indispensabile il passaggio dell’anima attraverso una numerosa serie di esistenze.
Seguito ancora maggiore, rispetto alle dottrine del karma e della reincarnazione, miete da vari decenni un altro punto-chiave della tradizione induista: lo yoga, termine che, con una certa approssimazione, si può tradurre con “partecipazione” (al Divino, si intende). Si tratta, come è noto, di un complesso sistema di tecniche di meditazione, preghiere e ginnastiche, finalizzato a condurre l’uomo all’incontro con Dio, il che coincide, nella visione induista, con la piena realizzazione della personalità umana.
Vasta gamma di scuole ascetiche
L’approfondimento della personalità umana costituisce d’altra parte la base dell’intera tradizione induista, secondo la quale l’analisi dell’essere umano procede secondo due direttive principali. L’una, verticale, lavora sulla dicotomia corpo/anima e materia/mente, laddove la netta superiorità dell’anima sul corpo e della mente sulla materia viene raggiunta e dimostrata attraverso una disciplina ascetica, per lo più rigorosa.
Da tale grande larghezza di vedute deriva una vasta gamma di scuole, alcune orientate verso una spiritualità assai esigente e caratterizzata da un rigido ascetismo (ad esempio l’”induismo assolutistico” del Ramana Maharshi; http://maharshi .bizland.com/bhagavan), altre orientate verso l’agire per il bene comune (“induismo altruistico”, che ha visto nella figura e nell’opera del Mahatma Gandhi appunto la testimonianza più eclatante). Queste ultime, le quali hanno assistito nell’ultimo secolo a un notevole sviluppo, sono state fortemente influenzate dalla penetrazione cristiana in India, lentamente avviata da svariati missionari secoli addietro, accelerata dalla conquista inglese e tuttora in ascesa.
La tradizione induista ha costantemente fatto ricorso alla metafora del viaggio, secondo la legge del samsara, processo cosmico di continua morte e rinascita, cui sono soggetti tutti gli esseri viventi dell’universo, per spiegare la propria concezione dell’esistenza. Tappa finale è l’incontro definitivo o, se si preferisce, il ritorno a questo, con l’Atman, il Divino.
Per principio, un indù si può identificare con chiunque si consideri tale, in considerazione del carattere estremamente aperto di questa religione - autorevoli studiosi affermano che esistono tanti induismi quanti sono gli induisti - e, di conseguenza, dell’accennata difficoltà di descriverne le caratteristiche di fondo, fatti salvi i principi generali accennati, peraltro suscettibili delle interpretazioni più disparate. In sostanza, l’induismo è costituito dall’insieme delle pratiche e credenze nelle quali si riconoscono coloro che si considerano induisti.
Trattandosi di un mondo tanto lontano - in virtù delle sue radici culturali, etniche e geografiche profonde al punto da rendere praticamente impossibile, in linea di principio, separare ciò che è indiano da ciò che è indù - quanto vicino, per le ragioni viste, si impone comunque una precisazione importante. Lo stereotipo dell’indù il quale, contorcendosi, si contempla l’ombelico con una gamba attorno al collo è assolutamente anacronistico. Gli indù, infatti, come tutti i devoti di ogni altra religione, lavorano, partecipano alle funzioni religiose - al loro pluralismo devono non solo un ricchissimo repertorio in tal senso, favorito da millenni di storia, ma anche la totale disponibilità a partecipare con passione a riti cristiani, buddisti o musulmani -, pregano alla ricerca di una vita piena e soddisfacente in questa dimensione come nell’aldilà.
L’incontro con i cristiani
L’induismo non ha padri fondatori. In tal senso assomiglia più all’ebraismo che al cristianesimo o all’islam, in quanto considera suoi fondatori una serie di profeti, a nessuno dei quali, a differenza dell’ebraismo, attribuisce un ruolo di superiorità. Le storie di saggi, o santi o guru (guide spirituali) sono assai importanti nell’induismo. Tuttavia non sempre l’induismo attribuisce agli eventi storici lo stesso valore teologico, a differenza delle religioni del Libro. Gli indù fanno infatti derivare il significato teologico dalla conversione della storia in mito.
Le verità spirituali possono rivelarsi in un punto preciso nella storia cosmica, ma di per sé sono al di là dell’ordine cosmico e della storia. Tuttavia è possibile dividere la storia dell’induismo in cinque grandi periodi. Il primo, il cui inizio viene stabilito con straordinaria precisione, venendo fatto risalire all’8 febbraio 3102, il cosiddetto “periodo prevedico”, ossia all’epoca della nascita della plurimillenaria civiltà indiana, è caratterizzato dalla nascita e dallo sviluppo di riti, culti negritos e protoaustraloidi, per lo più centrati sulle anime dei defunti.
