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Mercoledì, 30 Aprile 2008 01:52

Dalla civiltà della paura alla civiltà della pace. Un guizzo di utopia (Ernesto Balducci)

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Dalla civiltà della paura alla civiltà della pace
Un guizzo di utopia

di Ernesto Balducci

Vorrei impegnarmi a una riflessione forse presuntuosa, comunque un po' complessa, articolata, capace di assumere il tema della pace come tema totalizzante, che riconduce in sé gli aspetti diversi dei processi innovativi del nostro tempo, e capace quindi di suggerire una strategia globale, dove le varie battaglie per il rinnovamento possono ritrovare unità e coordinamento reciproco.

Vorrei sostenere la tesi che il nostro impegno per la pace non può più essere inteso come volto semplicemente a deprecare la guerra e a invocare il disarmo. Se vuole rispondere alle provocazioni oggettive della situazione pericolosa in cui siamo, non può essere che una «mutazione culturale».

Io sono convinto, con molti grandi testimoni, artefici del nostro tempo - penso qui ad Einstein, per citare il più importante - che noi stiamo vivendo all'interno di una mutazione storica che coinvolge non soltanto gli assetti dei rapporti tra i popoli, ma il modo stesso di pensare, la forma mentis dell'uomo, la cultura dell'uomo. Il famoso scienziato aggiungeva che dopo Hiroshima «o l'umanità cambia modo di pensare, o il suo destino è la catastrofe». Questo è il dilemma posto da uno scienziato che per vari versi potrebbe essere chiamato padre o nemico della bomba atomica, visto che le ricerche atomiche devono qualcosa alle sue grandi teorie della relatività ed ancora che egli stesso, nell'estremo cimento della guerra, non fu alieno dal pensare che la bomba poteva essere usata per porre fine alla guerra, soprattutto alla minaccia nazista. Ma con prontezza di coscienza, subito dopo Hiroshima, Einstein e dopo di lui B. Russell e altri grandi scienziati dichiararono, con il prestigio che avevano, che occorreva modificare radicalmente il modo di pensare, il modo di far politica, se si voleva evitare la catastrofe.

Dobbiamo riconoscere dopo trent'anni che il modo di pensare, almeno a certi livelli, là dove la storia agisce con i suoi strumenti ufficiali, non si è modificato. Il modo di pensare è ancora quello anteriore alla soglia atomica. E sta di fatto che dinanzi a noi è aperto il baratro della catastrofe.

Ma negli ultimi anni si sono succedute in Italia e in Europa manifestazioni pacifiste di tale entità da dare subito l'impressione che qualcosa di nuovo pulsasse nella coscienza collettiva, che questa mutazione che negli strati di superficie non si avverte, nel fondo della coscienza dei popoli, fosse invece avanzata, confortando quella che poteva sembrare un'utopia da conservare nel cuore, stando in agguato nella storia se per caso venisse il momento giusto. Il momento giusto probabilmente è venuto, perché la situazione dell'umanità, dopo l'escalation atomica, che non ha mai cessato di avanzare, è tale da determinare ormai una larga presa di coscienza, una reazione collettiva della base, dei corpi sociali, o la catastrofe è inevitabile.

E con questo sentimento che i popoli stanno riprendendo in mano il proprio destino. Il genere umano è all'interno di una mutazione storica, quella che Teilhard de Chardin con il suo linguaggio chiama soglia evolutiva, la soglia dove è necessario un salto di qualità, una nuova concentrazione della coscienza umana, cioè un punto di riferimento delle coscienze a partire dal quale sia possibile prendere possesso dei dinamismi della società.

La paura e l'inventiva

Ogni qualvolta - la storia dell'evoluzione ce lo dimostra - si tocca la soglia dove è necessario un salto di qualità, dove cioè non è più saggezza la continuità col passato, dove è saggezza la rottura col passato, ogni qualvolta si entra nella soglia, abbiamo una duplice reazione: quella della paura ad attraversare la soglia - perché la paura è la percezione che si deve morire al nostro passato, all'insieme dei principi culturali su cui si è basata la nostra coscienza - e quella dell'utopia. La paura, perché le istituzioni, che sono nate per realizzare gli obiettivi che ci eravamo proposti, la nostra stessa identità civica e culturale, tutto è messo in discussione. E come una morte storica; per scomodare il linguaggio biblico, dobbiamo morire a noi stessi per nascere. L'altra reazione è quella della inventività, della improvvisa presa di contatto con ciò che ieri sembrava utopia. Oggi ciò che è utopistico diventa realistico e ciò che ieri era realistico diventa utopistico in senso catastrofico. Per esempio, quello che è stato detto dalle massime autorità americane, (che sarebbe anche possibile fare una guerra atomica controllata) dimostra come il realismo ha toccato la follia. Sembra davvero poco attendibile l'idea che una eventuale contesa sia da una parte controllata senza che l'altra parte non subisca la tentazione di rispondere in maniera smisuratamente più grande, senza che si entri nel rigurgito dell'escalation delle armi atomiche. Ne consegue che il momento in cui siamo è quello in cui l'utopia può pretendere di presentarsi con tutti i titoli di realismo storico. Questo è il punto essenziale per capire gli obiettori di coscienza che noi difendemmo nel '63. Oggi siamo in grado di dire che ciò che ci nascondono gli obiettori di coscienza è in nuce, come in un germe, una alternativa di scelta. La tesi che sto svolgendo è che quello della pace è un tema capace di riannodare le fila sparse di un ideale tessuto di società diversa.

