I Dossier

Mercoledì, 15 Febbraio 2006 21:58

Dall'inculturazione alla interculturalità (Raúl Fornet-Batancourt)

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Alla luce del nuovo orizzonte tracciato diventa comprensibile che la prospettiva dell'interculturalità abilita il cristianesimo alla pluralità delle culture e delle religioni, che lo abilita all'esercizio plurale della propria memoria e alla rinascita, a partire dalla rinuncia a ogni centro di controllo, con la forza di tutti i luoghi della pluralità.

1 - Chiedendo permesso per parlare…

Appartenendo a una tradizione religiosa, quella cristiana, che in paradossale contraddizione con il Dio dell'amore vivo in cui crede, è molto poco abituata al dialogo, all'umanità e alla pace - a causa, fra l'altro, del fatto di aver permesso di essere adottata dal e cooptata nel progetto "civilizzatore" di un'Occidente imperialista per controllare il proprio sviluppo e per dominare il mondo - mi sembra una cosa di elementare onestà e giustizia, prima di avviarmi a parlare del tema che qui ci interessa, cominciare con un gesto di autocritica di fronte alla storia di questa tradizione religiosa che, malgrado tutto, sento come mia e che, per ciò stesso, ipoteca con il suo peso ogni pratica di dialogo da parte mia.

Si tratta, semplicemente e inequivocabilmente, di cominciare con una parola sulla tradizione nella quale, per nascita, lingua, educazione e cultura, sono situato. Con una parola, cioè, che dice che il riconoscimento del danno storicamente causato è condizione per parlare con gli altri, tanto all'esterno quanto all'interno, e per essere riconosciuti dagli altri come un invitato al dialogo tramite il quale cerchiamo, con reciproco aiuto, la verità.

Dicevo che, per me, questo modo di cominciare con una 'richiesta', con una parola non affermativa ma giustamente "sollecitante" e "sollecitata", è di elementare onestà e giustizia perché, nel caso del cristianesimo, siamo realmente di fronte ad una religione che, come ho segnalato inizialmente, è poco abituata al dialogo; realtà, questa, che si può spiegare con molte ragioni, ma che ha una ragione fondamentale: la perversione teologica che accompagna l'aver ceduto alla seduzione del potere di "questo mondo" permettendo, e perfino giustificando, l'integrazione della religione cristiana nell'ingranaggio di imprese imperialiste europee, con l'aggravante che, in questo quadro storico, il cristianesimo stesso sviluppa una sua propria attività colonizzatrice ed imperialista all'interno della politica di prepotente espansione degli imperialismi occidentali.

Mi pare che bisogna riconoscere e confessare apertamente che il cristianesimo, quanto meno nella sua configurazione dominante di religione ufficiale del mondo occidentale, profitta del suo essere strumentalizzato come istanza legittimatrice delle imprese imperialiste per autoaffermarsi non solo come religione militante, missionaria militante, ma anche come tradizione religiosa superiore o, con più esattezza, come religione con la coscienza teologica che la sua stessa tradizione la installa nella verità, la rende portavoce della verità e cammino certo per giungere alla verità che salva.

In questo modo il cristianesimo - al cui sviluppo come parte e fattore della cultura occidentale ufficiale della dominazione (conviene dirlo, anche se di passaggio) appartiene anche l'addomesticamento giuridico della "assemblea" dei credenti nel senso di un apparato di sanzione e di amministrazione della verità - degenera in una ideologia di cristianità che comprende e pratica la sua affermazione sterminando - con tutti i mezzi a sua disposizione, dalla scomunica fino alla tortura - la pluralità religiosa e culturale. Detto in breve: il cristianesimo occidentalizzato e ideologizzato della cristianità è, in fondo, ansioso di imporsi e di dominare sulle altre religioni, e in questo senso la sua espansione "missionaria" militante equivale alla negazione della pluralità delle religioni. Non cadono, nel suo orizzonte teologico (e politico), le religioni, non si dà il fatto religioso come realtà plurale che si esprime e si incarna precisamente nelle religioni, ma c'è solo la religione, ed è quella, solo quella che il cristianesimo rappresenta.

