I Dossier

Domenica, 22 Agosto 2004 15:06

Oltre la crisi e la paura (Faustino Ferrari)

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Il nostro tempo è tempo di crisi. Crisi: una parola usata ovunque. Basta aprire un giornale od ascoltare una trasmissione televisiva.

 

"Nessuno ci ha offerto lavoro
Con le mani in tasca
E il viso basso
Stiamo in piedi all’aperto
E tremiamo nelle stanze senza fuoco.
Solo il vento si muove
Sui campi vuoti, incolti
Dove l’aratro è inerte, messo di traverso
Al solco. In questa terra
Ci sarà una sigaretta per due uomini
Per due donne soltanto mezza pinta
Di birra amara. In questa terra
Nessuno ci ha offerto un lavoro.
La nostra vita non è bene accetta, la nostra morte
Non è citata dal
Times" (T. S. Eliot, Cori da La Rocca).

Questa poesia - il lamento che il poeta angloamericano T. S. Eliot mette sulla bocca di un gruppo di disoccupati - mi sembra che renda bene l’immagine della disperazione. L’essere senza lavoro - il restare disoccupato per lungo tempo - coincide troppo spesso con l’essere senza speranza.

Il nostro tempo è tempo di crisi. Crisi: una parola usata ovunque. Basta aprire un giornale od ascoltare una trasmissione televisiva. Crisi delle istituzioni, crisi della politica, crisi delle ideologie, crisi dei sindacati, crisi dei partiti, crisi dei valori, crisi della famiglia, crisi dell’occupazione, crisi dell’economia... Anche nel nostro linguaggio, nei rapporti di tutti i giorni usiamo spesso questa parola. Quante volte diciamo ad altri o confidiamo di essere in crisi, che il rapporto con il nostro lui/la nostra lei è in crisi? Tutti gli aspetti della vita, tutti i momenti del sapere umano sembrano avere in comune questa parola.

Si è giunti anche a parlare di crisi della ragione. Si ritiene che la ragione, il pensiero poiché è stato capace di produrre grandi disastri non sia più così affidabile come si riteneva fino a qualche anno fa. Non dobbiamo dimenticare che il nostro secolo ha conosciuto tragedie immense, come la seconda guerra mondiale, con 50 milioni di morti (dei quali circa 10 milioni spazzati via nei campi di concentramento, attraverso una pianificazione premeditata e razionale della morte). Ed ancora in questi ultimi anni abbiamo di fronte agli occhi numerose tragedie: le guerre che hanno insanguinato i paesi della ex Yugoslavia; il conflitto israeliano-palestinese; i conflitti nella regione dei Grandi Laghi (non dobbiamo dimenticare i 500.000 morti del Rwanda, una nazione grande come la nostra Lombardia - ma meno abitata: 6 milioni di persone). Se prediamo in mano una cartina geografica e passiamo in rassegna i paesi del pianeta arriviamo a contare che sono in corso almeno una trentina di guerre.

Quanti sono stati i morti della guerra del Golfo del 1992? Una guerra che non è durata più di 3 giorni e durante la quale sono state usate le "armi intelligenti" (ricordate che i giornalisti le chiamavano così?). Armi intelligenti: soltanto un imbecille può usare dei tali termini! Ma non sappiamo se i morti di quei 3 giorni siano stati 300.000 o più (i giornalisti questo non ce l’hanno mai detto), come non ci hanno detto degli altrettanti bambini morti nei mesi seguenti alla guerra, per fame e denutrizione.

Ecco le tragedie nella quale la ragione è stata usata per distruggere sistematicamente, annientare, uccidere. Di fronte a questi fatti avvertiamo tutta la nostra impotenza - e allora parliamo di crisi della ragione. Il nostro pensare è la causa di grandi distruzioni.

C’è un’altra parola che mi sembra ricorrere costantemente oggi. O, meglio, la parola viene usata meno spesso di quell’altra, di crisi, ma non per questo è meno presente nella nostra vita, nei nostri sentimenti e nella nostra visione del mondo. Questa parola è paura.

