Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Prima che qualunque germe dei campi esistesse sulla terra, prima che l'erba del suolo spuntasse, non facendo il Signore Dio ancora piovere, e non esistendo l'uomo per far salire canali d'acqua ad abbeverare la faccia del suolo, il Signore Dio formò l'uomo dalla polvere del suolo, e soffiò sulle narici un alito di vita. E l'uomo fu anima vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino nell'Eden, verso l’Oriente, e là pose l'uomo che aveva formato. E il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni albero dall'aspetto desiderabile, e buono a mangiarsi, e, nell'interno del giardino, l'albero della vita, e l'albero della conoscenza del bene e del male.

Genesi 2, 5-9

 L'immagine centrale del racconto è il giardino, creato nel mezzo ad una zona chiamata Eden; in assiro la parola “Idinu” che sta alla radice dell'ebraico Eden, significa steppa. L'immagine viene ad essere così strutturata: nella steppa (Eden), nello spazio arido e privo di vita Dio crea la vita, affascinante e buona. In questa oasi colloca l'uomo plasmato dalla terra. L'uomo è creato con un ritmo ascensionale, prima viene formato il corpo fisico dalla materia cosmica, poi viene animato dal soffio divino che lo rende anima vivente. L'uomo non è materia, ma la materia che lo compone nella sua parte fisica, per l'animazione dello Spirito divino, è un'unità vivente. L'uomo non è soltanto un corpo vivente, ma un'anima, resa vivente dal soffio divino.

 ♦ Il Signore Dio prese l’uomo e lo collocò nel giardino di Eden perché lo servisse e lo custodisse. E il Signore Dio comandò all'uomo: “Da ogni albero del giardino mangerai, ma dall'albero della conoscenza del bene e del male non mangerai, perché nel giorno in cui ne mangerai lentamente morrai

Genesi 2, 16-17

 Evidentemente, il giardino non è una dimensione geografica, ma una dimensione dove l'uomo viveva la pienezza pacificante dell'essere, incontrava Dio e le creature in amichevole dialogo, fatto di attenzione amorosa, di conoscenza rispettosa, di servizio, perché crescessero armoniosamente nella gioia.

Nel giardino l'uomo si trovò posto come su una vertiginosa cima, i cui fianchi erano l'ordine di Dio di non mangiare del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, e la suggestione di una volontà ebbra di autonomia. Obbedendo a Dio, l'uomo sarebbe rimasto nella condizione paradisiaca della comunione totale col visibile e l'invisibile; seguendo la volontà ribelle, sarebbe decaduto da questo stato di non-conflitto, e diventato schiavo della lotta e della separazione.

Il coltivare e il custodire il giardino, erano per l'uomo l'espressione della sua realtà di comunione: con amore umile avrebbe dovuto servire gli esseri creati, prolungando, nell’esistenza sensibile, l'azione creatrice di Dio. Alla sua mente le creature erano segni di realtà sacre, espressione del mistero della manifestazione nell’increata luce divina.

Per questa interiore armonia, l'uomo poteva imporre alle creature il vero nome, quello che pronunciato da Dio, assume in loro una forma visibile.

 ♦ E il Signore Dio formò dal suolo ogni bestia dei campi ed ogni essere alato dei cieli. Li condusse all'uomo, per vedere che nome avrebbe loro imposto, e il nome scelto dall'uomo per ogni singolo vivente sarebbe stato il suo nome. E l'uomo gridò i nomi per le bestie, per gli uccelli dell'aria, per ogni creatura della campagna.

Genesi 2, 20

Funzione sacerdotale questa, di fissare con la conoscenza e la parola, il compito sacro di ogni vivente. Era questa la forma in cui doveva esprimersi il dominio dell’uomo sulla terra. Dominio di conoscenza e di servizio alla vita, di amore e di gioiosa collaborazione all’opera di Dio. Lo sguardo puro dell’uomo, prima della caduta, vedeva la presenza unificatrice di Dio nella pietra e nella pianta, nella notte e nel giorno, nella nascita e nel declino maturo, nell'alba e nel tramonto, nell’uomo e nella donna, nel manifesto e nel non manifesto. Guardava il minerale e la pianta, l'animale e l'uomo, e ne scorgeva il vincolo d'amore che tutto ricomponeva nell'unità. Ed ogni realtà naturale era un segno sacro, un geroglifico che rivelava l'amore e la sapienza creatrice. Tutto gli appariva come un linguaggio divino, un armonioso discorrere che rivelava l'inesprimibile volto di Dio.

L'uomo capiva ed amava, l'amore era via a più perfetta conoscenza, la conoscenza il cammino a più pieno amore.

Vedeva il minerale, la pianta, gli uomini, nella loro forma divisa e nella loro realtà indivisa, e il nome che ad essi imponeva corrispondeva alla loro intima essenza, al loro compito ricevuto come servizio alla creazione.

Sapeva che il più umile fiore, nel breve giro della sua esistenza, accresce per sempre il patrimonio della bellezza di tutto il creato; che la bellezza non è l'utilità funzionale di una cosa ma quel soprappiù aggiunto che rivela la verità dell'incontro dell'uomo col cuore delle cose. La verità delle creature non era nel riscontrarle adeguate agli schemi della ragione meccanica che tutto divide e misura secondo criteri quantitativi, ma nel vederle nel loro aspetto sacramentale, mediante una più profonda intelligenza amorosa. La bontà degli esseri non gli appariva nella loro corrispondenza a categorie utilitarie, ma nel loro inserimento nell'ascendente corrente creatrice.