La mutazione culturale

Noi sappiamo come procedono dal punto di vista culturale le società. C'è una cultura dominante, che è quella che fa tutto, che ha i giornali, le televisioni, le Case editrici, quella che dà l'immagine della società globale, senza che questa immagine vi risponda effettivamente. Noi potevamo dire vedendo i libri di testo, gli articoli di giornalisti di grido, che tutto procedeva come prima (e del resto le carte di identità dei partiti politici risalgono, nonostante la gloriosa frattura della resistenza, ad epoche anteriori alla soglia atomica). Dalle stesse ideologie - che sono anteriori alla soglia atomica - l'idea dell'uomo come violento è accettata come un dogma, non mutabile.

Noi oggi ci troviamo in una condizione in cui deve prendere voce quella cultura (la chiamo così in senso antropologico) che non ha avuto voce, che è sempre stata emarginata o connotata in qualche modo nel tratto del ridicolo, dell'estroso. Come del resto, ora che ci ripensiamo dall'altezza drammatica della storia attuale, capitò a Francesco d'Assisi, che disse di se stesso «Io penso che Dio volesse che io fossi nel mondo un novello matto». Uno strano matto: credo che tutti gli uomini della cultura dominante pensassero così, dal papa al cardinale Ugolino; gente furba, però, che sapeva usare anche i pazzi, li sapeva inserire nelle strategie di potere. Erano uomini di grande cultura, tanto che avevano strutture così elastiche da accogliere anche il nuovo, diversamente dai nostri tempi. Oppure possiamo pensare, per andare a esempi più grandi, a Gesù Cristo, che fu rivestito come un pazzo da Erode, simbolo del potere. Ogni volta che un'idea nuova, fresca, verginale viene alla luce del sole, la cultura dominante ha subito gli schemi di lettura per bloccarla, qualificandola come pazzia. Ma ora noi siamo in una condizione storica in cui i pazzi forse avevano ragione; la voce della coscienza disarmata, che si fa forte soltanto del consenso delle coscienze, è più potente di un esercito.

Il destino dell'umanità è unico

Sono maturate le grandi verità di Hiroshima, così vorrei chiamarle, che sono tre a mio giudizio, e fondamentali. Su queste verità, via via, attraverso quel lento spostamento sismico che è avvenuto alle fondamenta del corpo sociale, si sono preparati i cambiamenti.

Ila prima verità di Hiroshima è che il destino dell'umanità è unico e indivisibile, cioè per la prima volta la storia ha capito che il suo destino di morte è un destino indivisibile, poiché è possibile la morte simultanea. È un'idea che non era potuta mai balenare nella mente umana prima, salvo che in Caligola, il quale, come si racconta nella scuola, nei suoi sogni sadici, desiderava che il genere umano avesse una testa sola per tagliarla in un sol colpo. Ma i sogni di Caligola sono diventati possibilità oggettiva. Noi sappiamo che gli armamenti atomici sono tali da poter distruggere più volte il genere umano nella sua interezza. Anzi essi possono per sempre abolire dal pianeta Terra, unico nell'universo ad avere la biosfera, la stessa pellicola di biosfera che l'avvolge.

carattere ormai planetario. O il bene comune è planetario o non è bene comune. E ogni coscienza politica che assuma il bene comune del proprio paese, come sufficiente a fondare le virtù politiche, è una menzogna. L'unico bene comune, concreto, che si risolve nel bene comune anche del singolo paese, èil bene comune del genere umano. Questa intuizione ha acquistato una esplicazione di carattere scientifico, attraverso le analisi condotte da grandi competenti, uno dei quali è Brandt (o l'équipe che fa capo a lui) che ha steso un suo rapporto in cui si dimostra che le interdipendenze nel genere umano sonocosì strette che non è possibile ormai nessuna pianificazione economica, nessun risanamento del bilancio che non tenga conto di questa interdipendenza. Non si dovrebbe parlare di dipendenza del povero Sud dal Nord, ma del contrario, perché la grandezza del Nord, i suoi sperperi consumistici, la sua stessa posizione di privilegio del potere a livello degli armamenti, sono legate al fatto che sopravvive l'economia di rapina nei confronti del Sud. Ma il Sud, in questi ultimi anni, a partire dal 1955 ad oggi, ha compiuto una rivoluzione, simile a quella del rapporto servo-padrone. Il Sud, servo, ha preso coscienza che il padrone senza il servo non conta niente. E questa idea, come spiega Hegel, quando balenò nell'uomo, mutò la storia.