D'altra parte sono cosciente che, dalle sue più remote origini, il cristianesimo è stato e continua ad essere fonte di pratiche religiose liberatrici e che inoltre l'apertura su scala mondiale propiziata dal Concilio Vaticano II ha segnato una svolta di particolare importanza per l'atteggiamento e la capacità di dialogo all'interno della tradizione cristiana. Cioè, se teniamo conto di queste alternative di rinnovamento, si potrebbe pensare che ci stavamo riferendo a una storia passata, superata ormai da generazioni, perfino valutata in maniera unilaterale.

E tuttavia mi sembra di poter dire che questa impressione non è del tutto corretta. Perché? Primo, perché ho parlato della configurazione ufficiale dominante del cristianesimo come momento che esprime la potenza imperiale dell'Occidente; e, secondo, perché questa forma egemonica di configurazione della religione cristiana è molto lontana dall'appartenere al passato, dall'aver perso il suo dominio egemonico e dall'essersi convertita in una manifestazione svuotata di potere e obsoleta.

È certo che ha perso "peso pubblico" e forza di incidenza, in un mondo che, a ragione o senza - ma non entriamo in questa questione -, si autoproclama come caratterizzato dalla pluralità, dalla diversità e dalla tolleranza delle differenze. Ma altrettanto chiaro mi sembra il fatto che, nel campo specifico dell'esercizio pratico-teorico del cristianesimo, l'egemonia del potere di questa configurazione occidentale dominante della religione cristiana (cattolica, soprattutto) si presenta ancora efficace, almeno nelle sue pretese, come dimostrano vari documenti vaticani recenti (vedi, per esempio Dominus Iesus e la ancor più recente "istruzione", Redemptionis sacramentum).

L'involuzione e la restaurazione da preconcilio non sono favole di cristiani "progressisti" o "dialoganti". Sono triste realtà presente. Sono il volto attuale del cristianesimo dominante. Per questo sono convinto che, oggi come ieri, noi cristiani dobbiamo chiedere il "permesso" e la comprensione degli altri - questi altri che tanto abbiamo umiliato con la nostra arroganza occidentale moderna e che tanto abbiamo ferito con i nostri metodi di militanza - prima di prendere la parola, articolare il nostro messaggio e condividerlo con loro in un dialogo aperto e senza asimmetrie.

Faccio osservare, infine, che questo "permesso" si presenta, secondo me, al tempo stesso e in modo costitutivamente fondamentale, come un "impegno". Il "permesso" è, in effetti, "impegno" perché il "permesso", o meglio, la sua richiesta e/o accettazione ci impegnano a dialogare realmente. Suppone tutto quello che sappiamo che è - di fatto e di diritto - necessario per un dialogo vero: aprirsi all'altro, ascoltare senza riserve né pregiudizi, amare la sua diversità anche quando non arriviamo a capirla del tutto, e avventurarsi con lui in un processo di accompagnamento e di apprendimento reciproco.

Ma questo "impegno" suppone anche rileggere e ricostruire la propria tradizione - in questo caso la tradizione cristiana - a partire dal suo nucleo e storia di liberazione.

Il "permesso" per dialogare con gli altri è allora essenzialmente "impegno" a lavorare nella liberazione della nostra tradizione religiosa dal dogmatismo dottrinario e dall'apparato di potere che, conseguentemente con i suoi interessi di controllo e dominio, hanno trasformato - se mi si permette la metafora - la fragilità della nave itinerante e pellegrina nella pesante e impressionante sicurezza di uno scafo corazzato, con la conoscenza fino in fondo della sua missione e del suo destino.

Il "permesso" è, insomma, "impegno" a parlare del cristianesimo a partire dalla sua memoria di confino della liberazione per ridimensionare con gli altri, condividendo questa memoria, il nostro cammino liberatore.