Questa conoscenza profonda, era il frutto del rispetto dell'albero della conoscenza del bene e del male. L’ordine divino che proibiva la consumazione del frutto, esigeva che l'uomo mantenesse intatta la sua comunione di vita e di servizio coll'universo. Mangiare il frutto, voleva dire l'intromissione delle mani ribelli e violente nell'ordine armonioso del cosmo; il tentativo di diventare loro arbitro, come Dio stesso; la sostituzione della propria volontà ribelle e assetata dall'avventura dell'indipendenza a quella armoniosamente rispettosa dell'intimo tessuto del creato.

Per la coscienza in comunione, non esisteva un universo razionale opposto ad un universo metafisico; una conoscenza oggettivante ed una conoscenza dell'unità del tutto; una ragione logica ed una mente intuitiva; ma per essa c'era Dio, la Parola, lo Spirito e la gioiosa ascesa degli esseri creati. Non esisteva separazione, ma la Parola che portava luce e forma al caos, lo Spirito che vi donava amore e fecondità. Non esistevano le due rive di un fiume, ma un universo in cui fluiva lo Spirito e la Parola, ed il loro passaggio diffondeva vita e gaudio di vita più abbondante.

Ma per l'uomo non fu trovato un aiuto che fosse la sua parte complementare. Allora il Signore Dio fece calare su Adamo uno sbigottimento e si addormentò. Il Signore prese una delle sue costole, e richiuse l'apertura con la carne. E con la costola, il Signore edificò la donna, e la fece venire verso l'uomo. E Adamo disse “Questa volta: osso delle mie ossa, carne della mia carne. Sarà chiamata Isha uoma perché dall'uomo Ish essa fu presa. Per questo, l'uomo lascerà suo padre e sua madre, e alla sua donna aderirà; e saranno una carne”.

Genesi 2, 20-25

Nel primo capitolo, Dio non crea separatamente l'uomo e la donna, ma l'uomo, che, come cellula umana originaria, racchiude in sé l'umanità maschile e l'umanità femminile.

Nel secondo capitolo, la donna viene separata dall'uomo, perché l'unità propria delle cose “nel principio” si attui sul piano dell'esistenza nel tempo.

L’uomo, risvegliandosi dal sonno, davanti alla sua compagna, erompe nel primo canto lirico che nasce dalla gioia di avere scoperta la sua parte integrante che lo libera dalla solitudine e, facendogli raggiungere la pienezza dell'essere, lo aiuta a compiere l'opera di “dominare” tutti gli esseri con il gesto pacificante di chi ha raggiunta la compiuta armonia delle sue forze vitali. L'umano maschile e l'umano femminile sono creati da Dio per attuare nello spazio del visibile e del limitato la perfezione della vita divina. L'armonioso incontro dell'umano maschile e dell'umano femminile, nel pensiero divino, avanti la separazione, era il segno, il geroglifico, della compiutezza della realtà divina.

Ma il serpente era astuto e nudo fra tutte le bestie del campo che il Signore Dio aveva creato.

Genesi 3, 1

Nell'innocenza della terra paradisiaca, si muoveva una potenza ostile, che la Bibbia chiama “il serpente”.

Le sue caratteristiche sono espresse, nella lingua originale, con il vocabolo “arum” che significa “astuto e nudo”.

Il serpente biblico è l'essere nudo, privo della luce propria della coscienza in comunione, ha una sua luce astuta. L'astuzia è la conoscenza che nasce dall'avidità ed è contrapposta alla sapienza. La sapienza vede le creature con occhio non avido, e le conosce nella loro realtà ultima: essenziale ed esistenziale; vede il fenomeno ed il mistero che racchiudono. L'astuzia, invece, guarda le cose con l'avido sguardo del rettile, cerca di capire per carpire. È il prolungamento, sul piano della conoscenza, della volontà di dominio, ed è figlia della vacuità interiore.

La vacuità nasce dalla frattura della comunione con gli esseri, spinge il cuore verso il possesso delle cose esteriori, sconvolgendone l'armonioso ascendere. La scienza si trasforma in conquista per asservire; l'amore, da pienezza interiore, diventa eros, figlio della penuria; e l'uomo stende le mani verso gli esseri, sperando di colmare il suo interiore vuoto. Dio stesso diventa, per l’uomo avido, inquietudine del cuore, non più gioiosa pienezza che sazia ed inebria.

“Quando la coscienza raggiunse il grado dell’intelligenza la sua prima espressione fu quella del serpente astuto. Le elementari manifestazioni della capacità di concepire, distinguere, analizzare furono al servizio della forza espansiva della vita: è il serpente dell'istinto del dominio. Tutta la rabbiosa avidità di questo primo stadio della coscienza analitica, si risvegliò quando apparve lo stadio successivo: quello dell'intelligenza cosmica, che si dischiude disinteressata, e tuttavia viva per una passione divorante, sulla bellezza ed i misteri del cosmo. A questo punto, il primo stadio, il serpente, non ha niente di più stimolante del seminare nel secondo, l'uomo, i germi della confusione. Il serpente è di sangue freddo come un calcolatore, l'uomo è di sangue caldo come l'idealista” (Meyer Sal).

