Formazione Religiosa

Fausto Ferrari

Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

Il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» è un Dio capace di «pentirsi», ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo.

Il testo di Giona 4

1 Ma Giona ne provò grande dispiacere e ne fu sdegnato. 2Pregò il Signore: «Signore, non era forse questo che dicevo quand'ero nel mio paese? Per questo motivo mi affrettai a fuggire a Tarsis; perché so che tu sei un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira, di grande amore e che ti ravvedi riguardo al male minacciato. 3Or dunque, Signore, toglimi la vita, perché meglio è per me morire che vivere!». 4Ma il Signore gli rispose: «Ti sembra giusto essere sdegnato così?».
5Giona allora uscì dalla città e sostò a oriente di essa. Si fece lì una capanna e vi si sedette dentro, all'ombra, in attesa di vedere ciò che sarebbe avvenuto nella città. 6Allora il Signore Dio fece crescere una pianta di ricino al di sopra di Giona, per fare ombra sulla sua testa e liberarlo dal suo male. Giona provò una grande gioia per quel ricino.
7Ma il giorno dopo, allo spuntare dell'alba, Dio mandò un verme a rodere la pianta e questa si seccò. 8Quando il sole si fu alzato, Dio fece soffiare un vento d'oriente, afoso. Il sole colpì la testa di Giona, che si sentì venire meno e chiese di morire, dicendo: «Meglio per me morire che vivere».
9Dio disse a Giona: «Ti sembra giusto essere così sdegnato per questa pianta di ricino?». Egli rispose: «Sì, è giusto; ne sono sdegnato da morire!». 10Ma il Signore gli rispose: «Tu hai pietà per quella pianta di ricino per cui non hai fatto nessuna fatica e che tu non hai fatto spuntare, che in una notte è cresciuta e in una notte è perita! 11E io non dovrei avere pietà di Ninive, quella grande città, nella quale vi sono più di centoventimila persone, che non sanno distinguere fra la mano destra e la sinistra, e una grande quantità di animali?».

L'ira di Giona (4,1-4)

In questo capitolo conclusivo il narratore ci presenta due soli personaggi, Giona e il Signore, posti a confronto tra loro. Una parola chiave per capire l'intero capitolo è certamente la parola «male»,. All’inizio del racconto è stato il «male» commesso dai Niniviti (1,2) che ha provocato l'intervento del Signore; in 3,8 il re di Ninive invita i suoi sudditi ad allontanarsi dal male; Dio se ne accorge e si pente del «male» che avrebbe voluto fare a Ninive (3,10). Ma tutto questo diventa un «male» per Giona. Il v. 1 suona alla lettera cosi, nel testo ebraico: «Ma fu male per Giona di un male grande ed egli ne fu adirato». L'ira di Giona nasce perche Dio non ha commesso il male che aveva promesso di fare! II male non fatto da Dio è un male per il profeta, e ne provoca la collera.
La preghiera del profeta, riportata ai vv. 2-3, è ancora più sorprendente; strana preghiera, ancor più strana di quella fatta dal ventre del pesce! Soltanto adesso troviamo la risposta alla fuga di Giona, nei primi versetti del libro. Giona non era fuggito certo per paura dei niniviti, né per timore di non riuscire a portare a termine la propria missione. Era fuggito perché, sapendo bene che Dio è buono, era sicuro che Dio avrebbe perdonato gli abitanti di Ninive.
Il v. 3 ripete una formula tradizionale della fede di Israele, il modo in cui Dio si rivela a Mose sul Sinai (Es 34,6-7; cf. anche Sal 103,8; 145,8; GI 2,13). Il Dio di Israele è un Dio pietoso, pieno di amore, lento all' ira; un Dio che arriva a pentirsi, come si è visto nel c. 3, del male che egli stesso ha minacciato di fare. E allora, a che serve andare a predicare in suo nome, se tanto poi lui fa come vuole e, contro le attese del profeta, perdona le persone più cattive che esistano al mondo?
Comprendiamo che il profeta era andato sì a Ninive, ma con le gambe, non con il cuore; o se volete: Dio perdona, ma Giona no. La reazione del profeta, che si ripeterà poco dopo al v. 8, è radicale; non solo si adira, ma annuncia che per lui e meglio morire che vivere. Questa frase è sorprendentemente simile a quella pronunciata da Elia in 1Re 19,4. Il profeta, in fuga dalla regina Gezabele che vuole ucciderlo, si siede sotto un ginepro nel deserto invocando la morte. Ne uscirà soltanto grazie al cibo e all'acqua che un messaggero divino gli offre.
II narratore di Giona riprende consapevolmente la tradizione sulla fuga di Elia e la applica a Giona. Ma mentre Elia ha qualche motivo valido per fuggire (Gezabele lo vuole morto), Giona è animato solo da motivi egoistici. Inoltre, mentre la fuga di Elia diviene incontro con Dio sull’Oreb, la fuga di Giona si trasforma in uno scacco per il profeta. Ponendo in parallelo Giona con Elia il narratore vuole mostrarci la piccolezza di Giona. una sorta di profeta fallito.
Giona appare quasi come un uomo malato. preoccupato soltanto di se stesso, come si nota dall'ossessiva ripetizione dei pronomi personali di prima persona all'interno della sua preghiera: «Non era questo che io dicevo... quando ero nel mio paese?» (cf. 4.2 ) e di nuovo al v. 4. che alla lettera suona cosi: «Prendi la mia vita da me perché è meglio il mio morire che il mio vivere». Giona è del tutto ripiegato su se stesso e non riesce a comprendere la logica di Dio. Giona diviene immagine di un credente chiuso nel proprio modo ristretto di vedere, preoccupato soltanto della propria salvezza, convinto della verità delle proprie asserzioni e adirato con il mondo intero e anche con Dio, che non vuole dargli ragione. Immagine per noi di quello che rischia oggi di diventare la Chiesa, se non si apre alla logica sconvolgente dell'agire di Dio.
Ma Dio ha misericordia anche di Giona e al v. 4 inizia a dispiegare tutta la sua pedagogia nei confronti del profeta recalcitrante; non accusa direttamente Giona, ma lo pone di fronte alla propria responsabilità.