2 - Dall'inculturazione…

Se, a causa del titolo di questa mia conferenza, si suppone che tratterò e argomenterò il termine teologico-cristiano di inculturazione, si suppone la cosa esatta perché il mio proposito è in effetti quello di parlare dell'inculturazione della fede cristiana in una prospettiva critica e/o autocritica.

È possibile che questo proposito, soprattutto per ambienti cristiani di oggi e aperti al dialogo, risulti un po' strano o susciti, negli stessi, sospetti di ipercriticismo. E poi, come negare che il termine inculturazione sia sinonimo di uno dei grandi contributi di profondo rinnovamento ispirato dal Concilio Vaticano II? Di più, nel termine inculturazione si riassume tutto un programma di rinnovamento teologico, pastorale, liturgico, catechetico, ecc., che riorienta la presenza del cristianesimo nel mondo e 'risignifica' il tradizionale senso "missionario" nel momento in cui esige di entrare in dialogo con la diversità culturale dell'umanità.

È giusto, pertanto, riconoscere il passo avanti che ha significato il programma di inculturazione della fede cristiana. Sarei l'ultimo a negarlo perché sono cosciente che, con il nuovo paradigma dell'inculturazione come filo conduttore per universalizzare la fede cristiana in modo culturalmente differenziato, si supera definitivamente l'orizzonte nano "fuori della Chiesa non c'è salvezza" e si inizia invece una nuova forma di intendere la relazione fra il Vangelo e le culture, e anche tra il cristianesimo e le altre religioni dell'umanità.

Ma, insisto, concedendo di buon grado tutto questo, mi sembra che il concetto e il programma dell'inculturazione del cristianesimo devono essere criticati. Cercherò, dunque, di spiegare brevemente le ragioni che, secondo me, giustificano e fondano la necessità di criticare il concetto di inculturazione come parola chiave di un paradigma di teologia cristiana e di vissuto della fede che deve essere sostituito da altro, se la religione cristiana vuole prendere sul serio il dialogo con la diversità culturale e religiosa dell'umanità. L'esigenza che ho appena segnalato rivela già che le ragioni che porterò a favore del superamento del paradigma dell'inculturazione riposano a loro volta su una ragione fondamentale, o presupposto, che è l'anima dell'argomentazione: il rispetto per la sacralità e per il mistero di grazia che si annuncia nella pluralità delle religioni; rispetto amoroso e condiviso che, contenendo la volontà di interferire o influire, si esprime innanzitutto come ascolto che si abbandona all'esperienza di gustare la ricchezza della pluralità.

Alla luce di questa ragione di fondo - più che ragione, in realtà fonte esperenziale generatrice di ragioni discorsive perché ha a che vedere con quello che Raimon Panikkar chiama "la mistica del dialogo" ("La mistica del dialogo", 1993) - presento ora brevemente alcune ragioni per un paradigma dell'inculturazione come orizzonte adeguato ad un cristianesimo che possa stare sinceramente all'altezza delle esigenze teoriche e pratiche del dialogo interculturale e interreligioso reclamato dalla pluralità di culture e di religioni.

Posto che si suole definire l'inculturazione e il programma teologico-pastorale al quale questo concetto dà il suo nome come lo sforzo della Chiesa (cattolica) di incarnare il Messaggio evangelico cristiano in tutte le culture (…), voglio far valere in primo luogo l'argomento che segue.

Il programma dell'inculturazione riflette ancora la logica aggressiva della tradizionale militanza missionaria occidentale e si presenta, di conseguenza, come progetto di intervento nelle culture, essendo queste considerate più oggetto di trasformazione che soggetti a pari condizioni e uguali diritti di interazione. Se leggiamo attentamente, ci rendiamo conto del fatto che il linguaggio col quale si esprime il nuovo paradigma dell'inculturazione denuncia il permanere di una coscienza di superiorità e, con esso, il permanere della presunta evidenza del diritto della Chiesa (cattolica) ad incarnare il Vangelo nelle diverse culture, considerato inoltre che i criteri per discernere il buon corso evangelizzatore di questo processo sono criteri derivati dalla stessa tradizione cristiana che si incultura. Ne deriva che - sebbene si parli di non forzare l'inculturazione, di accettare le culture, di incorporare tutto ciò che di buono hanno e di contribuire al loro miglioramento dall'interno - l'inculturazione sembra comportare una certa aggressività violenta, visto che il suo procedere presuppone di citare le culture - insieme alle tradizioni religiose - di fronte al tribunale delle esigenze di universalizzazione del cristianesimo (che a volte si presentano come esigenze oggettive della fede, vedi la Redemptoris missio, n. 54), per dettare il corso che devono seguire nel loro sviluppo.