Il serpente disse alla donna: Perché Dio vi ha detto di non mangiare da nessun albero del giardino?”. La donna rispose: Noi mangiamo dei frutti dell'albero del giardino; ma del frutto dell'albero che è dentro al giardino Dio ci ha detto: “Non ne mangiate e non ne toccate, altrimenti morirete"”. Il serpente disse alla donna: - Morire! Voi non morrete! Dio sa che il giorno in cui ne mangerete, si apriranno i vostri occhi e sarete come Dio, conoscitori del bene e del male”. La donna vide che l'albero era buono per esser mangiato, affascinante a vedersi, concupiscibile per l'intelligenza. Prese del frutto e ne mangiò, lo diede all'uomo che era con lei, e lui mangiò. I loro occhi si aprirono e videro di esser nudi. Allora sentirono il rumore del Signore Dio che veniva nel giardino al soffio del vespero, e si nascosero, l'uomo e la donna, davanti al Signore Dio, nell'interno degli alberi del giardino. E il Signore Dio gridò all'uomo dicendo : Dove sei?E l'uomo rispose: Ho sentito il tuo rumore nel giardino ed ho avuto paura, essendo nudo e mi sono nascosto”. Dio fece per l'uomo e per la donna delle tuniche di pelle e li rivestì... Il Signore Dio espulse l'uomo dal giardino dell’Eden e l’allontanò, pose all’oriente del giardino dell’Eden i cherubini e la fiamma della spada turbinante per impedire il cammino verso l’albero della vita.

Genesi 3, 1-9,21,24

Il comando divino proibiva all’uomo di stendere le mani sul frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male e di mangiarne.

Mangiare, è impossessarsi di una cosa, togliendole il suo specifico essere. Mangiare il frutto della conoscenza significava impossessarsi, per far propria, sradicandola dal suo ordine divino, la conoscenza. Col gesto del mangiare l’uomo veniva a sostituire il suo arbitrio alla volontà divina, a dare un suo ordine all'universo. Il germe dell'avidità del possesso entrava così nel cuore dell'uomo, alterando tutti i suoi rapporti col visibile e con l'invisibile. La sapienza, che nasceva dalla partecipazione attenta, della mente e del cuore, al mistero dell'essere creato, si deformò in accaparramento astuto delle creature, finalizzandole al rendimento, all'interesse, ma dimenticandone la realtà sacra.

La coscienza ribelle non sente più Dio come la Presenza che scende nell'ora della brezza vespertina per conversare con i suoi figli, ma come la Potenza ostile che maledice e condanna davanti alla quale bisogna nascondersi tremebondi. “Perché hai fatto questo, tu sei maledetto… accrescerò le tue sofferenze... la terra produrrà triboli e spine... mangerai col sudore della tua fronte ” (Genesi 3, 13-19).

Il veleno del rettile ha dissacrato lo stato d'innocenza paradisiaca, tutto è divenuto ostile all'uomo. I termini, chiamati alla comunione, si sono trasformati in poli di contraddizione. Invece di comunicare con la terra, gli animali, le piante, gli esseri creati, l'uomo si scopre solo, in mezzo a delle forze ostili. La terra gli è nemica, Dio non lo riconosce più, il tempo segna solo la data del nascere, del patire e del morire, lo spazio accresce la solitudine. L'uomo decade dal campo visivo di Dio, scende nella tenebra non rischiarata dalla luce della Presenza divina, nella sua notte; e Dio gli chiede: “Dove sei?”. Le creature, per la consumazione del frutto della conoscenza del bene e del male, sono diventato geroglifici di cui si è perso la chiave. Tutto il creato è sottoposto alla corruzione ed attende che l'uomo ritrovi la perfetta natura dei figli di Dio (Romani 8, 21).

Le creature si sono irrigidite e fatte ostili, scoprendosi private di quell'amore che doveva guidarle a raggiungere la perfetta fioritura del loro nome sacro.

Il creato non è più un universo sacramentale, segno visibile della Presenza invisibile, ma la dimensione dove si esercitano gli umani desideri di possesso. L'istinto del possesso ha distrutto il vero rapporto con le creature. L'attenzione alle realtà create, spostato il centro naturale del cuore dell'uomo, che era il volere divino, è stimolata solo dall'interesse che possono racchiudere o suscitare; ed esse non vengono più avvicinate con amore per quello che sono, ma per quello che hanno o possono avere. E l'universo e stato dissacrato dall'avidità, dalla sete del possesso e del potere. Prima del peccato, conoscere le creature significava vivere con esse, accoglierle, soffrire, gioire con loro. Dopo, non sono più comprese dall'uomo in se stesse ma in funzione di se stesso. Per questo, l'uomo ora vive nel mondo delle realtà create ignorandone il mistero che le rende reali. La mente separata ha ucciso la capacità di comunione, ha creato la mente, per la quale la bilancia è lo strumento di valore ed ogni cosa ha il suo controvalore, la sua contropartita, e riduce il mistero dell'essere creato a quantità e misura. L'uomo decaduto vede soltanto l'universo quantitativo, tutto misura con occhio avido: il bello, il vero, il sacro, il buono.

 

Il simbolo uomo-donna che “nel principio” costituiva l'immagine visibile dell'Invisibile, fu spezzato dal diabolos, la potenza funesta che separa quello che Dio unisce e torna con infinita pazienza a riunire. Prima del peccato Dio parla sempre all'uomo e alla donna insieme; il serpente, invece, parla alla donna separatamente; dopo il peccato l'uomo non sente la donna come parte della sua carne, ma come separata ed ostile: “La donna che mi hai dato mi ha offerto il frutto ed io ho mangiato” (Genesi 3, 12). Il peccato ha separato e reso ostili quelle parti che Dio aveva creato ed unito come l'immagine della sua pienezza. Esse, insieme, dovevano esprimere il mistero dell'essere; insieme, dovevano essere riconoscibili da Dio; insieme, erano la sorgente del bene e della vita di tutte le creature mediante il servizio prestato insieme. Il peccato ha distrutto la comunione, il reale è ritornato caotico, la cattedrale un mucchio di sassi.