La pedagogia di Dio (4,5-8)

Dio dunque non accusa, ma si serve di fatti per educare Giona. Per tre volte risuona il verbo «provvedere» a proposito dell'agire divino, che educa Giona con mezzi molto semplici: il ricino (v. 6), un verme (v. 7), il vento che si aggiunge al sole (v. 8).
Al v. 5 si vede come Giona si sottrae alla domanda divina relativa alla sua ira. Il narratore non lo dice esplicitamente, ma sembra chiaro il motivo per cui Giona si sofferma nella capanna che ha costruito, osservando la città. Egli non crede ai suoi occhi: Ninive si èconvertita! Ma lo ha fatto davvero? Oppure ritornerà a peccare e Dio dunque potrà finalmente distruggerla? E in questo caso Giona sarà lì, in prima fila, a godersi lo spettacolo.
La crescita della pianta di ricino e il suo successivo seccarsi a causa del verme,il sole e il vento bruciante che adesso colpiscono la testa di Giona, sono piccoli segni che non educano il profeta, ma che rivelano ancora di più come egli sia preoccupato soltanto di se stesso: meglio morire che vivere! (cf. il v. 8). E’ bastata la crescita della pianta per renderlo felice («Una grande gioia»!); è sufficiente che essa secchi per renderlo di nuovo desideroso di morire e adirato più di prima (cf. la nuova risposta di Giona a Dio al v. 9).
Il segno del ricino è ancora più importante: è Dio che lo ha fatto crescere, ed è lui che lo ha seccato. E’ meglio vivere in un mondo nel quale ci sono rifugi efficaci, ma provvisori, come il ricino, oppure abbandonarsi alla misericordia di Dio che tollera anche l'esistenza di Ninive, perdonandola come se non avesse in precedenza commesso colpe orribili? Il ricino e il verme che lo secca richiamano il lettore, insieme alla permanenza di Ninive, al cuore del libro: la misericordia di Dio.

II confronto finale (4,9-11)

La nuova domanda di Dio (v. 9) mette Giona alle strette; vale davvero la pena di adirarsi per una pianta di ricino? Ma tale domanda serve soltanto a mettere in luce il vero cuore del libro, espresso dall'ultima domanda di Dio nei due versetti finali. Come tu ti sei preoccupato di una pianta, non devo io preoccuparmi di uomini e di animali?
L'espressione del v. 11: «Non sanno distinguere tra la mano destra e la sinistra» e di difficile interpretazione; chi ha pensato al fatto che i niniviti sono come bambini privi dell'uso di ragione, chi invece al fatto che essi sono incapaci di distinguere il bene dal male. In questo caso, il motivo per cui Dio salva i niniviti ancora più chiaro. Non perché essi se lo meritino — perché cioè si sono convertiti! — ma perché egli è misericordioso! Questa interpretazione rafforza l'idea che sia proprio la scoperta di una cosi grande misericordia di Dio che scatena l' ira del profeta.
Notiamo, di passaggio. l'interesse del testo nei confronti degli animali (cf. in precedenza il testo di Gio 3.7-8); essi non hanno alcuna autonomia, ma la loro sorte è la stessa degli uomini. Dio pertanto si interessa anche di loro.
Il libro si chiude così con una domanda, caso unico nella Scrittura, una domanda rivolta prima di tutto a coloro che si credono buoni, come Giona. Ma la domanda posta dal Signore a Giona resta nel testo senza risposta; ci troviamo di fronte a una tecnica narrativa interessante, quella della finale aperta. La risposta di Giona non ci viene offerta, perché il narratore invita ogni ascoltatore della storia a dare la propria risposta: Giona avrà fiducia nella bontà di Dio, oppure la rifiuterà? Non lo sappiamo, né lo sapremo mai. Sappiamo soltanto ciò che potrà essere la nostra personale risposta.

La misericordia di Dio nel libro di Giona

Occorre fare attenzione a non dare del libro di Giona una lettura anti-ebraica, favorita, nel passato, da una lettura tipologica che faceva di Giona l'araldo dell'ingresso dei pagani nella Chiesa, a scapito di Israele.
Il problema posto dal libro di Giona, evidente nella domanda conclusiva rivolta da Dio al suo profeta, si può meglio capire sullo sfondo storico nel quale il libro è stato composto. Ci troviamo in un periodo, verso la fine dell'epoca persiana (IV sec. a.C.) nel quale la figura profetica è ormai in crisi. Autori come Giobbe e lo stesso autore del libro di Giona mettono in dubbio che il Dio d'Israele possa essere legato a regole prefissate. Per Giobbe, la giustizia di Dio non dipende dal comportamento dell'uomo; Giobbe non soffre a causa dei suoi presunti peccati. Giona va oltre: neppure la misericordia di Dio può essere legata a comportamenti umani; essa dipende esclusivamente da lui. E questo per il profeta fedele, il «figlio di Amittai», è semplicemente intollerabile. tanto da portarlo a invocare la morte. Meglio morire piuttosto che vivere. in un mondo dove Israele non è più in grado di sperimentare la giustizia di Dio!
Il problema è grave: dove va a finire la giustizia di Dio, già messa in crisi dal libro di Giobbe. di fronte alla sua misericordia? Più radicalmente: che fare di un Dio che sembra smentire anche la sua stessa parola, pur di salvare le sue creature?
Ma il Dio che emerge dal breve racconto di Giona è un Dio assolutamente sorprendente: il «Dio del cielo che ha fatto il mare e la terra» (1,9) è un Dio capace di «pentirsi» (3,9-10; 4,2), ma, soprattutto, è un Dio pieno di compassione per le sue creature, animali e uomini, persino per coloro che, come i cattivi abitanti di Ninive, non appartengono al suo popolo (4,10-11). Il Dio dell'esodo, che svela adesso i suoi attributi di misericordia (4,2). Un popolo che il profeta Nahum stimola all' odio verso i propri nemici, nel libro di Giona impara che anche il peggior nemico è capace di conversione ed è comunque oggetto dell'amore di Dio.

Luca Mazzenghi

(in Parole di Vita, maggio-giugno 2009)

 

Venerdì, 03 Maggio 2024 11:20

Preghiere ebraiche - Shemà

Lo Shemà rappresenta il fondamento della preghiera quotidiana ebraica. Viene infatti recitato al mattino svegliandosi e alla sera coricandosi, oltre ad essere presente nei momenti di preghiera che scandiscono la giornata.

Lo Shemà è considerato il "Credo" degli ebrei, perché nella prima parte, (Deut. 6,4-9) contiene l'annuncioa dell'unicità di Dio. A tale solenne enunciazione segue l'espressione dell'amore dell'uomo verso Dio, quale naturale risposta della riconoscenza della creatura verso Dio che si è fatto conoscere. La seconda parte (Deut. 11,13-21) parla della ricompensa a chi osserva i precetti e della pena in caso di inadempienza. La terza parte (Num. 15,37-41) contiene il precetto riguardante le frange (sisith) da apporsi al manto di preghiera (tallith), come memoriale del Patto.