Noi siamo in un momento in cui il Sud del pianeta, il così detto Terzo mondo, ha preso coscienza che il mondo sviluppato senza di lui non è più niente. La storia muta. Probabilmente per questo gli armamenti sono un argomento estremamente provocatorio, poiché se io vi dico che nell'ultima guerra abbiamo avuto 50 milioni di morti, giustamente provoco sgomento. Ma forse pochissimi di voi sanno che due anni fa, nel '79, 50 milioni di morti li ha provocati la fame, e questa non è nata dalla malvagità della natura, ma dall'assetto economico del pianeta, perché nello stesso anno furono spesi 45 miliardi di dollari in armamenti, la decima parte dei quali bastava a eliminare i morti di fame. Il genere umano ha preso coscienza di questo e ormai nessuno si salva da un'inquietudine morale. Ogni tanto si sentono uomini politici che appartengono al vecchio ceppo, che parlano con molta sicurezza, con un linguaggio illuministico, con delle riflessioni paternalistiche nei confronti del terzo mondo; ma noi sentiamo che quella è una cultura morta. Quelli sono gli uomini politici pericolosi, perché non sono passati attraverso questa cruna d'ago, prima della quale c'è la stoltezza e oltre la quale c'è la consapevolezza che la salvezza del genere umano è unica e indissolubile, anche a livello delle pianificazioni economiche. Mentre parlo sento che questo tema dovrebbe diventare centrale nelle scuole, nei pulpiti, dovunque. Questa è l'educazione delle nuove generazioni, e non il ritorno a Garibaldi e la sua celebrazione.

L'istinto coincide con la morale di pace

In secondo luogo sentiamo che è maturata, non molto a livello della consapevolezza diffusa ma moltissimo in quello delle consapevolezze anticipatrici, la certezza di un'altra verità che i nostri padri non potevano percepire adeguatamente. Noi in passato abbiamo distinto la sfera della morale dalla sfera dell'istinto: due sfere tra loro inconciliabili, destinate al conflitto. L'istinto non è solo sede del male, ma anche principio di propulsione creativa, di arricchimento della vita morale dell'uomo, però la sua condizione normale è il conflitto con la ragione morale. La pace, per esempio, è un imperativo della morale. L'istinto nell'uomo, così ci è stato sempre insegnato, è aggressivo, e quindi la morale può contenere, regolare questa aggressività, ma sempre col presupposto che tra un principio e l'altro pace non ci può essere. E invece oggi noi siamo a un punto storico nuovo in cui quell'istinto di fondo della specie umana, della specie come tale, ci porta ad aver paura di morire. La volontà di sopravvivere arriva a coincidere con l'imperativo della coscienza morale, cioè tra biologia e coscienza c'è un punto d'incontro oggi, e questo poi si apre ad altre prospettive complesse anche su tutti gli altri settori.

Non è vero che si debba fare la morale dell'uomo a prescindere da quello che è il suo contenuto istintivo. L'istinto profondo dell'uomo, la vastità, la globalità della voce della specie arriva a coincidere con la legge morale; ora fare pace non è più un dovere a cui ci chiama la coscienza, è una necessità a cui ci chiama l'istinto di sopravvivenza. Questa è una soglia antropologica nuova, quella che le ricerche di morale di vario tipo dovranno approfondire e sviluppare. Conseguentemente non si può vivere sulla paura della guerra. Ricordo un episodio capitato ad Amburgo il giugno scorso, quando i vescovi luterani vollero celebrare il «giorno della chiesa» e diedero come motto a questo giorno una parola del Vangelo intesa spiritualisticamente, «non abbiate paura, io ho vinto il mondo». Parole di Gesù Cristo; ma i giovani, che arrivarono più numerosi del previsto, inalberavano cartelli in cui dicevano «noi abbiamo paura». Paura della bomba atomica, paura del disastro ecologico, ed elencarono le ragioni della loro paura. E in questo capovolgimento dall'idealismo evangelico astratto al realismo si è visto un sintomo di ciò che maturava nelle coscienze.

Nelle coscienze matura una richiesta profonda, che se avesse a disposizione le mediazioni politico-culturali, determinerebbe il cambiamento storico del genere umano. Questa paura è degna dell'uomo. Non è una paura egoistica, gretta, di chi si rifiuta di sacrificarsi per un ideale superiore a lui, è una paura che ha la sanità della specie, è quindi una paura che porta i segni, la trasparenza della coscienza morale. Questo è un fatto nuovo ed importantissimo.

La guerra è uscita dalla sfera della ragione

La terza verità è che la guerra è uscita definitivamente dalla sfera della ragione. Non c’è mai stata, dirà qualcuno. Si, è vero. Ricordo quando imparavo il latino a scuola, in prima ginnasio, e studiavo Tibullo: «Chi fu il primo a produrre le spade?», con senso di deprecazione. Ma questa lagna, di deprecare le spade e di fabbricarle, è antica quanto l'uomo. La guerra è stata sempre considerata come un evento nefasto, ma necessario. Poi questa fatalità poteva essere connotata di provvidenzialità, di punizione di Dio per i peccati dell'uomo; ognuno aveva le sue categorie per renderla accettabile. Nelle litanie medievali si diceva «dai fulmini, dalla tempesta, dalla fame, dalla guerra liberaci o Signore», come se la guerra appartenesse alle calamità di natura. Il concetto della fatalità della guerra è stato sempre presente nel genere umano prima della soglia atomica. E la ragione si è limitata a disciplinare la guerra, a contenerla in certi limiti, quelli per esempio stabiliti dalla dottrina stoico-romana, ma diventata cattolica con S. Agostino, la dottrina della guerra giusta. Per non parlare poi di altre giustificazioni più nefaste, come quella hegeliana, in cui la guerra appariva uno strumento della ragione, dello Spirito assoluto, per celebrare nella storia le alterne investiture degli spiriti eletti.