Il “periodo vedico” (1500-300 a.C.) è caratterizzato appunto dalla nascita dei Veda, da una vivacissima mitologia nonché da una profonda evoluzione, che possiamo collocare attorno all’800 a.C. In tale epoca, segnata non a caso dalla nascita delle Upanisad, si approfondisce la riflessione sul senso della vita e delle realtà ultime, dando corpo a una filosofia religiosa tuttora centrale nella vita di ogni indù. La natura esoterica di tali dottrine, nell’elaborazione delle quali gioca un ruolo importante il ritiro dei saggi nelle foreste, viene incoraggiata dal consolidamento della figura del guru.
Il “periodo classico” (dal 300 a.C. circa al 1000 d.C.) vede la necessità, da parte dell’induismo, di darsi un’identità più chiara, sollecitato dall’avanzare del buddismo, nonché dallo sviluppo delle scuole ascetiche. Segue il “periodo medievale” (1000-1800), caratterizzato dalla grande avanzata dell’islam, dalla fioritura della tradizione letteraria e dal culto delle “vacche sacre”.
Il “periodo moderno”, che va dal 1800 al 1947, ossia alla conquista dell’indipendenza indiana, è caratterizzato da una straordinaria rinascita spirituale induista, favorita e alimentata a un tempo dalla diffusione mondiale della religione dovuta al dominio inglese, nonché dall’opera di straordinarie figure spirituali ormai largamente conosciute in Occidente: Rabindranath Tagore (1861-1941), Aurobindo Ghose (1872-1950) e il Mahatma Gandhi (1869-1948).
Il Vaticano II ha riconosciuto pienamente il profondo valore spirituale dell’induismo, diverse pratiche del quale sono state da decenni integrate con successo nei programmi di vari sacerdoti e formatori cattolici di larghe vedute. D’altra parte, esistono milioni di indiani, i quali continuano a considerarsi indù pur avendo aderito al cristianesimo.
di Bruno Secondin
Affrontiamo un ulteriore approfondimento sull’attenzione a Gesù Cristo nel magistero conciliare e in quello pontificio. Un accenno viene fatto anzitutto alla ricchezza espressiva, carica di «pathos», ma anche di influssi culturali ed etnologici, che si incontra nella tradizione cristiana popolare. Poi passeremo ad analizzare le caratteristiche «cristocentriche» del Vaticano Il e infine di quello pontificio.
I. RELIGIOSITÀ POPOLARE
Il vissuto popolare cristiano ha notevolmente sviluppato il tema «Cristo», dando alle sue manifestazioni un’accentuazione degli elementi «umani», «emozionanti», capaci di riflettere situazioni umane quotidiane. Ma nello stesso tempo lo si può considerare quale spia di aneliti ben più profondi, sacramento di quella «sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere... Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo1».
Anche questo è un settore in cui si sta notando un risorgere di interesse e di studi, anche se qualche anno fa c’era un interesse maggiormente vivace.
Per offrire una definizione possiamo dire
«La maniera con cui la fede, che si visibilizza in “religione”, può inserirsi nelle diverse culture e strati etnici, viene profondamente vissuta dal popolo e si manifesta in dottrina, rito, istituzione norme morali a carattere popolare, radicati nell’esperienza concreta».
Facciamo solo qualche accenno al volto di Cristo presente in questo vissuto popolare. Purtroppo sul tema non esistono monografie di rilievo sullo «specifico» cristologico delle pluriformi tradizioni in genere si tratta tutto «per modum unius». Eppure i misteri della vita di Cristo sono certamente il settore più notevole delle espressioni religiose popolari.
1. ITALIA MERIDIONALE
Queste sono le caratteristiche della figura di Cristo nella religiosità popolare del sud dell’Italia2.
Gesù è visto più che altro folkloristicamente. Frequenti sono i racconti popolari che iniziano: «Quando Gesù andava per il mondo...» Gesù appare un maestro di sapienza, che ha insegnamenti legati al problema della vita misera e insicura della gente, incerta nel cibo e nell’abitazione. A volte è presentato come sacralizzatore dei valori fondamentali della vita contadina: esempio, maledice chi disprezza il pane (così raro!). C’è anche il filone di carattere contestatario: Gesù è presentato in funzione critica, ironica, liberatrice di fronte ai soprusi dei potenti. 3
C’è anche una certa tradizione popolare che lo chiama perfino «primo socialista»: in opposizione al gruppo «clericale» (come ce lo presentano i Vangeli) e quasi una perenne denuncia ai modelli sociali dominanti. 4
Non dobbiamo però dimenticare che le forme di pietà più diffuse, in varie parti del sud Italia, presentano in effetti «Cristo morto» (del venerdì santo) come la figura tipo. Scrive, su questa immagine, Ruggieri:
«Al centro di questa religiosità (siciliana) sta la figura del Cristo sofferente o meglio ancora del Cristo morto. Ed è attorno al Cristo deposto dalla croce e accompagnato al sepolcro da sua madre addolorata che la religiosità siciliana ha creato le sue simbolizzazioni più consistenti.