 

Ascolta Israele il Signore è nostro D-o. Il Signore è uno. Benedetto il Suo nome glorioso per sempre. E amerai il Signore D-o tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze. E metterai queste parole che Io (cioè D-o) ti comando oggi, nel tuo cuore, e le insegnerai ai tuoi figli, pronunciandole quando riposi in casa, quando cammini per la strada, quando ti addormenti e quando ti alzi. E le legherai al tuo braccio, e le userai come separatore tra i tuoi occhi, e le scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte (delle città).

E sarà, se ascolterete i Miei comandamenti, che oggi vi dò, di amare il vostro D-o e di onorarlo con tutto i vostro cuore, con tutta la vostra anima e con tutte le vostre forze, (allora) vi darò rugiada per le vostre terre, pioggia primaverile ed estiva, così raccoglierete le vostre granaglie, il vostro vino ed il vostro olio, e darò erba per il tuo bestiame, e mangerete e sarete soddisfatti.

Ma guardatevi dall'aprire i vostri cuori a rivolgervi al culto di altri dei, e di adorarli, perché (allora) l'ira di D-o sarà contro di voi, e chiuderà il cielo, e non ci sarà rugiada, e la terra non darà il suo prodotto, e passerete (sarete estinti) rapidamente dalla buona terra che D-o vi ha dato.

E (quindi) mettete queste parole nel vostro cuore e nella vostra anima, e siano come parole sulle vostre mani e tra i vostri occhi, e insegnatele ai vostri figli, e pronunciatele quando riposate nelle vostre case, quando camminate per strada, quando vi addormentate e quando vi alzate, e scrivetele sugli stipiti delle vostre case e sulle vostre porte. Così saranno moltiplicati i vostri giorni e di giorni dei vostri figli nella terra che D-o promise ai vostri padri di dare loro, per tanto quanto durano i giorni del cielo sulla terra.

E D-o disse a Mosè: dì ai figli di Israele di fare d'ora in poi delle frange agli angoli dei loro vestiti, e vi sia un filo azzurro in ognuna di queste frange. Questi saranno i vostri zizzit, e guardandoli ricorderete i precetti divini, e li osserverete, e non seguirete i (vezzi del) vostro cuore e (le immagini dei) vostri occhi, che vi fanno deviare seguendoli. Così ricorderete e osserverete tutti i precetti, e sarete santi per il vostro D-o. Io sono il Signore D-o vostro, che vi ha fatto uscire dalla terra di Egitto per essere il vostro D-o, Io sono il Signore, vostro D-o.

 

 Capitolo II (continua)

§2. I sacrifici nell’Antico Testamento: una breve rassegna

L’etimologia fa risalire il verbo sacrificare a sacrum facere, che significa rendere sacro, mettere un oggetto a disposizione del divino. La storia generale delle religioni attesta che il sacrificio è una delle sue categorie centrali. Il sacrificio esercita funzione di comunicazione e di scambio tra il mondo dell’uomo e la sfera del sacro, il mondo di Dio o degli dei. In questione, nel sacrificio, c’è il rapporto dell’uomo con il divino [82]. Il Dizionario di Teologia di Karl Rahner ed Herbert Vorgrimler definisce il sacrificio come segue: «Il concetto di sacrificio, nella sua forma più completa che peraltro non sempre si ritrova in tutti i sacrifici [...], si potrebbe all’incirca descrivere così [...]: sacrificio è un atto nel quale ad opera di persone che ne hanno legittimamente il potere in quanto rappresentanti di una comunità di culto, un dono controllabile con i sensi viene trasformato nel corso di un rito cultuale e così sottratto all’uso profano, immesso nella dimensione del “sacro” e dato pienamente a Dio per esprimere la dedizione di sé, nell’adorazione, al Dio santo; in tal modo il dono, da Dio accettato e santificato, nel banchetto sacrificale della comunità di culto diventa il segno della volontà divina di instaurare un rapporto comunitario con l’uomo» [83].
La Bibbia attesta l’esistenza, e spesso la coesistenza, di diversi tipi di sacrificio. Il libro del Levitico, nei capitoli 1 – 7, li espone in modo sistematico e in linguaggio tecnico: l’olocausto (‘ôlah); l’offerta; il sacrificio di comunione (con lode, votivo o volontario); il sacrificio per il peccato (del sommo sacerdote, dell’assemblea di Israele, di un capo, di un uomo del popolo); il sacrificio di riparazione (’ašam); l’offerta. L’olocausto, il cui termine greco corrispondente significa combustione completa, è il sacrificio in cui la vittima viene per intero bruciata in onore di Jahve. Nei testi più antichi aveva lo scopo di rendere omaggio a Dio, supplicarlo, ringraziarlo e adempiere un voto; solo più tardi assunse valore espiatorio. L’olocausto è il sacrificio ordinario del culto pubblico e ne rappresenta la massima espressione; la sua mancanza costituiva la più grande minaccia contro il popolo ebraico (Dn 8,11ss). Sempre accompagnato da oblazioni e libagioni (Nm 15,2 – 16), l’olocausto era l’unico sacrificio che potesse essere offerto anche da un pagano (Lv 22,18.25). Il sacrificio espiatorio era imposto dalla Legge a colui che la trasgrediva per inavvertenza; la materia e la vittima variavano alquanto secondo la condizione del trasgressore, ma ciò che più caratterizzava questo sacrificio era il rito del sangue: parte del sangue veniva sparso attorno all’altare dell’olocausto, mentre la maggior parte era aspersa sette volte in direzione del velo del tempio e sui corni dell’altare dei profumi; benché fossero praticati in ogni periodo dell’anno, i riti espiatori raggiungevano la loro massima solennità nello jôm kippûr, il giorno dell’espiazione. Nel sacrificio di riparazione, che aveva lo scopo di riparare un danno arrecato al diritto di proprietà divina o umana, la vittima era un agnello il cui valore veniva valutato simbolicamente in relazione alla riparazione da compiere [184].
Un’altra categoria di sacrificio, assai diffusa tra i semiti, consisteva essenzialmente in un pasto sacro (šelāmîm) in cui il fedele mangiava e beveva «dinanzi a Jahve» (Dt 12,18; 14,16); l’alleanza del Sinai è suggellata da un sacrificio di questo genere. Certo non ogni banchetto sacro presuppone necessariamente un sacrificio; tuttavia nell’Antico Testamento questi banchetti di comunione di fatto implicavano il sacrificio: parte della vittima (bestiame grosso o minuto) spettava di diritto a Dio, padrone della vita, mentre la carne serviva da cibo per i commensali. Nei diversi rituali codificati dal Levitico il concetto di sacrificio tende a concentrarsi attorno all’idea di espiazione. Il sangue vi svolge una parte importante, ma in definitiva l’efficacia del sacrificio deriva dalla volontà di Dio (Lv 17,11; cfr. Is 43,25) e presuppone sentimenti di penitenza. La riparazione delle impurità rituali e delle colpe non volontarie iniziava i fedeli alla purificazione del cuore, così come le leggi sul puro e l’impuro orientavano le anime verso l’astensione dal male. Il pasto dei šelāmîm traduceva e realizzava nella gioia e nell’euforia spirituale la comunione dei commensali tra loro e con Dio, perché tutti partecipavano della stessa vittima [85].