Abbiamo paura di perdere il posto di lavoro (ci accorgiamo che nessun lavoro è sicuro, anche quelli che fino ad ieri sembravano intoccabili ora non lo sono più; anche per chi lavora in banca, ad esempio, si parla di licenziamento o di cassa integrazione). Abbiamo paura ad uscire di casa ad una certa ora. Abbiamo paura del nostro vicino (non possiamo mai essere sicuri delle sue reali intenzioni). Abbiamo paura dello straniero, dell’immigrato, delle diversità che si porta con sé, che siano religiose od alimentari, culturali o comportamentali.

E poi ci sono le paure più grosse, quelle di cui poco si parla, ma che sappiamo minacciare la nostra esistenza. La paura ecologica, del disastro che uno certo tipo di sviluppo sta causando alla nostra terra e che sta rendendola inabitabile (buco dell’ozono, inquinamento atmosferico, dell’acqua, dell’ambiente). La paura della minaccia nucleare. Il fatto che sia venuta meno la tensione che contrapponeva USA e URSS (la cosiddetta "guerra fredda") non vuol dire che ci sentiamo più sicuri. Anzi. Sono aumentate le nazioni che dispongono di armamenti atomici ed è diminuita la sicurezza di un reale controllo su tali armamenti. La paura demografica. La popolazione sulla terra ha superato la soglia dei 5 miliardi. Scienziati fanno proiezioni secondo le quali, nel giro di pochi anni, saremo 8, 10, 14 miliardi di persone ad abitare questo pianeta. Questa crescita ci fa paura poiché pone il problema delle risorse alimentari. Come faranno a sfamarsi tutte queste persone se già oggi - con una distribuzione di beni fortemente ingiusta - un miliardo di persone riesce a malapena a sopravvivere e ogni anno sono decine di milioni le persone che muoiono di fame? La paura per la sopravvivenza della specie umana. Per la prima volta stiamo sperimentando che è in pericolo la nostra stessa specie. L’uomo può autodistruggersi da un momento all’altro (e i mezzi per poterlo fare sono molti, dalle armi batteriologiche, alla manipolazione genetica e a certe manifestazioni del terrorismo internazionale).

E poi, non meno importante, la paura del futuro. Non si parla più di un’epoca nuova, di come sarà il nostro domani tra 10-20 anni. Il nostro cielo sembra non avere più un orizzonte. Il futuro, più che atteso e preparato, va temuto. Sembra di essere piombati in una catastrofe. Impegnarsi per cambiare la realtà non ha senso, è inutile. Molto meglio rifugiarsi nelle pieghe compensatorie di un eros libertario. Al limite, ha senso provare a conoscere questo futuro perché non ci colga impreparati (e allora possiamo fare ricorso agli oroscopi, alle carte e ai maghi); oppure ci possiamo ripiegare nel privato rappresentato dalla soddisfazione immediata dei nostri bisogni (il "tutto subito"); per altri l’unica cosa che ha senso è una rivolta totale contro questo mondo, questo tipo di società.

Per vedere come questo tema della paura incida sulla nostra vita proviamo a riflettere ad esempio sul tipo di film che guardiamo, di fumetti e di libri che leggiamo, di musica che ascoltiamo. Probabilmente impareremo a scoprire che la maggior parte di essi ci presentano questi sentimenti: il timore e la paura.

Di solito non si tiene in conto il fatto che tutta la nostra esistenza si basa sulla fiducia reciproca. La società umana, il nostro convivere presuppone una continua fiducia nei confronti delle persone che ci circondano. Possiamo provare a vederlo chiaramente con alcuni esempi, e che a prima vista possono sembrare anche strani.