Il peccato è la frantumazione del movimento ascensionale degli esseri, è la divisione, la separazione delle parti che dovevano combaciare in una superiore pienezza di vita e di gioia. La comunione dell'umanità maschile e dell'umanità femminile, non era un gioco di istinti avidi di possesso, ma arricchimento reciproco, gioia feconda, scoperta della luce visibile ai cuori non separati e alle intelligenze non diventate laboratorio del diavolo.

La donna non era oggetto di possesso, ma la compagna con cui l’uomo compiva il suo cammino di ascesa, la persona che gli offriva i doni sacri dell'amore, della misericordia, dell'amore alla vita. L'incontro con la donna, costituiva il risveglio della coscienza personale, dell'uomo la liberazione da tutte le chiusure narcisistiche, la scoperta del proprio io creatore e paterno.

“Nel principio” i due sessi non erano polarità opposte, ma complementari; l’incontro era un reciproco superamento dell'età infantile e l'inizio di un ciclo di ascesa personale nell'amore e nella coscienza. E la pienezza dei due si riversava, in ondate di vita e di gioia, per l'elevazione di tutti gli esseri.

L'avidità ha reso l'uomo chiuso nel suo egoismo, profanato la donna. Da qui discende l'incomprensione e l'ostilità dei due, l'umano maschile guarda con ostilità l'umano femminile. Da creature chiamate a raggiungere la piena fioritura dell'essere nell'amore e nella pienezza dell'immagine di Dio, son divenute solitarie ed ostili, chiuse nell'angoscia, nella noia, nel tedio della vita.

La caduta dell'uomo, ebbe, come conseguenza, l'allontanamento dal suo posto e dalla sua missione di mediare le forze divine agli altri regni della natura. La porzione animale dell'uomo divenne ostile al suo centro, cominciando a far vibrare in senso inverso quelle forze vitali che dovevano trovare armoniosa compostezza nel cuore in comunione. Nacque così una stirpe sconvolta da istinti disordinati e caotici: ferocia, rapacità, crudeltà, gelosia, stupidità, sensualità.

L’uomo, chiuso nel breve spazio del suo piccolo “io”, divenne lontano da Dio, ed essendo Dio la Presenza che tiene in comunione tutto ciò che esiste, fu facile preda della più desolante solitudine. Per questa trasmutazione del suo essere, l'uomo fu espulso dalla terra intatta del giardino, e collocato in quella dell'ostilità e della maledizione. Non perché Dio maledica essendo Amore e Vita, ma perché l’uomo ha scelto la non-comunione e la separazione.

Il giardino era la terra del collegamento dei contrari in Dio, attraverso la coscienza umana: il Visibile era segno e via all’Invisibile, l’Invisibile era la sorgente del fiume e il mare che ne placa l'impetuoso fluire; la carne nasceva dallo Spirito e in esso moriva per ascendere a vita più perfetta.

Il cambiamento è avvenuto nell'essere interiore dell'uomo; l'ostilità e la durezza della natura ne sono la conseguenza; non l'effetto di una maledizione. È il peccato di avidità che crea lo spazio della maledizione. L'uomo ha così vergogna del suo essere deformato, spoglio di saggezza, inaridito nell'amore di se stesso. “Mi sento scoperto, ignudo, ed ho avuto paura” (Genesi 3, 10).

Il tedio della vita, la nausea, la noia dell'esistere, nascono dal ripiegamento, su se stesse, di quelle energie che dovevano guidare l'uomo alla gioia dell'ascesa.

♦ Insieme alle gravi parole che descrivono la condizione dell'uomo, della donna, della terra, nella sfera della maledizione, ve ne sono alcune che aprono il varco alla speranza: “Porrò inimicizia fra te e la donna, fra la tua discendenza e quella della donna; la sua progenie ti triterà la testa, e tu le ferirai il calcagno

(Genesi 3, 15).

L'apparenza sensibile del creato, rimarrà per l'uomo illusione, incanto che stordisce, gorgo che affascina e inghiotte. L'uomo sarà sempre tentato e ferito dall'avere, dalle forze demoniache del possesso e del potere.

Ma in mezzo a tutti gli orrori della storia, il Signore Dio ha continuato il cammino nel cuore umano e il suo passaggio è sempre contrassegnato da più umanità, più amore e più vita. Il suo cammino ha la tenerezza dei procedimenti graduali. Costantemente, pazientemente, ha ricostruito l'uomo integro, nel cuore dell'umanità smarrita; e il frutto dell'amoroso passaggio di Dio è Gesù, il Verbo che ha preso carne nell'intatto giardino del seno di Maria.

In lui l'uomo ha ripreso la sua ascesa, anche se con lenti movimenti geologici; le forze redentrici di Cristo tessono nella terra Comunione e Amore. Esse di nuovo saldano nel cuore umano il cielo e la terra, ne modificano la struttura fisica, estinguono l'uomo animale trasformando la carne in energia radiante dell’amore divino.

E l’uomo ritrova in Cristo la via del ritorno che è negazione del proprio io egoistico, non violenza, non amore di sé, non possesso, non avere, ma amore, offerta di sé nel servizio alla vita attenzione appassionata al mistero dei singoli esseri, incontro con Dio in tutto ciò che vive ed ascende, offerta della mano amica a tutti, cuore aperto e traboccante dei doni di pace e di fiducia.

L'uomo, in Cristo, risorge dalla sua tomba. Ritrova il ritmo originale del suo essere: più coscienza, più amore, più libertà.