 

Marco Galloni

 

[82] Cfr. B. SESBOÜÉ, op. cit., libro I, p. 293.

[83] K. RAHNER /H. VORGRIMLER, Dizionario di teologia (titolo originale Kleines Theologisches Wörterbuch, Verlag Herder GmbH & Co. KG, Freiburg, 1968), trad. it., Editori Associati, Milano, 1994, p. 612.

[84] Cfr. A. ROLLA in Introduzione generale alla Bibbia, Elledici, Torino, 2006, pp. 263 - 264.

[85] Cfr. C. HAURET in Dizionario di Teologia Biblica (titolo originale: Vocabulaire de Théologie Biblique, Les Editions du Cerf, Paris), a cura di Xavier Léon-Dufour e di Jean Duplacy, Augustin George, Pierre Grelot, Jacques Guillet, Marc-François Lacan, trad. it., Editrice Marietti, Genova, 2001, pp. 1125 - 1126.

testo precedente

 

Venerdì, 26 Aprile 2024 11:41

Quinta Domenica di Pasqua. Anno B

Quinta Domenica di Pasqua. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 9,26-31

Dagli Atti degli Apostoli

In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. Così egli poté stare con loro e andava e veniva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore. Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo. Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 21

A te la mia lode, Signore, nella grande assemblea.

Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!

Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.

A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.

Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l’opera del Signore!».

Seconda Lettura 1Gv 3,18-24

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo

Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Canto al Vangelo (Gv 15,4.5)

Alleluia, alleluia.

Rimanete in me e io in voi, dice il Signore,
chi rimane in me porta molto frutto.

Alleluia.

Vangelo Gv 15,1-8

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

OMELIA

Per Jacques Lacan, esiste una sola domanda veramente fondamentale per l’essere umano: «hai agito in conformità al desiderio che ti abita?». E qual è l’intimo desiderio inscritto nel cuore dell’uomo? Venire alla luce di sé. Uscire dal bozzolo e cominciare a volare. Rinascere.
In che modo? Dimorando al centro della nostra ‘grotta del cuore’, dove brucia il nostro vero sé, il divino in noi. Rimanendo in questa fornace ardente possiamo essere trasformati nel medesimo principio che ci abita.
Immersi nel fuoco dello Spirito, «fino al punto in cui l’uomo è Dio in Dio, e Dio è tutto in tutto l’uomo» (Giovanni Taulero).
Gesù non ha chiesto di fare della vita una questione morale, un affaticarsi nell’adempire o meno norme e precetti. Ma di essere luce, e luce lo si diventa incorporandola (cfr. Gv 8, 12; Mt 5, 14). Come la nuda zolla di terra che diventa fiore indipendentemente dal fare o non fare, ma semplicemente stando: «Guardate come crescono i gigli: non faticano e non filano» (Lc 12, 27).
“Essere calmamente attivi e attivamente calmi”.
In questo modo ci desteremo dal sonno, sorprendendoci che non esiste alcun abisso tra noi e Dio, ma di essere con lui una cosa sola, sua manifestazione, come il metallo che immerso nel fuoco non si distingue più da quest’ultimo.
«Il Tuo spirito si è mescolato poco a poco al mio spirito, in mezzo a un’alternanza di avvicinamenti e di abbandoni. E adesso io sono Te stesso. La tua esistenza è la mia, per mia stessa volontà intonata ormai alla Tua. Signore, mio Signore, ho abbracciato con tutto il mio essere il Tuo amore. Mi spogli tanto di me che sento che in me sei Tu. […] Sono divenuto Colui che amo e Colui che amo è comparso in me. Siamo due Spiriti infusi in un solo corpo» (Al-Hallaj).
 
Paolo Scquizzato
 
Venerdì, 26 Aprile 2024 11:32

Quarta Domenica di Pasqua. Anno B

Quarta Domenica di Pasqua. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 4,8-12

Dagli Atti degli Apostoli

In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro:
«Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risuscitato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 117

La pietra scartata dai costruttori è divenuta la pietra d’angolo.

Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell’uomo.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nei potenti.

Ti rendo grazie, perché mi hai risposto,
perché sei stato la mia salvezza.
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.

Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
sei il mio Dio e ti esalto.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.

Seconda Lettura 1Gv 3,1-2

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.

Canto al Vangelo (Gv 10,14)

Alleluia, alleluia.

Io sono il buon pastore, dice il Signore,
conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me.

Alleluia.

Vangelo Gv 10,11-18

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

OMELIA

“Ho altre pecore che non provengono da questo recinto” (v.16) dice Gesù nel vangelo di questa domenica.
L’Amore è il principio che imbeve tutta la realtà; anzi, la realtà intera non è altro che una manifestazione dell’Energia divina che chiamiamo Amore. Questa non fa preferenza di persone (cfr. Rm 2, 11), e tanto meno può essere rinchiusa in un recinto.
All’interno di questo ‘ambiente divino’ non vi sono migliori o peggiori, preferiti o reietti. Nessuno che ‘meriti’ la salvezza, ma solo l’umano che si apre a un dono immeritato.
Se Dio è l’Amore che apre a ‘pascoli sconfinati’, aldilà dei recinti di religione, di credo o di appartenenza, Gesù è venuto a spezzare le staccionate che definiscono, separano, distinguono comprese quelle della morale e dell’integrità.
Egli chiama all’unità, che è l’esatto opposto dell’uniformità.
L’amore esalta le differenze, la paura uniforma, mescolando tutto in un indistinto, per poi chiamarlo ‘virtù’.
La vera pace accadrà quando le differenze saranno occasioni per vivere nell’amore, quando finalmente Caino accetterà che Abele possa essere altro da lui, senza il bisogno di eliminarlo per affermarsi come l’unico.
Laddove ci si ritiene cristiani, dovrebbe anche vigere l’esaltazione della diversità e del ‘diverso’, perché Dio altro non è che la Verità che rende liberi, liberi di essere finalmente se stessi, di amare e di credere in modo diverso.
«Il pluralismo di qualsiasi forma, non è una iattura bensì una ricchezza perché fa ridondare su tutti i carismi, le donazioni accordate a ciascuno. Quante energie sono andate perdute perché i Superman di turno hanno impedito ad altri di esprimersi. Papa Giovanni ripeteva che la Chiesa è un giardino tanto più bello quanto più ricco di molteplicità e varietà di fiori. È un campo in cui si ritrova ogni genere di piante, persino quelle che i profani dicono tossiche perché non ne conoscono le proprietà. Persino “i triboli e le spine” che stanno a ingombrare il terreno hanno la loro funzione che è quella di tenere sveglie le menti delle creature intelligenti» (Ortensio da Spinetoli).
 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 13 Aprile 2024 09:57

Terza Domenica di Pasqua. Anno B

Terza Domenica di Pasqua. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 3,13-15.17-19

Dagli Atti degli Apostoli

In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l'autore della vita, ma Dio l'ha risuscitato dai morti: noi ne siamo testimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi. Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire. Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».