In tali simbolizzazioni viene a manifestarsi il contenuto centrale di questa religiosità: la dignità cristiana della morte dell’uomo e della sofferenza di ogni donna... A nostro avviso occorre qui parlare, anche se con cautela, di una forma autentica della fede cristiana. Si tratta di una concentrazione della fede stessa, in alcuni aspetti soltanto della memoria storica del cristianesimo, dove diventa quasi ossessivo il tema della morte».
È come dire che sofferenza e morte si devono portare in silenzio. E continua:
«Il nucleo di questa fede popolare può quindi essere descritto come una specie di identificazione tra la sofferenza e la morte storica del Cristo e l’esperienza attuale della sofferenza e della morte dell’uomo»5
Ma in altre parti si incontra anche la rappresentazione del Cristo «risorto» (del giorno di pasqua): il quale nella piazza principale del paese incontra la Madre, fra l’emozione vivissima del popolo. Né mancano devozioni popolari anche a Gesù bambino, al Crocifisso piagato, all’eucaristia, ecc. 6
2. AMERICA LATINA
Qualcosa di simile a quanto detto per il sud dell’Italia anche se molto più ricco;e variegato, si ha in America Latina, per la quale però è indispensabile tener conto dell’influsso determinante dell’immagine spagnola (medievale, pretridentina) 7
L’incontro della cristologia «spagnola» con la sensibilità dell’indio, nel quadro della sconfitta e della oppressione, diede origine ad alcune grandi tipologie di cristologia. Secondo S. Trinidad esse sono:8
— Cristologia di rassegnazione: centrata sull’immagine di Cristo vinto, sconfitto e sofferente. Essa rappresenta l’indio vinto, agonizzante: la croce, il dolore sono le condizioni della sua esistenza; deve rassegnarsi lui e le sue donne (la Vergine dei dolori);
— Cristologia di dominazione: costruita sull’immagine del Cristo trionfante, «monarca celestiale», una specie di re spagnolo celeste, con la corona simile a lui. L’indio vi vede una «personificazione del re conquistatore»; e i re, «ferdinandi» terreni, saranno visti come incarnazione di quello celeste. L’«impotenza costituita» e il «potere costituito» si fondono in una singolare cristologia dell’oppressione;
— Cristologia dell’emarginazione: essa ha come centro la figura di Gesù bambino, variante dell’oppressione. Richiama i bambini emarginati, che il «padrino» prende sotto la sua protezione, ma senza cambiare la loro situazione, né, da parte sua, il ruolo oppressivo.
Ma ci sono anche altre immagini molto diffuse: il sacro Cuore, l’eucaristia, il «Cristo golpista» (implicitamente presente nei tentativi di difesa dei «valori cristiani» come legittimazione del golpe); il «Cristo pacifista»: quello evocato da alcuni profeti come Pedro Claver, Antonio Montesinos, Bartolomé de las Casas...
Queste immagini - per quanto inquinate dai processi culturali e violenti del periodo dell’evangelizzazione - tuttavia rappresentano una base solida su cui fondare il mai finito processo di evangelizzazione. Più problematica la serie di figure «intimistiche», frutto della spiritualità privata e soggettiva, della fase più recente.
Una certa novità è costituita dall’immagine del Gesù Cristo liberatore, che sviluppa una cristologia del servo sofferente. 9 Esso viene a volte a contrapporsi - dice Hugo Assmann - alle diverse figure del Cristo della borghesia e della colonizzazione oppressiva.
Il conflitto tra le diverse e opposte «figure di Cristo» si ritrova anche nella cristologia di Puebla: vi si incontra sia l’immagine tradizionale (prevalente), sia una cristologia più biblica e storica. Il passaggio fondamentale sono i numeri 170-219: «La verità su Cristo salvatore che noi annunciamo».
Il titolo «Gesù Cristo liberatore» non vi si trova; ma si incontra nella parte finale del «messaggio» («Dio è presente, vivo, in Gesù Cristo liberatore, nel cuore dell’America Latina»), quando si parla dell’educazione cristiana (cf. n. 1031) e infine quando si parla di come presentare Cristo ai giovani (cf. n. 1183: «questo è il Cristo che deve essere presentato ai giovani come liberatore integrale»).