Se così non fosse - se non avessimo fiducia degli altri - ad esempio - ci guarderemmo bene dal consumare qualsiasi cibo - confezionato o no - che acquistiamo in un negozio di commestibili. Non proviamo il minimo sospetto che quel cibo possa essere avariato, alterato o addirittura avvelenato... Noi acquistiamo il prodotto, - magari dopo averlo visto promosso dalla pubblicità televisiva - e tranquillamente lo consumiamo. Periodicamente dobbiamo fare i conti con la "mucca pazza" e le sofisticazioni, con lo scandalo dell'olio di colza e le truffe alimentari. Ciononostante tutte le nostre abitudini alimentari si basano su di una fiducia di fondo.

Quando abbiamo problemi di salute, ci rechiamo dal nostro medico. Egli ci visita e ci prescrive delle medicine. Che lo ammettiamo o no, abbiamo fiducia in quest'uomo. In certe situazioni, addirittura, ci affidiamo totalmente a lui, alle sue cure e ai suoi consigli...

Quando attraversiamo la strada - è vero, facciamo molta attenzione - ma di solito diamo per certo che gli altri, osservando l'alt imposto dal semaforo rosso, ci lasceranno passare...

Sono solo tre piccoli esempi. Potremmo andare avanti per ore e ore a vedere come tutta la nostra vita si basa su un rapporto di fiducia reciproca, dalla vita familiare - il rapporto tra marito e moglie, tra genitori e figli - alla vita e alla convivenza sociale.

E' vero, come giustamente ciascuno di noi può far osservare, questa fiducia viene continuamente messa in discussione. Capita spesso che non ci sentiamo sicuri. Abbiamo timore che qualcuno ci possa sempre arrecare del male, quando meno ce lo aspettiamo. Uno scippo per strada, un furto in casa, un sorpasso azzardato, una aggressione alla fermata dell'autobus, una villania subita...

Su questi timori e su queste paure oggi molte persone ci lucrano e ci costruiscono le proprie carriere politiche e di scalata al potere. È economicamente vantaggioso giocare sulle paure della gente per vendere prodotti che altrimenti non avrebbero un grande mercato (videocamere, porte blindate, sistemi informatici di sicurezza, ecc.). Fa aumentare le tirature delle pubblicazioni e salire il punteggio dell’audience televisiva. Porta maggiori voti al momento delle elezioni rispetto ad una visione politica non fatta di sbrigativi slogan, ma di argomentazioni ragionate e problematizzanti.

Viviamo indubbiamente all'interno di una società che ci rende sempre più diffidenti, sempre più timorosi nei confronti degli altri. Ma questo modo di vivere non ci piace, ci fa soffrire, ci rende nervosi, paurosi. Nevrotici. Abbiamo bisogno di vivere in un ambiente che resti tranquillo, in un ambiente dove possiamo continuamente sperimentare che la fiducia riposta negli altri - una fiducia che ci viene restituita e, quindi, reciproca - non venga resa vana, mortificata. E ci rendiamo conto che questo non può essere sbrigativamente risolto unicamente come questioni legate all’ordine pubblico.

Se il nostro tempo è tempo della crisi e della paura è anche sicuramente un tempo di transizione verso un’epoca che, s’intuisce, sarà profondamente diversa da quella attuale. Tempo che ha, nonostante quello che abbiamo appena detto, delle grosse qualità e che può aprire anche delle bellissime prospettive. E’ un tempo che richiede decisioni. Tempo decisivo, ma anche tempo vorticoso, vertiginoso.

È un tempo che offre tantissime possibilità di vita (i progressi della medicina, della genetica, delle scienze, ecc.). Ma al tempo stesso assistiamo impotenti alle grandi tragedie di cui accennavamo prima. E’ il tempo in cui la vita umana non vale niente, meno di un barile di petrolio o di una manciata di denaro.

È un tempo della libertà. A differenza dei nostri padri o dei nostri nonni ci consideriamo uomini liberi. Abbiamo a disposizioni molti strumenti per poter vivere questa libertà. Eppure è anche tempo di schiavitù molto subdole (come le mode indotte dalla pubblicità) o schiavitù imposte da un potere che appare assoluto (le leggi economiche, le leggi del mercato).