Salmo Responsoriale Dal Salmo 4

Risplenda su di noi, Signore, la luce del tuo volto.
Oppure:
Alleluia, alleluia, alleluia.

Quando t’invoco, rispondimi, Dio della mia giustizia! 
Nell’angoscia mi hai dato sollievo;
pietà di me, ascolta la mia preghiera.

Sappiatelo: il Signore fa prodigi per il suo fedele; 
il Signore mi ascolta quando lo invoco.

Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene,
se da noi, Signore, è fuggita la luce del tuo volto?».

In pace mi corico e subito mi addormento, 
perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare.

Seconda Lettura 1Gv 2,1-5a

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo

Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. È lui la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti. Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c'è la verità. Chi invece osserva la sua parola, in lui l'amore di Dio è veramente perfetto.

Canto al Vangelo (Cf. Lc 24,32)

Alleluia, alleluia.

Signore Gesù, facci comprendere le Scritture;
arde il nostro cuore mentre ci parli.

Alleluia.

Vangelo Lc 24,35-48

Dal vangelo secondo Luca

In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Undici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano riconosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni».

OMELIA

«Quando penso alla mia morte mi trovo in uno stato di grande stupore. Mi chiedo dove andrà così tanto amore» (Marina Cvetaieva).
L’amore della poetessa, sappiamo noi ora dove è andato. È qui quando leggiamo i suoi versi, quando la sua luce illumina il buio dell’anima, quando le sue parole interpretano mondi.
L’amore delle persone amate non finisce. Cadrà tutto il resto, ma questo rimarrà. E circola nell’aria, e nell’anima. E lo si respira, lo si fa proprio, in un ininterrotto dialogo.
«Penso che il fondo di questa vita sia costituito da una conversazione incessante tra coloro che sono ancora qui e coloro che non ci sono più, tra ieri e oggi, e forse an che tra oggi e domani» (Ch. Bobin).
È bello che ‘l’unica cosa rimasta’ del Gesù precedente la sua morte, alla prova del riconoscimento dei suoi, siano le sue ferite, che mostra a questi, come trofei. Certo, perché sono le ferite procurategli dall’amore, le uniche destinate a rimanere. Neanche l’abisso del sepolcro le ha potute cancellare.
E mi piace pensare che l’invito del vangelo di oggi sia proprio quello di imparare l’arte d’offrire riparo e cura alle ferite che ci hanno segnato, affinché possano divenire materiale di risurrezione.
Le ferite impresseci nella carne e nell’anima ci rimandano forse agli schiaffi ricevuti da bambini, ai duri interventi degli adulti. Le ferite ai nostri piedi potranno farci memoria delle persone che ci hanno trattato come pezze da piedi; i nostri incubi notturni potranno farci memoria delle offese subite e del fatto che nessuno in quel momento fosse dalla nostra parte; le ferite del nostro costato ci riporteranno a quanto abbiamo sofferto per un amore fallito. Ma noi sappiamo che nel vangelo il materiale di scarto diviene ‘la pietra angolare’, fondamenta d’un nuovo edificio esistenziale, vita nuova dove sarà ancora tutto possibile.
Ogni ombra guardata in faccia può trasformarsi in esperienza di risurrezione, e i limiti accolti in luogo di comunione, come la ferita per l’ostrica è certo dolorosa ma anche unica possibilità perché si formi in essa una splendida perla.
 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 13 Aprile 2024 09:44

Seconda Domenica di Pasqua. Anno B

Seconda Domenica di Pasqua. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  At 4, 32-35

Dagli Atti degli Apostoli

La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuore solo e un'anima sola e nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune.
Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti godevano di grande favore.
Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano il ricavato di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; poi veniva distribuito a ciascuno secondo il suo bisogno.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 117

Rendete grazie al Signore perché è buono: il suo amore è per sempre.

Dica Israele:
«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».

La destra del Signore si è innalzata,
la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.
Il Signore mi ha castigato duramente,
ma non mi ha consegnato alla morte.

La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d'angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!

Seconda Lettura 1 Gv 5, 1-6

Dalla prima lettera di san Giovanni apostolo

Carissimi, chiunque crede che Gesù è il Cristo, è stato generato da Dio; e chi ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato.
In questo conosciamo di amare i figli di Dio: quando amiamo Dio e osserviamo i suoi comandamenti. In questo infatti consiste l'amore di Dio, nell'osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi.
Chiunque è stato generato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha vinto il mondo: la nostra fede.
E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio? Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità.

Canto al Vangelo (Gv 12,26)

Alleluia, Alleluia.

Perché mi hai veduto, Tommaso, tu hai creduto;
beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!

Alleluia.

Vangelo Gv 20, 19-31

Dal vangelo secondo Giovanni

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.

OMELIA

Alla Maddalena Gesù dice, nel giardino della rinascita: ‘Noli me tangere’, non mi toccare, non mi trattenere, non ricondurmi alle categorie solite del conosciuto, del sensibile, del concettuale attraverso cui da sempre sei stata con me. È finalmente giunta l’ora d’apriti ad un’altra modalità e possibilità di conoscenza.
A Tommaso, l’incredulo Gesù invita a mettere la mano nella ferita del costato.
A ciascuno il suo.
La vita spirituale è un cammino, ‘Di cominciamento in cominciamento, di ripresa in ripresa, di cominciamenti e riprese senza fine’.
La Maddalena è la donna oltre, la donna matura che giunge a fare esperienza del suo Signore senza il bisogno di ‘toccare per credere’.
La via della mistica: esperire per via d’assenza.
Nell’assenza la presenza. L’abbandono come condizione per fare esperienza dello Spirito vivificante (cfr. Gv 16, 7).
È non toccando che fa esperienza dell’amato, è non vedendo che lo conosce. Solo ora che le sue idee, le sue immagini, i suoi concetti, l’assodato, l’acquisito l’hanno finalmente abbandonata può esperire il Vivente, l’Oltre, il Presente.
E Maddalena probabilmente avrebbe voluto dire a Tommaso, e quindi a me: ‘caro fratello, è quando diverremo ciechi alle cose di Dio che il Mistero si manifesterà e noi lo conosceremo per ciò che veramente è, cessando d’essere la proiezione delle nostre limitate attese’.
Da lì a poco avverrà che Paolo cadrà a terra dopo che il Mistero gli si rivelerà. Si dice che aprì gli occhi e non vide nulla. Solo così potè conoscere l’Amato.
“Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!” sono le parole di Gesù ai suoi.
E a me. Ancora cieco perché convinto di vedere.
 