Giovanni Vannucci

 

 

Giovedì, 21 Dicembre 2023 11:12

Dalla crepa entra la luce (Faustino Ferrari)

Esiste una "broken art" giapponese. Si tratta della tecnica di riparare il vasellame di ceramica. Il nome di quest'arte è kintsugi (o anche kintsukuroi) e letteralmente significa «riparare con l’oro». I frammenti dell’oggetto rotto vengono aggiustati usando una mistura di lacca e oro in polvere. Un oggetto, anche se rotto, può così continuare ad essere usato. Anzi, i segni della rottura vengono impreziositi. Dal danno si ricava un oggetto ancor più prezioso, considerato esteticamente migliore, raffinato. La conservazione si salda alla memoria. Avere davanti agli occhi l'oggetto riparato farà ricordare la circostanza in cui è stata causata la rottura. La cultura occidentale è portata a vedere in ciò un'attenzione per ciò che può essere riusato. Si può, invece, ricavare una lezione simbolica: non bisogna vergognarsi delle ferite subite nella propria esistenza. Le cicatrici delle ferite – fisiche e/o spirituali – non sono da nascondersi. Accettandole in tutta la loro visibilità, possono rivelarsi preziose. Per una nuova vita.
 
«Ring the bells that still can ring / Forget your perfect offering / There is a crack, a crack in everything / That’s how the light gets in». È il ritornello della canzone Anthem, del canadese Leonard Cohen. Perché la luce possa passare attraverso una crepa è necessario che la crepa sia ampia a sufficienza – e maggiore è la crepa, maggiore è la luce che l’attraversa.
 
Michel de Certeau ha parlato di «fratture». Abbiamo una concezione della storia che si svolge in un continuo progresso. Per Certeau questo modo di intendere, però, non è corretto. L’attuale crisi contemporanea non è unica né nuova. La storia umana e spirituale presenta una continua serie di fratture. Ciò è visibile soprattutto nell’esperienza delle persone mistiche. La loro vita spirituale resta incomunicabile. Ma, al tempo stesso, non può non essere comunicata. C’è un indicibile divino che va trasportato nella parola umana. In questa frattura si colloca la vita spirituale più profonda.
Il filosofo Martin Heidegger ha usato un’immagine di altro genere. Ha parlato di segnavia, di sentieri interrotti e di radure. I segnavia sono le tracce che permettono di percorrere un sentiero che si inoltra nel bosco. Ma si tratta di sentieri che s’interrompono, all’improvviso. S’interrompono nella radura dell’essere. Teniamo qui soltanto l’immagine del sentiero che si spezza nella radura. La radura può essere vista come una sorta di ferita, di cicatrice del bosco – il luogo ove, non si sa perché, gli alberi non crescono. A prima vista sembrerebbe che il cammino sia stato smarrito. In realtà, la radura è il solo luogo del bosco ove sia possibile vedere un tratto del cielo.
 
Il pittore di icone è colui che, avendo sperimentato il mistero divino, cerca di comunicare la propria esperienza spirituale attraverso le immagini sante. Non cerca di esprimere la bellezza attraverso una rappresentazione attraente. Spesso le icone, secondo i nostri gusti estetici, non sono belle. La bellezza estetica non ci deve distrarre dal contemplare il mistero divino. L’icona, dal punto di vista simbolico, rappresenta una sorta di piccola finestra, una frattura che ci permette di scorgere qualcosa della luce divina. Rappresenta la crepa che ci apre al mistero divino.
Nella tradizione rabbinica si legge: «È un disonore per un uomo comune servirsi di un vaso rotto. Ma per il Santo – sia benedetto – non è così. Al contrario, egli si serve soltanto di vasi rotti: ‘il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato’ (Sal 34,19); ‘egli guarisce i cuori spezzati’ (Sal 147,3); ‘Dio non disprezza un cuore spezzato e abbattuto’ (Sal 51,20)».
 
Ad un giovane che chiedeva consigli per la preghiera, Jean Claude Colin diede vari suggerimenti. Tra gli altri consigli leggiamo: «Bisogna anche apprendere a gustare Dio. Eh sì, gustare Dio… Gustare Dio è avere il cuore ferito». Perché Colin parla di un cuore ferito?
 
Il profeta Ezechiele annuncia un nuovo tempo, nel quale il cuore di pietra sarà sostituito da un cuore di carne (36,22-32). E per Geremia è un tempo in cui la legge non sarà più scritta sulla pietra delle tavole, ma nel cuore stesso (32,36-41). La trasformazione di questo cuore di pietra non avviene per sostituzione, ma attraverso una lacerazione. Il cuore di pietra può essere sanato nel momento in cui inizia a rompersi. Il profeta Gioele invita a lacerare il proprio cuore e non le vesti (2,16).
 
La ferita del cuore è l’immagine paradossale che svela un’opera in corso di risanamento! Il cuore corrotto è un cuore di pietra, gelido, immobile e rinchiuso in se stesso. Dio si rivela il medico che cura questo cuore di pietra facendovi breccia – una crepa – e lasciandovi il segno di una ferita. Una ferita non più rimarginabile, ma che diventa il farmaco per la guarigione del cuore. Il cuore ferito è il segno dell’azione e della vicinanza di Dio.
 
La vicinanza di Dio a chi ha il cuore ferito non si chiude in un rapporto intimistico, ma interpella all'apertura e alla solidarietà con i tanti cuori feriti della storia e del mondo. Preghiera e solidarietà costituiscono i due modi per attuare l'accoglienza della vicinanza di Dio in noi. Scrive Agostino: «Ama ed egli si avvicinerà; ama ed egli abiterà in te». Il profeta Isaia annuncia un tempo in cui «ti chiameranno riparatore di brecce, restauratore di case in rovina per abitarvi» (58,12). Come nell’arte giapponese, si tratterà di brecce riparate con l’oro?
 