Questo primo argomento vuole mettere in evidenza, insomma, quello che potremmo chiamare, in riferimento alle esigenze di un dialogo realmente aperto, una carenza di rispetto della differenza dell'altro o, se si preferisce, una mancanza di continenza quanto una deficienza di reciprocità.

La seconda ragione si dirama dalla prima e la completa. Concentrandola all'essenziale, la formulerei come l'obiezione della strumentalizzazione della pluralità culturale. È certo che impostare l'inculturazione presuppone aprire all'altro in tutta la diversità culturale che lo definisce, nonché cercare, nei modelli più avanzati o radicali di inculturazione, di superare l'orizzonte del mero "adattamento" della fede cristiana alle culture, per favorire la loro crescita plurale a partire dalla loro diversità e specialmente a partire dalle pratiche quotidiane nelle quali si esprime in concreto il pluralismo culturale. Questo intende, per esempio, Diego Irrazaval quando parla di avanzare in direzione di una "poli-inculturazione" (Inculturación. Amanecer eclesial en America Latina, Lima 1998, e Cultura y fe latinoamericanas, Santiago del Cile 1994). Malgrado ciò, tuttavia, credo che si giustifica l'affer-mazione che l'inculturazione permette solo una apertura con riserve, controllata e pianificata, giacché sembra sapere in anticipo quello che deve succedere nel processo di incontro con l'altro e quale sarà la meta ultima di tutto il processo, cioè lo sviluppo attuativo di un cristianesimo universale; meta che alcuni inculturalisti non hanno difficoltà a chiamarle trionfalmente "cultura cristiana" (vedi il documento di Santo Domingo, 1992, Nueva evangelizazión. Promoción humana. Cultura cristiana).

Mantenendo questa forma di apertura, l'inculturazione, pertanto, mette in pratica una strumentalizzazione della diversità culturale, visto che pone questa diversità al servizio della sua "missione", potendo perfino - nella sua versione conservatrice di "cultura cristiana" - rappresentare una minaccia per il pluralismo culturale.

Ma tanto questo secondo argomento quanto il primo conducono ad una terza ragione che è di natura più teologica, perché si riferisce alla teoria teologica sulla fede cristiana soggiacente il paradigma dell'inculturazione. Mi spiego.

L'inculturazione, per il fatto stesso di proporsi come risposta alla sfida di incarnare la fede cristiana nella pluralità delle culture, sembra dover lavorare con una visione metaculturale o transculturale del messaggio cristiano che gli assicuri un nucleo duro, culturalmente e storicamente incontaminato, che rappresenti a sua volta proprio l'orizzonte che rende possibile la prospettiva dell'inculturazione, posto che senza questa presunta extraterritoritalità culturale manca di senso parlare dell'inculturazione come dinamica di "incarnazione" di un messaggio correttore delle culture.

Ma questa transculturalità del Vangelo cristiano se, da una parte, garantisce la sua capacità di inculturazione, dall'altra funge da limite, da regola, da controllo dell'incul-turazione. Presupporre la transculturalità significa accettare che c'è questo nucleo duro che deve certamente "alterare" le culture, e che però esse non possono assolutamente "alterare", ma devono trasmettere "con fedeltà" in forme proprie. Insieme a questo c'è evidentemente il problema dell'identità cristiana; questione complessa sulla quale non possiamo soffermarci. Ci basti qui considerare che questa visione transculturale della fede cristiana è paradossalmente problematica per la stessa inculturazione, perché comporta un freno per la stessa dinamica inculturalizzante.