Paolo Scquizzato
 

È opinione alquanto diffusa che il nutrire una qualche speranza sia una cosa estremamente controproducente. Per molti la speranza rappresenta una sorta di delegittimazione della vita piena. Essendo considerata la proiezione di una qualche attesa sul non-ancora, essa finirebbe con il distogliere l’attenzione ed il reale interesse per il presente.

La speranza distoglierebbe lo sguardo dalla terra per fissarlo nel cielo. L’esatto contrario del desiderio. Di quel processo, cioè, che porterebbe a non vedere più le stelle – o a non considerarle. Ove l’assenza comporta una discesa – il passaggio dalle stelle alla terra. Soprattutto oggi, nella comprensione che abbiamo del desiderio, considerandolo quasi esclusivamente nel suo (immediato) realizzarsi. La speranza non sarebbe altro che un oppio dei popoli, capace ad imbonire i poveri, i sofferenti e quanti vivono in situazioni di profonda ingiustizia. Renderebbe tollerabile ciò che invece dovrebbe restare intollerabile. Renderebbe assonnate le menti, fiaccherebbe gli animi, vanificando ogni risoluzione per un radicale cambiamento. La speranza non si accorderebbe non soltanto con i processi rivoluzionari, ma anche con ogni prassi di cambiamento.

Ma non basta. La speranza è semplicemente illusione. Sarebbe un’infantile maniera di intendere la vita. Sperare non sarebbe altro che andare d’illusione in illusione. Come se conservasse in modo permanente un atteggiamento di attesa che porta ad aspettarsi ricevere qualcosa di buono dal futuro – al pari dei doni di Babbo Natale o della Befana.

Ed ancora. La speranza provocherebbe un’inutile attesa per un domani più vantaggioso quando, invece, bisognerebbe impegnarsi per rendere migliore l’oggi. Spostando l’asse temporale in un futuro prossimo o lontano la speranza vanificherebbe la centralità dell’esperienza del presente. A ben vedere, fiaccherebbe le braccia, rendendo irrilevante tutto ciò che si compie nell’oggi.

Chi discetta in questo modo riguardo alla speranza, di solito lo fa conversando con gli amici, comodamente seduto mentre sta sorseggiando una qualche raffinata bevanda o gustando un piatto succulento. Oppure dalla cattedra di un qualche insegnamento. Ma si tratta di ragionamenti che, a volte, accomunano anche le persone disperate – alle quali non è rimasta alcuna speranza a cui appigliarsi.

Eppure basterebbe osservare con maggiore attenzione per renderci conto di quanto lo sperare abbia sempre rappresentato un importante fattore. Il ventesimo secolo ha tristemente conosciuto il moltiplicarsi di campi di sterminio, di lager e di gulag. Nei sistemi concentrazionari concepiti per eliminare fisicamente oppositori politici, minoranze etniche, elementi non graditi al sistema si è assistito alla scomparsa di milioni di persone. Ma alcune di esse sono riuscite a sopravvivere nonostante le estreme condizioni di vita nelle quali erano state costrette. E hanno raccontato di cose e situazioni che si riteneva neppure possibili da immaginare. Perché poche persone sono sopravvissute mentre la maggior parte sono dovute soccombere? Dai racconti dei sopravvissuti emerge una costante: costoro si erano dati un motivo per resistere. Il voler rivedere una persona cara o i figli. Il voler continuare a lottare per un ideale. L’avere fede… Coloro che avevano continuato a sperare che, nonostante tutto, la loro vita non sarebbe finita tra i reticoli dei fili spinati, falciati dalla fame, dagli spari o dalle percosse dei guardiani sono stati quelli che hanno avuto maggiori possibilità di sopravvivere. Erano portatori di una sorta di spinta in più, di una forza psicologica che non solo ha loro permesso di affrontare sofferenze indicibili, ma di poter resistere quando umanamente non sembrava esserci alcun elemento sufficiente per poter sperare.

Se si leggono le biografie di alcune persone che hanno saputo resistere al male, affrontando lunghe pene detentive, anche qui emerge quanto l’elemento speranza sia stato fondamentale. Non si può capire l’esistenza di un Nelson Mandela o di un Václav Havel, soltanto per fare due esempi, se non si tiene conto di quanto il fattore speranza abbia giocato in loro nel mantenere costante nel corso di decenni l’impegno politico.

La speranza è indubbiamente un tema ostico, ma non manca a riguardo una vasta letteratura. In campo filosofico Il principio speranza di Ernst Bloch rappresenta una vera pietra miliare. Mentre in campo teologico, la teologia della speranza, avviata da Jurgen Moltmann, è diventata un ricco filone di ripensamento dell'esperienza religiosa e umana, non solo in ambito cristiano. E una buona parte della letteratura – e della poesia1, in particolare, – ruota intorno al tema della speranza.

Il filosofo Ernst Bloch ha visto nel principio speranza il motore della storia umana. Una speranza intesa non come uno sguardo diretto al futuro in maniera ottimistica, ma che si fa completa immersione nelle potenzialità comprese nel presente. “L'importante è imparare a sperare. Il lavoro della speranza non è rinunciatario perché di per sé desidera aver successo invece che fallire. Lo sperare, superiore all'aver paura, non è né passivo come questo sentimento né, anzi meno che mai, bloccato nel nulla. L'affetto dello sperare si espande, allarga gli uomini invece di restringerli, non si sazia mai di sapere che cosa internamente li fa tendere a uno scopo e che cosa all'esterno può essere loro alleato. Il lavoro di questo affetto vuole uomini che si gettino attivamente nel nuovo che si va formando e cui essi stessi appartengono2.