Noi queste cose le abbiamo bevute nella nostra infanzia di bambini vestiti con la camicia nera di balilla. Il fascismo poi ci educava al senso di grandiosità della guerra, e senza contestazioni di fondo, perché non faceva altro che portare agli estremi una ideologia giacente alla base della civiltà occidentale. La guerra è sempre nefasta, ma inevitabile e anzi provvidenziale, come spiegava un mio maestro di università, Benedetto Croce, «la guerra come accadimento è nefasto, ma come avvenimento è fausto» (accadimento è il fatto singolo, l'avvenimento sono i risultati complessivi; è questa la strana eterogenesi dei fini: un accadimento nefasto produceva però avvenimenti grandiosi).

Questa teologia della guerra, anche laica (perché ognuno ha la sua teologia) si è inserita nella storia. Ma questa cultura è finita: la guerra è uscita per sempre da ogni possibile disciplina razionale. Questo è un fatto nuovo, che già papa Giovanni nella «Pacem in Terris» sottolineava. Ma direi che in qualche modo non faceva che notificare un'evidenza. Le evidenze è difficile che poi riescano a fermentare in tutte le implicazioni che contengono, o almeno, ancora non lo hanno fatto; però sono sempre più luminose agli occhi della coscienza comune, mentre sono un segno di frattura fra il passato e il nostro presente.

Sono obbligato a dire qual è la presente situazione a cui ho fatto allusione. Noi siamo vissuti in questi anni che ci separano dalla invenzione della bomba atomica, la storia di questa terribile bomba la conosciamo. Prima era nelle mani degli Stati Uniti d'America soltanto, che in qualche modo erano garanti della pace sul pianeta. Quando l'Unione Sovietica ha avuto la bomba atomica, si è creata una competizione tra le due massime potenze, si sono formati i blocchi e abbiamo avuto l'equilibrio del terrore. Perfino il Concilio brucia qualche grano d'incenso all'equilibrio del terrore. La parola equilibrio introduceva nella parola terrore, che fa paura alla ragione, uno spezzone di razionalità. La parità tra le due forze sembrava un trionfo della ragione.

resta che il disarmo perché la parità degli armamenti non è più una garanzia. Siamo in questa necessità contro la quale urtano molti altri condizionamenti.

La generalizzazione del terrore

Qui le cose si fanno delicate e sono quelle più direttamente sotto la nostra osservazione quotidiana, soprattutto di chi come me non ha responsabilità politiche o di altra natura, ma vive tutti i giorni sulla frontiera delle coscienze, dove avvengono cose che probabilmente osservatori distratti da altro non riescono a percepire e a catalogare. La guerra, come abbiamo visto, veniva in qualche modo inglobata in una visione razionale dello Stato, della società, del progetto politico collettivo. Lo Stato, questa grossa creazione dell'uomo, in fondo vive all'interno di una cornice, come è una Costituzione, espressa dalla volontà popolare.

Ora la cornice della nostra vita non è più la razionalità, ma l'irrazionalità, ed il terrore è la parola che meglio la definisce. Esso non ha più la possibilità di essere integrato in una visione razionale del futuro, il terrore è negazione delle ragioni razionali della vita, vi si oppone nettamente. Il fatto che il terrore presieda alla convivenza tra i popoli, ha sollecitato, per così dire, il terrore in tutto il corpo sociale. Quella fiducia nella democrazia, nella Costituzione, dell'uomo nell'uomo, senza di che la democrazia non vive, scompare sempre di più. Il terrorismo dal basso non è altro che l'immagine speculare del terrorismo dall'alto. L'assenza di ragione ai vertici dei rapporti tra i popoli trova una sua simmetria drammatica nell'assenza di ragione di chi ritiene che con il crimine si possa veramente cambiare la società. La mancanza di razionalità ai vertici della convivenza nazionale e internazionale, è anche alla base della nostra convivenza, contamina il corpo sociale.

Come i rapporti tra individuo e individuo sono segnati sempre più dalla sfiducia e dalla competizione, così la violenza è un tratto comune della nostra società. Quindi la riforma morale richiesta, alludendo a questo o quello scandalo (deprecabili certo) che si vuoI compiere, è senza esiti. L'irrazionalità ci attraversa. Le nostre difese culturali sono velleitarie, e il senso di impotenza, che avverto spesso negli insegnanti, nei genitori... mi conferma nell'idea che il nostro male è collettivo, che ci tocca come genere umano.