La quarta ragione è vincolata con l'argomento precedente. Un'impostazione che difende la tesi che la sua tradizione religiosa sia portatrice di un nucleo transculturale, anzi, che essa stessa è transculturale, tende all'assolutizzazione di sé e, con ciò, alla relativizzazione delle altre tradizioni. Sicché farebbe valere contro l'inculturazione la considerazione che la sua visione di fondo la porta non a "relativizzare" la sua tradizione nel senso di relazionarla con le altre su un piano di uguaglianza e di rivederla a partire da questo tessuto di relazioni, ma al contrario tende a fare della tradizione cristiana la norma formativa delle relazioni con le culture e le loro religioni.

Una quinta ragione, che logicamente è collegata alle precedenti, è l'aver messo a tacere il peso della storia dei dogmi della fede cristiana. Che fare con i dogmi? Credo che l'inculturazione sorvoli su questa grave questione, ma dovrà affrontarla, perché in essa si decide la sua capacità o incapacità di dialogo. Una sopravvalutazione dei dogmi, come già aveva visto Juan Luis Segundo, impedisce il dialogo (El dogma que libera, Santander 1989). (…).

Per ultimo, e per completare l'argomento della sopravvalutazione dogmatica, addurrei questa ragione: il concetto e il programma dell'inculturazione - anche in quegli autori e operatori che cercano di distanziarsi dalla linea dominante transculturalista, accettando la contestualità e storicità del Messaggio cristiano - lasciano intravedere tuttavia momenti di una universalità intoccabile che, secondo me, si spiega con la sopravvivenza di relitti eurocentrici (…). Per questo ci sembra che un'inculturazione che non rompa decisamente e radicalmente in tutte le conseguenze e a tutti i livelli con l'eurocentrismo continuerà a ridurre la capacità di dialogo e di comunione universale del cristianesimo.

Bisognerebbe, inoltre, almeno riconoscere, con Ignacio Ellacuría che "… la fede cristiana è stata uniformata a partire dalle esigenze e dai privilegi del mondo occidentale e della attuale civiltà occidentale cristiana - così la chiamano - . Questo per noi suppone una riduzione grave, per se stessa e per la sua capacità di inculturazione. Cioè, la forma che il Cristianesimo ha preso in Europa, attraverso tutti questi secoli, gli antichi e i moderni, nel migliore dei casi è una delle forme possibili di vivere il Cristianesimo, una. Nel migliore dei casi, se l'avesse fatto bene. Ma in nessun modo è la migliore forma possibile di vivere il Cristianesimo" ("El desafío cristiano de la teología de la liberación", in Acontecimiento 16, 1990, p. 91).

Il riconoscimento di ciò significa tuttavia prendere coscienza anche del fatto che il pluralismo delle culture e delle religioni, che tanto fortemente segna la nostra epoca, ci spinge ad andare ancora più in là, tentando non solamente di superare l'eurocentrismo di una inculturazione che cerca di occupare il centro delle culture con un messaggio evangelico monoculturalmente interpretato e istituzionalizzato, ma tentando di liberare il cristianesimo dalla tendenza a cercare centri culturali dove impiantarsi. Detto in positivo: si tratterebbe, come ha ben scritto Juan José Tamayo seguendo la proposta di J.B. Metz, di passare "ad un Cristianesimo universale culturalmente policentrico" (Juan José Tamayo, Nuevo paradigma teológico, Madrid 2004, specialmente il cap. 3).

Ma questa nuova configurazione della fede cristiana, che già non è centrica ma periferica, è precisamente quella che può storicizzarsi mediante l'interculturalità. Passiamo dunque al terzo aspetto.