Al contrario, si può citare, tra i tanti un episodio capitato in Francia alcuni anni fa. Un uomo, un operaio delle ferrovie, era entrato in un vagone frigorifero per ripulirlo. Era solo e in quel momento non c’erano altri con lui. La porta si era chiusa all’improvviso dietro di lui. Essendo venerdì sera, la porta del vagone frigorifero restò bloccata per tutto il fine settimana. Il corpo dell’uomo viene ritrovato il lunedì mattina. Quell’uomo era, naturalmente, morto di freddo. All’autopsia il corpo manifestava tutti i sintomi di una morte per assideramento. Una morte che avviene quando si ha una prolungata esposizione al freddo. (L'ipotermia è graduale e diventa grave quando la temperatura corporea scende al di sotto del 30°C.). Tutto semplice se non per il fatto che in quel vagone frigorifero la refrigerazione non era inserita e la temperatura dell’ambiente era rimasta a 18°C... Quella persona era morta non per il freddo patito, ma per disperazione, convinta di morire congelata.

La speranza diventa, di frequente, un motivo sufficiente per resistere. E quando non c’è speranza, si finisce col soccombere. L’antidoto più efficace per vivere in un tempo di crisi diventa proprio la speranza, intesa non come semplicistica attesa di un domani migliore, ma impegno concreto affinché gli esiti della crisi si risolvano positivamente. È proprio questo l’aspetto che distingue la vera speranza da ogni altra illusione che proietta le proprie ombre sui tempi futuri: essa è sempre carica di un’operosa attesa. Non è mai dimentica di una fattiva istanza che si prende in carico le incombenze e le fatiche dell’oggi. E, al contempo, sa gettare il proprio sguardo oltre le contingenze del presente proprio a partire dalle fatiche e dai dolori che deve di volta in volta affrontare.

Ci sono quelli che vivono di nostalgie per i bei tempi passati. Sono quanti pensano che si possa guardare al mondo e alla vita tenendo gli occhi collocati sulla nuca. Non hanno bisogno di speranza poiché per loro non esiste alcun futuro degno di essere vissuto. Per essi ogni crisi ha già un esito conosciuto: quello della catastrofe. Si rivelano sempre profeti di sventura. Di questi pessimisti ne è pieno il mondo. E non mancano né nelle chiese né nelle comunità. Ma la storia biblica ci ricorda continuamente che Dio irrompe nella storia umana proprio quando non ci sono speranze umane. Quando si è troppo vecchi per avere un figlio, quando non ci si aspetta più alcuna liberazione dalla schiavitù, quando la morte ed il male sembrano vincere ovunque…

Il bisogno di sperare comporta lo sperare anche per quanti non sono in grado di sperare. È sempre un sperare con gli altri. E sperare insieme aiuta a rinforzare la reciproca speranza. La speranza è un tema ostico poiché, oltre ad essere considerata causa d'alienazione, la speranza rischia di essere un lusso – ostentato da quanti, in fondo, non avvertono sulla propria pelle il bisogno pressante di una speranza. Ridotta a discorsi da salotto o da accademie – pieni di belle parole, ma che restano estranei a tutto ciò che tanti altri stanno sperimentando, nella disperazione, nelle lacrime e nel dolore. Un lusso sterile, avulso dalla realtà.

E quando si sperimentano tempi difficili – tempi di guerre, di carestie o d'epidemie – il futuro si carica di molte attese, di tante speranze che in realtà sono proiezioni dei nostri desideri e delle nostre paure. E continuiamo a chiamare speranza ciò che non è ancora speranza. In fondo c'è più dolce – confortevole – cullarci con questi pensieri, in questi difficili momenti, piuttosto d'iniziare ad aprirci alla speranza. Poiché la speranza non è un sentimento, ma l’impegnativo modo di vivere che va imparato, giorno per giorno.

È necessario sperare perché il mondo ne esca migliore. Per non costringere le nostre vite a pure esistenze da formicai, non sono sufficienti né le cosiddette leggi del mercato – ossia la priorità assoluta dell’economia sulla vita delle persone – né la riduzione del vivere alla fruizione immediata di continui piaceri. Diventa necessario, invece, il gettare uno sguardo che sa andare oltre la contingenza, dischiudendo così un nuovo procedere ai nostri passi che rischiano di restare impantanati negli affanni, nei problemi e nelle sofferenze contingenti. La speranza diventa questo saper guardare oltre, nonostante tutto.

Faustino Ferrari

 

 

1 Si rimanda, in specifico, a Charles Peguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1993.

2 Ernst Bloch, Il principio Speranza, Premessa.

Domenica, 24 Marzo 2024 10:35

Domenica delle palme. Anno B

Domenica delle Palme. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Is 50,4-7

Dal libro del profeta Isaia

Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo,
perché io sappia indirizzare
una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio
perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio
e io non ho opposto resistenza,
non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori,
le mie guance a coloro che mi strappavano la barba;
non ho sottratto la faccia
agli insulti e agli sputi.
Il Signore Dio mi assiste,
per questo non resto svergognato,
per questo rendo la mia faccia dura come pietra,
sapendo di non restare confuso.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 21

Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?

Si fanno beffe di me quelli che mi vedono,
storcono le labbra, scuotono il capo:
«Si rivolga al Signore; lui lo liberi,
lo porti in salvo, se davvero lo ama!».

Un branco di cani mi circonda,
mi accerchia una banda di malfattori;
hanno scavato le mie mani e i miei piedi.
Posso contare tutte le mie ossa.

Si dividono le mie vesti,
sulla mia tunica gettano la sorte.
Ma tu, Signore, non stare lontano,
mia forza, vieni presto in mio aiuto.

Annuncerò il tuo nome ai miei fratelli,
ti loderò in mezzo all’assemblea.
Lodate il Signore, voi suoi fedeli,
gli dia gloria tutta la discendenza di Giacobbe,
lo tema tutta la discendenza d’Israele.

Seconda Lettura Fil 2,6-11

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippesi

Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,
non ritenne un privilegio
l’essere come Dio,
ma svuotò se stesso
assumendo una condizione di servo,
diventando simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome
che è al di sopra di ogni nome,
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra,
e ogni lingua proclami:
«Gesù Cristo è Signore!»,
a gloria di Dio Padre.

Canto al Vangelo (Gv 12,26)

Gloria e lode a te, o Cristo!

Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte,
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome che è sopra ogni altro nome.

Gloria e lode a te, o Cristo!
 
Vangelo Mc 11,1-10

Dal vangelo secondo Marco

Quando furono vicini a Gerusalemme, verso Bètfage e Betània, presso il monte degli Ulivi, Gesù mandò due dei suoi discepoli e disse loro: «Andate nel villaggio di fronte a voi e subito, entrando in esso, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è ancora salito. Slegatelo e portatelo qui. E se qualcuno vi dirà: “Perché fate questo?”, rispondete: “Il Signore ne ha bisogno, ma lo rimanderà qui subito”».
Andarono e trovarono un puledro legato vicino a una porta, fuori sulla strada, e lo slegarono. Alcuni dei presenti dissero loro: «Perché slegate questo puledro?». Ed essi risposero loro come aveva detto Gesù. E li lasciarono fare.
Portarono il puledro da Gesù, vi gettarono sopra i loro mantelli ed egli vi salì sopra. Molti stendevano i propri mantelli sulla strada, altri invece delle fronde, tagliate nei campi. Quelli che precedevano e quelli che seguivano, gridavano:
«Osanna!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Osanna nel più alto dei cieli!».