Inesorabile decadimento della democrazia

D'altronde la democrazia non sta decadendo solo per ragioni etiche, ma perché è colpita nel suo cuore anche dal punto di vista formale, istituzionale. E sempre stato riconosciuto da tutti che i diritti del soggetto sovrano nella democrazia del popolo trovano il loro momento culmine nella decisione se fare qualcosa è bene o male. Questo è il diritto supremo di un popolo. Però ora i popoli non hanno più questo diritto. All'interno dei patti militari è previsto che un singolo popolo non possa decidere niente. Anzi questo svuota-mento della sovranità è stato anche formalizzato per quanto riguarda la Nato. Nel '62, ad Atene, i vari paesi hanno riconosciuto al presidente degli Usa il diritto di toccare il bottone a suo arbitrio, perché, evidentemente per ragioni tecniche, una guerra atomica non può avere l'ultimatum. Solo chi anticipa l'avversario può vincere. Quindi il nostro destino è in mani lontane, uno stato non ha più capacità di decidere. Nel caso della guerra atomica le mosse non sono più partecipate democraticamente, perché l'elemento decisivo della vittoria è il segreto, e quindi la sorpresa. Se l'asse essenziale dei diritti democratici è colpito, non ci restano che spazi piuttosto ludici. E nella logica del sistema che la decisione ultima non sia nelle mani della base, ma in mani irraggiungibili. La democrazia deperisce perché i suoi elementi formali diventano sempre meno credibili.

Noi, per poter vivere la nostra vita secondo ragione, dovremmo prendere le decisioni sulla base della conoscenza delle cose. L'informazione è diventato un elemento decisivo come mai lo era stato. Attualmente siamo informati coattivamente da centrali di informazione che sfuggono al nostro controllo. E allora il male peggiore, a mio giudizio, contro cui siamo chiamati a combattere è l'occultamento ideologico della verità delle cose. Viviamo all'interno di un gioco di occultamento, non solo istituzionalizzato per quanto riguarda la dichiarazione della guerra e i segreti atomici, ma concernente l'occultamento sullo stato delle cose. E questo è ciò che suscita in me più indignazione. Se provate a fare il bilancio delle informazioni televisive, noterete disparità incredibili. Pensate a quante ore sono state dedicate dalla nostra televisione al caso polacco, e poi confrontatele con quelle dedicate al caso Nicaragua, Salvador ecc.; vedete subito la disparità. Ma questo è nulla. In realtà noi siamo tenuti all'oscuro della condizione di pericolo in cui versiamo. Perciò dobbiamo veramente mobilitarci per smascherare questo meccanismo che è così potente ora con i mass media - dove le informazioni private, o controinformazioni sono cose visibili - che veramente si è portati a disperare. Il potere che decide le guerre è anche il potere che decide come informarci.

Esiste un'alternativa?

Potrei continuare nella mia analisi, ma questi tre aspetti mi sembrano sufficienti per farvi comprendere che non è più possibile continuare. Qual è l'alternativa? Noi dobbiamo passare a una cultura della pace.

Nel dire queste parole sento che rischio di divenire utopista. In fondo, chi come me è vissuto sempre predicando il Vangelo, contrae a livello umano un vizio inguaribile, quello di prendere per veri gli ideali; questo è il lato savonaroliano della mia anima e non me ne vergogno. Con i tempi che corrono, fra l'altro, avere questi spazi di respiro sul piano personale è una garanzia di salute. Ma non sono così ingenuo da credere che il discorso evangelico sia destinato a restare un discorso sulle ultime cose. Sono convinto che sia venuto il tempo, il Kairòs, il tempo opportuno, per scoprire un'antropologia profetica del Vangelo. E una risposta straordinaria alla congiuntura in cui siamo; ma il Vangelo lo pongo al termine della mia riflessione per rimanere in uno sviluppo laico dell'argomento, cioè affidato alla ragione. Parlo della ragione critica, che tende verso le ultime cose, che cerca le radici dell'esistenza, il suo significato ultimo, già di per sé profondamente evangelico. Siamo giunti al tempo in cui è possibile riscoprire questa simmetria tra l'uomo inerme e l'unico uomo possibile nel futuro.

Intanto per questa cultura della pace dobbiamo vincere uno dei dogmi che ci siamo portati dietro e che ritorna continuamente nella cultura che si amministra nei giornali, nelle scuole ecc., e cioè l'idea che l'uomo sia per sua natura aggressivo, un lupo per l'uomo. Questa idea ha fatto sempre il gioco dei fautori della guerra, che l'hanno definita inevitabile. Oggi non si può più parlare dell'uomo e della sua natura secondo una visione medioevale, che lo vedeva astrattamente, l'uomo è dentro la cultura in cui vive.

Ogni dogma sulla immutabilità dell'uomo va eliminato come residuo della cultura preistorica che ancora ci opprime. Ci sono virtualità che la storia vissuta fino ad oggi non ha espresso: la stessa concezione dello stato come un monopolio pubblico della violenza privata (quando si sostiene che lo stato può essere legittimamente violento quando vuole). Questa concezione è finita storicamente; noi entriamo in una età in cui dobbiamo sviluppare l'altro aspetto dell'uomo, profondamente radicato nella sua virtualità, cioè quello dell'uomo amico dell'uomo. Non è vero che san Francesco fosse una eccezione meravigliosa. Francesco d'Assisi viveva con la convinzione di essere una alternativa praticabile, e infatti lo era. Il Francesco che è in noi è l'altra faccia dell'uomo, è l'altra possibilità in cui siamo invitati a credere. Noi invece, finora, di gente seria in gente seria, siamo arrivati a estinguere in noi ciò che attendeva il sole della fiducia per fiorire. Noi vogliamo questa dignità evangelica e umana dell'uomo, che non fa suo vanto la «serietà» che comporta la sfiducia nel prossimo, ma fa suo principio la fiducia nell'uomo; questo è fondamentale. Io qui ricordo due maestri, Teilhard de Chardin e Jaspers, un credente e un laico, e ambedue han detto: non c'è possibilità per il futuro se non nasce una grande fiducia nell'uomo, la fiducia sia come individuo, sia come collettività o umanità in genere. L'umanità ha risorse straordinarie, è in grado di dare risposte impensate a congiunture impreviste. La storia del passato ce lo dimostra anche.