Nella bibbia ogni immagine assume anche il significato opposto. Così è per l’immagine della crepa. Geremia ricorda: «Due sono le colpe che ha commesso il mio popolo: ha abbandonato me, sorgente di acqua viva, e si è scavato cisterne, cisterne piene di crepe, che non trattengono l'acqua» (2,13). Per ogni cosa si rende così necessario il discernimento.
 
Nel vangelo di Matteo, nel racconto della risurrezione di Gesù viene usata l’immagine del terremoto (28,2). Si tratta di un immagine che non significa castigo né è solo simbolo di distruzione, ma è spesso associata con le teofanie. Attraverso il terremoto, Dio si manifesta. Il forte terremoto crea solchi nel terreno, apre crepe e fratture nelle costruzioni. Sconvolge. Il terremoto del racconto di pasqua apre le crepe attraverso cui è possibile vedere la luce della risurrezione di Cristo. Soltanto i riverberi di quella luce – poiché non è dato di poter scorgere pienamente la gloria di Dio, la gloria della risurrezione.
 
E poi, il racconto di Tommaso. Nella richiesta di toccare la carne ferita del Cristo siamo posti di fronte a ben altro che allo scetticismo di una persona nutrita dal dubbio. Perché la professione di fede di Tommaso, quel «Mio Signore e mio Dio!» non può più essere disgiunta dal riconoscimento della passione e della morte del Signore. Tommaso riconosce il suo Signore, ferito nel corpo e nella carne. Sono proprio le ferite del corpo a svelare la divinità del Cristo! Il vangelo di Giovanni – il più spirituale dei quattro vangeli – a riguardo non lascia dubbi ed è radicale. Il momento dell’elevazione in croce – momento culminante della morte con la consegna al Padre dello Spirito da parte del Figlio – è al pari il momento della massima glorificazione. Ed i discepoli incontrano nel Risorto non un fantasma, ma l’Uomo dei dolori e delle ferite.
 
Quali sono le crepe – le fratture, le ferite – attraverso cui possiamo scorgere la luce della risurrezione penetrare nella nostra vita?
 
Faustino Ferrari
 
Giovedì, 21 Dicembre 2023 10:51

L'Ortodossia in Italia (Vladimir Zelinskij)

Il tema è vasto, ma poco conosciuto. Gli ortodossi sono accanto a noi, ma spesso non sono tanto visibili. Non appaiono nello spazio culturale e nelle comunicazioni; noi vediamo solo badanti, commercianti, turisti, mogli degli italiani... Da un anno anche profughi e non solo ucraini. Ma anche molto prima della guerra, i cosiddetti immigranti economici sono venuti in massa da più di tre decenni; così sul nostro continente si è creato un Arcipelago di comunità ortodosse che appartengono a Chiese diverse. Sono davvero tante.

In Italia, un paese, probabilmente, più aperto agli “ospiti” irregolari, ancora negli anni ‘70-80 del secolo scorso si potevano contare poche chiese ortodosse, per quanto io sappia. Quattro russe: a Firenze, a Bari, a Sanremo e a Merano. Una greca a Venezia, una serba a Trieste, due o tre rumene... Le tre ondate dell’emigrazione ex-sovietica - la prima dopo la Rivoluzione Russa del 1917, la seconda durante la Seconda Guerra mondiale, la terza negli anni ‘70 sotto la copertura, spesso finta, dell’emigrazione in Israele – e l’esodo dei greci dall’Asia Minore, non hanno lasciato in Italia tante tracce ecclesialmente visibili. La quarta ondata, invece, la più massiccia сhe continua ancora adesso, è iniziata con il crollo del comunismo nell’Est europeo all’inizio degli anni ‘90, quando le frontiere sono diventate finalmente attraversabili. Adesso siamo presenti davanti alla quinta ondata, quella dei profughi che scappano dalla guerra: milioni ucraini, centinaia di migliaia di russi.

Così l’Europa si è trovata di fronte ad una nuova realtà, anche sul versante religioso. Ma non lasciamo al margine l’immigrazione da altri paesi dell’Est, prima di tutto dalla Romania, la più numerosa, poi dalla Moldova, dalla Russia, dalla Serbia e dalla Giorgia, molto meno numerosa, naturalmente. Quest’immigrazione non ha fatto tanto rumore quanto le barche che arrivano dall’Africa. In passato una persona arrivava con il visto turistico (o senza visto, come i rumeni, che dal 2007 sono cittadini europei), cercava e trovava un lavoro – prima in nero, poi in regola – e rimaneva per un tempo indeterminato, spesso per sempre. Centinaia di migliaia di famiglie italiane, con i propri cari anziani, ospitano in casa una badante ucraina o rumena, in possesso del permesso di soggiorno o priva di documenti, in modo illegale. Dopo l’inizio della guerra l’Europa ha compiuto un gesto di una grande generosità: i profughi ucraini ricevono questo permesso nel giro di qualche settimana.