OMELIA

Gesù entra trionfante a Gerusalemme, seduto su di un asinello.
Inizia per lui l’ultima sua settimana di vita. Nella città santa rimarrà cinque giorni. Al ‘sesto giorno’ lo uccideranno. Al settimo conoscerà il sepolcro. Risorgerà l’ottavo giorno. Si tratta della narrazione di una ‘nuova creazione’, dalla ‘creazione dell’uomo’ – avvenuta il sesto giorno – alla sua ri-creazione, al suo compimento.
Ma cosa rende possibile la nostra ri-creazione? L’assunzione della logica dell’asino, e dismettendo quella del cavallo.
Gesù vincerà la morte in quanto ‘asino’, ossia attraverso una vita all’insegna della mansuetudine, del servizio, condividendo i pesi altrui (cfr. Gal 6, 2) e una spiccata capacità di ascolto (le orecchie molto grandi dell’asino…). Il cavallo è, di contro, l’animale cavalcato da chi detiene il potere facendo uso della forza e della violenza.
Laddove vi è capacità di servire, si realizzerà il Regno di Dio: «Benedetto il Regno che viene» (v. 10). Per questo occorre ‘slegare’ dentro di noi l’asinello (v. 2), ossia la nostra capacità di amare e di servire. Gesù è venuto proprio a tentare di sciogliere, slegare in noi questa capacità di prenderci cura dell’altro, di giocarci la vita in una modalità non mondana.
“Il Signore ne ha bisogno” di questo asino (v. 3). Egli ha bisogno del mio bene, ossia che si sciolga in me l’egoismo che mi blocca la vita, per effondere luce nel mondo facendo arretrare la tenebra del male. E stiamone certi: questo asinello il Signore ce lo rimanderà indietro subito (v. 3): l’amore che doniamo agli altri ci tornerà sempre indietro e in maniera sovrabbondante.
Il problema di fondo, è che noi amiamo il potere e la forza. Per questo preferiamo salire sul cavallo del vincitore di turno. All’asino mansueto, che si pone a servizio, preferiamo la violenza dei potenti, per ingrossare il nostro ego.
Siamo chiamati a realizzarci attraverso la via del bene e del dono, ma continuiamo a strizzare l’occhio al mondo, con la sua logica apparentemente vittoriosa, fondata sul potere, l’avere e il successo. Ma se incrociamo l’asino col cavallo rischiamo di stare al mondo come il mulo, stupido e sterile.
Gesù entrò nella sua settimana di ‘compimento’ avendo come trono un asino, e la terminò su di un altro trono, la croce: segno dell’amore che va fino alla fine. E ora molta gente urla: “Osanna” che significa “Dio salva”. Sì, Dio salva così, con l’amore che non demorde, rinnegando il proprio io a favore dell’altro. E grida ancora: «Benedetto colui che viene…». Sì, perché l’Amore non può venire che in questa maniera, perché venisse in altro modo, magari con potenza e violenza, rinnegherebbe sé stesso.
 
Paolo Scquizzato
 
Sabato, 16 Marzo 2024 17:18

V domenica Quaresima. Anno B

V domenica Quaresima. Anno B

Omelia di Paolo Scquizzato

Prima Lettura  Ger 31,31-34

Dal libro del profeta Geremìa

Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.

Salmo Responsoriale Dal Salmo 50

Crea in me, o Dio, un cuore puro.

Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.

Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.

Rendimi la gioia della tua salvezza,
sostienimi con uno spirito generoso.
Insegnerò ai ribelli le tue vie
e i peccatori a te ritorneranno.

Seconda Lettura Eb 5,7-9

Dalla lettera agli Ebrei

Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

Canto al Vangelo (Gv 12,26)

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Se uno mi vuole servire, mi segua, dice il Signore,
e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.

Lode e onore a te, Signore Gesù!

Vangelo Gv 12,20-33

Dal vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

OMELIA

Alcuni chiedono di ‘poter vedere Gesù’. Il vangelo su questo è chiaro: Gesù lo s’incontra laddove si ama: «Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25, 40).
D’altra parte si sa, Dio non è un sostantivo da credere ma un verbo da viversi.
Cosa vuol dire amare? Uscire dall’inganno dell’ego. L’incentramento sul proprio io è un’implosione, un corto circuito; l’essere presente all’altro è di contro edificazione del Sé autentico, della nostra Natura autentica. L’attaccamento al piccolo sé è mortifero: «chi ama la propria vita la perde» (v. 27).
Mentre siamo la vita che doniamo.
Ed è in questo vivificare gli altri che si dà ‘gloria a Dio’, in quanto l’unica gloria che appartiene a Dio è ‘l’uomo vivente’ come ci ricorda sant’Ireneo.
È amando i fratelli che il ‘nome di Dio viene santificato’. Infatti col dire “Sia santificato il tuo nome”, nel Padre Nostro c’impegniamo nella cura dell’altro, perché il vero nome di Dio sono le sue creature. Quando infanghiamo il nome degli uomini e delle donne quando non diamo loro dignità – o peggio ancora quando gliela togliamo – il nome di Dio viene bestemmiato.
Dire “Sia santificato il tuo nome” significherà dunque: “che i tuoi figli grazie a me comincino a vivere di più”.
Non solo. Il brano di oggi ci ricorda che vivendo il principio dell’amore, nelle nostre comuni circostanze di vita, il “principe di questo mondo” sarà gettato fuori. E questo principe – attenti – non è il demonio, ma quel nostro stile di vita improntato sulla logica del potere, dell’arrivismo, della cattiveria, della prevaricazione, dell’egoismo. Laddove si vive l’amore, questa cappa mortale verrà dissolta. Più luce immettiamo nelle nostre relazioni, più il potere del male arretrerà e la tenebra conoscerà la sconfitta.
Aveva ragione Dostoevskij, sarà la bellezza a salvare il mondo, e la bellezza altro non è che l’amore manifestato. Infatti Gesù dice: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me”. La croce è l’evento bello per antonomasia, perché rivelazione dell’amore più grande.
La bellezza attira, affascina, trascina. Non saranno mai le prediche e uno sterile moralismo a trasformare il mondo e nutrire le coscienze, ma l’amore autentico, capace di andare fino alla fine.
 
Paolo Scquizzato
 

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