Sulla religiosità popolare Puebla apporta una modifica alla prospettiva con cui se n’era parlato a Medellin. In Medellin si parlava di «pastorale popolare», cioè di una pastorale che doveva raggiungere anche le classi popolari e le tradizioni religiose del popolo. Puebla invece, oltre a dare una descrizione più complessa e attenta della religiosità popolare, la descrive come «saggezza» del popolo, come elemento «costitutivo dell’essere e dell’identità» dell’America Latina, come potenziale di evangelizzazione, come punto di partenza della stessa evangelizzazione. 10
Circa le «immagini» di Cristo più diffuse, Puebla mette al primo posto «il culto al Cristo sofferente e al Cristo morto» (n. 912). Una delle preoccupazioni più volte espresse da Puebla è quella di evangelizzare la religiosità popolare, in modo che la figura di Cristo non sia «deformata» in nessun modo:
«È nostro dovere annunciare chiaramente, senza lasciare spazio a dubbi o equivoci, il mistero dell’Incarnazione: sia la divinità di Cristo così come la professa la chiesa, sia la realtà e la forza della sua dimensione umana e storica» (n. 175).
E aggiunge:
«Solidali con le sofferenze e le aspirazioni del nostro popolo, sentiamo l’urgenza di dargli ciò che è specificamente nostro: il mistero di Gesù di Nazaret, Figlio di Dio. Sentiamo che è questa la “forza di Dio” (Rm 1,16), capace di trasformare la nostra realtà personale e sociale e di incamminarla verso la libertà e la fratellanza, verso la piena manifestazione del regno di Dio» (n. 181).
Note
1) Evangelii nuntiandi 48:EV5/1644.
Che cosa sia la religiosità popolare e in quale modo interessi ia
spiritualità lo abbiamo già altrove illustrato, per es. nella Voce
specifica; Religiosità popolare, in Dizionario di spiritualità dei laici, OR, Milano 1981, Il, pp. 211-223. Per un’analisi attenta ai contesto culturale; Religiosità popolare, in «Concilium», 22(1986), 4.
2) Buone indicazioni, anche di carattere pastorale in G. AGOSTINO, La pietà popolare come valore pastorale, Paoline, Alba 1987. Più teologico e un po’ «polemico», Religiosità popolare e teologia popolare, in «Communio» (it.), 95(1987).
3) M. MELIGRANA, Quando Gesù andava per il mondo, in «ldoc-internazionale», 7(1976), 5, pp. 30-40.
4) Cf. A. NESTI, «Gesù socialista», una tradizione popolare italiana
(1880- 1920), Claudiana, Torino 1974; R. CIPRIANI, il Cristo rosso. Riti e simboli, religione e politica nella cultura popolare, Janoa, Roma 1985; P. BOWMAN, Le Christ des barricades (1789-1848) Cerf, Paris 1987.
5) G. RUGGIERI, La fede popolare fra strategia ecclesiastica e bisogno religioso, in «Concilium» 22(185), p. 612.
6) Cf. V. Bo, Feste riti, magia e azione pastorale, EDB, Bologna 1983.
7) Per un primo aiproccio: CELAM, Iglesia y religiosidad popular en A. L.. Bogotà 1977; S. GALILEA-R. VIDALES,Cristologia y pastoral popular, Paulinas, Bogotà 1976; Jesùs: ni vencido ni monarca celestial (imàges de Jesucristo en América latina),
Tierra Nueva, Buenos Aires 1977 (riporta i testi di «Cristianismo y
Sociedad», 13(1975), pp; 43-44, con aggiunta di altri contributi); Quem
è Jesùs Cristo no Brasil?, Ed. Aste. São. Paolo t975: Espiritualidad de la Liberaciòn, in «Christus» (Mexico), dec. 1979/jen.1980 EI Cristo de mi tierra, in «Christus» (Mexico), mar/abr. 1985; J.C. SCANNONE (ed.), Sabiduria popular,simbolo y filosofia, Buenos Aires 1987.
8) I volti del Cristo latino americano, in «ldoc-interflazionale» 7(1976), 3-4, pp. 38-47.
9) Un bel testo C. MESTERS, Missione del popolo che soffre. Cittadella, Assisi 1982.
10) Cf. Puebla, pp. 444-469.
ALCUNE LINEE
Ci limitiamo qui a tracciare alcune linee principali del discorso cristologico del Vaticano II, senza pretendere di esaurire l’argomento.
1. Anzitutto un ritorno al Vangelo, al Gesù storico, concreto, in una prospettiva più ascendente che discendente. Dopo più di un millennio di cristologie «dall’alto», che parlavano cioè di Dio che si fa uomo, l’eterno che si fa tempo, l’infinito che si fa finito. Solo alcune eccezioni vi erano state, come il francescanesimo, in cui si notava una particolare attenzione all’umanità, in cui si svela progressivamente la dimensione divina. Il Vaticano Il così dà risalto in modo particolare al mistero della kénosis, del servo di JHWH. Un Cristo che accetta l’umanità di servizio, per questo si trova frequente la citazione di Mt 10,45: «Non sono venuto per essere servito, ma per servire...» (e simili).