La fiducia di partenza

Noi sappiamo che nell'umanità esistono risorse, inventive eccezionali che possono far fronte alla nuova congiuntura. Questa è la fiducia di partenza. Naturalmente essa non può essere documentata. Nella fiducia c'è sempre un di più, che sovrasta i quozienti dei dati accettati e fa credito alla inventività interna dell'uomo non ancora manifestatasi. C'è un elemento in questa fiducia che è provocatore di valori.

Lo so che il discorso non piacerebbe alla Nato o al Patto di Varsavia, dove hanno la sicurezza assoluta di sapere cosa è l'uomo e se si guardano allo specchio ritrovano la riprova, ché in realtà questa sfiducia, questa paura della democrazia, si ritrova in tutti e due i settori, la democrazia non esiste né nell'Est né nell'Ovest, se noi guardiamo il mondo con l'occhio dei generali. Ma noi dobbiamo veramente mutare il cuore nostro e del prossimo attraverso questo contare sulla fiducia nell'uomo.

I luoghi della mutazione

Alcune indicazioni.

La mutazione non va pensata soltanto in rapporto al tema specifico della guerra che ci minaccia, va pensata - se è vera la mia analisi - in rapporto a tutti i luoghi della società dove si rompe il vecchio schema di violenza; la pace è uno stile di vita, è una cultura. Si dice cultura della pace come si dice cultura neolitica, cultura dell'età del ferro. Si allude cioè a un insieme di valori che si unificano e si esprimono nel rifiuto della violenza come strumento adatto a regolare i rapporti tra gli uomini.

Quali sono i luoghi di rottura della vecchia cultura della violenza? Non mi dispiace ripetere un principio già detto all'inizio: il fatto della crescita della dimensione planetaria. I giovani pensano sempre di più a dimensioni planetarie. L'internazionalismo, che nella storia della classe operaia è stata una grande pagina, ma che oggi la classe operaia non riesce più a portare avanti perché anch'essa erede della cultura borghese, è assunta dalle nuove generazioni in maniera più spontanea, e con l'idea che l'umanità sia un individuo solo, al quale manchi, per esserlo sul serio, soltanto una specie di unificazione della sua coscienza. Perché la coscienza del genere umano tende ormai alla unificazione, ma è come una coscienza ancora viziata da schizofrenia, da frantumazioni interne.

Noi dobbiamo abbandonare l'Eurocentrismo, la più grossa minaccia a questa unificazione del genere umano (noi siamo parte e vogliamo esser tutto). Noi abbiamo inibito le altre culture, le quali oggi si ribellano; noi siamo in una fase di colluttazione di universi culturali, i quali alludono alla loro unificazione, che rispetti la diversità, ma che allo stesso tempo gestisca in maniera concorde il destino non più divisibile. Questo è un processo importante a tutti i livelli.

La scuola, la guerra e la cultura della pace

Noi notiamo come la nostra scuola, così come è (senza far torto ai fermenti di novità, anzi è proprio a quelli che alludo come alternativa), è una cultura che ha trasmesso la mentalità di guerra.

La memoria storica che si è data alla nostra generazione è una memoria in cui la storia dell'umanità è fatta di paci e di guerre, dove però le paci erano soltanto intermezzi labili tra paci combattute. Dove l'immagine che l'uomo ha di se stesso è rimasta per sempre quella dell'uomo con la dava, le frecce, poi coi cannone, poi con la bomba atomica. Dove la storia del passato è quella che i vincitori hanno raccontato, schiacciando i vinti, dove la nostra memoria è già contaminata dalla ideologia della potenza. La scuola ha immesso questa cultura. Non solo, ma ha trasmesso una cultura che è stata sempre quella delle classi dominanti, con il disprezzo dei dialetti dell'uomo, (uso la parola dialetto come simbolo) dell'uomo che vive nella sua immediatezza, che crea la sua coscienza dall'universo della sua esperienza immediata. Questa cultura l'abbiamo schiacciata, per creare classi dirigenti, non per creare comunità umane.

Noi sentiamo oggi una profonda reazione a questa cultura della scuola. Essa non può cambiare per assestamenti di strutture e di gestione. Deve cambiare perché un nuovo contenuto deve pregnarla. E io oso dire che questo contenuto deve essere la cultura della pace, perché si fa pace quando si comincia a riconciliare il ragazzo col proprio mondo, a renderlo cosciente del proprio mondo. Per farvi un esempio, personale ma eloquentissimo, io, che ero figlio di minatori, sono stato in una scuola in cui tutti erano figli di minatori. Tutti i nostri genitori erano silicotici, tossivano in continuazione e non facevano altro che bere per attutire la silicosi. Bestemmiavano naturalmente, perché la bestemmia è liturgia della bettola, con la maledizione del prete che diceva che era peccato mortale ubriacarsi. Poveri uomini, i nostri padri, che ci hanno abituato a disprezzare perché erano ubriachi, bestemmiavano ed erano silicotici! Le miniere erano a duecento metri, i nostri padri si rovinavano, e a scuola le maestrine ci parlavano di Attilio Regolo e di Cartagine e di Roma, e non delle miniere. Era cultura di guerra quella, perché separava la coscienza dal reale, perché non diventava presa di coscienza dell'esperienza vissuta, ma estraneazione.