È un tempo della festa e del divertimento. Avvertiamo il profondo bisogno di ritrovarci e stare insieme per fare festa, per condividere momenti felici e comunicare. Eppure è anche il tempo nel quale si vive la più bruciante disperazione. Al momento dell’incontro e della festa facilmente può far seguito la solitudine e la disperazione.

Come vivere in questo tempo di crisi e di paure? Come poter cogliere tutte le possibilità che il nostro tempo ci offre - le potenzialità migliori? Come passare dalla solitudine e dalla disperazione alla speranza?

C’è chi ritiene che di fronte a questa situazione non ha senso parlare di speranze. "Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze" (F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Anche autori più vicini a noi dicono: "Alla gioia e alla beatitudine si arriva con la simultanea vittoria sulla paura della morte e sul suo supposto rimedio che è la speranza" (R. Bodei).

Ci sono ancora motivi di speranza per un credente oggi? La Parola di Dio può aiutare gli uomini e le donne di oggi in un cammino di discernimento, nel quale cercare di capire come vivere il nostro tempo? Oppure dobbiamo credere a quanto ci dicono questi autori? Dobbiamo ritenere che tutte le speranze non siano altro che una montagna d’illusioni?

Noi possiamo dire di sperare perché crediamo. Il fondamento della speranza è proprio nella fede. Io credo che Dio nel volto di Gesù mi ha dato speranza e quindi motivo di sperare. La mia speranza non si fonda su chissà quali eventi o su quali possibilità. La mia speranza ha un nome, un volto. E’ Gesù di Nazareth. Questa speranza si fonda su di un fatto ben preciso: la sua morte e la sua risurrezione. La morte di un condannato su di un patibolo, la croce. Una tomba vuota. È uno scandalo, un paradosso. Ma, come riflette Paolo a partire dalla vicenda di Abramo, la vera speranza cristiana inizia quando non ci sono più speranze (Rm. 4,18). Quando crollano tutte le false speranze - le speranze umane - solo lì si radica la vera speranza cristiana.

La mia speranza si fonda proprio qui, su questo scandalo. La morte di Gesù mi fa capire che c’è ancora qualcuno di cui posso fidarmi in questo mondo che invece mi porta a diffidare di chiunque. Posso fidarmi di lui, posso credergli. Perché la sua morte è l’autentificazione della sua vita e del suo messaggio. La morte di Gesù ha qualcosa di diverso da quella di altri eroi o personaggi famosi. Gesù è morto per noi gratuitamente. Paolo dice: "Quando noi eravamo ancora peccatori" (Rm 5,6-8). Non c’è nulla di scontato in questa morte, ma è una provocazione, una follia. Eppure di fronte a questa morte so che il muro che a noi appare invalicabile, insormontabile, è stato abbattuto. Di fronte a questa morte posso cominciare a pensare che anche la mia morte può aprirsi in un orizzonte di vita. E se la mia morte mi appare come il male più grande - e questo male è stato vinto dalla morte di Gesù - allora devo cominciare a pensare che anche gli altri mali possono essere affrontati.

Posso sperare perché nella singolare vicenda di questo uomo mandato da Dio - quest’uomo che mi ha voluto bene per primo, disinteressatamente e che è morto per me gratuitamente - comincio a capire che il mio egoismo può essere vinto.

Posso sperare che le vicende della mia vita abbiano un senso, che i singoli momenti non sono un succedersi di fatalità, di casi, ma che sono uniti dalle invisibili trame della mano provvidente di Dio.

Posso sperare che posso... anche in un’epoca di crisi, percorsa da timori e paure. Posso sperare senza paura e senza alibi.

Due persone si mettono in cammino al mattino per tornarsene a casa. Sono stanchi e amareggiati. Sono delusi e confusi. Avevano sperato, ma poi ogni loro speranza è crollata. La morte del loro maestro li aveva messi di fronte al crollo di tutte le loro attese. Per loro non c’era più nulla da fare...