2. Si evidenzia anche il superamento di Calcedonia, considerata come base di partenza non eliminabile. Il concetto di Cristo calcedonense (una persona e due nature) non lo si trova mai. Ciò che invece si tende a fare è valorizzare, andare al di là di questo schema, coprire gli spazi verso il mistero di Cristo: Gesù di Nazaret è un personaggio che «disegna» e «manifesta» (non in assoluto però) il senso della storia, e questo è il suo mistero.
3. Il vero punto focale dell’insegnamento del concilio è la presenza di Cristo nella storia. Il tema del Regno amplifica l’orizzonte in cui si colloca lo stesso Cristo. La chiesa è relativizzata dal Regno, ma anche Cristo, che sembra essere visto come elemento funzionale a tale disegno piu ampio, anche se il suo ruolo vi e centrale, Molte volte si dice che il Cristo ricapitola le cose, le trasmette alla fine dei tempi al Padre. Cristo quindi non riduce l’attenzione su di sé, ma rimanda anche se stesso ad un disegno che appare più ampio. Il riferimento ai testi paolini qui è fondamentale (Efesini, Colossesi).4. Cambia allora la posizione di Cristo rispetto alla totalità della storia. Cristo non è mai colui che annulla la storia, che si contrappone in modo assoluto ad essa, ma piuttosto colui che la recupera in pienezza in tutti i suoi valori. Questo dà adito a pensare che anche la chiesa deve camminare sulla stessa strada, senza animo assolutista e manicheo (come se fuori di lei tutto fosse cattivo o comunque sospetto: la «fuga mundi» si trasformerebbe così in ideologia ecclesiale) Il tema fondamentale e allora il ruolo di ricapitolatore di Cristo rispetto alla storia. Il testo degli Efesini gioca un ruolo privilegiato in questa prospettiva. Cristo e la chiesa portano il senso della somma, il compito di dare «dignità» ad ogni frammento, non quello di annullare quello che c’è (Ef 1,10 viene citato in: LG 3,48; AG 3; GS 38,45,58).
5. Nel Vaticano II non è mai separata la cristologia dalla soteriologia: Cristo misteriosa personalità e Cristo redentore e salvatore sono la stessa cosa, formano un tutt’uno. Natura e missione Sono profondamente integrati. Il concilio colloca l’annuncio di Gesù Cristo salvatore nell’ampio annuncio e orizzonte della storia della salvezza, di cui Cristo è «insieme il mediatore e la pienezza» (DV 15).La conseguenza fondamentale per la chiesa è che: come Cristo, anch’essa deve relativizzare la sua «dignità» e essere anzitutto protesa in avanti, verso la missione. Come il Cristo è il servo di Dio, è il suo servitore, così deve essere la chiesa, a vantaggio dell’intera umanità.
6. La triplice dignità di Cristo, profeta, sacerdote e re, si riflette anche nella vita del cristiano: richiamando il primato del profetismo, e spostando l’aspetto della «regalità» all’ultimo posto. Si rovesciano le situazioni e le mentalità anche recenti: bisogna essere deboli e servitori, e allora si «conquista» a Dio la storia. Appare evidente il rifiuto totale della mentalità che pensa che occorra essere «potenti» per far meglio il bene. Si può notare che la riforma della chiesa («ecclesia semper reformanda»: cf. LG 7.8,40,65;UR 4,7,8) conduce ad una riflessione cristologica molto innovativa, da cui derivano poi le idee per la «riforma» Ma c’è anche dell’altro che vorrei proporre.
UNA PISTA PARTICOLARE
È quella che troviamo in Gaudium et spes, in particolare nei primi tre capitoli. Facendo un’analisi dei tre umanesimi emergenti, il concilio cerca di interpretarli alla luce di Cristo e di ripensare il mistero di Cristo sotto la provocazione di questi umanesimi/ messianismi. Ne risulta che il mistero di Cristo può mostrare una freschezza insospettata. Ecco alcuni spunti:
- Umanesimo individualista (c. I): è il più tradizionale nell’ambito cristiano, perché affronta temi esistenziali vicini alla mentalità umanistica: morte, dolore, coscienza, libertà, ecc. La risposta è: Cristo è rivelatore anche dell’uomo, è rivelatore dell’uomo nuovo, è lui stesso uomo nuovo e perfetto, che riscatta l’antica immagine deturpata nell’Eden. E di questo capitolo la famosa frase: «Solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo... [Cristo] svela anche pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione» (n 22)
- Umanesimo collettivista (c. II): che evidenzia la solidarietà e la giustizia. Il testo mette in evidenza che Cristo ha «assunto» tutti gli uomini e tutto l’uomo non perché ha assunto una natura umana in astratto ma perchè si e messo in contatto con tutti, è divenuto solidale con tutti, specie i poveri e gli ultimi. C’è un’assicurazione insistente su questa presenza fra gli ultimi (e non fra i «primi», che sappiamo bene chi erano nel Vangelo: scribi, farisei, sacerdoti...). Importante è il n. 32 di carattere eminentemente cristologico.