La cultura della pace è una cultura in cui la coscienza deve crescere a partire dall'esperienza. Una dimensione planetaria, si è detto, ma calata nel particolare. Questo cambiamento è fondamentale per una cultura di pace. Ed allora il discorso della cultura dominante e della cultura oppressa scompare, perché certamente la cultura borghese, che è anch'essa cultura dominante, ha valori immensi che non vanno sperperati, vanno anzi ereditati. Sempre però col presupposto che la cultura di potere deve essere orientata ad una crescita comune dell'uomo nella pluralità delle sue esperienze.

Nuovi rapporti conoscitivi

Terzo elemento: noi ci siamo accorti appena, a livello generale, che il nostro ambiente di esperienza collettiva è stato rovinato dalla cultura della violenza. Lo spazio fisico della natura è stato considerato come uno spazio di illimitate conquiste, come se la nostra figura del progresso avesse a sua disposizione, senza discussione, riserve di energia inesauribili. Questa cultura della violenza, che ha colpito oltre agli uomini le piante, i fiumi ecc., si rivolta contro di noi: abbiamo una natura che ci deperisce attorno. La catastrofe ecologica non è che un capitolo della cultura della guerra. Il rapporto conoscitivo prepara solo il momento dello sfruttamento. Il rapporto conoscitivo deve invece essere simbiosi, partecipazione. Questa passione ecologica su cui è facile sorridere, perché spesso prende forme ludiche, favorisce la necessità di un nuovo rapporto con la natura, di un nuovo postulato che è quello di pace, perché un capitolo fondamentale della società del futuro sarà quello di vedere se siamo maturi.

Ecco un altro capitolo importante di questa silloge della cultura della pace che è già cominciata, che attende solo di collegare le sue strategie, di trovare un momento unitario per combattere il pericolo della guerra atomica: è quella che ha condotto le nuove generazioni a percepire che il vero luogo della violenza a livello antropologico è il rapporto maschio femmina, la sessualità come luogo di violenza in cui sono stabiliti i rapporti di dipendenza (anzi voluti dalla natura, si diceva): è così che la natura ha fatto la donna, il maschio è per natura superiore alla femmina. Sono luoghi comuni, che appartengono alla cultura laica e a quella cattolica. Oggi si riscopre che nella sessualità, e nella famiglia in cui questi modelli si sono codificati, si ha la perpetuazione del virus della violenza. Il femminismo, inteso come lotta di emancipazione della donna, per il quale non abbiamo documenti nel passato, per il perseguimento di un soggetto storico che sia insieme un uomo e una donna, che stabilisca una soggettività creativa in cui l'elemento femminile e l'elemento maschile giochino in parità è tutto da inventare. La donna non deve essere la crocerossina del maschio guerriero, non deve entrare nell'esercito per arricchirlo di una nuova fisionomia.

I partiti

Noi dobbiamo godere di una nuova politica in cui i partiti si trasformino sino a diventare una espressione costantemente collegata a ciò che ferve nella base, a questa nuova volontà, che non è la cultura che sto descrivendo. Se alla fine non fanno questo, si isolano dal corpo sociale, non sono un vantaggio collettivo, ma il marasma, il caos. Si parla di una contestazione delle istituzioni, che non sia un giudizio globale della loro inefficienza, ma una rimessa in campo del loro rapporto organico tra ciò che ferve creativamente nel corpo sociale e le funzioni di potere che esse rappresentano: questa è una battaglia che si combatte sul terreno della pace.

Le chiese

L'ultimo punto riguarda le chiese. Anche a questo proposito devo dire con gioia che le chiese hanno subito un cambiamento che era follia sperare ai tempi della obiezione di coscienza. Era follia sperano, perché la «Pacem in Terris» di Papa Giovanni fu come qualcosa di inatteso, e capisco perché Papa Giovanni, secondo cronisti attendibilissimi perché vicini fisicamente a lui, quando la firmò senza averla fatta passare per il Santo Uffizio, uscendo dalla regola, disse: «Finalmente è fatta». E aveva senza dubbio compiuto un gesto rivoluzionario nella nostra storia cattolica, perché ha introdotto un discorso profondamente nuovo, la cui fecondità è ancora al di là da venire.