3 - … all'interculturalità

Diciamolo subito: proponiamo il passaggio dall'inculturazione all'inculturalità perché, con Raimon Panikkar, vediamo nell'interculturalità l'imperativo del nostro tempo; un imperativo che anche il cristianesimo deve assumere, se vuole essere all'altezza delle esigenze contestuali e universali che pone la convivenza umana nella e con la pluralità delle culture e delle religioni. Con ciò diciamo anche, evidentemente, che proponiamo il passaggio dall'inculturazione all'inculturalità perché vediamo in quest'ultima l'alternativa che deve assumere oggi il cristianesimo per superare un paradigma che ancora lo tiene ancorato a pretese, atteggiamenti e abitudini, teorici e pratici, propri della configurazione occidentale dominante che storicamente si è appropriata delle sue possibilità di realizzazione. Per una fede cristiana vissuta nel dialogo e nella convivenza con gli altri, non basta un cristianesimo inculturato. Perché, malgrado tutti i passi avanti compiuti con l'inculturazione, questa, tanto per l'ambivalente concetto di tradizione cristiana con cui lavora, quanto per il suo programma di interferire nell'ordine religioso e culturale dell'altro, si presenta tributaria della tradizionale "missione" e della conseguente "colonizzazione" dell'altro. L'interculturalità sì, invece, mi sembra costituire un'alternativa forte per rompere definitivamente con questo (vecchio) paradigma eurocentrico in cui si muove ancora, a mio parere, il programma dell'inculturazione, perché, come abbiamo cercato di mostrare, il peso dottrinario nella tradizione che cerca di inculturare è ancora tale da portarla a frenare le dinamiche di aperto cambiamento in nome della conservazione della presunta identità propria. Ma cerchiamo ora di indicare alcuni argomenti a favore dell'inculturalità o, più concretamente, a favore di una trasformazione interculturale del cristianesimo.

Senza entrare in una considerazione filosofica sulla teoria e la pratica dell'interculturalità, mi limiterò a citare solo quegli aspetti le cui implicazioni mi appaiono più fondamentali per coltivare una prassi interculturale della fede cristiana. Su questo punto, cioè, la mia argomentazione si sdoppia in un primo punto, che consiste proprio in questo brevissimo avvicinamento alla interculturalità, e in un secondo che sarebbe l'esplicitazione delle conseguenze per una trasformazione interculturale del cristianesimo.

L'interculturalità, come processo contestuale-universale di preparazione ad una cultura di culture (e religioni) in relazioni e trasformazioni aperte, non è missione ma dimissione. Voglio dire che è un atteggiamento che non si proietta come missione di trasmissione all'altro di ciò che è proprio, ma come permanente dimissione dei diritti culturali che sono a noi propri, affinché da questa contrazione del volume di ciò che siamo possano emergere in noi stessi contesti di accoglienza, spazi liberi non occupati, nei quali l'incontro con l'altro sia già, da subito, esperienza di convivenza nel suo significato forte.

Di conseguenza, la pratica dell'interculturalità si concretizza in primo luogo come una paziente azione di rinuncia. L'interculturalità rinuncia a sacralizzare le origini delle tradizioni culturali o religiose; l'interculturalità rinuncia a convertire le tradizioni che chiamiamo proprie in un itinerario scrupolosamente stabilito; l'interculturalità rinuncia a estendere le "zone di influenza" delle culture nella loro corrispondente formazione contestuale; l'interculturalità rinuncia a celebrare identità delimitando tra il proprio e l'altrui; l'interculturalità rinuncia a centrare quello che ogni cultura chiama proprio in un centro statico; l'interculturalità rinuncia a sincretizzare le differenze sulla base di un presunto fondamento comune stabile e, per questo, rinuncia anche alla teleologia dell'unità in sé.

Questi aspetti che ho riassunto come rinunce fondamentali che caratterizzano la pratica di un atteggiamento interculturale, letti positivamente, possono ispirare e orientare una nuova trasformazione del cristianesimo; una trasformazione che cambierebbe le proprie inculturazioni in interculturizzazioni e che sarebbe, in tal modo, processo di mutazione e cambiamento allo stesso tempo. In corrispondenza alle rinunce indicate, svilupperei il secondo punto della mia argomentazione segnalando le seguenti conseguenze:

- La rinuncia alla sacralizzazione dell'origine della propria tradizione implicherebbe, nel suo risvolto positivo, per chi confessa la tradizione cristiana, l'impegno a dialogare con la storia della propria tradizione di fede e a "informarsi" della razionalità della stessa, cioè del fatto che l'origine non è assoluta ma relativa e che, come tale, è parte di una catena di accadimenti che continua fino ad oggi.