- Umanesimo tecnico (c III) quello che esalta le possibilità di progresso e di manipolazione della materia da parte dell’«homo faber» Di fronte ai molti problemi emergenti occorre riscoprire Cristo quale ricapitolatore di tutte le cose, punto di convergenza in una restaurazione che interessa anche le realtà materiali: corpo, materia, tecnica. Importante il n. 39 che interpreta «cristicamente» le questioni messe in risalto.
Si potrebbe ancora continuare esemplificando anche in altri settori: si veda per es. l’applicazione al problema culturale (nn. 57-62), dove si mette in risalto il legame stretto tra fede e cultura e specificamente tra incarnazione del Verbo e cultura storicamente delimitata.Tutto questo modo di procedere ha fatto scuola in questi anni. Fino ai nostri giorni, come dimostra anche il documento della Congregazione per la dottrina della fede, Libertà cristiana e liberazione (1986): esso, dopo aver fatto una lettura della condizione della libertà nel nostro tempo (c. I) e della tensione fra libertà e peccato (c. II), traccia alcune linee di interpretazione alla luce della rivelazione biblica (c. III), per poi dedurre atteggiamenti pratici. Un tale modo di procedere (che si potrebbe chiamare circolo ermeneutico) è ormai consolidato, e mostra che bisogna cercare il «volto» di Cristo sempre di nuovo, al di là degli schemi collaudati e ripetuti, per un nuovo slancio missionario e per una nuova esperienza di «andare incontro» a colui che è «oltre», «ci precede» sulle strade della «Galilea delle genti».
GIOVANNI PAOLO Il
Vogliamo dire qualche cosa sul magistero cristocentrico del papa Giovanni Paolo II. Sarebbe interessante esaminare anche il magistero degli episcopati nazionali o quello dei sinodi episcopali Ma preferiamo non dilungarci all’infinito.
Non c’è dubbio che Giovanni Paolo II ha rivolto una particolare attenzione alla centralità di Cristo. Questo comporta anche una particolare maniera di “illustrare” l’ecclesiologia: alla luce di una cristologia ben specifica e che la condiziona.
1. REDEMPTOR HOMINIS (4 marzo 1979)
Qualche mese dopo l’inizio del pontificato, appare l’enciclica programmatica: è abbastanza conosciuta, non mancano i commenti. Il pensiero cristologico viene esposto con intensa partecipazione personale: in pratica si tratta di una professione di fede in Cristo redentore dell’uomo, vivente e operante nella sua chiesa, suo centro e sua ragione di essere.
Lo schema cristologico lo possiamo individuare in questi punti:
- Gesù Cristo è un uomo (da Nazaret), storico, eguale a tutti gli uomini, ma con una singolarità specifica che è la spiegazione ultima del suo modo di vivere la storicità;
- La centralità di Cristo è sulla linea della scuola “francescana”: l’incarnazione redentiva non è solo atto riparatore. E’ anche un atto d’amore eterno di Dio, indipendentemente dal peccato. Esempi se ne incontrano nell’enciclica, per mezzo di citazioni paoline (es. nn. 1,7,8,9);
- Questa centralità è anche accesso unico alla verità. Da solo l’uomo è incapace di giungere alla verità. Cristo la dona nella medesima rivelazione del Padre e rende l’uomo capace di riceverla;
- Cristo è centro della storia, ultimo e definitivo nella vita dell’uomo e dell’universo. Egli è norma e criterio assoluto dell’esperienza cristiana nel mondo; egli è in «funzione» di tutto ciò che l’uomo cerca e attende.
Tra le fonti bibliche prevalgono: Vangelo di Giovanni (specie discorso sacerdotale) e le lettere paoline (Rm. e 1 e 2Cor).
2. UNA CARATTERISTICA
Tra i temi cristologici che variamente vengono sviluppati sottolineiamo: la «singolarità» storica e unica di Cristo, Cristo redentore del peccato, Cristo rivelatore dell’amore del Padre verso di noi. Tenendo presenti queste verità si dovrebbero ridimensionare le correnti cristiane che non danno molto peso all’unicità e «singolarità» storica di Cristo e anche le correnti che enfatizzano la realizzazione su scala mondiale della «liberazione» e non calcolano che il male sta dentro il cuore dell’uomo, nel suo egoismo .e nel suo orgoglio (su questo punto uno sviluppo maturo sarà la: Dives in misericordia). Da qui deriva che il discorso della chiesa sull’uomo sarà elemento centrale dell’annuncio ecclesiale di Gesù Cristo. E dovrà essere un discorso a favore dei diritti fondamentali dell’uomo, contro tutte le oppressioni, anche quelle che presumono di essere invece liberazione storica degli oppressi.