Ma la loro speranza nasce quando non hanno più speranze. Un viandante si avvicina a loro e incomincia a farli riflettere. Ma riflettere non basta ancora. Soltanto una volta giunti alla locanda, al semplice gesto dello spezzare il pane, i loro occhi incominciano a vedere ed il loro cuore si infiamma. Per questi due discepoli diretti verso il villaggio di Emmaus (Lc. 24, 13-35), di fronte ad un semplice gesto, la speranza ritorna ad albergare nel loro cuore: quando riconoscono la presenza del loro Maestro risorto.

In questi due discepoli possiamo scorgere la vicenda di ciascuno di noi. Anche noi abbiamo momenti nei quali tutto ci sembra crollare. L’incontro con il Cristo risorto - nella Parola e nella celebrazione eucaristica - diventa sostegno e aiuto nel nostro cammino.

"Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi". E’ quanto ci invita a fare la prima lettera di Pietro (3,15). Se Gesù Cristo è la mia speranza, devo rendere conto della speranza che è in me. In altre parole, la mia vita deve riflette la speranza sulla quale essa si radica.

E allora, che cosa possiamo fare in questo nostro tempo? Come possiamo rendere conto della speranza? Tra le tanti possibili provo a suggerire quattro piste sulle quali credo sia necessario che camminiamo.

Una prima pista che ci troviamo ad affrontare riguarda la domanda di senso. Spesso ci sentiamo coinvolti (o travolti) da quest'epoca che non sa dare senso al presente e sperare in un futuro migliore. La nostra vita, i nostri gesti possono assumere un grosso significato. Segni umili, piccole realizzazioni che mostrano il nostro non adeguamento alla comune mentalità. Il sudore nascosto del lavoro quotidiano, la fatica accettata delle opere e del nostro vivere, la pazienza: sono già carichi di senso, di significato. La nostra esperienza personale può così divenire il "terreno sperimentale", una "esperienza pilota" per un'epoca che sappia riaprirsi al futuro e al nuovo. Dobbiamo acquistare la capacità di "fare bene le cose che si stanno facendo". Perché anche le cose più semplici si possono fare con gusto - e non sempre dobbiamo sperimentare l’alienazione. Dobbiamo essere capaci di vivere, per usare un'espressione di E. Bloch, "l'ottimismo militante". Un ottimismo che si fa storia ed è capace di incarnarsi nella fatica quotidiana, di porre gesti di speranza.

Una seconda pista è quella che riguarda la comunicazione: è una caratteristica del nostro tempo. Abbiamo a disposizione tantissimi strumenti che ci permettono di comunicare, in tempo reale, da un capo all'altro del globo. Il telefono è diventato uno strumento di comunicazione di massa: ci avvicina, ci permette di entrare in rapporto con chiunque. Basta vedere quanto l’uso del cellulare sia giunto a permeare ogni momento della nostra giornata. Il video ci fa presenti fatti a cui non potremmo partecipare e persone che non potremmo incontrare, allarga il nostro territorio, ci fa abitanti del mondo. L'elettronica, inoltre, ha perfezionato e velocizzato questi strumenti: ci prospetta ulteriori possibilità di sviluppo.

Ma il nostro tempo si presenta anche come il tempo della più inquietante solitudine. Il fatto di avere più possibilità strumentali di comunicazione si riduce, molto spesso, alla banalizzazione della comunicazione; si diventa sempre più superficiali, sembra che non abbiamo più nulla di importante da dirci. E intorno a noi e in noi, l'abisso della solitudine. Sempre alla ricerca di nuovi volti, di nuove esperienze, senza riuscire a scoprire il volto nel quale ritrovarsi, l’esperienza nella quale radicarsi. Fino ad essere presi dalla paura di noi stessi, di momenti di intimità nei quali considerare la nostra vita, entrare in un vero rapporto con gli altri e con l'Altro.

Dobbiamo dunque imparare ad essere più attenti agli altri, dobbiamo imparare a comunicare tra di noi. Sul posto di lavoro, nell’ambito familiare, nelle amicizie... Ogni spazio è utile perché sappiamo comunicare agli altri noi stessi, le nostre difficoltà, le nostre speranza, le nostre gioie. Insomma, tutta la nostra vita.