Il Concilio ha portato avanti parzialmente quel discorso. Ma poi è avvenuto un cambiamento profondo, non soltanto nelle strutture della chiesa cattolica, direi più ancora nelle chiese evangeliche. Le chiese evangeliche tedesche, per esempio (mi riferisco a quelle perché il loro governo è più significativo) durante il nazismo erano state succubi del Führer molto più della Chiesa Cattolica, salvo eccezioni come Bonhoeffer e altri. Ebbene, in questo ultimo periodo le chiese evangeliche si sono coinvolte nell'impegno per la pace, nella animazione delle manifestazioni pacifiste, mostrando una vivacità e una creatività inaspettate. Ma non solo. Tutte le chiese evangeliche che hanno fatto capo al Consiglio Ecumenico delle chiese, a partire dagli anni 60, hanno compiuto un processo di revisione della propria realtà storica, non si chiedono più se l'uomo si salva solo con la fede o anche con le opere, se la sola scrittura è la sorgente della fede. Questi problemi, pur importanti, sono ai margini. I problemi centrali sono quelli relativi al futuro dell'uomo, alla pace dell'uomo. Da Upsala, a Nairobi, agli ultimi incontri delle Chiese evangeliche, che, queste ultime si sono schierate sul tema della pace come tema qualificante della loro presenza nel mondo. Ed è ormai certo, a mio giudizio, che il modo in cui le Chiese potranno confessare il Cristo in maniera credibile è obbligo, e il tema della pace è la lotta per la pace.

Le chiese hanno a loro disposizione quel patrimonio profetico che per le condizioni storiche non è ancora potuto fiorire. Noi che studiamo il futuro dell'uomo su una specie di schema normativo, che è la storia della salvezza, sappiamo che le parole di Dio non subito fruttificano, è necessario che venga il Kairòs, la stagione storica in cui le condizioni di struttura necessaria danno alla parola seminata secoli prima la possibilità di fruttificare. Questa è una simmetria asimmetrica tra storia e Parola. Ora trovo nel Vangelo una antropologia di pace. Quando Gesù parlava, nel discorso della Montagna, non faceva della poesia, bella, da celebrare come una impossibilità, che tuttavia onora l'uomo l'averla sognata. No, Gesù ha proposto una alternativa all'uomo, che è sempre lì alle porte come un imperativo da realizzare. Allora l'uomo evangelico è l'uomo inerme, l'uomo che non risponde con la violenza alla violenza, è l'uomo che vince con la sua mitezza, che disarma l'avversario non tenendosi al suo livello, ma eludendolo e svegliando nell'avversario il volto che in lui stesso è stato mascherato e oscurato. Questa dinamica di nonviolenza è la possibilità che ci resta. Francesco e il lupo, questa leggenda aurea, è l'emblema di ciò che sto dicendo. L'alternativa della storia è l'uomo mite, che non significa uomo inerme, ma uomo che pone alla base della convivenza la collaborazione e non la competizione.

Le chiese hanno, per così dire, una cultura che ha due strati diversi: lo strato profondo, è quello del filo aureo dell'Evangelo, che le chiese evidentemente non hanno mai disdetto, anche se spesso lo hanno soffocato e perfino proibito. Oggi ormai la parola di Dio è consegnata al popolo, e questo fermento profetico comincia a fermentare nelle comunità cristiane. Hanno poi un'altra cultura, quella delle teologie codificate, ben pensate, che si preoccupano di dire oggi ciò che hanno detto ieri, e di non dire cose in contrasto con ciò che un papa ha potuto dire un secolo fa. Questa preoccupazione della continuità archivistica, della cultura che allarga il proprio codice senza smentire quello precedente, è una ripetizione all'infinito del già detto, mentre è necessaria una invenzione creativa. Le chiese sono a un bivio: o vogliono rispondere alla congiuntura nuova con la cultura codificata dai loro teologi, di ieri, ed esse non fanno che balbettare e restano nella comune confusione, o esse attingono alla parola profetica che hanno nella loro memoria, nella pratica pastorale, facendo credito totale a quella Parola, ed esse saranno la guida della mutazione antropologica di cui si è parlato.

La volontà profetica della chiesa di farsi carico della pace nel mondo, della «Pacem in Terris», la registriamo con istituzionale gioia poiché anche la chiesa istituzionale ha un grande debito contratto nel passato di fronte alla pace del futuro. Infatti troppe cose sono state permesse e benedette, ma quando vediamo i mutamenti ci rallegriamo, perché non desideriamo che Dio punisca i peccatori, visto che noi saremmo - ahimè! - nel rogo insieme agli altri. Noi vogliamo che Dio converta i cuori e renda le sue chiese capaci di assolvere il ruolo a cui la storia le ha destinate senza alternative.

E allora i segni ci sono e sono omogenei a quelli della metamorfosi culturale che rapidamente ho descritto. Non spero che i generali della Nato o i nostri ministri degli esteri diventino profeti, chiedo solo che agiscano con la saggezza di cui farebbe obbligo la loro causa, una prudenza di cui abbiamo già qualche segno. Ma la profezia non è sul tavolo di Ginevra. La profezia passa attraverso la volontà dei popoli. Allora sono convinto che stiamo vivendo questa mutazione. Tutti i nostri discorsi, non solo quelli di questo convegno, sono delle verità epocali, che acquistano il diritto di essere onnipresenti, perché sono quelle in cui si decide il destino dell'uomo. E molto importante non dimenticare che a dare la spinta alla mutazione è anche la certezza che essa non ha alternativa; o la nostra cultura diventa una cultura per la pace, o la terra diventa un cimitero per sempre. L'appello alla nostra volontà è ormai decisivo, estremo.

Letto 2391 volte Ultima modifica il Mercoledì, 21 Maggio 2008 01:52
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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