L’impegno missionario della chiesa, di fronte ai «germi del Verbo» e ai valori spirituali presenti in altre tradizioni religiose. La chiesa deve riconoscerli, ma lo saprà fare solo se vive autenticamente aperta a Cristo e ai suoi impulsi (RH 18).
L’attenzione più ampia viene data all’evento croce/risurrezione e al suo significato per la riconciliazione di Dio con l’uomo; più scarsa è l’attenzione alla vita terrena e storica di Gesù e alla portata redentrice di questa realtà storica concreta.
Una difficoltà è la non semplice conciliabilità tra le due vie:
«Gesù Cristo è la via principale della chiesa» (RH 13); e «Quest’uomo è la prima strada che la chiesa deve percorrere nel compimento della sua missione: egli è la prima e fondamentale via della chiesa, via tracciata da Cristo stesso, via che immutabilmente passa attraverso il mistero dell’incarnazione e della redenzione» (RH 14)».
Possiamo superare la dualità dialettica dicendo: La struttura fondante del documento è semplice, unica ragione vitale della chiesa è Cristo; ma Cristo è il nuovo Adamo, chiave del mistero di ogni uomo; e dunque è l’uomo la prima e fondamentale via della chiesa.
3. IL CRISTOCENTRISMO
Il suo pensiero «cristocentrico» lo possiamo seguire nei vari sviluppi attraverso le altre due encicliche teologiche fondamentali: Dives in misericordia (30 novembre 1980) e Dominum et vivificantem (18 maggio 1986).
Nella prima Dives in misericordia, ci presenta Gesù Cristo come la «rivelazione della misericordia» del Padre (n. 1), come incarnazione della misericordia» (n. 2) e come impegnato a «render presente il Padre come amore e misericordia» (n. 3). Più avanti altri due paragrafi sono dedicati al «mistero pasquale»: nel quale la «misericordia si rivela nella croce e nella risurrezione» (n. 7) e più forte del peccato (n. 8). Alla figura del Figlio del Padre misericordioso è associata, come è logico, anche la «madre della misericordia» (n. 9). L’impressione generale che si ricava da questa enciclica è che il tema antropologico religioso (uomo peccatore) sia prevalente e condizioni anche quello teologico-cristologico. Per qualcuno la visione «antropologica» di questa enciclica è piuttosto pessimista.
Nella seconda enciclica (Dominum et vivificantem) riappare con molta forza l’attesa «millenaristica» della fine del millennio, alla luce della quale viene proposta una nuova attenzione allo Spirito santo che sia:
«Una nuova scoperta di Dio nella sua trascendente realtà di Spirito santo, come Io presenta Gesù alla samaritana; il bisogno di adorarlo in spirito e verità; la speranza di trovare in lui il segreto dell’amore e la forza di una «nuova creazione: sì, proprio colui che dà la vita» (n. 2).
Poi tutta la prima parte è dedicata allo sviluppo di una pneumatologia in chiave trinitaria ed ecclesiale, come il titolo stesso avverte: «Lo Spirito del Padre e del Figlio, dato alla chiesa» (nn. 3-26). Le altre due parti sono dedicate più che altro alla riflessione delle forme e delle figure di peccato che dominano la nostra storia e all’opera di «purificazione» dello Spirito (parte II). Mentre la terza è tutta la chiarificazione del senso del «Giubileo del duemila» e delle indicazioni per prepararsi bene: recupero dell’uomo interiore, vita sacramentale intensa (specie eucaristica), esperienza di preghiera.
CONCLUSIONE
Il post-concilio ha sviluppato non solo nuove e interessanti prospettive cristologiche, ma anche ne ha fatto con maggior chiarezza il centro della vita cristiana. Questo può lasciare indifferente la metodologia e il concetto di «santità»? Non credo, ma anzi dovrebbe costringere a rivedere metodi e concetti: passando da un quadro di riferimento chiaramente «ecclesiologico» ad uno più «cristologico», da una cristologia devozionale ad una cristologia più biblica e insieme meglio acculturata.
In altre parole, l’esempio della santità non è «Dio santo», ma piuttosto Gesù, il «Santo di Dio». E la santità è chiaramente esperienza della «sequela» di Cristo, e non il raggiungere una «perfezione» astorica e astratta, modellata sul Dio «perfetto» e «impassibile», lontano dall’umano.
Deriva da qui anche una conseguenza: ad una cristologia «pluralistica» deve corrispondere una santità ricca di pluralismo.