Comunicare vuol dire imparare ad avere sempre più fiducia negli altri. Vuol dire costruire sempre maggiori occasioni per avere fiducia gli uni degli altri.

Un ulteriore valore che affrontiamo in relazione alla speranza è quello della solidarietà. Sottolineava Don Lorenzo Milani che si tratta di imparare che "... il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia". Dobbiamo ricordarci che facciamo parte di una delle nazione più ricche del mondo e che il nostro benessere è, purtroppo, fondato sulla fame di interi popoli. Abbiamo in ciò delle gravi responsabilità e delle grosse colpe e a stento ce ne rendiamo conto. Secondo molti scienziati questa situazione è insostenibile: bisogna nel giro di pochissimi anni ridurre i consumi e ridistribuire le ricchezze, creare nuovi rapporti di giustizia. Come credenti dobbiamo allora essere capaci di una solidarietà che nasce sì dai problemi individuali - nei nostri luoghi di lavoro - e in questo è dunque attenta alle esigenze della persona, ma che sa allargare i propri orizzonti fino alla comprensione dei problemi internazionali. Essere portatori di speranza vuol dire sicuramente non rassegnarsi al fatalismo con il quale si affrontano i problemi economici. Vuol invece dire essere protagonisti di tante occasioni di solidarietà.

"Certe persone (per terribile che sia anche solo metterlo per iscritto) semplicemente non servono: l’economia può crescere anche senza il loro contributo; da qualunque lato le si consideri, per il resto della società esse non sono un beneficio, ma un costo. (...). I ricchi possono diventare più ricchi senza di loro; i governi possono essere rieletti anche senza i loro voti; e il prodotto nazionale lordo può continuare ad aumentare indefinitamente" (R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio).

Queste constatazioni ci devono ricordare il quarto elemento da tenere presente per costruire cammini di speranza: la persona umana. Ogni persona, qualunque sia la sua situazione, i suoi problemi, la sua condizione è importante. Non ci può essere speranza a prescindere da questo. La persona viene prima di ogni altro elemento: prima dell’economia, prima delle strutture, prima dei progetti, prima del petrolio, del denaro. Se dimentichiamo questo non possiamo essere uomini di speranza. Questo aspetto richiede una particolare attenzione poiché si sta profilando una società basata sull’affermazione di una diversità dei diritti. Vale a dire: una società che si prospetta come elaborazione di subdole forme di neoschiavitù.

Detto ciò mi sembra che ancora tutto sia da dire per quanto riguarda il tema della speranza. Ma la speranza non è qualcosa di dato, è una realtà che si vive; un futuro che al tempo stesso si attende, e si costruisce. E’ il vivere un già e un non ancora.

All’inizio di questo testo ho posto una poesia, un lamento dei disoccupati. Termino con un altra citazione dello stesso testo, il canto degli operai. È un canto di speranza. Credo che indichi bene il compito al quale siamo chiamati:

"Il fiume scorre, le stagioni passano,
Il passero e lo storno non hanno tempo da perdere.
Se gli uomini non edificano
Come vivranno?
Quando il campo è coltivato
Ed il frumento è pane
Non moriranno in un letto troppo corto
E in un lenzuolo stretto. In questa strada
Non c’è principio, non movimento, né pace né fine
Solo rumore senza parole, e cibo senza gusto.
Senza indugio, senza fretta
Costruiremo il principio e la fine della strada.
Ne costruiremo il senso:
Una Chiesa per tutti
E un mestiere per ciascuno
Ognuno al suo lavoro".
(T. S. Eliot, Cori da La Rocca)

Faustino Ferrari

 

Letto 2453 volte Ultima modifica il Domenica, 15 Gennaio 2017 21:03
Fausto Ferrari

Religioso Marista
Area Formazione ed Area Ecumene; Rubriche Dialoghi, Conoscere l'Ebraismo, Schegge, Input

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