Noi, in Europa, siamo abituati a pensare ancora all’Ortodossia in termini etnografici, come confessione destinata a rimanere sempre orientale, senza quasi accorgersi che già da tempo esiste un’Ortodossia occidentale: francese, inglese, tedesca – senza parlare di quella americana, che ha una sua Chiesa autocefala... Ma un’ortodossia propriamente italiana ancora non c’è. Esistono le parrocchie di Costantinopoli, di Mosca, di Bucarest. Non meno di 500 comunità, delle quali 300 circa sono rumene. La maggior parte di esse usufruisce dell’ospitalità della Chiesa Cattolica. Sommando il tutto, si possono contare un paio di milioni di fedeli di origine ortodossa, forse, di più, ma essi restano dispersi tra la popolazione e per la maggior parte svolgono i lavori più umili, spesso non sono identificabili nello spazio pubblico. Non costruiscono una comunità, non si sentono, direi, una minoranza religiosa perché non sono uniti sulla base confessionale, ma piuttosto divisi – non soltanto etnicamente e linguisticamente, ma anche ecclesialmente. Si possono contare in Italia sei o sette Patriarcati canonici, oltre ad una nebulosa incerta di Chiese non canoniche, che non sono riconosciute dalle altre grandi Chiese nazionali e che non si trovano in comunione con loro. Molto spesso non sono in comunione neanche tra di esse. Alcune di queste Chiese appartengono alla cosiddetta “vera ortodossia”, una versione di lefebrismo orientale. Le altre non canoniche sono alcune piccole chiese proprio italiane, che non vogliono dipendere dalle comunità straniere e cercano di creare un’Ortodossia locale a modo loro, ma rimanendo fuori dalla comunione con l’Ortodossia mondiale perché non si può fondare una Chiesa solo a partire dal proprio progetto.

Le Chiese “straniere”, però, anche se perfettamente canoniche, non sono in regola con il principio ortodosso: per ogni paese la sua Chiesa, secondo le parole di San Paolo: La Chiesa di Dio che è in Corinto (1Cor 1,1). Canonicamente è assurda la coesistenza sullo stesso territorio delle diverse Chiese di Dio in comunione eucaristica tra di loro, ma che sul piano umano non si conoscono. Hanno i corrispondenti vescovi che dovrebbero costituire una Chiesa sola, ma sono separate da muri etnici che è quasi impossibile superare. Almeno per due motivi. Le Chiese Madri non vogliono in nessun modo lasciare andare le loro Chiese figlie che si trovano oltre frontiera poiché vogliono mantenere i fedeli per sé, per le cosiddette “cure spirituali” come anche le proprietà, se ci sono. Ma anche gli stessi fedeli non sono pronti a lasciare le proprie abitazioni ecclesiali dove spiritualità, lingua, abitudini nazionali – direi anche l’aria stessa della patria – formano una cosa sola.

Tutto questo si è manifestato in modo ancora più forte con la guerra e l’arrivo dei tanti profughi ucraini e le nuove tensioni. Faccio un esempio. Nella mia parrocchia a Brescia, alcune vecchie e fedelissime (cioè, non meno da 10-15 anni) parrocchiane non vogliono frequentare più una comunità dipendente, anche in modo formale dal Patriarcato di Mosca. Vi ricordo che il nostro Arcivescovado delle Chiese Ortodosse della tradizione russa fino al 2019 faceva parte del Patriarcato di Costantinopoli. Poi, nel 2019 il Patriarca Bartolomeo ha cambiato il nostro statuto diluendo l’Arcivescovado delle Chiese Ortodosse in Europa Occidentale della tradizione russa – che esisteva dal 1921 – nelle diocesi greche che sono presenti dappertutto. La maggior parte dell’Arcivescovado non ha accettato questo cambiamento e ha aderito al Patriarcato di Mosca, ma come diocesi autonoma, cioè che fa parte del Patriarcato, ma non si trova sotto la guida giuridica del Patriarca e del suo Sinodo. Tutto questo era quasi normale per la nostra parrocchia con una presenza al 90% ucraina anche prima della guerra – questa guerra sostenuta oggi pienamente e teologicamente dalla Chiesa di Mosca. Ma un piccolo gruppo di parrocchiani non ha potuto accettare questa dipendenza, anche se puramente simbolica. Accanto c’è un’altra piccola minoranza che sta per staccarsi perché una preghiera non formale per l’Ucraina sofferente e la non commemorazione liturgica del patriarca per loro è diventata insopportabile.

La situazione è ancora più complicata perché le radici della divisione si trovano nell’Ucraina stessa con la sua spaccatura ancora molto dolorosa che ha diviso tra loro tanti milioni di ortodossi. Una parte fa il riferimento al Patriarcato di Costantinopoli, un’altra molto più numerosa dipendeva da Mosca, ma dal maggio dell’anno scorso è formalmente indipendente. Senza Mosca o no, questa Chiesa del metropolita Onufrij rimane la Chiesa-madre con cui essi non possono rompere, neanche nella tragica situazione attuale.

Gli ucraini hanno portato con se all’estero tutte queste divisioni e ferite. Al pari dei russi, che una volta erano i cosiddetti bianchi, e che hanno portato nell’emigrazione e non solo in Occidente le loro ferite e rotture interne tra diversi orientamenti politici e ecclesiali che non si sono cicatrizzati fino ad oggi. E le altre Chiese? Secondo me, tutte soffrono della loro “ghettizzazione”, come può essere chiamata la loro mentalità ecclesiale – senza che nemmeno se ne accorgano. Per quanto ne sappia, la Chiesa rumena, numericamente la più presente in Europa, costituisce una comunità compatta, abbastanza ecumenica, ma ripiegata su stessa. Come anche la Chiesa greca, cioè di Costantinopoli, vive nel suo mondo; ci sono in Italia tanti greci già di madre lingua italiana, che si presentano come ortodossi, ma che spesso vanno in chiesa solo dove la celebrazione è in greco. La stessa cosa è con la comunità serba e con le altre – con alcune eccezioni, naturalmente.

Direi in generale che noi ortodossi, che abitano fuori dei nostri paesi d’origine, ci siamo ritrovati nella gabbia dorata dell’etnofiletismo, condannato sempre in teoria, trionfante sempre nella pratica. Tanti nostri teologi sono convinti che debba nascere in Italia una Chiesa ortodossa autocefala, o almeno nell’Europa Occidentale, ma nessuno la vuole. I fedeli vogliono rimanere nel proprio ghetto nazionale, senza nemmeno conoscere gli uni gli altri.