- La rinuncia a convertire la propria tradizione in un itinerario sicuro comporterebbe la conseguenza di pluralizzare la propria tradizione cristiana, intendendo con ciò un dialogo interno che porta alla luce le alternative che ha conosciuto il cristianesimo, e che ce lo fa vedere più come una bussola in direzione degli altri che come l'itinerario che devono seguire tutti, interni ed esterni.

- La rinuncia ad estendere le "zone di influenza" proprie rappresenterebbe per il cristianesimo l'obbligo di ripensare e praticare la sua presenza nel mondo come elemento di convivenza in un processo di relazioni in cui, se c'è influenza, è l'influenza reciproca che risulta dal fluire delle relazioni, a volte convergenti e altre volte divergenti, ma sempre in un flusso relazionale.

- La rinuncia a celebrare l'identità propria tracciando frontiere tra gli appartenenti alla famiglia e gli estranei avrebbe come conseguenza quella di decostruire l'ideologia monoculturalista della coerenza identitaria per rifare l'identità cristiana a partire dalla convivenza interculturale e interreligiosa in termini di un processo contestuale e universale al tempo stesso e che, per questo, si riconfigura continuamente.

- La rinuncia a centrare e centralizzare la propria tradizione in un'essenza o sostanza che fungerebbe come il punto fisso di ogni riferimento identitario implicherebbe per la pratica del cristianesimo l'accettazione della singolarità del suo modo di entrare e di partecipare a processi di trasformazione reciproca ed, evidentemente, anche l'obbligo di farsi carico dei cambiamenti interculturali e interreligiosi relativi ai suoi profili contestuali. Da qui deriva logicamente, sia detto di passaggio, l'impegno a trasformare interculturalmente anche la dimensione di organizzazione strutturale propria, dall'ambito giuridico fino a quello pastorale.

- La rinuncia al sincretismo come mescolanza relativistica e insapore porterebbe a una pratica e a un'elaborazione teologica della fede cristiana che, senza sostenere dottrinariamente l'identità della sua memoria, la porrebbero in dialogo e ne evidenzierebbero la volontà di trasformazione per la convivenza; cioè la ricollocherebbero come memoria in movimento, pellegrina, che cresce, grazie alla convivenza e alla partecipazione nella pluralità, nell'universalità, ma anche proprio nella sua insostituibile contestualità. (…).

- La rinuncia alla teleologia dell'unità in sé comporterebbe, infine, un discorso cristiano disposto a non chiudere il processo di scambio e di riconfigurazione culturale e religiosa in nome di uno stato di unità che, più che equilibrare le differenze della pluralità, le ordina gerarchicamente e le controlla. In altri termini, si tratterebbe di puntare ad un discorso cristiano che comprenda l'unità non come uno stato che si amministra ma come un avvenimento di grazia, come avvenimento di comunione che non pone fine al pellegrinaggio né alla necessità di continuare il dialogo, tanto verso l'interno quanto verso l'esterno.

Alla luce del nuovo orizzonte tracciato diventa comprensibile che la prospettiva dell'interculturalità abilita il cristianesimo alla pluralità delle culture e delle religioni, che lo abilita all'esercizio plurale della propria memoria e alla rinascita, a partire dalla rinuncia a ogni centro di controllo, con la forza di tutti i luoghi della pluralità.

Così, un cristianesimo in processo di trasformazione interculturale sarebbe religione costruttrice del Regno e fattore di pace nel mondo.

Raúl Fornet-Batancourt

(da Adista 10 ottobre 2004)

 

Letto 7034 volte Ultima modifica il Domenica, 31 Gennaio 2016 20:27
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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