Ha scritto uno studioso della spiritualità
«È accettato un pluralismo personale: diverse persone si sentono internamente spinte a esperienze e lavori diversi dentro l’unica comunità umana. Si accetta un po’ meno il pluralismo cronologico: in tempi distinti si devono cambiare gli accenti secondo necessità e possibilità richieste e concessi in tempi diversi. Si dimentica però il pluralismo geografico: non tutti i luoghi presentano la medesima problematica e, pertanto, non tutti possono utilizzare gli stessi schemi di vita. Una santità che dimenticasse queste differenze, o questo pluralismo, correrebbe pericolo di staticità, gregarismo e uniformismo».
Il settore, o la prospettiva che sembra si dovrebbe maggiormente sviluppare, si può individuare nella «dimensione politica e pubblica» della sequela di Cristo, santa e perfetta. Ne deriverebbe una deprivatizzazione del vivere cristiano e una maggiore sensibilità per una sequela che sia provocazione storica: cioè sostanziata di audacia e giustizia
Dice Puebla: «L’evangelizzazione dei poveri è stata per Gesù uno dei segni messianici, ed anche per noi sarà segno di autenticità evangelica» (Puebla, 1130); e ancora «La nostra condotta sociale è parte .integrante della nostra sequela di Cristo» (n. 476).
E anche un testo vaticano destinato ai religiosi dice: «I Vangeli tendono testimonianza a Cristo della fedeltà con cui ha adempiuto la missione per la quale lo Spirito l’aveva consacrato. Missione di evangelizzazione e redenzione umana che lo condusse a vivere col suo popolo, condividendone le vicende, che egli tuttavia illuminava e orientava, predicando e testimoniando il Vangelo di conversione al “regno di Dio” (Mc 1,15). La sua sconvolgente proposta delle “beatitudini” introduceva un radicale rinnovamento di prospettiva nella valutazione delle realtà temporali e nei rapporti umani e sociali, che egli voleva centrati su una giustizia-santità animata dalla nuova legge dell’amore.
Le sue scelte di vita segnano e qualificano particolarmente i religiosi, che fanno propria la stessa “forma di vita che il Figlio di Dio abbracciò quando venne nel mondo” (LO 44)».
Nella più recente enciclica, Sollicitudo rei socialis (1988), il grande tema della solidarietà, che tutta l’attraversa, trova la sua giustificazione non solo nell’interdipendenza crescente fra popoli, nazioni, risorse, conflitti e paure; ma soprattutto nella fede in Cristo redentore, riconciliatore degli uomini con Dio e centro nevralgico del cosmo (n. 31). Nella forza della sua vita donata, afferma l’enciclica, possiamo lottare contro divisioni ed egoismi, fragilità e ingiustizie. E’ questa una grazia ma anche un impegno (n. 40), una collaborazione aperta a tutti coloro che cercano il bene in nome dello «sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini». La solidarietà è una virtù cristiana (n. 40), genera come frutto genuino la pace (n. 39), si orienta verso tutte le dimensioni sociali, ma anzitutto si classifica come amore preferenziale per i poveri (n. 42), per i quali si fa primariamente amore e servizio (n. 46). E questa la più genuina imitazione di Cristo e la fedeltà autentica al suo programma (nn. 46,47). L’eucaristia, vertice della fede cristiana, ne è pegno e fermento: «Il Signore mediante l’eucaristia, sacramento e sacrificio, ci unisce con sé e ci unisce tra di noi... e uniti ci invia al mondo intero per dare testimonianza, con la fede e con le opere, dell’amore di Dio, preparando la venuta del suo Regno e anticipandolo nelle ombre del tempo presente» (n. 48).
Come si vede anche l’insegnamento «ufficiale» si pone la questione e suggerisce di fare attenzione, tirando le conseguenze logiche. Su questa stessa linea possiamo ritrovare una grande quantità di «nuovi testi» di catechismo, in cui la cristologia è presentata in categorie teologiche e antropologiche non puramente statiche e ripetitive.
Non si tratta di una novità estranea alla storia, perché la storia conosce queste aperture dinamiche e sociali, anche se sotto varie accentuazioni e progettualità. Perciò a questo punto si impone una «rilettura della storia» per cogliere i filoni «cristocentrici» : più ricchi e interpretare la varietà degli approcci al mistero di Cristo.
Lo faremo nei capitoli seguenti, dedicandoci a riconoscere la «molteplicità dei volti» di Cristo nella storia. Attraverso quest’ampia ricognizione, sarà facile riscontrare la notevole influenza delle culture, delle emozioni e delle utopie nel pluralismo di queste immagini e nelle risposte/proposte esistenziali di fronte al mistero di Cristo Gesù.
Vorrei aiutare la contemplazione del volto del Dio sofferente - il Padre/Madre dell’amore della tradizione biblica -, ponendomi in ascolto della Sua rivelazione in tre tappe, tese a scrutare rispettivamente il volto del Dio d’Israele, il volto del Dio di Gesù e quello del Dio della Chiesa.