A questo isolamento bisogna aggiungere anche una vecchia e fatale divisione tra gli ortodossi ed i greco-cattolici. Formalmente, questi ultimi sono cattolici, in Ucraina dal 1596, ma solo formalmente. Tutte e due sono grandi comunità – la greco-cattolica, numerosa e ben organizzata con le sue circa 160 parrocchie in Italia, e l’ortodossa, appartengono non solo alla stessa etnia, ma allo stesso luogo di provenienza, alla stessa lingua, molto spesso condividono anche una religiosità popolare simile.

Nonostante tutte queste divisioni, rotture, ferite, la Chiesa Ortodossa Italiana è in lenta, direi anche, lentissima maturazione. Nelle famiglie degli immigrati della prima generazione crescono i bambini, giovani con la mentalità europea e la madre lingua italiana. La nuova generazione degli ortodossi, legata solo in modo simbolico al paese dei genitori, è comunque in arrivo. Di sicuro questa generazione dovrà svelare la propria identità in senso confessionale e culturale. Gli adolescenti di oggi o i loro figli avranno la voglia di diventare proprio ortodossi italiani, anche in senso strutturale, giurisdizionale e prima di tutto spirituale. I profughi non nascono, vivono tutta la vita e muoiono come profughi. Ma le mentalità strettamente nazionali rimangono l’ostacolo principale per la formazione di un’Ortodossia Italiana o, forse, Europea come un unico corpo, che comunque si affaccia all’orizzonte.

Dobbiamo renderci conto, però, che una fusione decisa “dall’alto” di tutte queste parrocchie (rumene, russe, greche, serbe) in un unico corpo ecclesiale, sarebbe canonicamente buona e giusta, ma porterebbe subito alla creazione spontanea di piccole comunità filetiste, le quali non accetterebbero questa rottura con la propria terra d’origine, anche se in pratica tutto – la lingua e le tradizione locali – rimasse come prima. In altre parole, si potrebbe prevedere un nuovo scisma, la cosa che tutte le Chiese ortodosse temono di più. Nel passato ce ne sono stati tanti. Nel presente, anche di più. Basta ricordare ancora quella linea di divisione che separa Mosca, cioè l’Ortodossia Russa, e Costantinopoli, cioè, l’Ortodossia greca, provocata dalla creazione della Chiesa Ucraina indipendente. È come se l’universo ortodosso fosse spaccato in due. La Chiesa unica sul territorio italiano deve nascere dopo una lunga gestazione sulla base della spiritualità comune e del dialogo con le altre Chiese cristiane. Profittando di questa tribuna vorrei ricordare ai nostri cari ortodossi che le Chiese nazionali separate sul territorio di un’altra nazione, anche per le cure spirituali dei profughi, non è proprio quello che Cristo ha chiesto al Padre nella sua preghiera sacerdotale.

Questa nuova Chiesa può portare il messaggio dell’Ortodossia riscoperta all’interno della società occidentale, per entrare in un dialogo spirituale, etico e filosofico con il cristianesimo occidentale, per aprire uno spazio di confronto e di dibattito. L’Ortodossia è vista spesso in Occidente come la confessione più vecchia che ha perso il treno dell’epoca moderna e, da un punto di vista superficiale, questo potrebbe essere parzialmente vero. Non dimentichiamo che la maggior parte delle Chiese ortodosse sono state incatenate per una buona parte del XX secolo e quando sono uscite dai regimi ideologici hanno deciso di cercare la propria identità nel proprio passato. L’Ortodossia in Occidente nata dopo tante prove, catastrofi, necessità è un’opportunità provvidenziale per la propria rinascita, la nascita nuova, piena delle sue ricchezze secolari, ma liberata dal suo glorioso passato nazionale, dal peso del nazionalismo, dal peso della storia, vissuta nella sua riserva etnica e sociale, separata dagli altri. Mi pare che il cristianesimo occidentale abbia bisogno della testimonianza ortodossa, ma non quella venuta dall’estero – quella nata proprio sul suo territorio, con le sue esperienze, con la sua visione di persona, d’essere umano. L’Occidente e l’Oriente cristiano hanno creato due antropologie diverse e tutte le difficoltà del dialogo ecumenico provengono da questa mancanza di comprensione reciproca. Credo che il concetto o la visione dell’uomo nella Chiesa d’Oriente e nella Chiesa d’Occidente, come anche nelle Chiese della Riforma possa diventare il tema principale del dialogo dei Convegni futuri.

Questa Chiesa appena nata o che sta per nascere avrà bisogno di uno spazio culturale, dei mezzi di comunicazione, della possibilità di scambiare le notizie. Di comunicare con le altre Chiese e con la società civile, ecc. Credo che si tratti di un avvenire non proprio lontanissimo. Credo anche che la nostra unità per cui Cristo ha pregato con i suoi discepoli, abbia maggiori opportunità di essere scoperta in esilio – nell’esilio inteso come patria di una Chiesa nuova, di una nuova Ortodossia.

Vladimir Zelinsky

Quale Ortodossia? - dobbiamo chiedere. L’Ortodossia vista dall’esterno come un grande museo dell’antichità, colmo di antiche icone, decorato dalle cupole dorate, ricco di veri tesori spirituali accumulati nei secoli e custoditi nei depositi del sottosuolo del mondo contemporaneo?

Martedì, 19 Aprile 2022 11:26

Pasqua 2022

E noi, in questo tempo, quando in tanti si sacrificano per un tempo di guerra, in questa Pasqua, continuiamo ad osare di celebrare la risurrezione con il racconto di un Dio sconfitto...

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